Il Comitato Promotore della Petizione Popolare di Sensibilizzazione avente come oggetto la richiesta di ridiscussione in Parlamento del riconoscimento, da parte del Governo Italiano, dell’indipendenza dell’Autoproclamata Repubblica del Kosovo ha presentato nei giorni scorsi il testo della petizione, corredato da diverse migliaia di firme, al Governo e al Parlamento della Repubblica Italiana.
Dopo diversi anni di riflessioni su quanto accadde sia negli anni novanta (processo di dissoluzione della Jugoslavia e successiva crisi nella Provincia Autonoma di Kosovo e Metohia della Repubblica di Serbia), sia nel 2008 (proclamazione unilaterale di indipendenza da parte dei rappresentanti della comunità kosovaro-albanese della Provincia Autonoma di Kosovo e Metohia della Provincia di Serbia) una parte crescente dell’opinione pubblica italiana ha sentito il bisogno di sensibilizzare le istituzioni esecutive e legislative della Repubblica Italiana in ordine al carattere iniquo ed inappropriato del passo politico e diplomatico che Roma compì nel 2008, quando riconobbe l’esistenza di un nuovo Stato, sottratto in modo affrettato alla Serbia.
Il Comitato Promotore, argomentando le ragioni che motivano tale petizione, ha chiesto di valutare la ridiscussione parlamentare del riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, anche per favorire una reale e duratura stabilizzazione della regione balcanica, basata sulla certezza del diritto e sulla cooperazione di tutte le parti in causa. Il Comitato Promotore (Stefano Pilotto, Stefano Vernole, Marilina Veca, Loreta Baggio, Federico Roberti, Andrea Turi, Alessandro Di Meo, Leandro Chiarelli, Stefano Pavesi, Stefano Bonilauri), composto da intellettuali, diplomatici, professionisti, scrittori e giornalisti, ritiene che il momento sia propizio per un riesame del problema, nella prospettiva di un rilancio efficace dell’integrazione europea e dell’allargamento delle istituzioni comunitarie alla regione balcanica in un contesto di pace e di cooperazione interetnica, che non pregiudichi il rispetto della sovranità degli Stati.
balcani
Aiuto per le Cucine Popolari di Kosovo e Metohija
Tutti i giorni dell’anno l’Associazione di volontariato “Majka devet Jugovica”, attraverso sei mense denominate “Cucine Popolari in Kosovo e Metohija”, si occupa di preparare e distribuire pasti per più di 2.000 persone che non possiedono le sufficienti risorse per provvedere al sostentamento primario quotidiano. Il cibo preparato viene consumato presso i locali delle cucine, o trasportato a domicilio, nei villaggi più sperduti, ai soggetti maggiormente svantaggiati: famiglie indigenti e numerose, o anziani rimasti soli.
Per queste ragioni l’Unione dei Serbi in Italia si è prefissata di avviare, ogni anno, la campagna di raccolta fondi necessari a queste Cucine Popolari per acquistare il cibo e portare avanti la distribuzione dei pasti.
Puoi inviare il tuo contributo facendo riferimento ai seguenti dati bancari del conto intestato a Unione dei Serbi in Italia:
COORDINATE IBAN: IT07 H033 5901 6001 0000 0160 885
BANCA PROSSIMA
Causale: Donazione per le Cucine Popolari
Info: humanitarna@savezsrba.it
http://www.savezsrba.it
Volete stabilità nei Balcani? Allora ridateci la Jugoslavia
Torna alta la tensione nei territori della ex Jugoslavia a seguito dell’assassinio di Oliver Ivanovic, esponente di punta della minoranza serba in Kosovo.
L’influente think-tank statunitense Council on Foreign Relations (CFR) ha messo i Balcani nella sua lista di prevenzione dei conflitti nella sua recente inchiesta del 2018.
Tuttavia l’idea, promossa dal CFR, che gli Stati Uniti siano il Paese che può aiutare a preservare “pace e stabilità” deve essere messa alla prova – così come gli stessi Stati Uniti e gli alleati NATO più vicini che sono in verità responsabili di molti dei problemi che affliggono attualmente la regione.
Questi problemi derivano tutti dalla violenta rottura della Jugoslavia multietnica degli anni ’90, un processo che le potenze occidentali hanno sostenuto e addirittura incoraggiato attivamente. Ma questo non è menzionato nel documento di riferimento del CFR “Lo scioglimento degli accordi di pace nei Balcani” (Contingency Planning Memorandum n. 32).
Invece sono i Russi, udite, udite, ad essere considerati i cattivi – con “la destabilizzazione russa del Montenegro o della Macedonia” elencato come uno dei possibili scenari del 2018. La verità è, tuttavia, che tutti i possibili “punti di fiamma” identificati dal CFR, che potrebbero portare a conflitti, possono essere direttamente collegati non a Mosca ma alle conseguenze di precedenti interventi e campagne di destabilizzazione statunitensi o guidate dall’Occidente. Continua a leggere
Il primo pensiero del nuovo anno
E’ rivolto a un nuovo progetto di “solidarietà concreta” portato avanti da S.O.S. Jugoslavia, associazione torinese che i nostri lettori hanno già avuto modo di conoscere.
Si tratta del progetto denominato “Appartenere al futuro”, a favore delle enclavi del Kosovo Metohija.
I dettagli sono contenuti nella “proposta” che Padre Benedetto del Monastero di Decani ha inviato ai referenti dell’associazione, la quale può essere letta qui.
Chiunque volesse sostenerlo, è pregato di mettersi in contatto con S.O.S. Jugoslavia mediante i recapiti segnalati in calce al medesimo articolo.
Aiutiamoli a sopravvivere.
Aiutiamoli a resistere.
Aiutiamoli a restare nella propria terra.
Srebrenica. Città tradita
Un documento eccezionale realizzato dai giornalisti norvegesi Ola Flyum e David Hebditch, sugli avvenimenti di Srebrenica, in Italiano grazie alla traduzione del Forum Belgrado Italia e del CIVG. Le testimonianze, le denunce, le dichiarazioni, i ricordi di comandanti bosniaci musulmani, che hanno combattuto contro la parte serba nella tragica guerra civile di allora, e che coraggiosamente rievocano e inquadrano sulla base dei fatti e delle loro esperienze dirette, le vicende legate alla battaglia di Srebrenica. Senza sconti, da soldati che avevano combattuto, non per obiettivi criminali o al servizio di poteri stranieri, ma perché lo ritenevano giusto. E da soldati e da protagonisti, così hanno esposto gli avvenimenti a cui hanno preso parte.
Solidarietà per Alexander Dorin
Il giorno in cui la Russia ha posto il veto sulla bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza ONU -considerata “non costruttiva, aggressiva e politicamente motivata”- destinata a condannare, dopo venti anni, gli eventi di Srebrenica quale “genocidio”, vogliamo porre l’attenzione sul caso di Alexander Dorin, storico indipendente e pubblicista, autore di Srebrenica. Come sono andate veramente le cose.
Lo scorso 17 giugno, Dorin è stato prevelato dalla sua abitazione di Basilea, in Svizzera, da uomini armati, probabilmente membri delle forze speciali, in circostanze poco chiare.
Ora egli si trova in una prigione svizzera, con l’accusa di possesso e traffico di sostanze stupefacenti.
Chi vuole esprimere il proprio sostegno, anche di carattere finanziario quale contributo per le spese legali, può reperire le necessarie informazioni collegandosi alla relativa pagina Facebook.
Il Kosovo, ancora il Kosovo
“Nei drammatici avvenimenti e scenari di guerra in Ucraina e non solo, la cosiddetta “questione Kosovo” attraversa analisi, riferimenti, raffronti, alle volte in modo consono, altre volte strumentale. Chi semina vento raccoglie tempeste, si potrebbe sintetizzare, riferendosi alle strategie e scelte delle leadership occidentali e statunitensi in primis.
Un aspetto sicuramente emerge come dato di fatto, grazie all’”operazione Kosovo”, gestita dalla NATO, lo stravolgimento e annichilimento del Diritto Internazionale, cominciato con il processo di distruzione della Jugoslavia e approdato alla rapina della provincia alla Serbia, ha aperto scenari di destabilizzazione e conflittualità dilaganti e a macchia d’olio in ogni angolo del mondo. Ma il Kosovo resta un modello solo per quelle realtà filo occidentali e vogliose di vendere la propria indipendenza e sovranità ai grandi poteri finanziari e militari occidentali.
Al contrario per paesi e popoli alla ricerca di autonomi ed indipendenti processi di sviluppo e soluzione dei propri problemi, il Kosovo non può essere un modello; semplicemente perché il Kosovo è una soluzione imposta con una guerra della NATO, estraneo a qualsiasi processo di emancipazione, liberazione o indipendenza di un popolo.
Il Kosovo è semplicemente un entità che esiste e sopravvive solo grazie alla presenza di forze militari straniere che impongono lo status quo, per propri interessi geostrategici e per una scelta geopolitica, estranea agli stessi interessi della popolazione onesta albanese. Senza di queste in pochi giorni tornerebbe ad essere ciò che è sempre stato, una provincia serba in cui hanno da sempre convissuto, quattordici minoranze paritariamente, e non ciò che è oggi: un narcostato nel cuore dell’Europa, teatro di pulizie etniche, violenze, terrore e criminalità, imposte da una dirigenza criminale e terrorista alla popolazione civile, occupato militarmente da migliaia di soldati stranieri (occidentali) e dalla più grande base statunitense dai tempi del Vietnam.”
Il Kosovo, ancora il Kosovo, dopo la Crimea, ora anche nell’Ucraina orientale, la “questione Kosovo” ineluttabilmente riemerge, come una metastasi, di Enrico Vigna continua qui (il collegamento inserito è nostro).
La pace va conquistata
“Da dove comincia l’attuale Kosovo? Per me è iniziato dall’aeroporto di Zurigo – dove si fa scalo giungendo da Roma – all’imbarco per Pristina; lì presiedeva una moltitudine di facce anomale, quasi “incidentate” per la peculiare fisionomia storta e scomposta. Volti granitici, sgraziati e già vecchi, cui ne seguivano altri, quelli delle donne, che, fisse al seguito degli uomini, trovavano riparo sotto il velo: Schipetari, dunque. Di Serbi, a bordo, nemmeno l’ombra; eppure la terra verso cui viaggiavo e che distava poco più di un’ora, la abitano ancora, malgrado tutto e tutti, i Serbi del Kosmet, anzi è proprio la loro, quella terra, solo che a essi non è consentito partire e poi tornare come un qualsiasi cittadino della Comunità Europea o un serbo qualsiasi. Ecco perché la mia prima comprensione ha avuto origine in Svizzera, Paese che poco c’entra con le rovine del sacro Kosmet.
L’appartenenza di questa Provincia alla Serbia è inscritta ancora oggi non solo al catasto, ma nella Storia: fin dal Medioevo sbocciarono chiese e benedizioni, lotte sanguinose e fiere, fierissime sconfitte, tra cui spicca la Battaglia della Piana dei Merli (1389), che vide le truppe ottomane, guidate dal sultano Murad I, sconfiggere quelle cristiane del principe Lazar. Composte da 50.000 unità, le prime, e soltanto dalla metà, le seconde.
Fu una disfatta tremenda: perirono nobili e cavalieri – l’aristocrazia, dunque; nulla a che vedere con gli odierni mercenari – e venne aperta la via alla dominazione turca che, a distanza di cento anni, si sarebbe insediata nell’invitta memoria serba. Dalla rovinosa battaglia fiorirono un’epica e un’eredità irripetibili: non separarsi mai dal destino della propria terra, che, in tutto e per tutto, coincide con quello individuale e comunitario dei Serbi.
Ancora, tanta storia celeste è rintracciabile nelle spoglie immortali – il suo corpo che profuma di rose, dopo secoli, non ha mai preso la rigidità destinata a ogni comune mortale – del Santo Stefano Uroš, fondatore di Visoki Dečani, il monastero più importante, più assediato e più bello di tutto il Kosmet, meta di ogni pellegrinaggio del cristianesimo ortodosso, in cui si trova la rarissima, o forse unica, icona del Cristo con la spada: la pace va conquistata, non subita.
La geografia terrena, però, oggi spesso non coincide con quella spirituale ed è così che, attraversando Pristina – capitale per gli “indipendentisti”, semplice capoluogo per i Serbi – sembra di piombare nella modernità più consunta: palazzi in serie, negozi in franchising, macchine lussuose e ingombranti, night club e divertissement squisitamente occidentali. Addentrandosi nella città, ci si trova in boulevard Bill Clinton, in onore dell’ex presidente americano, che ha favorito la cacciata del popolo serbo e che sullo stesso viale gode persino di una statua, lì eretta nel 2009 per non dimenticare tanto favorevole “accordo” degli onnipresenti Stati Uniti.”
Il reportage di Fiorenza Licitra, Orizzonti dal Kosovo e Metohija, continua qui.
Natale ortodosso in Kosovo Metohija
“Dopo il giorno di ricorrenza dei morti a novembre, in Kosovo Metohija le genti hanno vissuto spiritualmente la ricorrenza del Natale ortodosso il 7 gennaio. E, come profonda tradizione nella cultura e spiritualità slava, e serba in questo caso, non c’e’ molta differenza tra credenti e laici; sono giorni ove ciascuno pur vivendoli in forme esteriori differenti, li vive interiormente come riflessioni/meditazioni nell’anima.
Di questo ne sono testimone oculare per vita vissuta con loro, con Padri, ferventi credenti o figure laiche di onesti socialisti, di profondi patrioti, di integerrimi sindacalisti, diversi tra loro per visioni di società o idee politiche, ma fratelli e sorelle, compagni di situazioni che abbiamo vissuto e condiviso insieme, ai limiti delle nostre stesse vite…ciascuno possiede nell’anima radici spirituali profonde e saldissime. Anche questo, piacendo o non piacendo a taluni esperti di Serbia virtuale, e’ il popolo serbo, e forse, ANCHE grazie a queste radici, che ha resistito per 17 anni alle aggressioni straniere ed ancora oggi resiste nel Kosovo.
Forse in modo ancora più profondo, ciò avviene nella tragica realtà dei serbi del Kosovo, prigionieri in una moderna forma di apartheid: le enclavi; una realtà dove nessuno dei diritti fondamentali dell’uomo sanciti nella Carta delle Nazioni Unite e’ rispettato, ancor di meno quelli sanciti nei primi dieci Articoli dei Diritti dell’Infanzia. Nel momento in cui il Consiglio Europeo discute, minaccia, sanziona circa i diritti umani in Siria, nel Kosovo Metohija, stato artificiale ed illegale, il mondo dovrebbe vedere cosa ha inventato e mantiene: una società dove la profanazione di tombe di famiglia, di luoghi sacri, di monasteri e luoghi spirituali e’ quotidiana, e dove, da anni, vengono quotidianamente attaccati, vandalizzati, distrutti.”
I giorni della spiritualità e del raccoglimento vissuti nel Kosovo martoriato, di Enrico Vigna continua qui.
Il documento contiene anche le indicazioni necessarie per fare solidarietà concreta.
Nel narco-staterello di Hashim Taci
Kosovo. L’orrore diventa un film
Nel narco-staterello di Hashim Taci, il Kosovo e Metohija, si chiede in questi giorni di proclamare “persona non grata” il regista di fama mondiale Emir Kusturica perché intende a realizzare un film sulla tratta degli organi dei serbi fatta dai secessionisti schipetari dell’UCK. Kusturica ha affermato di non capire il nervosismo di Pristina perché non è stato lui a inventare questa storia, ufficialmente presentata da Dick Marty nel suo rapporto sui trattamenti inumani e i traffici d’organi dei serbi in Kosovo, relazione che puntava direttamente al premier kosovaro ed ex leader dell’UCK Hashim Taci, approvata il 16 dicembre 2010 dalla Commissione affari legali e diritti umani dell’Assemblea del Consiglio d’Europa. Il film sarà realizzato basandosi su un romanzo di Veselin Dzeletovic intitolato “Il cuore serbo di Johann”. Si tratta della storia vera di un tedesco che porta nel petto il cuore di un serbo rapito dall’UCK e ucciso per strappargli il cuore e venderlo al mercato nero. Questo tedesco ha poi adottato il figlio della vittima. L’autore del romanzo ha parlato direttamente con l’uomo tedesco, molte volte, dal 2004 al 2007. Lo scrittore Dzeletovic racconta: “Sono andato nel Kosovo e Metohija a portare libri da donare e lì ho sentito parlare di una donna serba violentata da cinque schipetari e che si è suicidata non potendo più vivere con quel ricordo tremendo. Quella donna è stata la moglie di un mio amico rapito dagli schipetari nel 1999. Durante la sepoltura della poveretta, nel cimitero con molti monumenti distrutti dagli albanesi, c’era un tedesco che voleva aiutare materialmente la famiglia della donna perché aveva saputo da chi e come aveva avuto il suo cuore trapiantato. Voleva acquietare la propria coscienza. Intendeva donare una grossa cifra, ma dopo aver capito che il figlio della donna era rimasto solo, che non aveva fratelli né sorelle, ha deciso di adottarlo. Lo zio del ragazzo non accettava che il ragazzo diventasse tedesco e per questo il tedesco Johann accettò di convertirsi e diventare ortodosso per avere l’approvazione dello zio all’adozione. Il destino ha voluto invece quest’adozione. Oppure la volontà divina! Dunque, il tedesco stava nel povero cimitero ortodosso serbo vestito molto diversamente dalla gente del posto, cioè signorilmente. Seguiva i funerali con una certa distanza aristocratica e gli stava accanto in ogni momento un agente della BND cioè della Bundesnachrichtendienst (servizio informazioni federale della Repubblica Federale Tedesca). Ad un certo momento il ragazzo, la cui mamma veniva seppellita, si mise ad abbracciare le gambe di quel tedesco e disse ad alta voce: “Papà”. Il ragazzo istintivamente ha riconosciuto il cuore del suo padre in un altro uomo. È una storia tragica che non può lasciare indifferente nessuno. Tutti i fatti del mio romanzo sono veri tranne i nomi dei personaggi e del villaggio”. Il romanzo di Dzeletovic offre anche delle informazioni che nessuno voleva pubblicare finora, neppure Dick Marty. Per esempio, le operazioni del trapianto non venivano fatte in Albania, ma in Italia. I serbi rapiti venivano portati in Albania per essere uccisi secondo gli ordini che arrivavano: i loro organi venivano estratti in Albania con i metodi più crudeli e poi trasportati in frigoriferi in Italia. Sono stati usati i motoscafi con i quali si raggiungeva l’Italia in meno di tre ore. Le basi logistiche di questi traffici loschi sono state poste prima dell’aggressione della NATO alla Serbia, quando i figli dei poveri d’Albania venivano venduti agli italiani ricchi ancora prima del 1999. In tal modo sono stati stabiliti i primi contatti con i contrabbandieri cementati poi con i traffici illegali di sigarette e di droga. Ricordiamo che il testimone protetto K-144 del Tribunale dell’Aia dichiarò: “Io so di almeno 300 reni e di altri 100 organi estratti ai rapiti del Kosmet. Si estraevano anche il fegato e i cuori. Un rene si vendeva da dieci a cinquanta mila marchi tedeschi… Hashim Taci prendeva l’80% del guadagno che lui spartiva poi con altri comandanti dell’UCK…” Nella televisione irachena, un certo sceicco Bahramin si è vantato, nel 2000 ,d’aver avuto un cuore nuovo in Turchia. Diceva di stare benissmo e gli dispiaceva solo un fatto: il cuore era di un serbo cristiano. L’autore del romanzo “Il cuore serbo di Johann” ha detto d’aver incontrato recentemente un funzionario dell’Eulex e che era possibile che le indagini si sarebbero ampliate all’Italia e alla Germania. Comunque sia, Kusturica dice che girerà questo suo film in Russia, dove ha tanti amici che gli daranno una mano a realizzarlo. Ovviamente l’Europa, e specialmente i Balcani, compresi l’Albania e la stessa Serbia con la sua provincia del Kosovo e Metohija, cioè i territori dove sono avvenuti questi crimini, non sono un palcoscenico dove è possibile girare un film su questi delitti orrendi, anche se è stato comunque possibile commettervi questi crimini genocidi, non immaginabili da una mente normale. E con l’assoluta complicità di Bruxelles e di Washington.
Dragan Mraovic
SOS Yugoslavia onlus: conoscerla e sostenerla
L’associazione di volontariato SOS Yugoslavia si costituisce nella primavera del 1999, durante i bombardamenti della NATO sul territorio dell’allora Repubblica Federale Yugoslava.
A fronte di quella tragedia, l’associazione sceglie di portare aiuto là dove minimi risultano i soccorsi internazionali, e insieme a parte della comunità slava di Torino si impegna nella produzione di materiale informativo per divulgare la realtà della cultura e dell’attualità balcanica.
Terminata l’aggressione militare, le strategie della politica internazionale non consentono il ripristino delle condizioni di vita precedenti la guerra. Permangono e addirittura si aggravano i problemi economici e sanitari, determinando una situazione che si fa sempre più drammatica, soprattutto per il quasi milione di profughi -di tutte le etnie- residenti in Serbia.
Cosciente e consapevole delle condizioni di vita nella ex Repubblica Federale Yugoslava, l’associazione mantiene il proprio impegno a favore della popolazione civile più provata: bambini, profughi, orfani e vedove di guerra.
Oggi, a fronte della drammatica situazione socio-economica dei popoli residenti in Serbia, e a quella ancora più difficile del Kosovo dove permane lo stillicidio di violenze e l’assedio alle poche enclavi non albanesi, SOS Yugoslavia svolge un’attività di informazione e divulgazione che vuole superare i luoghi comuni.
Con l’intento di contribuire alla costruzione di una cultura di pace, essa fornisce occasioni di approfondimento sull’attualità dell’ex Yugoslavia, promuovendo l’avvicinamento a una realtà culturale su cui pesano le tragiche vicende del recente conflitto bellico. Tale attività si sostanzia in conferenze e dibattiti, percorsi didattici interculturali sulla letteratura dei Balcani, produzione di quaderni tematici, proiezione di videodocumentari, etc.
I materiali distribuiti fra i soci, oltre ad essere uno strumento indispensabile di divulgazione, sono finalizzati a stimolare le offerte economiche a sostegno dei progetti dell’associazione, ossia i programmi di solidarietà concreta delle adozioni a distanza e a favore delle comunità ancora residenti nelle enclavi serbe del Kosovo-Metohja.
L’adozione a distanza richiede un impegno annuale rinnovabile, che prevede un versamento di 310 euro, pari a € 26 mensili. L’importo costituisce un sostegno alla famiglia dell’adottato, che viene scelto e proposto dagli enti con cui l’associazione collabora, in base a un ordine di priorità.
Al donatore viene consegnata una scheda che riporta i dati relativi al destinatario del sostegno economico, con fotografia, dati anagrafici e scolastici, indicazioni circa la situazione familiare, indirizzo e numero di telefono. La famiglia beneficiaria riceve dati e recapiti del sostenitore italiano, in modo da poter corrispondere.
Possono aderire alla formula sia singoli che gruppi, amministrazioni pubbliche e associazioni. I contributi raccolti vengono consegnati da una delegazione di SOS Yugoslavia direttamente alle famiglie nel corso di assemblee pubbliche, alla presenza dei responsabili degli enti collaboranti, di stampa e televisioni.
Il programma è gestito in collaborazione con l’Ufficio adozioni della fabbrica di auto ex Zastava (ora FIAT) di Kragujevac che assiste le famiglie degli ex dipendenti ora disoccupati, con l’associazione profughi Zastava di Pec in Kosovo che assiste le famiglie degli ex dipendenti della filiale kosovara della fabbrica ora profughi residenti a Kragujevac e con l’associazione Decjia Istina di Belgrado che presta assistenza agli orfani e alle vedove di guerra.
Il programma di solidarietà a favore delle enclavi serbe nel Kosovo-Metohja è diviso in tre parti.
La prima a favore delle enclavi di Goradzevac e Orahovac, fornendo aiuto economico alle famiglie e alle strutture scolastiche locali, aiuti alimentari, vestiario e medicine.
La seconda, in collaborazione con l’associazione Srecna Porodica, è a sostegno dei minori la cui famiglia è stata vittima di sparizioni consumatesi nel quadro delle violenze interetniche avvenute nel Kosovo a partire dalla primavera del 1999.
La terza va in aiuto dell’Associazione malati di sclerosi multipla di Kosovska Mitrovica, con l’invio di medicinali e materiali sanitari per tutte le enclavi della regione.
Il carattere eccezionale del contesto, causa il permanere di violenze ai danni dei serbi e delle etnie non albanesi, riveste un significato speciale che va oltre il rendiconto economico degli aiuti.
In quelle zone sono davvero pochi coloro i quali vanno a fare solidarietà, basti pensare al fatto che le enclavi sono raggiungibili solo sotto scorta dei militari appartenenti alla missione di stabilizzazione KFOR a guida NATO, e a proprio rischio e pericolo, ma proprio perciò assume un valore speciale nella costruzione di una cultura di solidarietà fra i popoli, distinguendosi per lo sforzo che richiede e per l’umanità che se ne riceve in cambio.
Il progetto ha quindi un duplice obiettivo, da un lato la solidarietà concreta per sostenere economicamente le famiglie più bisognose e fornire alla comunità quanto richiesto in maniera urgente, dall’altro lato l’informazione e la testimonianza su quanto è accaduto e ancora accade in quella terra martoriata.
SOS Yugoslavia, oggi costituita nella forma di organizzazione non lucrativa di utilità sociale (onlus), ha ricevuto il premio “Alta nobiltà umanitaria” 2012 di Novosti Serbia, per l’alto valore morale e materiale della solidarietà verso le popolazioni serbo-kosovare del Kosovo Metohja nell’arco degli ultimi dieci anni.
Per contribuire alle attività di SOS Yugoslavia è possibile fare un versamento sul conto corrente bancario presso Banca Intesa-San Paolo con IBAN IT56K0306909217100000160153 oppure sul conto corrente postale n. 78730587.
E’ anche possibile destinare il proprio 5 per mille in occasione dell’annuale dichiarazione dei redditi, inserendo nell’apposito spazio il codice fiscale 97587940012.
L’associazione, con sede a Torino in via Reggio 14, è contattabile al recapito telefonico 339/5982381 e all’indirizzo di posta elettronica sosyugoslavia@libero.it.
Federico Roberti
Un’aspirina al giorno
“L’11 marzo 2006, alle 10:00, a 65 anni, Miloševic veniva trovato morto nella sua cella situata a Scheveningen, all’Aja, Paesi Bassi, mentre il suo processo per presunti crimini di guerra era in pieno svolgimento, con la presentazione delle prove della difesa. Secondo i patologi olandesi, la causa della morte fu un arresto cardiaco. Oltre alla autopsia, un’analisi tossicologia venne richiesta. Secondo i funzionari dell’Aja, la salute di Miloševic aveva iniziato a peggiorare bruscamente e progressivamente quando era iniziato il processo, ed era sotto costante supervisione da parte di “personale medico altamente qualificato”.
L’autore, tuttavia, ha scoperto il fatto che solo un medico generico e un infermiere componevano l’intera squadra del centro di detenzione dell’Aja composto da ‘personale medico altamente qualificato’. De Ruiter rivela anche che la ‘terapia’ che Miloševic ricevette durante il primo anno di detenzione, consisteva in una singola aspirina al giorno, nonostante il fatto che fosse noto che soffrisse di problemi cardiaci e di pressione alta. L’avvocato di Miloševic, Zdenko Tomanovic, afferma che d’allora la salute del suo cliente venne sistematicamente erosa.
Quando il presidente Miloševic morì, lo specialista russo Dr. Leo Bokeria, del famoso Istituto Bakulev, rivelò ai media: “Negli ultimi tre anni abbiamo sempre insistito, senza successo, che Miloševic venisse ricoverato in un ospedale per essere correttamente diagnosticato. Se a Miloševic fosse stato consentito l’accesso a una qualsiasi clinica specialistica, avrebbe avuto un trattamento adeguato e avrebbe vissuto molti anni.”
All’inizio di maggio 2003, un gruppo di tredici medici tedeschi inviarono al tribunale un testo, esprimendo la loro preoccupazione per la salute di Miloševic e l’assenza di un trattamento adeguato. Ma tutti i suggerimenti dei medici specialisti vennero scartati e una terapia adeguata rimase indisponibile. Inoltre, non vi fu alcuna risposta a questa e ad altre proteste scritte dallo stesso gruppo di medici.
Dopo un anno di trattamento della miracolosa aspirina quotidiana come panacea per malattie cardiovascolari, un gruppo di medici messo su dai burocrati del tribunale emise la seguente diagnosi: danni secondari a vari organi e pressione estremamente alta che in determinate condizioni potrebbe portare a ictus, arresto cardiaco e coronarico o morte prematura. In contrasto con questi risultati, il procuratore generale dell’Aja Carla del Ponte, che sembrava saperne di più, affermò che secondo lei Miloševic “stava eccezionalmente bene”.
L’analisi medica nel 2005 aveva mostrato la presenza di sostanze chimiche “sconosciute” presenti nei sangue di Miloševic, che annullavano gli effetti dei farmaci per la pressione alta. A causa di questa scoperta, Miloševic chiese di essere curato da specialisti russi. Anche se il governo russo il 18 gennaio 2006 offrì la garanzia che Miloševic sarebbe stato messo a disposizione del tribunale, dopo le cure, la richiesta di Miloševic venne negata a febbraio. Poche settimane dopo era già troppo tardi: Miloševic subì l’annunciato e atteso infarto. Tra gli altri, De Ruiter cita la conclusione della rivista olandese Obiettivi: “Il fatto stesso che i giudici [Robinson, Kwon e Bonomy] si rifiutassero di dar seguito alla sua richiesta di cure, è sufficiente motivo per sporgere denuncia contro il Tribunale per omicidio premeditato.”
Ulteriori sospetti vennero sollevati dal fatto che le ripetute richieste della famiglia di Miloševic, di un’autopsia indipendente al di fuori dei Paesi Bassi, vennero negate e ignorate. Robin de Ruiter cita anche la dichiarazione di Hikeline Verine Stewart di Amnesty International, che ha sottolineato che la morte prematura di Miloševic era stata conseguenza diretta dei farmaci controindicati trovati nel suo sangue. “Siamo certi che siano la causa della morte. La morte per cause naturali è assolutamente fuori questione“, disse.”
Da Chi ha ucciso Slobodan Miloševic e perché, sul testo di Robin de Ruiter, pubblicista e storico olandese, di prossima pubblicazione in Serbia e disponibile anche in lingua tedesca in formato kindle.
Il Tribunale NATO dell’Aja contro Ratko Mladic
“Con la consegna di Mladic la “nuova“ Serbia supera due delle tre condizioni, che la cosiddetta comunità internazionale, leggasi potenze occidentali (USA, UE, FMI, Banca Mondiale etc…) ed il suo braccio armato, la NATO, avevano posto ai governi “democratici” e da loro finanziati, sostenuti e diretti. La prima di natura simbolica per umiliare storicamente il forte senso di identità e dignità nazionali, permeanti la storia e l’anima dei serbi: essa era legata alla Resistenza fatta dalla Jugoslavia (prima RFSJ e poi dalla RFJ) contro le aggressioni ed alla sua distruzione negli anni ’90, quindi consegna dei latitanti al TPI dell’Aja per l’ex Jugoslavia, l’ammissione di colpa per i cosiddetti “crimini di guerra“ effettuati nelle guerre fratricide di quegli anni e accettazione della colpa come “popolo”. La seconda era di natura più politica ed economica, le privatizzazioni selvagge, la svendita delle industrie, il liberismo selvaggio, lo smantellamento dello stato sociale, incentrare le politiche economiche verso l’entrata nella UE ed il mercato occidentale, abbandono dei mercati russi e cinesi come prospettiva, ecc. Ora si va verso la terza condizione, quella delle trasformazioni più strutturali: l’aspetto giuridico, quindi leggi europeizzate; riforma dei corpi militari, sia di polizia che dell’esercito, ridotto quasi di un terzo; cambiamento dello Stato di Diritto; ordinamenti interni sia politici che economici, standardizzati alla UE; abbandono delle rivendicazioni sul Kosovo e accettazione dello status quo, ecc..”
Dal Dossier Ratko Mladic, a cura di Enrico Vigna, che potete leggere qui.
MPRI Inc., il nonno di Blackwater
“Zivka Mijic non vuole pesare sulle persone con i suoi problemi – cosa che sarebbe comunque impraticabile, a meno che l’altra persona parli serbo – ma lei vuole che la storia tragica di quello che ha subito la sua famiglia sia detto in un tribunale federale di un sobborgo di Chicago. “Se avessi anche un cucchiaio da laggiù, mi piacerebbe appenderlo sul muro per ricordare”, ha detto Mijic, 46 anni. Suo figlio Branislav Mijic, 23 anni, traduce. Alternando tra le parole di sua madre e sue, Branislav spiega perché i Mijic non hanno ricordi della loro patria.
Il 4 agosto 1995, proiettili di artiglieria iniziarono a cadere su un villaggio in Krajina, dove i Mijic vivevano in quella che era stata la Jugoslavia prima che i conflitti etnici la facessero a pezzi. I Mijic legarono i loro cavalli Soko e Cestar a un carro e si unirono alla folla di profughi. Erano le 2 del mattino, il fuoco di artiglieria illuminava un vicino che viaggiava con loro. Fu decapitato da un proiettile in arrivo. “Se tu non ci sei stato, non puoi capire come ci sentissimo“, ha detto Zivika, che vive con il marito, Nedeljko, 46 anni, tre figli e una sorella in una casa modesta a Stickney, non diversa da quelli limitrofe, ad eccezione per i ricordi amari che ospita. In un certo senso, la saga dei Mijic è un denominatore comune delle esperienze degli immigrati: cacciati all’estero da guerre, povertà o oppressione, le famiglie si rifanno una vita in America. Ma c’è un imprevisto, anche se difficile da dimostrare, ad acuire la storia dei Mijic: la class-action recentemente presentato a Chicago, di cui Zivka è parte, sostiene che mercenari statunitensi erano dietro la loro sofferenza.
Come i loro avvocati hanno avuto modo di vedere, durante la guerra dei Balcani degli anni ‘90, gli USA iniziarono ad “esternalizzare” una parte del lavoro sporco della guerra e della diplomazia ai contractor privati. Sostengono che dietro l’attacco della mattina, che i croati soprannominarono “Operazione Tempesta“, vi era una società di consulenza della Virginia-settentrionale, chiamata MPRI Inc., costituita da ex alti ufficiali militari statunitensi, che includeva l’architetto capo dell’Operation Desert Storm di pochi anni prima, in Iraq.
Quello che i Mijic e altri serbi in Croazia hanno subito, i loro avvocati sostengono, è una di prova del tipo di strategia brutale orchestrata successivamente in Iraq, dalla ormai famigerata società Blackwater Worldwide, un altro imprenditore privato militare, le cui guardie di sicurezza sono state accusati dal Dipartimento di Giustizia, nel 2008, di aver ucciso almeno 17 civili iracheni durante uno scontro a fuoco nell’anno precedente. “MPRI è il nonno di Blackwater”, ha detto Robert Pavich, uno degli avvocati che rappresentano i Mijic e gli altri serbi. MPRI è stata acquisita nel 2002 da un altro imprenditore della difesa, L-3 Communications. Dipendenti della L-3 dicono che la causa è senza fondamento. “La causa è senza merito, e L-3 intende difendersi vigorosamente contro queste accuse. Oltre a ciò, la società non ha alcun commento aggiuntivo da fare in questo momento“, ha detto la portavoce di L-3, Jennifer Barton, in una dichiarazione via e-mail.”
L’articolo di Ron Grossman continua qui.
Kosovo dei giorni nostri
“Coscienti della sempre più ristretta area di interesse mediatico che ha oggi la situazione in quell’area balcanica, perseveriamo nel fornire informazioni e documentazioni.
Perché, molti si possono chiedere? Pensiamo che ci sono almeno quattro motivi concreti per continuare questo impegno:
1) E’ un area geograficamente a noi contigua come Paese, e ciò che vi accade o vi può accadere, non può non riguardare i Paesi intorno, perché qualsiasi evoluzione o involuzione della situazione lì, ha conseguenze dirette o indirette, in tutti gli aspetti: politici, economici, militari, sociali, nel nostro Paese e nella nostra società. E, come si può comprendere dalla lettura degli avvenimenti e della situazione, è un area potenzialmente esplosiva e foriera di nuove violenze e conflittualità, che possono destabilizzare politiche ed equilibri internazionali, in cui l’Italia e tutti noi, saremo obbligatoriamente coinvolti.
2) E’ un area di scontro geopolitico e geostrategico nel confronto tra logiche politiche imperialiste e potenze che non accettano la subordinazione a queste. In concreto, nel Kosovo vi è anche un confronto sottile ma frontale tra gli interessi strategici della potenza Russia e quelli di USA/NATO/Occidente… che non coincidono. Quali che saranno gli sviluppi l’Italia ne sarà parte, anche perché interni all’apparato militare NATO, con tutto ciò che ne conseguirà.
3) Perché lavorare per la verità, significa lavorare per la giustizia, e senza verità non vi può essere giustizia. E senza giustizia non vi può essere pace per i popoli. Quindi un lavoro per la pace e l’amicizia tra i popoli, è una prospettiva concreta di impegno per un mondo e un futuro migliore per i nostri figli.
4) Per un lavoro di Memoria Storica, perché non bisogna mai dimenticare che l’Italia è direttamente responsabile per la situazione e le sofferenze della gente di quell’area, in quanto Paese aggressore nel 1999, e con le sue 1381 missioni militari di bombardamenti, ha contribuito alla devastazione e immiserimento di quelle genti. E in questo Paese chiamato Italia, è una forma culturale e storica, NON fare i conti con la propria storia e le proprie responsabilità storiche, come è stato sempre uso nella storia, per ogni popolo e Paese.”
Editoriale di Kosovo Notizie – n.3 – Autunno 2010, a cura del Forum Belgrado – Italia.
La guerra di Bosnia sotto falsa bandiera
Si infittiscono ormai da qualche tempo gli interventi di quanti sono lieti di avallare le tesi “ufficiali”, per cui la guerra di Bosnia fu la follia di “psicopatici nazionalisti” (Radovan Karadzic, il poeta pazzo in primis, e si sa che tra poeti ed acquarellisti la differenza è poca …), oggi finalmente a giudizio grazie alla caparbietà di pochi magistrati coraggiosi (vedi Carla Del Ponte, che ha pure scoperto gli orrori della “casa gialla” in Kosovo, “Oh my God!”).
(…)
Tra questi articoli rievocativi, spicca quello del 1 luglio 2010 di Azra Nuhefendic, “Al mercato di Markale” (strage del 28 agosto 1995), in cui si cerca di smentire quanto attestato dai fatti (ma che le cronache, anche successive, si guardarono bene dal riportare), e cioè che le due terribili stragi al mercato di Sarajevo (decisive per orientare l’opinione pubblica internazionale e, di conseguenza, per giustificare i bombardamenti della NATO contro i serbi che stavano vincendo la guerra) non furono opera dei serbo-bosniaci.
L’articolo cita il colonnello russo, Andrei Demurenko, esperto in balistica e capo del personale Unprofor a Sarajevo, estensore di un rapporto che provava l’ impossibilità di colpire Markale con i mortai dalle posizioni serbe (guarda caso la CNN sapeva dell’evento e si trovava lì prima del massacro, ma non era stata “avvisata” dai serbi).
Esistono anche degli schizzi tecnici che questo colonnello russo aveva fatto e che vennero inquadrati, al momento della ricostruzione degli avvenimenti, dalla televisione serba.
Dopo pochi giorni Demurenko fu però rimandato a casa e la relazione venne nascosta (se la tenne per due settimane Kofi Annan nel suo cassetto privato) il tempo sufficiente per accusare falsamente i serbi e decidere quali ulteriori provvedimenti adottare contro di loro.
Il colonnello russo non può certo negare un documento da lui stesso prodotto e non dubito l’abbia mai fatto, come sostiene Nuhefendic, perché si trattava di un professionista che non accettava di raccontare bugie, al contrario di molti ufficiali della NATO, spesso sbugiardati.
Lo stesso analista militare britannico, Paul Bever, che pure raccontò di 4 ordigni di mortaio da 120 millimetri lanciati dai serbi e che caddero vicino alla zona del mercato senza provocare vittime, ammise l’1 ottobre 1995 che la deflagrazione fu cinicamente provocata dai musulmani per influenzare i negoziati di pace.
Probabilmente c’erano cinque pacchi di esplosivo sotto le bancarelle, attivati a distanza, mentre la CNN registrava in diretta.
Il “Sunday Times” parlò allora di una quinta granata da mortaio devastante (e non proveniente dalle postazioni serbe), che però difficilmente avrebbe potuto provocare una strage di tali proporzioni.
Invece tutto il mercato fu colpito da più esplosioni che provenivano da vari punti sotto le bancarelle, al punto che lo stesso Bever scrisse che si doveva dubitare anche della precedente strage di Markale (67 morti il 5 febbraio 1994), come testimoniato peraltro dal delegato speciale per la Bosnia delle Nazioni Unite, Jasushi Akashi, poi costretto alle dimissioni.
(…)
Da Le verità sulla Bosnia che non si possono raccontare: “Al mercato di Markale”, di Stefano Vernole.
[grassetto nostro]
Marchionne in Serbia
A chiarirci le idee è arrivato tempestivamente Sergio Marchionne, che ha annunciato l’intenzione della FIAT di spostare la propria produzione in Serbia, dove la “tassazione sarebbe minore”.
Non a caso, uno dei rari autori a scrivere con cognizione di causa sulla vicenda kosovara, diversi anni fa notò come: “L’obiettivo mancato di allontanare Milosevic dal potere, non fa che ritardare un programma occidentale che vede nella Serbia un formidabile fornitore di manodopera, oltretutto una manodopera molto qualificata e a buon mercato. Secondo studi recenti, la manodopera serba, con un salario doppio di quello che percepisce attualmente, costerebbe dieci volte meno di quella immigrata in Europa. Inoltre la sua vicinanza con i mercati europei ridurrebbe enormemente le spese di trasporto. In questo modo per il mercato mondiale del lavoro la Serbia diventerebbe molto più appetibile dell’Estremo Oriente” (Sandro Provvisionato, UCK: l’armata dell’ombra, Gamberetti, Roma, 1999).
Come giustamente rilevato nell’ultimo importante discorso tenuto dallo stesso Milosevic, le potenze occidentali fecero guerra al presidente jugoslavo come pretesto per colpire la Serbia e trasformarla in un paese del Terzo Mondo: oggi questo concetto dovrebbe essere chiaro anche a quei lavoratori italiani che nei prossimi mesi verranno lasciati a casa, grazie alle “munifiche” opportunità offerte dalla delocalizzazione produttiva degli stabilimenti FIAT.
Come in un gioco ad incastro, la questione serba e quella del Kosovo e Metohija, in particolare, rappresentano un esempio significativo della strategia globalizzatrice a guida statunitense, che vorrebbe uniformare tutti i popoli del pianeta ai dettami del nuovo ordine mondiale-multinazionale, perché ne riassume le principali motivazioni di carattere economico (dominio del libero mercato), geopolitico (occidentalizzazione del mondo) e militare (influenza atlantista).
Vedremo nei prossimi mesi se le potenze eurasiatiche saranno in grado di bloccare questa offensiva e quali saranno le loro mosse, aldilà delle inevitabili dichiarazioni di condanna per il pronunciamento della Corte giunte in queste ore.
Da La Serbia perde il Kosovo ma guadagna la FIAT, di Stefano Vernole.
Kill Bill
Arte figurativa del Kosovo
Una statua di Bill Clinton, ex presidente degli Stati Uniti dell’America, è stata inaugurata da lui stesso a Pristina nella provincia serba del Kosovo e Metochia occupata dalla NATO.
Inaugurare un monumento ad una persona viva sa di macabro ma Clinton si è prestato al gioco ed ha inaugurato un monumento a se stesso. La statua tipica del social-realismo dei tempi di marxismo-leninismo di Enver Hoxa rappresenta l’ex presidente americano che saluta gli schipetari con una mano (a dir il vero ricorda un po’ il Duce) tenendo nell’altra il documento con il quale, durante i bombardamenti della Serbia da parte della NATO, aveva autorizzato, il 24 maggio 1999, l’entrata delle forze d’occupazione statunitensi nella provincia serba.
Fu tanto commosso il nostro eroe da cogliere l’occasione per dire queste sagge parole alla folla albanese nella piazza Bill Clinton di Pristina (ci sono ancora una via e un viale con il suo nome mentre la via principale porta il nome di George Bush): “Stamattina mentre parlavo con mia moglie che si trova nel Vicino Oriente e che vi saluta, lei mi disse di farmi fare una foto e di inviargliela perché possa vedere con i propri occhi che la mia statua esiste veramente”.
Poi le sue parole storiche con le quali consigliò gli albanesi e i serbi di dimenticare il passato suonarono ciniche nelle orecchie dei serbi ai quali questo nuovo eroe albanese aveva strappato con forza il 15% del territorio storico, una Firenze serba, e molto ricco di minerali rari e di energie.
Clinton ha finito il suo discorso dicendo: “Se c’è ancora qualche cosa che posso fare per voi albanesi, serbi ed altri, contate su di me…!”. Per quanto riguarda i serbi sanno quello che Clinton aveva già fatto per loro e gliene ringraziano tanto, ma non accetteranno altri doni di Bill, avendone avuti già troppi: 51.000 proiettili all’uranio impoverito, migliaia di missili cruiser, centinaia di migliaia di bombe a grappoli… tutti i frutti vietati dalle convenzioni internazionali per il loro effetto antiumano, una continua politica americana di pressioni e di ricatti contro i serbi che ebbe inizio ancora nel lontano 1991 e che non cessa ancora…
Gli albanesi hanno ora i due monumenti dedicati ai loro eroi nazionali più grandi della loro storia: quello di Tirana dedicato a Skanderbeg, cioè a Djuradj Kastriotic, un serbo, e questo a Pristina innalzato ad un americano.
Ci auguriamo che almeno un loro terzo eroe nazionale al quale faranno un monumento possa essere finalmente un albanese.
Pristina. Bill Clinton e il culto della personalità, di Dragan Mraovic.
Srebrenica balla atlantica
Dopo molti anni che investigo gli eventi bellici a ed attorno a Srebrenica, ho raggiunto la conclusione definitiva che non vi fu nessun genocidio. Nel luglio del 1995, mentre la città veniva conquistata dalle forze serbe, persero la vita circa 2.000 musulmani — non 8.000 come pretende la macchina della propaganda musulmano bosniaca, con il sostegno di certi politici e media occidentali. Quei 2.000 caddero in battaglia contro l’esercito serbo, mentre stava sfondando verso Tuzla. Il “genocidio di Srebrenica” è un’invenzione di Izetbegovic e Clinton, – ha dichiarato Dorin.
Su che cosa basate le vostre asserzioni che il “massacro” di Srebrenica è stato inventato da Izetbegovic e Clinton?
Si dovrebbe tenere in mente che persino i media americani scrissero abbastanza sul fatto che gli Stati Uniti stavano armando da anni le forze di Izetbegovic. L’amministrazione Clinton era molto ostile verso i serbi — i generali di Clinton erano persino coinvolti nell’operazione croata “Tempesta”, l’espulsione e l’eliminazione della nazione serba dalla Repubblica della Krajina serba e da parti occidentali della Bosnia-Herzegovina.
Allo stesso tempo, uno dei signori della guerra di Srebrenica — Hakija Meholjic — continua ad asserire che dal 1993 Clinton offriva ad Izetbegovic un massacro fabbricato contro i musulmani di Srebrenica, come una manovra che avrebbe posto fine alla guerra civile in Bosnia-Herzegovina [a vantaggio dei musulmani bosniaci].
Cosa ci dice questo?
Ci dice che hanno avuto due anni per avviare quella manovra, il tempo durante il quale Izetbegovic e Clinton venivano mitizzati ed elevati alla posizione di eroi attraverso i più influenti media occidentali.
Questo libro offre prove aggiuntive?
Il libro presenta inoltre le prove che dimostrano che 2.000 musulmani che hanno perso la vita a Srebrenica sono caduti in battaglia. Per essere in grado di pretendere che fu commesso il “genocidio” e dal momento che non avevano i corpi sufficienti per sostenere la pretesa iniziale di presumibilmente 8.000 musulmani uccisi, hanno elencato come vittime di Srebrenica numerosi combattenti musulmano bosniaci che sono morti molto prima della conquista di Srebrenica o che vennero uccisi in altre battaglie durante la guerra civile, dal 1992 al 1995. La lista delle presunte vittime di Srebrenica contiene anche i nomi di quelli che sono ancora vivi.
Intendete quelli che più tardi votavano alle elezioni…?
Esatto. Nelle elezioni bosniache del 1996, le liste elettorali contenevano circa 3.000 musulmani bosniaci che erano anche elencati come “vittime di Srebrenica”. Ciò sottolinea ulteriormente il fatto che il cosiddetto Tribunale dell’Aja non ha ancora nessuna prova del “genocidio di Srebrenica”. Invece, conta sulle affermazioni del croato Dražen Erdemovic, provate essere assolute menzogne, come ha dimostrato nel suo ultimo libro il giornalista bulgaro Germinal Civikov.
Il Tribunale dell’Aja non ritiene così…?
L’ex portavoce della NATO Jamie Shea nel 1999 ha enfatizzato che, senza la NATO, tanto per cominciare, non vi sarebbe nessun Tribunale dell’Aja. Ha asserito che la NATO ed il Tribunale dell’Aja sono “alleati ed amici”. Tra gli altri, l’esempio che conferma la sua affermazione è il caso del [Colonnello] Vidoje Blagojevic, condannato ad un lungo periodo di prigione a causa dei fatti di Srebrenica anche se è assolutamente innocente e non ha fatto del male a nessuno. Così, la NATO punisce i suoi avversari attraverso il Tribunale dell’Aja mentre, allo stesso tempo, protegge i suoi alleati.
(…)
Da Il “massacro di Srebrenica” inventato da Bill Clinton e Alija Izetbegovic.
[In attesa di un’eventuale edizione italiana del testo di Alexander Dorin, si può utilmente leggere Il dossier nascosto del “genocidio” di Srebrenica, pubblicato nel 2007 dall’editore La Città del Sole, e consultare il sito srebrenica-report.]
Bulgaria e Romania avamposti strategici sul Mar Nero
Bulgaria e Romania fecero il loro formale ingresso nella NATO nel 2004, in occasione del vertice di Istanbul, e da allora sono diventati gli ultimi – forse in entrambi i sensi della parola: i più recenti ed i finali – membri dell’Unione Europea.
Precedentemente, entrambi i Paesi avevano negato alla Russia l’uso del loro spazio aereo per trasportare rifornimenti alle truppe russe dislocate in Kosovo nel 1999.
Qualche anno dopo, nel 2002, la Romania aveva permesso agli Stati Uniti di usare la propria base aerea di Mikhail Kogalniceanu per i preparativi all’invasione dell’Iraq del successivo marzo 2003.
Nel dicembre 2005, il Segretario di Stato USA Condoleezza Rice si recò a Bucarest per firmare un accordo che prevedeva l’utilizzo – o meglio: la presa di possesso – di quattro basi militari: quella prima menzionata di Mikhail Kogalniceanu ed i campi di tiro ed addestramento a Babadag, Cincu e Smardan. La spiegazione all’epoca fu che gli Stati Uniti avrebbero usato le quattro basi per l’addestramento, comprese esercitazioni congiunte e multilaterali, ed il transito di rifornimenti verso l’Afghanistan e l’Irak. Ed il territorio romeno ha servito questi scopi fin da allora.
Nell’aprile dell’anno seguente, 2006, gli Stati Uniti firmarono un accordo analogo con la vicina Bulgaria per l’utilizzo di tre delle sue più grandi basi militari, quella aerea di Bezmer, il campo d’addestramento di Novo Selo ed il campo di volo di Graf Ignatievo.
Entrambe gli accordi prevedono una durata iniziale di dieci anni. Agli USA viene consentito di stazionare truppe in quantità variabile tra le 5.000 e 10.000.
Questi sette siti sono le prime basi militari americane nel territorio di quello che era il Patto di Varsavia.
La base aerea bulgara di Bezmer è una grossa infrastruttura simile nello scopo a quella romena di Mikhail Kogalniceanu. Secondo un quotidiano locale che ne scriveva due anni fà, essa acquisterà lo status di insediamento militare strategico come le basi di Incirlik in Turchia ed Aviano in Italia, divenendo una delle sei nuove basi aeree con tale connotazione fuori dai confini degli Stati Uniti.
Strategica perché, sotto il comando della Joint Task Force East insediata a Mikhail Kogalniceanu, a partire da essa potrebbero essere dispiegate truppe in zone di guerra nel Vicino Oriente e nell’Asia centrale e sudoccidentale.
Gli accordi stretti dagli USA con Bulgaria e Romania – come di consueto in questi casi – sono suscettibili di essere estesi alla NATO in quanto i tre firmatari sono tutti membri dell’Alleanza Atlantica. Secondo un articolo del Sofia Echo del gennaio 2008, la NATO avrebbe ottenuto la disponibilità della vecchia base di una brigata corazzata bulgara presso la città di Aitos per trasformarla in un deposito logistico.
A Graf Ignatievo, base aerea vicino la città di Plodviv, invece saranno trasferiti alcuni velivoli di stanza ad Aviano, sosteneva un’altra fonte bulgara nell’ottobre 2007. Trasferimento temporaneo, precisava, ma con la possibilità di diventare definitivo.
La severità e l’urgenza della minaccia percepita dalla Russia era tale che il generale Vladimir Shamanov, consigliere del Ministero russo della Difesa, ebbe a dichiarare: “Punteremo i nostri missili sulle infrastrutture militari USA in Bulgaria e Romania”. Apprensioni che certo non potevano essere fugate dalle affermazioni dell’allora Ministro degli Esteri bulgaro Solomon Passy il quale auspicava che il dispiegamento di forze terrestri, aeree e navali americane fosse seguito dall’installazione di missili.
Ad un anno di distanza dalla firma dell’accordo Stati Uniti-Bulgaria, un commento di stampa sottolineava come le nuove basi nell’Europa orientale facessero parte di un ambizioso piano per spostare le brigate combattenti facenti capo all’Comando Europeo delle Forze Armate USA (EUCOM) dall’Europa occidentale – prevalentemente la Germania – ad insediamenti avanzati prossimi al Caucaso, al Vicino Oriente ed all’Africa. Quando questo processo di riposizionamento fosse completato, due terzi delle forze di manovra dell’EUCOM saranno insediate nell’Europa meridionale ed in quella orientale.
Riferendosi specificatamente alle basi in Romania, nel luglio 2007 lo Stars and Stripes – organo ufficiale dell’esercito statunitense – riferiva la possibilità che truppe di altri Paesi vi svolgessero periodi di addestramento e che le forze USA lì situate potessero trasferirsi in brevi missioni di addestramento in Paesi confinanti quali Georgia ed Ucraina. Nel successivo mese di agosto vennero svolte delle esercitazioni per inaugurare con più enfasi possibile i nuovi insediamenti.
Per quanto riguarda le basi in Bulgaria, notizie di stampa dell’estate 2008 riferivano dei nuovi alloggiamenti costruiti presso Novo Selo per 500 rangers statunitensi e le loro famiglie, che vi saranno insediati in modo permanente, con una spesa prevista di 62 milioni di dollari nei successivi due anni. Altri 2.500 soldati si alterneranno nelle altre basi secondo un principio di rotazione.
L’espansione militare USA/NATO nella regione del Mar Nero si protende secondo quattro direttive. A spiegarlo in maniera concisa ma esauriente è stato Vakhtang Maisaia, presidente dell’Associazione per la Politica Estera della Georgia, sul Georgian Times del 2 aprile 2008:
“Il Mar Nero è una vitale area geostrategica per l’Alleanza Atlantica in combinazione con la missione ISAF in Afghanistan, le operazioni di carattere logistico in Darfur, la missione di addestramento NATO in Irak e le operazioni per il mantenimento della pace in Kosovo…”.
Il Montenegro diventa una base
A seguito di una consultazione referendaria, il Montenegro ha dichiarato la propria indipendenza il 21 maggio 2006. Con un territorio di 14.000 kmq (meno della Puglia) e 650.000 abitanti, è stato il 192° ed ultimo Stato ad entrare nell’ONU.
A distanza di soli sette mesi, aveva già aderito al Partenariato per la Pace della NATO. I montenegrini però non sono mai stati interpellati sulla questione, ed alcuni sondaggi suggeriscono che un 70% di loro voterebbe contro l’ingresso nell’Alleanza Atlantica se avesse l’opportunità di farlo. La principale ragione di questa ostilità sta nell’aggressione della NATO alla ex Jugoslavia del 1999.
Nel giugno dell’anno scorso, la NATO ha svolto un proprio seminario a Podgorica, capitale del Paese. Dopo solo due settimane, è stato lanciato un cosiddetto “Dialogo Intensificato” tra la NATO ed il Montenegro. A novembre 2008, il Presidente Milo Djukanovic – dopo esser stato rassicurato che “la NATO non è stanca di allargarsi” (testuali parole dell’ex segretario generale Jaap de Hoop Scheffer) – ha presentato formale domanda di ingresso nell’alleanza, tradottasi in un Piano d’Azione Individuale per l’Adesione.
Il mese successivo, il Montenegro e la Bosnia sono stati accolti nella “Catena Adriatica” (Adriatic Charter), il meccanismo di cooperazione intrapreso sotto l’egida statunitense nel 2003 per coordinare gli sforzi di Albania, Croazia e Macedonia durante il loro cammino di avvicinamento alla NATO (conclusosi solo per i primi due Paesi).
Il 17 dicembre scorso, l’ambasciatore negli Stati Uniti Miodrag Vlahovic ha firmato un SOFA che stabilisce termini e condizioni per lo stazionamento di forze militari di tutti i Paesi membri NATO in Montenegro.
Ad inizio febbraio 2009, Frank Boland, direttore della Pianificazione per la Politica di Difesa della NATO, ha dichiarato ad un quotidiano balcanico che il Montenegro potrebbe diventare un membro dell’alleanza nel 2012, una volta che il Paese si sia adeguato agli standard NATO per quanto riguarda l’addestramento delle truppe.
Lo scorso 28 luglio, il Montenegro ha annunciato di stare assegnando un contingente iniziale di 40 soldati alla missione ISAF in Afghanistan.
Katastrofa – Catastrofe
L’Associazione Culturale “Strade d’Europa” di Trieste svolge da tempo iniziative finalizzate a far conoscere i drammi che ha vissuto negli ultimi 10 anni il popolo serbo e in particolare chi risiede nel Kosovo Metohija. L’anno scorso assieme alla Comunità Religiosa Serbo-Ortodossa di Trieste ha svolto un convegno in cui si è evidenziata l’illegittimità della dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Provincia del Kosovo ed in seguito è stata elaborata dai relatori ed inviata al Ministero degli Affari Esteri italiano una lettera, corredata da molteplici firme a supporto, al fine di chiedere al Ministro Frattini da poco entrato in carica un’inversione di rotta rispetto al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo attuato dal suo predecessore appunto.
Ricorrendo quest’anno il decennale dei bombardamenti della NATO che colpirono la Serbia e perdurando la pretesa secessionista da parte della componente albanese della Provincia del Kosovo Metohija, l’associazione ha deciso di promuovere ancora assieme alla comunità serbo-orotodossa triestina un’altra giornata di studio, nell’ambito della quale analizzare cause, sviluppi e conseguenze dell’aggressione patita dalla Serbia 10 anni or sono.
Sabato 9 maggio avrà quindi luogo a Trieste, presso la Sala Risto Skuljevic della Comunità Religiosa Serbo-Ortodossa in via Genova 12, il convegno “Katastrofa – Catastrofe: Serbia e Kosovo a 10 anni dai bombardamenti della NATO”: l’evento è organizzato in collaborazione con la Comunità Religiosa Serbo-Ortodossa di Trieste, con il contributo dell’Ente Regionale per il Diritto allo Studio Universitario di Trieste, con il patrocinio del Coordinamento Progetto Eurasia e rientra nei Seminari 2009 di Eurasia, rivista di studi geopolitici.
Il convegno si articolerà in due sessioni: alle ore 11:00, assieme al al prof. Stefano Pilotto (docente di Storia dei Trattati e delle Relazioni Internazionali presso l’ateneo cittadino) ed a Lorenzo Salimbeni (collaboratore di Eurasia), interverrà il vescovo serbo-ortodosso del Kosovo Metohija Artemije per analizzare con l’aiuto della sua preziosa testimonianza l’attuale situazione nella provincia, il ruolo della missione EULEX e le decisioni che potrà prendere il Tribunale Internazionale de L’Aja, interpellato da Belgrado in merito alla legittimità del separatismo kosovaro.
Alle ore 18:00, verrà proiettato il documentario “Kosovo & Metohija Katastrofa” ed interverranno gli autori di alcune recenti pubblicazioni: Stefano Vernole con “La questione serba e la crisi del Kosovo” analizza le implicazioni geopolitiche dell’indipendenza unilateralmente proclamata da Prishtina; Maria Lina Veca, la quale è anche curatrice del suddetto documentario, in “Kosovo e Metohija, il ritorno impossibile” racconta il dramma che vivono quotidianamente le enclavi serbe ancora presenti; Michele Antonelli in “Canto d’amore per la Jugoslavia” svela gli interessi internazionali che hanno portato alla disintegrazione della Jugoslavia.
Il volantino dell’iniziativa è qui.
Il 5 per mille a SOS Jugo – Kosovo
In conformità al contratto firmato a settembre del 2008, la Fiat Group ha costituito con lo Stato serbo l’impresa FIAT Automobili Serbia con capitale sociale di 100.000 euro, e piu precisamente nel rapporto 67% – 33% a favore della FIAT.
Secondo il contratto, la FIAT si era impegnata a versare i primi 200.000.000 di euro entro il 31 marzo 2009 (finora non sono stati versati).
Con tale versamento noi potremmo investire nella ricostruzione della fabbrica e per l’introduzione del modello nuovo che sarebbe prodotto in serie, per 200.000 unità all’anno.
In compenso, il nostro Stato ha rinunciato (senza rimborso) alla licenza per la Punto (pagata da noi 3.000.000 di euro) e all’apparecchiatura completamente nuova per la produzione di questo modello (pagata da noi 14.000.000 di euro).
Siccome il contratto si è trovato a rischio, 2 mesi fa è stato fatto un contratto nuovo che si riferisce al solo montaggio del modello vecchio della vettura Punto.
Ora, grazie al nostro governo abbiamo ottenuto che la FIAT lavora sulla nostra attrezzatura, con la propria licenza e i nostri lavoratori senza 1 euro di investimento. E per completare la commedia, la FIAT si comporta già come Grande Padrone e ci comanda di portare via dalla fabbrica tutte le nostre attrezzature, il che noi come sindacato assieme ai lavoratori abbiamo bloccato.
Facciamo presente che solo per la Verniciatura rasa al suolo nei bombardamenti del 1999 bisogna investire 200.000.000 di euro.
Ora tutte le operazioni vengono fatte a mano eccetto il padiglione verniciatura semiautomatica.
La situazione in fabbrica è in uno stato di allarme con possibili disordini perché i lavoratori stanno perdendo la pazienza.
Questo è l’ultimo comunicato del Sindacato Samostalni – Fabbrica Zastava di Kragujevac, con cui l’Associazione SOS Jugoslavia – Kosovo Metohija di Torino da dieci anni gestisce un progetto di adozioni con i figli dei lavoratori Zastava disoccupati.
Come si può leggere, dopo averli bombardati e immiseriti, continua la vergognosa umiliazione dei lavoratori serbi, da parte stavolta della FIAT.
Dopo gli aerei con le bombe, puntuali arrivano avvoltoi e sciacalli della finanza internazionale, per ottenere la rapina preparata con le aggressioni militari.
Per destinare il 5 per mille all’Associazione SOS Jugoslavia – Kosovo Metohija in occasione della dichiarazione dei redditi il codice fiscale è 97587940012.
Albania e Croazia sono pronte
Washington, 1 aprile – La Croazia è ”determinata a prender parte” alle responsabilità per il mantenimento della stabilità e della sicurezza in Afghanistan. Lo ha dichiarato l’ambasciatore croato a Washington, Kolinda Grabar-Kitarovic, nel corso di una cerimonia.
Oggi l’Albania e la Croazia sono diventate ufficialmente membri della NATO, dopo che i loro ambasciatori hanno presentato al governo americano i documenti per l’ingresso nell’Alleanza Atlantica. ”Siamo determinati a prender parte e a condividere le responsabilità per la pace globale e la stabilità in alcuni luoghi come l’Afghanistan e in altre parti del mondo”, ha detto.
(ASCA-AFP)
Al castello di Rambouillet
“L’estremo tentativo per evitare l’intervento militare che già la NATO stava minacciando si svolse al castello di Rambouillet, vicino a Parigi, dove il 6 febbraio 1999 si aprirono i “colloqui di pace ” che culminarono al contrario nella guerra del successivo 24 marzo.
Nella bozza di accordo presentata dal Gruppo di contatto, formato da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Russia, non si accennò mai ad una possibile indipendenza del Kosovo ma solo ad un’autonomia che si sarebbe incarnata in un parlamento, un presidente, una costituzione e una corte costituzionale.
Il documento prevedeva ampi poteri ai verificatori dell’OSCE, che sarebbero dovuti rimanere nella Provincia per un periodo di tre anni, il ritiro non totale delle forze di polizia e di sicurezza serbe, l’impossibilità per il Kosovo di avere un proprio esercito, una propria moneta e una propria politica estera (prerogative che sarebbero rimaste nelle mani del governo di Belgrado).
La bozza del Gruppo di contatto lasciò invece irrisolto lo status della Provincia allo scadere dei tre anni di “verifica” ; gli albanesi avrebbero voluto un referendum per l’autodeterminazione del Kosovo, i serbi insistettero che un’eventuale consultazione avrebbe dovuto riguardare anche i restanti abitanti della Federazione Jugoslava.
L’UCK, che inizialmente rifiutò il contenuto dell’accordo, dietro chiare pressioni statunitensi decise di accettarne una formula così limitata e la sua delegazione a Rambouillet assunse un’importanza ben superiore a quella dello stesso “moderato” Rugova.
Durante i 17 giorni dei colloqui svoltisi all’interno del castello, la rappresentanza serba non s’incontrò mai con quella albanese; la conferenza venne preparata a Londra in una riunione del 29 gennaio del Gruppo di contatto e da una successiva consultazione del 30 gennaio a Bruxelles, durante la quale il Consiglio Atlantico conferì al segretario generale della NATO, Javier Solana, l’autorizzazione ad interventi aerei contro la Serbia nel caso quest’ultima si fosse rifiutata di firmare l’accordo. Continua a leggere
Bosnia radioattiva
I servizi segreti bosniaci sembra abbiano scoperto anni fà un traffico di scorie e materiali radioattivi organizzato dalla stessa missione di pace NATO in Bosnia-Erzegovina, attraverso la quale la Francia “esportava” grandi quantità di rifiuti radioattivi, che venivano poi gettati nei laghi della Erzegovina.
Il quotidiano [croato Vecernji List – ndr] spiega che “il segreto di Stato dei rifiuti radioattivi” comincia con la firma degli Accordi di Dayton, quando la Erzegovina diventa un settore della divisione multinazionale sud-est, sotto il comando dell’esercito francese. È qui che la Francia ha la brillante idea di trovare una comoda soluzione al suo annoso problema dello smaltimento dei rifiuti radioattivi prodotti dalla sua industria nucleare, che spesso si presta ad essere oggetto di “tratte” illecite verso i Paesi del Sud-Est Europeo.
Così dal momento dell’arrivo della IFOR in Bosnia Erzegovina, e negli anni successivi, viene attivata nella regione della Erzegovina l’unità speciale dell’esercito francese per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, composto solo da agenti di origine Maori provenienti dalla Polinesia francese e dalla Nuova Zelanda. Occultando i trasferimenti di materiali nelle missioni di pace IFOR e SFOR, gli agenti francesi facevano sbarcare le navi contenenti rifiuti radioattivi nel porto montenegrino di Bar, per poi trasportare il carico scortato con un sproporzionato contingente francese sino a Stoca, dove i container con i rifiuti venivano riempiti con colate di cemento.
Secondo alcune testimonianze dei servizi di intelligence bosniaca, i blocchi cementati venivano gettati con degli elicotteri in tre laghi della Erzegovina, ossia Busko, Ramsko e Jablanicko. Le forze francesi, in questo modo, hanno occultato nella Bosnia centinaia di blocchi, come testimoniato dalla popolazione del luogo che assisteva nel cuore della notte a continui voli a bassa quota di elicotteri che sganciavano poi il materiale. Anche i pescatori conoscevano bene che i tre laghi erano diventati una vera e propria discarica, ed era meglio non andare a pescare in quelle acque inquinate.Le zone di stoccaggio venivano ampiamente selezionate, depositando i blocchi in fondali di grande profondità con adeguate attrezzature.
Da Rifiuti radioattivi nei laghi della Erzegovina?, di Fulvia Novellino.
La Kosovo Security Force e la NATO
Pristina, 21 gennaio – A meno di un anno dalla proclamazione di indipendenza dalla Serbia, il Kosovo ha dato vita alle proprie forze di sicurezza, provocando una dura reazione di protesta da parte di Belgrado. La Kosovo Security Force sarà costituita da una forza permanente formata da 2.500 unità provviste di armamento leggero ed 800 riservisti ed è destinata a sostituire i Kosovo Protection Corps istituiti nel settembre 1999 dall’amministrazione ONU come forza di protezione civile.
(Adnkronos/Dpa)
Pristina, 23 gennaio – Secondo il suo comandante, Sulejman Selimi, la nuova Forza di sicurezza del Kosovo (KSF) mira a diventare parte della NATO ed è aperta a tutti i cittadini del Kosovo. In dichiarazioni riportate dal quotidiano kosovaro in lingua albanese ‘Epoka e Re’, Selimi ha sottolineato che sin dall’ inizio il processo di formazione della KSF è avvenuto in cooperazione con la NATO, che ha mostrato interesse in questa Forza. Il comandante – un ex leader dell’UCK, l’Esercito di liberazione del Kosovo che combattè contro i serbi alla fine degli anni Novanta – ha detto che i serbi del Kosovo sono i benvenuti nella nuova Forza di sicurezza. Selimi non ha voluto tuttavia commentare la posizione della Serbia, che è decisamente contraria alla KSF e mira al suo scioglimento, limitandosi a osservare che la Serbia sembra volersi opporre a tutto quello che è positivo in Kosovo. La KSF, insediatasi mercoledì scorso, è composta da 2.500 uomini e 800 riservisti, è dotata di armi leggere e viene addestrata dalle forze NATO.
(Ansa)
Alfabeto kosovaro
“Quando una potenza straniera fa un’occupazione, e pochi mesi dopo installa in quella terra la sua più grande base militare, che cosa vuol dire questo? Perché mi chiedi a chi è servita l’indipendenza del Kosovo?”. Ha il carisma di una storia misteriosa alle spalle, le certezze incrollabili della fede e nessun pelo sulla lingua Dobrila Bozovic, ex docente di storia dell’arte a Parigi e oggi portavoce laica del Patriarcato di Pec, culla della cultura serbo ortodossa nel cuore del Kosovo, protetto giorno e notte dai soldati del contingente italiano Kfor. Dobrila decifra per noi gli affreschi bizantini raccontando la storia del Patriarcato, ci autorizza a scattare foto incurante delle proteste delle monache, liquida con freddezza due soldati sloveni arrivati per una visita guidata. “Siete in ritardo e piove. Se arrivavate all’ora giusta, non c’era pioggia e non c’erano sloveni”, ci bacchetta ironica all’inizio della visita. Poi ci trattiene per quasi due ore davanti a caffè e dolcetti turchi, ricorda la casa della sua infanzia accanto a una moschea, la colonna sonora del canto del muezzin. “Se islam e cristianesimo non possono vivere insieme nei Balcani, allora non può esserci pace in nessun luogo. Noi siamo stati manipolati, tutti e due i popoli, sia i serbi che gli albanesi”, dice. Manipolati da chi aveva interesse a sbriciolare il multiculturalismo jugoslavo in uno spezzatino di stati cuscinetto etnici, senza risorse e senza storia. “Vogliono che la Serbia accetti l’indipendenza del Kosovo per entrare in Europa”, dice, “ma il Kosovo è la culla della nostra cultura e religione, o entriamo in Europa con Cristo o rinneghiamo la nostra anima. Dovete capire che l’economia e la demografia non sono tutto. Il 90% di popolazione albanese, per i serbi non è che un numero”. Due milioni di abitanti, un territorio grande come l’Abruzzo, separato dalla nostra penisola solo da un pezzo di Montenegro e un braccio di mar Adriatico, coperto di montagne e punteggiato di preziosissimi monasteri ortodossi, in parte danneggiati durante gli atti vandalici antiserbi del 2004. In Kosovo, anche i monasteri parlano delle tante culture dei Balcani. Il Monastero di Decani, a pochi chilometri da Pec, è una visione: militari all’ingresso, un pesante portone di legno. E oltre il muro, su un prato verde, un perfetto edificio romanico, candido come la cattedrale di Trani, scolpito dagli stessi artigiani negli stessi anni. All’interno del Monastero, la magia, il salto a oriente, negli azzurri della pittura bizantina, odore di incenso e Cristi Pantocratori. “Adesso non si può dire cosa sia successo sulla nostra terra, è passato troppo poco tempo”, sospira Dobrila, “forse saranno i nostri nipoti a poterlo raccontare”.
“D come Dobrila, la pasionaria serba” tratto da Alfabeto kosovaro. 25 storie dal Paese più giovane d’Europa, di Giulia Bondi e Anna Maria Selini.
Ecco come le autrici presentano il loro reportage:
“Sandali sportivi calpestano le strade polverose di Pristina. Poche donne kosovare sarebbero a proprio agio indossandoli. Gli altri piedi scavalcano voragini, evitano cartacce, zigzagano tra le lastre di pietra di via Madre Teresa comodamente calzati in tacchi a spillo vertiginosi. I nostri hanno scarpe sportive e rasoterra.
Straniere e riconoscibili, ma accolte quasi ovunque come figlie o sorelle, in tre settimane di viaggio su e giù per il Kosovo abbiamo ascoltato decine di voci, soprattutto giovani e donne, del paese più giovane d’Europa, l’ultimo nato dalla dissoluzione dei Balcani dopo i sanguinosi conflitti degli anni Novanta, ancora occupato dalla Missione ad interim delle Nazioni Unite, Unmik.
Un mosaico pieno di contraddizioni e memorie divise, che abbiamo cercato di raccontare in un piccolo vademecum: 25 frammenti per il Kosovo dalla A alla Z.”
Qui il video realizzato dalle due giovani giornaliste, in occasione del loro viaggio in Kosovo la scorsa primavera.
Iniziative (poco) bulgare
L’Euro-Atlantic Education Initiative (EAEI) è un Organizzazione non governativa con sede a Sofia in Bulgaria, apolitica e senza scopo di lucro, la cui finalità è quella di promuovere programmi educativi, incontri a livello di Ong, spazi di discussione e seminari sui processi di integrazione euro-atlantica e le prospettive regionali riguardo la sicurezza. Sostenendo l’azione della Bulgaria quale membro della NATO (e dell’Unione Europea), essa lavora per rafforzare la cooperazione transatlantica nell’area balcanica.
Insieme al Centro Informazioni della NATO a Sofia – la più importante struttura di intelligence statunitense presente nella “Nuova Europa” – ed all’Associazione del Trattato Atlantico, l’EAEI ha avviato un Forum sulla Sicurezza nell’Europa Centrale e Sud-Orientale denominato Balkan Mosaic. L’ambizioso progetto, che si avvale della collaborazione offerta dai Ministeri degli Esteri norvegese e danese – chissà perché proprio loro – configura un quadro di dibattito e cooperazione che raccoglie Paesi già membri NATO come la Bulgaria stessa e la Romania, altri di nuova o prossima adesione (Croazia, Albania e Macedonia) ed infine la Bosnia, il Montenegro e la Serbia. Il quinto incontro del Balkan Mosaic si è tenuto lo scorso febbraio, sempre a Sofia, in un momento cruciale per l’area balcanica, pochi giorni prima della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, con il vertice NATO di Bucarest già alle porte. L’allargamento della NATO e la capacità dei Paesi aspiranti all’adesione di soddisfare i criteri stabiliti dal relativo Piano d’Azione sono stati gli argomenti discussi quali opportunità di sviluppo per la “stabilità” a lungo termine della regione. Al dialogo hanno partecipato sia esponenti politici, in rappresentanza di partiti con diversi orientamenti, che responsabili delle Ong, tutti accomunati dalla giovane età.
Quale tutrice delle iniziative euro-atlantiche nei Balcani, emerge la figura di Avgustina K. Tzvetkova. Presidente di Balkan Mosaic oltre che di EAEI, nonché membro di varie altre fondazioni più o meno caritatevoli (ma plausibilmente sostenute dai dollari statunitensi), la dott.ssa Tzetkova vanta una significativa esperienza in campo giornalistico iniziata in tempi antecedenti al crollo del Muro di Berlino ed una recente negli apparati d’intelligence nazionali. Ella risulta, inoltre, membro fondatore del Club Atlantico di Bulgaria nel 1991 e della Gioventù Euro-Atlantica bulgara nel 1995. Un bel curriculum davvero, coronato dalla partecipazione ad un programma di formazione sulla gestione delle Organizzazioni non governative promosso dal… Dipartimento di Stato USA.
Qui, tanto per farsi un’idea, un breve resoconto della conferenza internazionale organizzata dall’EAEI presso l’Hotel Sheraton di Sofia, lo scorso 26 settembre, che ha avuto quale argomento “costi e benefici dell’appartenenza alla NATO”.