A partire soprattutto dallo scoppio della Guerra fredda, per decenni la campagna anticomunista dell’Occidente ha ruotato attorno alla demonizzazione di Stalin. Sino al momento della disfatta dell’Unione Sovietica, non era il caso di esagerare nella polemica contro Mao, e neppure contro Pol Pot, fino all’ultimo appoggiato da Washington contro gli invasori vietnamiti e i loro protettori sovietici. Il mostro gemello di Hitler era uno solo: aveva imperversato per trent’anni a Mosca e continuava a pesare in modo funesto e massiccio sul paese che osava sfidare l’egemonia degli USA.
Il quadro non poteva non cambiare con l’ascesa prodigiosa della Cina: ora è il grande paese asiatico che dev’essere incalzato sino a smarrire la sua identità e la sua autostima. Al di là di Stalin l’ideologia dominante è impegnata a individuare altri mostri gemelli di Hitler. Ed ecco riscuotere un grande successo internazionale un libro che bolla Mao Zedong come il più grande criminale del Novecento o forse di tutti i tempi.
Le modalità della “dimostrazione” sono quelle che già conosciamo: si prendono le mosse dall’infanzia del “mostro” piuttosto che dalla storia della Cina.
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Questa storia tragica alle spalle della rivoluzione dilegua nella storiografia e nella pubblicistica che ruotano attorno al culto negativo degli eroi. Se nella lettura della storia della Russia si procede alla rimozione del Secondo periodo dei disordini, per il grande paese asiatico si sorvola sul Secolo delle umiliazioni (il periodo che va dalla Prima guerra dell’oppio alla conquista comunista del potere). Come in Russia, anche in Cina a salvare la nazione e persino lo Stato è in ultima analisi la rivoluzione guidata dal partito comunista. Nella biografia già citata su Mao Zedong non solo si ignora il retroterra storico qui sommariamente ricostruito, ma il primato dell’orrore a carico del leader comunista cinese viene conseguito mettendo sul suo conto le vittime provocate dalla carestia e dalla fame che hanno afflitto la Cina. Un rigoroso silenzio viene osservato sull’embargo inflitto al grande paese asiatico subito dopo l’avvento al potere dei comunisti.
Su quest’ultimo punto conviene allora consultare il libro di un autore statunitense che descrive in modo simpatetico il ruolo di primo piano svolto nel corso della Guerra fredda dalla politica di accerchiamento e strangolamento economico messa in atto da Washington ai danni della Repubblica popolare cinese. Questa, nell’autunno del 1949, si trova in una situazione disperata. Intanto è da notare che la guerra civile era tutt’altro che cessata: il grosso dell’esercito del Kuomintang si era rifugiato a Taiwan, e di qui continuava a minacciare il nuovo potere con raid aerei e incursioni, tanto più che sacche di resistenza continuavano ad agire sul continente. Ma non è questo l’aspetto principale: «Dopo decenni di guerre civili e internazionali l’economia nazionale era sull’orlo del collasso totale». Al crollo della produzione agricola e industriale si intreccia l’inflazione. E non è tutto: «Quell’anno gravi inondazioni avevano devastato una larga parte della nazione, e più di 40 milioni di persone erano state colpite da questa calamità naturale».
A rendere più catastrofica che mai questa gravissima crisi economica e umanitaria interviene tempestivamente l’embargo decretato dagli USA. I suoi obiettivi emergono con chiarezza dagli studi e dai progetti dell’amministrazione Truman e dalle ammissioni o dichiarazioni dei suoi dirigenti: far sì che la Cina «subisca la piaga» di «un generale tenore di vita attorno o al di sotto del livello di sussistenza»; provocare «arretratezza economica», «ritardo culturale», un «primitivo e incontrollato tasso di natalità», «disordini popolari»; infliggere «un costo pesante e assai prolungato all’intera struttura sociale» e creare, in ultima analisi, «uno stato di caos». È un concetto che viene ripetuto in modo ossessivo: occorre condurre un paese dai «bisogni disperati» verso una «situazione economica catastrofica», «verso il disastro» e il «collasso». Micidiale è questa «pistola economica» puntata contro un paese sovrappopolato, ma alla CIA non basta: la situazione provocata «dalle misure di guerra economica e dal blocco navale» potrebbe essere ulteriormente aggravata da una «campagna di bombardamenti aerei e navali contro porti selezionati, snodi ferroviari, strutture industriali e depositi»; ad ogni buon conto proseguono, con l’assistenza degli USA, i raid aerei del Kuomintang sulle città industriali, inclusa Shanghai, della Cina continentale.
Alla Casa Bianca un presidente succede all’altro, ma l’embargo resta ed esso include medicine, trattori e fertilizzanti. Agli inizi degli anni sessanta un collaboratore dell’amministrazione Kennedy, e cioè Walt W. Rostow, fa notare che, grazie a questa politica, lo sviluppo economico della Cina è stato ritardato almeno per «decine di anni», mentre i rapporti della CIA sottolineano «la seria situazione agricola nella Cina comunista», ormai gravemente indebolita da «sovraccarico di lavoro e malnutrizione» (overwork and malnutrition). Si tratta allora di ridurre la pressione su un popolo ridotto alla fame? Al contrario, non bisogna allentare l’embargo «neppure per un sollievo umanitario». Approfittando anche del fatto che la Cina «è priva di risorse naturali-chiave, in particolare petrolio e terreno coltivabile» e facendo leva altresì sulla grave crisi nel frattempo intervenuta nei rapporti tra Cina e URSS, Si può tentare la spallata definitiva: si tratta di «esplorare le possibilità di un embargo occidentale totale contro la Cina» e di bloccare nella misura più completa possibile le vendite di petrolio e di grano.
Ha senso allora attribuire in modo esclusivo o principale a Mao le responsabilità della catastrofe economica a lungo abbattutasi sulla Cina e lucidamente e impietosamente progettata a Washington già a partire dall’autunno del 1949? Impegnati come sono a dipingere il ritratto grandguignolesco di Mao e a denunciare i suoi folli esperimenti, gli autori della monografia di successo non si pongono questo problema. Eppure, sono gli stessi dirigenti statunitensi che, al momento di imporlo, sanno che l’embargo sarà ancora più devastante a causa dell’«inesperienza comunista nel campo dell’economia urbana». Non a caso li abbiamo visti parlare in modo esplicito di «guerra economica» e di «pistola economica».
È una pratica che non dilegua neppure dopo la fine della Guerra fredda. Qualche anno prima dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, un giornalista statunitense così descriveva nel 1996 il comportamento di Washington: «I leader americani sfoderano una delle armi più pesanti del loro arsenale commerciale, mirando in modo ostentato alla Cina, e poi discutono furiosamente se premere o no il grilletto». Una volta messa in atto, la cancellazione dei normali rapporti commerciali da essi minacciata avrebbe costituito, «in termini di dollari, la più grande sanzione commerciale nella storia degli USA, escluse le due Guerre mondiali»; sarebbe stato «l’equivalente commerciale di un attacco nucleare». Questa era anche l’opinione di un illustre politologo statunitense, e cioè Edward Luttwak: «Con una metafora si potrebbe affermare che il blocco delle importazioni cinesi è l’arma nucleare che l’America tiene puntata sulla Cina». Agitata quale minaccia negli anni novanta, l’«arma nucleare» economica è stata sistematicamente utilizzata nel corso della Guerra fredda contro il grande paese asiatico, mentre in modo esplicito e ripetuto Washington si riservava il diritto di far ricorso anche all’arma nucleare vera e propria.
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In realtà, «straordinarie» sono state «le conquiste sociali dell’era di Mao», che hanno visto un netto miglioramento delle condizioni economiche, sociali e culturali e un forte innalzamento dell’«attesa di vita» del popolo cinese. Senza questi presupposti non si può comprendere il prodigioso sviluppo economico che successivamente ha liberato centinaia di milioni di persone dalla fame e persino dalla morte per inedia. Sennonché, nell’ideologia dominante si assiste ad un vero e proprio rovesciamento delle responsabilità: il gruppo dirigente che ha posto fine al Secolo delle umiliazioni diviene un’accozzaglia di criminali, mentre i responsabili dell’immane tragedia di un secolo e coloro che con l’embargo hanno fatto di tutto per prolungarla si configurano come i campioni della libertà e della civiltà. Abbiamo visto Goebbels nel 1929 bollare Trockij come colui che «forse» può essere considerato il più grande criminale di tutti i tempi (supra, p. 231); negli anni successivi forse Goebbels avrà assegnato a Stalin il primato della criminalità. In ogni caso il modo di argomentare del capo dell’apparato di propaganda e manipolazione del Terzo Reich dev’essere apparso troppo problematico agli autori della biografia su Mao acclamata in Occidente. Essi non hanno dubbi: il primato assoluto di criminalità nella storia universale è ormai passato al leader cinese!
Da Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, di Domenico Losurdo, Carocci editore, pp. 285, 287-290.
[grassetto nostro]
un Rolex d’oro
(AGI) – Washington, 19 feb. – Nell’incontro privato tra Barack Obama e il Dalai Lama, che ha fatto infuriare la Cina, il presidente americano ha fatto un regalo speciale al leader spirituale tibetano: la copia di una lettera che nel 1942 Franklin D. Roosevelt gli aveva inviato insieme ad un Rolex d’oro nel 1942 quando aveva solo sette anni.
Lo ha rivelato lo stesso Dalai Lama sottolineando che all’epoca aveva cosi’ tanto apprezzato l’orologio che neanche aveva letto la lettera .
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