Libia: dieci cose su Gheddafi che non vogliono farti sapere

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Siovhan Cleo Crombie per urbantimes

Che cosa pensi quando senti il nome del Colonnello Gheddafi? Un tiranno? Un dittatore? Un terrorista? Beh, un cittadino della Libia potrebbe anche non essere d’accordo, ma vogliamo che sia tu a decidere.
Per 41 anni, fino alla sua morte, nell’Ottobre del 2011, Muammar Gheddafi ha fatto delle cose davvero sorprendenti per il suo Paese e ha cercato ripetutamente di unire e rendere più forte il continente africano.
Così, nonostante ciò che puoi aver sentito per radio o visto attraverso i media o la televisione, Gheddafi ha fatto cose rilevanti, che poco si addicono all’immagine di quel “feroce dittatore” dipinto dai media occidentali.
Ecco dieci cose che Gheddafi ha fatto per la Libia che probabilmente non conosci…
1. In Libia la casa era considerata un diritto umano naturale.
Nel Libro Verde di Gheddafi c’è scritto: ”La casa è un bisogno fondamentale sia dell’individuo che della famiglia, quindi non dovrebbe essere proprietà di altri”. Il Libro Verde di Gheddafi è la filosofia politica dell’ex leader, fu pubblicato per la prima volta nel 1975 allo scopo di essere letto da tutti i Libici ed era inserito anche nei programmi nazionali d’istruzione.
2. L’istruzione e le cure mediche erano completamente gratuite.
Sotto Gheddafi, la Libia poteva vantare uno dei migliori servizi sanitari del Medio Oriente e dell’Africa. Inoltre, se un cittadino libico non poteva accedere al corso di formazione desiderato o a un particolare trattamento medico in Libia, erano previsti finanziamenti per andare all’estero.
3. Gheddafi ha effettuato il più grande progetto di irrigazione del mondo.
Il più grande sistema di irrigazione del mondo, conosciuto anche come il grande fiume artificiale, fu progettato per rendere l’acqua facilmente disponibile per tutti i Libici in tutto il Paese. Fu finanziato dal governo Gheddafi e si dice che lo stesso Gheddafi lo abbia definito “l’ottava meraviglia del mondo”.
4. Tutti potevano avviare gratuitamente un’azienda agricola.
Se qualunque Libico avesse voluto avviare una fattoria, gli veniva data una casa, terreni agricoli, animali e semi, tutto gratuitamente.
5. Le madri con neonati ricevevano un sussidio in denaro.
Quando una donna libica dava alla luce un bambino, riceveva 5.000 dollari USA per sé e per il bambino.
6. L’elettricità era gratuita.
L’elettricità era gratuita in Libia. Ciò significa che non esistevano bollette dell’elettricità!
7. Benzina a buon mercato.
Durante il periodo di Gheddafi la benzina in Libia costava solo 0,14 dollari USA al litro.
8. Gheddafi ha innalzato il livello dell’istruzione.
Prima di Gheddafi solo il 25% dei Libici era alfabetizzato. Questa cifra è stata portata fino all’87% con un aumento del 25% dei laureati.
9. La Libia aveva la propria banca di Stato.
La Libia aveva una propria banca di Stato, che ha fornito ai cittadini prestiti a tasso zero per legge, e non aveva debito estero.
10. Il dinaro d’oro.
Prima della caduta di Tripoli e della sua prematura scomparsa, Gheddafi stava cercando di introdurre un’unica moneta africana legata all’oro. Seguendo le orme del defunto grande pioniere Marcus Garvey, che per primo coniò il termine di ”Stati Uniti d’Africa”, Gheddafi voleva iniziare il commercio con il solo dinaro africano d’oro – una mossa che avrebbe gettato nel caos l’economia mondiale.
Il dinaro è stato ampiamente osteggiato dalle ‘élites’ della società odierna. E chi potrebbe biasimarle? Le nazioni africane avrebbero finalmente avuto il potere di uscire dal debito e dalla povertà per commerciare solo con questo bene prezioso. Avrebbero potuto finalmente dire “no” allo sfruttamento esterno e pagare quanto ritenevano giusto per le risorse preziose. Si è detto che il dinaro d’oro è stata la vera ragione per la ribellione guidata dalla NATO, nel tentativo di rovesciare un leader dal linguaggio molto chiaro.
Dunque, Muammar Gheddafi era un terrorista?
Pochi potrebbero rispondere in modo del tutto corretto a questa domanda; ma fra chi può farlo, sicuramente c’è chi è vissuto sotto il suo regime. In ogni caso, sembra abbastanza evidente che Gheddafi, nonostante la fama negativa che circonda il suo nome, ha fatto molte cose positive per il suo Paese. E questo è qualcosa che dovresti cercare di ricordare nei tuoi giudizi futuri.
Questo eccentrico video documentario racconta una storia interessante, anche se piuttosto diversa, da quella che crediamo di sapere.
Allora, cosa ne pensi?

(Traduzione di M. Guidoni)

19 thoughts on “Libia: dieci cose su Gheddafi che non vogliono farti sapere

  1. LI CONOSCIAMO BENE I VERI TERRORISTI.
    Gheddafi ha fatto 3 errori: rinunciare all’atomica. chiedere scusa per Lockerbie. stringere la mano ai due rappresentanti del popolo più voltagabbana della storia.

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  2. Argomenti che già sapevo, il problema è che lo si sa in pochi e, quelli a cui si cerca di spiegarli, visto che sono dei poveri italioti, solamente attaccati alla tv, neanche ai giornali, li fanno su come ridere.

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  3. Ecco un altro bel pezzo che è utile riproporre, per chi non lo conoscesse, su un altro grande leader demonizzato dall’Occidente. Alcuni aspetti della storia sociale dell’Irak hanno una sorprendente somiglianza con quelli della Libia.

    Controstoria di Saddam Hussein
    di Leonardo Olivetti

    Quando si parla dell’Iraq contemporaneo non si può fare a meno di pensare alla controversa figura di Saddam Hussein. Il Raìs iracheno è uno dei massimi oggetti di demonizzazione dell’Occidente, accusato di ogni sorta di crimine e usato come archetipo della tirannide. Ma alle costruzioni propagandistiche degli agiografi dell’imperialismo americano, non corrispondono i fatti; Saddam Hussein fu uno dei più geniali e lungimiranti leader mediorientali degli ultimi anni, capace di guidare un paese dalla rovina alla prosperità, di non arrendersi alle minacce e all’arroganza stranieri, per nulla responsabile di quelle “atrocità” tanto vilmente accostate alla sua figura.
    Quando Saddam Hussein prese in mano le redini del paese mediorientale, aveva di fronte a sé una situazione molto deteriorata, insicura e sottosviluppata economicamente, culturalmente e socialmente. Il Raìs iracheno risollevò l’Iraq dalla miseria, creando un regime prospero e culturalmente avanzato. L’alfabetizzazione, nel 1973, era solo il 35%; solo nove anni più tardi, le Nazioni Unite dichiararono l’Iraq “libero dall’analfabetismo”, con una popolazione alfabetizzata superiore al 90%, ed una percentuale del 100% di giovani che andavano a scuola. Due anni dopo, nel 1984, le stesse Nazioni Unite ammisero che “il sistema educativo dell’Iraq è il migliore mai visto in un paese in via di sviluppo”.
    Il sistema scolastico iracheno era anche tra i migliori al mondo per qualità; il tasso di studenti promossi era maggiore che negli altri paesi arabi, e il governo di Saddam, dal 1970 al 1984, spese solo per l’educazione il 6% del PIL, pari al 20% del reddito annuo del paese. In pratica, il governo di Baghdad spese per ogni singolo studente circa 620$, una cifra altissima per un paese in via di sviluppo.
    E questo dopo che Saddam Hussein era l’uomo forte di Baghdad da solo un decennio. Più tardi, dal 1976 al 1986, gli studenti delle scuole elementari crebbero del 30%, le studentesse femmine del 45%, sintomo della crescente emancipazione femminile, e il numero delle ragazze che studiavano era il 44% del totale, quasi in parità con il sesso maschile. Un altro risultato del fervore culturale importante nell’Iraq di Saddam Hussein è quello ottenuto nell’ambito universitario; l’Università di Baghdad, fondata nel 1957, ebbe oltre 33 mila studenti tra il 1983 e il 1984, l’Istituto Tecnico oltre 34 mila, l’Università di Mustansirya oltre 11 mila. Queste cifre altissime, che manifestano la fioritura culturale dell’Iraq ba’athista, portarono il New York Times, nel 1987, a battezzare Baghdad come “la Parigi del Medio Oriente”.
    Dal 1973 al 1990 furono costruiti migliaia di chilometri di strade, si completò l’elettrificazione, e si istituirono un sistema sanitario ed un sistema scolastico completamente gratuiti. Le infrastrutture in Iraq sotto tutte opera della leadership di Saddam Hussein; la maggior parte degli aeroporti ora operanti in Iraq sono stati costruiti da Saddam Hussein (l’aeroporto internazionale di Basra, quello internazionale di Erbil, quello di Baghdad), la maggiore autostrada del paese (la cosiddetta “Freeway 1”, lunga 1.200 chilometri) fu costruita a partire dal 1990. Saddam Hussein si è reso molto popolare in Iraq anche per i suoi continui viaggi, negli anni ‛70, in tutto il paese, per assicurarsi che ogni cittadino avesse a disposizione un frigorifero e l’elettricità, una delle basi ed una delle più grandi vittorie del Partito Ba’ath in Iraq.
    La sanità irachena era tra le migliori nella regione; la mortalità infantile passò da 80 persone ogni 1.000 abitanti nel 1974, a 60 ogni 1.000 nel 1982, fino a 40 ogni 1.000 nel 1989. La mortalità al di sotto dei cinque anni calò da 120 bambini ogni 1.000 nel 1974, a 60 ogni 1.000 nel 1989. Il sistema sanitario iracheno era anche tra i migliori qualitativamente: dicono l’UNICEF e l’Organizzazione Mondiale della Sanità che “a differenza di altri paesi più poveri, l’Iraq ha sviluppato un sistema occidentale di ospedali all’avanguardia che usa procedure mediche avanzate, e ha prodotto fisici specialisti”. Prima del 1990, sempre secondo i rapporti dell’OMS, avevano accesso a cure mediche gratuite e di alta qualità il 97% dei residenti urbani e oltre il 70% di quelli rurali, percentuali infinatamente alte se confrontate con quelle di altri paesi in via di sviluppo.
    La distruzione dell’Iraq fu decisa al Pentagono e cominciò con le sanzioni economiche del 1990. Poco si parla degli effetti di queste sanzioni sul popolo iracheno. Parlando a livello di morti, si potrebbe dire che si trattò di un vero e proprio genocidio. Nel periodo 1991-1998, a causa delle fortissimi limitazioni imposte dagli Stati Uniti e del conseguente fallimento dell’economia irachena, morirono circa mezzo milione di bambini, stima l’UNICEF. E non solo: sempre secondo l’UNICEF a causa delle sanzioni degli anni ‛90, la mortalità nei primi cinque anni di vita raddoppiò e raddoppiò anche quella infantile. Bellamy, funzionaria dell’organizzazione, ha constatato che “se la riduzione della mortalità infantile che si era verificata negli anni ‛80 fosse proseguita anche negli anni ‛90, ci sarebbero state mezzo milione di morti in meno”.
    Può essere certamente plausibile quanto scrissero John e Karl Müller nel 1999, cioè che le sanzioni economiche “possono aver contribuito a causare più morti durante il periodo post Guerra Fredda che tutte le armi di distruzione di massa nel corso della storia”. La sanità irachena calò in qualità, dicono sempre Müller, dato che, a causa delle sanzioni, “l’importazione di alcuni materiali disperatamente necessari era stata ritardata o negata a causa delle preoccupazioni che avrebbero potuto contribuire ai programmi di armamento di distruzione di massa dell’Iraq. Forniture di siringhe sospese a causa delle paure legate alle spore di antrace”. Sempre nel campo medico “le tecniche medico-diagnostiche che utilizzano le particelle radioattive, una volta comuni in Iraq, erano vietate per effetto delle sanzioni e i sacchetti di plastica necessari alle trasfusioni di sangue ristretti”.
    A definire queste tremende sanzioni come un “genocidio di fatto” ci ha pensato anche Denis Halliday, coordinatore umanitario delle Nazioni Unite in Iraq. Questa gravissima tragedia voluta dall’amministrazione americana, fu, successivamente, anche considerata “giusta” da Madeleine Albright. Nella sua più controversa intervista, il 12 maggio 1996, il Segretario di Stato è intervistato da Lesley Stahl al programma 60 minutes: – «Abbiamo saputo che mezzo milione di bambini sono morti. Intendo dire, più bambini di quelli che morirono ad Hiroshima. E, pensa ne sia valsa la pena?» – «Pensiamo che sia stato un prezzo giusto da pagare.»
    Non contenta dell’apologia di un crimine contro l’umanità, Albright ha poi accusato l’intervistatrice di “fare propaganda irachena”. E tutti questi morti e questa miseria per delle armi che Saddam Hussein non aveva mai avuto. Il primo passo per distruggere il più progredito stato mediorientale si concluse con un prezzo di vite altissimo, ma non fece crollare l’Iraq ba’athista.
    Saddam Hussein aveva ancora una forte base di potere e godeva di un ampio sostegno, anche se si è cercato di far credere che fosse “odiato dal popolo e prossimo al collasso”. Il leader iracheno sapeva bene che con l’inizio delle sanzioni “era iniziata la madre di tutte le battaglie”, come egli stesso proclamò al mondo il 17 gennaio 1991. Infatti, senza cedere alle pressioni americane, egli proseguì la sua battaglia per un Iraq indipendente fino a che l’America non fu costretta ad intervenire direttamente. Dopo la creazione della fasulla “Asse del male” iniziò una delle più grandi operazioni di false flag che la storia ricordi: George W. Bush inventò di sana pianta la storia dei legami con al-Qaida e delle armi di distruzione di massa, e mentre lanciava assurdi slogan bellici («Saddam merita questo!»Winking, si creava anche la storia dei “massacri” attribuiti ai ba’athisti iracheni. Mentre la notizia delle armi di distruzioni di massa si è oramai rivelata una falsità, diverso è il caso per le notizie dei “massacri” e dell’uso di armi chimiche di Saddam, che ancora riscuotono un gran successo mediatico.
    Si disse che Saddam Hussein perseguitò i curdi, e, nella sola città di Halabja, ne fece uccidere 5.000 o più, nel marzo del 1988. Tuttavia furono ritrovati solo 300 corpi, e la cosa è tutt’altro che sicura; si pensa che la storia dell’attacco chimico a Halabja sia “ormai appurata”, eppure è l’America stessa a fornire le prove che scagionano Saddam. Il Dipartimento di Stato americano ha mostrato vari rapporti che mostrano che l’Iraq non ha mai posseduto quel gas, a base di cianuro; in tanti anni, la CIA non aveva mai reperito questa arma tra gli arsenali iracheni, mentre era presente nell’esercito iraniano.
    Il mondo non è mai stato convinto della storia: la CIA, l’US Army War College, Greenpeace, Stephen Pelletiere (principale analista della CIA del 1988), Jude Waniski (giornalista e prestigioso commentatore di notizie economiche), l’Historical Report del corpo dei Marines hanno tutti accusato l’Iran, ed hanno tutti ritenuto “infondata” l’accusa rivolta a Saddam Hussein.
    Stephen Pelletiere scrisse a tal proposito: «Per quanto ne sappiamo noi, tutti i casi in cui il gas fu usato corrispondono ad una battaglia. Queste sono tragedie di guerra. Forse possono esserci giustificazioni per l’invasione dell’Iraq, ma Halabja non è tra queste», ed ebbe cura di precisare, nello stesso articolo, che apparve sul New York Times: «…la verità è che tutto quello che sappiamo è che i curdi quel giorno ad Halabja furono bombardati con gas velenoso. Non possiamo dire con assoluta certezza che furono armi chimiche irachene ad uccidere i curdi. Questa non è la sola stortura della storia di Halabja. Io lo so perché, come capo analista politico della CIA sull’Iraq durante la guerra Iran-Iraq, e come professore al Collegio Militare di Guerra dal 1988 al 2000, ero a conoscenza di molto del materiale segreto che fluiva attraverso Washington e che aveva a che vedere con il Golfo Persico. Inoltre ero a capo di una investigazione militare del 1991 sul come gli iracheni avrebbero combattuto una guerra contro gli Stati Uniti; la versione segreta di quel dossier esplorava con dovizia di dettagli l’affare Halabja. Quello di cui siamo sicuri circa l’uso del gas ad Halabja è che successe durante una battaglia tra le truppe irachene ed iraniane. L’Iraq usò armi chimiche per ammazzare gli iraniani che avevano preso la città, che si trova nell’Iraq settentrionale, non lontano dal confine iraniano. I civili curdi che morirono ebbero la sfortuna di essere presi in quello scambio. Ma non erano loro il bersaglio degli iracheni. Ma la storia si intorbidisce. Immediatamente dopo la battaglia la DIA investigò e produsse un resoconto segreto, che circolò per conoscenza tra la comunità dell’intelligence. Quello studio accertò che era stato il gas iraniano ad uccidere i curdi, non quello iracheno. L’agenzia trovò che ambedue le parti usarono armi chimiche l’una contro l’altra nella battaglia di Halabja. Tuttavia lo stato in cui furono trovati i corpi dei curdi indicava che furono uccisi con un veleno che agiva sul sangue, cioè un gas a base di cianuro, che si sapeva veniva usato dalle truppe iraniane. Gli iracheni, che si pensa usassero l’iprite in battaglia, non erano soliti usare gas che agiva sul sangue, in quel periodo. È da molto tempo che questi fatti sono di pubblico dominio, ma, stranamente, ogniqualvolta il caso Halabja è citato, di questo non se ne parla. Un articolo controverso apparso sul New Yorker lo scorso marzo non faceva alcun riferimento al resoconto della DIA, né considerava che potesse essere stato gas iraniano ad aver ucciso i curdi. Nelle rare occasioni in cui se ne parla, ci si specula sopra, senza prova alcuna, che fosse per favoritismo politico dell’America verso l’Iraq nella guerra contro l’Iran.»
    Secondo la versione suggerita dal New Yorker, e data per vera da Bush, il generale Alì Hassan al-Majid avrebbe ordinato all’aviazione irachena di sganciare bombe chimiche su Halabja. Ma Patrick Lang, uno dei maggiori analisti della DIA (la Defense Intelligence Agency americana), confermò che i due schieramenti che si contendevano la città, quello iracheno e quello iraniano, si scambiano bombe chimiche con mortai, e che l’aviazione non fu mai chiamata in causa. All’inizio, l’intera amministrazione americana accusò l’Iran della responsabilità, dato che era in corso la guerra Iraq-Iran e gli Stati Uniti supportavano la prima fazione; tuttavia, quando il nuovo bersaglio divenne Saddam Hussein, la versione venne stravolta, e fu invece accusato Saddam Hussein, così da “provare” l’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq, far approvare le sanzioni, ed avere un qualche motivo propagandistico per invadere l’Iraq nel 2003.
    Nel novembre del 2003, gli Stati Uniti dichiararono che erano stati rinvenuti 400.000 corpi in fosse comuni dell’Iraq del Sud, da attribuirsi a Saddam. Ma ci pensò Tony Blair, nel giugno del 2004, a dover ammettere che Bush “aveva parlato in modo inappropriato”, perché solo 5.000 corpi erano stati rinvenuti. Solo qualche tempo dopo, altre fonti dimostrarono che erano dei morti civili causati dall’aviazione statunitense durante l’operazione Desert Storm nel 1991. Purtroppo tutto questo cadde nell’oblìo, e si decise di non divulgare più niente su questo argomento.
    Saddam Hussein non abbandonò mai il suo popolo come fu detto. Questa operazione propagandistica era volta a screditare Saddam agli occhi degli iracheni. Si disse che era stato trovato nascosto in un buco a Tikrit. In realtà questa storia è totalmente priva di fondamento. Un marine libanese che aveva preso parte all’operazione per catturare Saddam, Nadim Rabeh, dichiarò nel 2005 (anche se si cercò di coprire la sua versione) che Saddam fu ritrovato “in una modesta casa di un piccolo villaggio, non nel buco dove si disse. Lo catturammo dove una feroce resistenza, e fu ucciso anche un marine sudanese”.
    Rabeh disse che il Raìs iracheno in persona aveva iniziato a fare fuoco contro di loro dalla sua finestra, e che si fermò dopo che gli fu detto di arrendersi perché era circondato. Rabeh disse anche che “più tardi un team militare di tecnici di ripresa assemblò il film del buco in cui sarebbe stato catturato che era in realtà un pozzo abbandonato”.
    Saddam, al suo processo, espresse una versione che combaciava con questa. Un colonnello dell’esercito iracheno a riposo che partecipò al processo disse, sulla sua cattura e sulla sua resistenza attiva: «La biancheria di Saddam appariva molto pulita dando l’impressione che egli non avesse potuto stare in un buco. Nel periodo in cui avevano detto di averlo catturato non vi sono datteri, ma le palme che si vedevano nei filmati mostratici portavano datteri e questo non è possibile. La mia casa è nel quartiere di Adhamiya e io ho effettivamente visto Saddam nella sua ultima famosa apparizione pubblica dopo che Baghdad era già caduta: egli stava in piedi sul cofano di un’autovettura, sorrideva alla gente intorno a lui che lo incitava mostrandogli la fedeltà di sempre. Saddam era alla testa delle truppe durante la battaglia dell’aereoporto. Secondo quello che ho sentito aveva guidato molti attacchi contro gli americani.»
    In realtà, Saddam Hussein combatté fino alla fine, non si arrese né si nascose, e godette sempre del sostegno del popolo iracheno. Il 9 aprile 2003, conosciuto come il giorno della “caduta di Baghdad”, egli fece la sua ultima apparizione pubblica, circondato da una folla in delirio, qualche decina di migliaia di persone che lo sollevò dal tettuccio della sua macchina affinché potesse parlare alla folla.
    Parla degli ultimi giorni di Baghdad e del ruolo di Saddam Hussein anche una ex Guardia Repubblicana, che disse: «Mentre stavo sparando con i miei compagni, all’improvviso, trovammo Saddam Hussein con molti dei suoi assistenti dentro l’aeroporto. Fummo davvero sorpresi perché non ci aspettavamo una simile cosa, ma Saddam venne avanti e prese un RPG e se lo mise sulle spalle ed iniziò a sparare anche lui. Ci raccogliemmo intorno a lui e lo pregammo di mettersi da parte e lasciare noi a combattere perché se fossimo stati uccisi noi eravano comuni ufficiali, ma se lui fosse stato ucciso avremmo perso il nostro leader. Saddam si rivolse a noi e disse, “Ascoltate, io non sono meglio di chiunque tra voi e questo è il momento supremo per difendere il nostro grande Iraq e sarebbe grandioso essere ucciso come martire per il futuro dell’Iraq”.»
    In un sondaggio del novembre 2006, condotto dal Iraq Centre for Research and Strategic Studies e Gulf Research Center, alla domanda se “si stesse meglio con Saddam o ora”, il 90% disse che si stava meglio meglio prima, e solo il 5% disse di preferire la situazione odierna. Un vero e proprio plebiscito. Per descrivere l’Iraq invaso dagli yankee, l’Iraq ipocritamente definito “libero”, non ci sono parole più precise di quelle usate da Riverbend – Blog da Baghdad: «Non esiste alcuna maniera per descrivere la perdita di cui abbiamo fatto esperienza con questa guerra e questa occupazione. Non esiste compensazione per la densa nube nera di paura che penzola sulla testa di ogni iracheno. Paura degli americani nei loro carri armati, paura delle pattuglie della polizia con le loro bandane nere, paura dei soldati iracheni che indossano le loro maschere nere ai checkpoint.»
    Per quanto riguarda il processo di Saddam Hussein, una delle più grandi finzioni giudiziare degli ultimi anni, sarebbe fin troppo lungo elencare gli errori, le mancanze giudiziare e le assurdità. Basti ricordare che il primo giudice fu costretto a dimettersi perché permetteva a Saddam di parlare e sembrava troppo equo, e ne subentrò uno che mostrava una totale tendenziosità; molte volte Saddam fu allontato dall’aula senza motivo, gli avvocati difensori espulsi, testimoni a difesa torturati, furono distrutti vari video mostrati dalla difesa, ed in soli due giorni la corte disse di aver letto le 1.500 pagine della deposizione della difesa.
    La condanna a Saddam Hussein fu nient’altro che una montatura, un processo politico per liquidare un uomo scomodo, umiliare fino in fondo quell’implacabile nemico dell’Occidente, accusato di ogni sorta di crimine e screditarlo agli occhi del suo popolo che, invece, era ancora affezionato a lui. Delle ottime parole per descrivere l’ultimo giorno di Saddam Hussein prima della sua impiccagione furono quelle usate da Malcolm Lagauche: «Oggi, Saddam Hussein è l’uomo più libero dell’Iraq, nonostante sia dietro le sbarre. La sua mente è limpida e la sua integrità incredibile. Attende la morte con dignità. Non una sola volta ha ceduto sotto tortura o pressione. Anche quando gli fu offerta dagli USA una tessera per “uscire gratis di prigione” se avesse fermato la resistenza, Saddam rifiutò di capitolare.»

    Leonardo Olivetti – Fonte: statopotenza.eu

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  4. Tutto giusto e lodevole in termini di modello alternativo e garanzie di vita per i propri connazionali. Però, per quanto riguarda il ruolo di padre dell’Africa Unita ci andrei cauto visto il ruolo di “sbirro” dell’Occidente che ha svolto per un decennio limitando le emigrazioni con mezzi non proprio da leader panafricano che ha a cuore la sorte dei popoli più martoriati della storia dell’umanità.

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  5. proviamo a sfatare la vulgata di Gheddafi oppressore di migranti tanto cara alla sinistra radicale italiana (la stessa che nel 2011 partecipò attivamente all’assalto contro l’ambasciata libica di Roma)?

    “Nonostante la raffinata retorica degli interventisti occidentali su “democrazia” e “libertà” in Libia, la realtà ne è lontana, soprattutto per i libici africani che vedono il loro status socio-economico e politico ridotto con la fine della Jamahiriya di Muammar Gheddafi. Mentre questi popoli godevano di un’ampia uguaglianza politica e protezione legale nella Libia di Gheddafi, l’era post-Gheddafi li ha visti spogliati di tutti i loro diritti. Invece di essere integrati in un nuovo Stato democratico, i gruppi libici neri ne sono stati sistematicamente esclusi. Infatti, anche Human Rights Watch, un’organizzazione che ha molto contribuito a giustificare la guerra della NATO sostenendo falsamente che le forze di Gheddafi usassero lo stupro come arma e si stessero preparando a un “genocidio imminente”, ha riferito che “Il crimine contro l’umanità della pulizia etnica continua, mentre le milizie provenienti soprattutto da Misurata hanno impedito a 40.000 persone della città di Tawergha di ritornare nelle loro case, da cui erano stati espulsi nel 2011.” Questo fatto, assieme a storie terribili e immagini di linciaggi, stupri e altri crimini contro l’umanità, dipinge un quadro molto cupo della vita in Libia per questi gruppi.
    Nel suo rapporto 2011, Amnesty International ha documentato una serie di flagranti crimini di guerra commessi dai cosiddetti “combattenti per la libertà” in Libia che, pur essendo salutati dai media occidentali come “liberatori”, hanno colto l’occasione della guerra per massacrare libici neri così come clan e gruppi etnici rivali. Questo è naturalmente in netto contrasto con il trattamento dei libici neri sotto il governo della Jamahiriya di Gheddafi, elogiato dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite nel suo rapporto del 2011, dove osservava che Gheddafi aveva fatto di tutto per garantire lo sviluppo economico e sociale, oltre a fornire specificamente opportunità economiche e protezioni politiche ai libici neri e ai lavoratori migranti provenienti dai Paesi africani confinanti.”

    da La guerra segreta in Libia,
    di Eric Draitser
    https://aurorasito.wordpress.com/2014/01/23/la-guerra-segreta-in-libia/

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  6. Condivido in toto, spirito e lettera, il commento di “byebyeunclesam”… viviamo in un mondo imperfettissimo e anzi nel peggior Kali Yuga… da NESSUNA parte potremmo trovare un qualche governo o leader nazionale “ideale”… si può solo badare all’essenza, al succo dei comportamenti storici (e individuali). La Giamahiria di Gheddafi ha rappresentato il meglio o, decisamente, il meno peggio che l’Africa contemporanea abbia saputo esprimere. Ora in Libia trionfa l’islamofeccia più orrida (ma la resistenza c’è SEMPRE). E il popolo può solo rimpiangere i decenni che hanno preceduto la “primavera” di morte, rapina e fanatismo sponsorizzata dall’Occidente criminale. A proposito di “migranti” cfr. https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/libertari/conversations/messages/104313, https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/libertari/conversations/messages/104315.

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  7. Certamente l’accordo con Berlusconi non ha fatto onore a Gheddafi, né l’avvicinamento all’Occidente gli ha portato fortuna. La situazione degli immigrati africani in Libia non era idilliaca; tuttavia, non si può non riconoscere che oggi sia diventata catastrofica: la “Nuova Libia” è razzista e gli immigrati sono perseguitati. L’esempio più vistoso è quello della sorte toccata alla città di Tawargha. E’ utile rileggere, a tal proposito, questo pezzo di Amedeo Ricucci:

    TAWARGHA

    La città abitata prima dai neri libici, accusati di essere sostenitori di Gheddafi, è ridotta a una ghost town. I suoi 40 mila abitanti costretti alla fuga e chiusi in campi profughi, vittime di attacchi indiscriminati. Ci dice un anziano cheikh della città: «Questa è la nuova Libia libera e democratica?»

    «Tawargha non c’è più». Firmato: i Leoni di Misurata
    C’è la firma in bella evidenza, scritta con la bomboletta spray sulle pareti di una casa sventrata, sull’epurazione etnica che ha colpito i quarantamila abitanti di pelle nera della città di Tawargha. Ed è una firma che continua a perseguitarli, visto che la settimana scorsa una banda di miliziani bianchi di Misurata è riuscita ad entrare anche nel campo profughi allestito all’interno dell’Accademia navale di Tripoli, uccidendo 7 persone e ferendone altre 15, nella più totale impunità. Sulla strada di Sebha, invece, è stata bloccata una banda di miliziani, armati fino ai denti, che volevano dar la caccia ai superstiti rifugiatisi in città. Sì, perché nemmeno nei campi profughi quelli di Tawargha sono al sicuro.
    La città intanto continua a bruciare, tutti i giorni da sei mesi a questa parte, per via dei predoni che si aggirano ancora fra le macerie, nella speranza di portar via quel po’ che è rimasto dopo i ripetuti attacchi dell’agosto scorso: brandelli degli infissi in ferro, anche se anneriti, e qualche suppellettile che può essere ancora usata. Nemmeno ai tempi della guerra in Bosnia o del Kosovo s’era vista una tale furia devastatrice: cieca, disumana, sprezzante. In pratica, non c’è una sola casa o edificio pubblico che non sia stato prima sventrato dagli Rpg, poi bruciato e infine devastato e saccheggiato. Un lavoro di fino, allo scopo di cancellare questa città dalle carte geografiche. E impedire che ai suoi abitanti venga voglia di tornarci.
    La vendetta dei miliziani
    La versione ufficiale è che a Tawargha stazionava la famigerata 32ma Brigata di Khamis Gheddafi, che ha guidato il lungo assedio di Misurata e ne ha firmato le peggiori atrocità. Ma non si capisce perché siano state attaccate anche le scuole, gli ospedali e i negozi; né perché le donne, i vecchi e i bambini di Tawargha siano stati costretti alla fuga a piedi, per ottanta chilometri, per sfuggire alla vendetta dei miliziani che davano loro la caccia.
    «Se fra di noi ci sono degli ex soldati oppure dei civili che hanno appoggiato Gheddafi e si sono resi responsabili di qualche crimine è giusto che paghino – ci dice l’anziano cheikh responsabile del più grande fra i campi profughi allestiti a Tripoli -. Ma è assurdo che sia un’intera città a pagare. Per vendicare i duemila martiri di Misurata è giusto che si puniscano i qurantamila abitanti di Tawargha? E’ questa la nuova Libia libera e democratica?»
    Sulla vicenda, però, le autorità preferiscono tacere o mantenere un basso profilo, nonostante le ripetute denuncie di Amnesty International e di Human Rights Watch, che vanno avanti da mesi. Il bilancio di questa terribile epurazione etnica si aggrava infatti giorno dopo giorno: perché ai morti e ai feriti dell’attacco di agosto – un migliaio, pare, ma non ci sono cifre precise – vanno aggiunti gli «scomparsi», molti dei quali sono stati rapiti nei campi profughi, anche nelle ultime settimane, ed affollano le prigioni segrete di cui sono dotate le varie milizie, a Tripoli e non solo. D’altronde, solo a denti stretti qualcuno ammette che a Tawargha si è «esagerato»: «E’soprattutto una questione di onore – ci confessa un amico dentista, fra i meno esaltati fra i sostenitori della rivoluzione contro il regime di Muammar Gheddafi -. Quelli di Tawargha hanno ucciso e stuprato. E secondo la mentalità libica in questi casi la vendetta è considerata non solo legittima ma sacrosanta. Da qui l’accanimento delle milizie di Misurata». In realtà,nessuno è in grado di esibire prove di questi crimini. E di fronte all’insistenza del cronista c’è chi si lascia scappare che, in fondo, non ha molto senso preoccuparsi per la sorte di quelli di Tawargha, perché tanto sono «neri» ed è giusto che se tornino «in Africa, da dove sono venuti».
    Che ci sia un problema razziale lo ammettono gli stessi profughi, anche se non davanti alla telecamera, per paura di ritorsioni. Preferiscono affidare il loro messaggio disperato ai versi di una canzone, che i bambini hanno imparato a memoria e vogliono cantarci a tutti i costi prima che andiamo via. «La Libia era un paese solo – intonano col sorriso sulle labbra – unito da Nord a Sud, da Est a Ovest. E allora perché quelli di Misurata ci attaccano a colpi di Rpg? Perché ci hanno costretti a lasciare la città dove siamo nati? Perché ci danno la caccia anche qui?».
    Una storia occultata
    Quella di Tawargha è la pagina più buia e la meglio occultata nella storia della cosiddetta «rivoluzione del 17 febbraio». Ma è anche la spia delle profonde divisioni che lacerano oggi il paese e rischiano di paralizzarlo a lungo. Divisioni razziali, anche, come dimostrano gli scontri delle ultime settimane nell’oasi di Kufra, nel sud-est, fra i tubu (neri) e gli zwai (bianchi).
    «Tensioni ce n’erano anche ai tempi di Gheddafi – ci spiega Hassen Chkae, alla testa di una delegazione di tubu che protesta a Bengasi, davanti alla sede del Cnt, il Consiglio nazionale transitorio – ma non erano mai degenerate. Adesso invece le nuove autorità hanno dato le armi agli zwai, che ne approfittano per attaccarci. E noi dobbiamo difenderci». Al momento gli scontri hanno già fatto un centinaio di vittime. E il conflitto rischia di allargarsi, visto che i tubu vivono anche dall’altra parte della frontiera, in Ciad, e gli zwai hanno il sostegno tacito delle tribù bianche della costa, che sogna di liberare la nuova Libia dai neri del sud.
    Fonte: contropiano.org (24/02/12)

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  8. Il mio intervento non voleva essere certamente un’esaltazione del periodo attuale in Libia. Sta di fatto che per assolvere a necessità europee sul regolamento dei flussi migratori, negli anni scorsi, in Libia, si è creato sopra un business. E i Gheddafi non potevano non sapere. Ci sono anche documenti e vari libri che parlano di centri di detenzione nella Libia governata da Gheddafi. Adesso li uccidono e risparmiano tempo e spazio, non per questo non si può criticare il passato.

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  9. Rimaniamo in attesa di libri che ci documentino gli affari realizzati attualmente sull’immigrazione clandestina da parte di quei gruppi di “ribelli” che, nel 2011, hanno svolto il lavoro sporco per il cambiamento di regime voluto da USA/NATO.
    Crediamo che l’attesa durerà a lungo…

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  10. Io rimango in attesa di qualcuno che scriva sul business degli immigrati qua in Italia: enti, hotel, politici, caritas, coop.
    Ah no. Poi ti arriva la digos a casa….

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  11. Per il business qua in Italia, mi pare che già nel 2004 Report documentò il business che si cela dietro alla creazione del reato di clandestinità. Si trova documentazione anche in rete, basta cercare. Potrebbe bastare anche sentire un discorso del sindaco di Riace (RC) Domenico Lucano per accorgersi che non sono discorsi da estremista di sinistra ma da persona di buon senso che ha sperimentato un modello alternativo di gestione dei migranti senza voler fare business sulle spalle dei vari disgraziati che arrivano.
    Per la documentazione nella Libia “gestita” dai ribelli, mi sa che non arriverà niente, a meno che non ci sia qualcuno disposto a morire per il lavoro d’inchiesta.

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