Forze ed operazioni militari USA in Africa – una rassegna

Di Benjamin Cote in esclusiva per SouthFront

L’importanza delle Forze Militari in Africa
Il 4 ottobre 2017, forze nigerine e Berretti Verdi americani sono stati attaccati da militanti islamici durante una missione di raccolta di intelligence lungo il confine con il Mali. Cinquanta combattenti di una affiliata africana dello Stato Islamico hanno attaccato con armi di piccolo calibro, armi montate su veicoli, granate lanciate con razzi e mortai. Dopo circa un’ora nello scontro a fuoco, le forze americane hanno fatto richiesta di assistenza. I jet Mirage francesi hanno fornito uno stretto supporto aereo e i militanti si sono disimpegnati. Gli elicotteri sono arrivati per riportare indietro le vittime per l’assistenza medica.
Quando la battaglia finì quattro Berretti Verdi sono risultati uccisi nei combattimenti e altri due furono feriti. I sergenti maggiori Bryan Black, Jeremiah Johnson, Dustin Wright e il più pubblicizzato di tutte le vittime il sergente La David Johnson sono stati uccisi in missione. Il presidente Trump si è impegnato in uno scontro politicizzato con la vedova di Johnson e la deputata della Florida Federica Wilson in merito alle parole da lui usate in una telefonata consolante.
La battaglia politica sui commenti del Presidente Trump ha avuto l’effetto non intenzionale di spostare l’attenzione della nazione sulle attività americane in Africa. In precedenza il pubblico americano, e buona parte dell’establishment politico, mostrava scarso interesse o conoscenza delle missioni condotte dai dipartimenti di Stato e della Difesa all’interno delle nazioni africane in via di sviluppo. Il 5 maggio, un Navy SEAL era stato ucciso vicino a Mogadiscio mentre assisteva le forze somale nel combattere al-Shabaab. Questa morte è arrivata un mese dopo che l’amministrazione Trump aveva revocato le restrizioni sulle operazioni di antiterrorismo nelle regioni della Somalia.
Certamente l’evento non ha registrato la stessa attenzione del mainstream come la polemica circa il sergente Johnson; tuttavia, tutto rivela come l’Africa stia lentamente diventando un’area di interesse nazionale cruciale per gli Stati Uniti. Le questioni concernenti le nazioni africane riguardanti le minacce terroristiche sia esterne sia interne, così come i loro problemi economici, servono a garantire che i responsabili politici degli Stati Uniti si concentrino sul continente. Iniziative globali come la Combined Joint Task Force for Operation Inherent Resolve coinvolgono diverse nazioni africane fondamentali per combattere l’ascesa dell’estremismo islamico radicale. L’ascesa di gruppi estremisti coesi insieme all’espansione degli investimenti economici nell’Africa post-coloniale ha comportato un aumento dei dispiegamenti militari stranieri e americani nella regione. Continua a leggere

Spagna, la nuova portaerei della NATO

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La Spagna si è trasformata fino al prossimo 6 novembre nel più grande teatro di operazioni militari della NATO dalla fine della Guerra Fredda, per ospitare gigantesche manovre che mobilitano più di 30.000 soldati, 20.000 dei quali spagnoli, con armamenti di ultima generazione.

La fase attiva del Trident Juncture 2015 è iniziata il 3 ottobre scorso, ma il governo conservatore di Mariano Rajoy non ha ancora spiegato né i costi di queste esercitazioni, né la nuova politica di avvicinamento militare agli Stati Uniti, né quali saranno i benefici per la Spagna di questa pericolosa strategia.
Lo stesso ministro spagnolo della Difesa, Pedro Morenés, ha definito quest’estate le attuali manovre della NATO come le “più potenti, più importanti e di maggior entità qualitativa e quantitativa dell’Alleanza dai tempi dell’operazione in Afghanistan”.
Le esercitazioni della NATO in Spagna serviranno secondo le parole del responsabile della Difesa spagnolo a “dare visibilità” a questa regione “come un settore chiave” per l’Alleanza Atlantica.
Ma questo stretto rapporto della Spagna con NATO e USA non porta alcun beneficio agli Spagnoli, quanto piuttosto il contrario, perché a seguito dell’attuale escalation militare tra Washington e Mosca, anche la Spagna si convertirà in un obiettivo da colpire. Continua a leggere

In Spagna, una base USA permanente per intervenire in Africa

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Il governo spagnolo ha annunciato, ieri, l’apertura di negoziati per ospitare in modo permanente una forza d’intervento di marines americani costituita per rispondere alle crisi in Africa.
Creata dopo l’attacco mortale contro il consolato di Bengasi, in Libia, l’11 settembre 2012, questa forza di reazione rapida si è stabilita, dall’aprile del 2013, sulla base di Moron de la Frontera, presso Siviglia, in Andalusia. La sua presenza temporanea è oggetto di un accordo rinnovato nel marzo del 2014. Essa conta attualmente 800 marines, con unità di supporto di cui fa parte un distaccamento aereo che include aerei da trasporto MV-22 Ospreys a rotore basculante, che possono decollare e atterrare come gli elicotteri.
La forza (Special Purpose Marine Air-Ground Task Force Crisis Response, nel gergo del Pentagono) ha, fra gli altri, l’obiettivo di rafforzare la protezione delle ambasciate, di recuperare i militari in difficoltà, di evacuare i civili o di intervenire nei conflitti o nelle crisi umanitarie.
Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera ai ministeri degli Affari esteri e della Difesa per negoziare un nuovo emendamento all’accordo di difesa che lega la Spagna agli Stati Uniti dal 1988, ha annunciato il portavoce del governo, Soraya Saenz de Santamaria. «Il negoziato risponde a una richiesta americana, del 4 dicembre scorso, di utilizzare la base spagnola di Moron de la Frontera per un contingente di Marines e i suoi mezzi di supporto aereo», ha precisato.
Secondo il quotidiano El Pais, che aveva rivelato la richiesta americana, il nuovo accordo permetterebbe di portare la forza di reazione a 3000 uomini al bisogno. Questa forza dipende dal comando Africa, con sede in Germania, una delle sei divisioni geografiche delle forze americane nel mondo.

[Fonte – traduzione di M. Guidoni]

Ebola: trova la differenza

cina

Quale migliore pretesto per militarizzare ulteriormente il continente africano?

Washington, 16 settembre – Gli Stati Uniti invieranno migliaia di militari per rispondere all’epidemia di ebola in Africa occidentale con la costruzione di cliniche e la formazione di centinaia di operatori sanitari. E’ quanto annuncerà oggi il presidente americano Barack Obama, che ha definito l’epidemia una minaccia alla sicurezza nazionale. Il presidente USA ha anche in programma di recarsi al Centers for Disease Control and Prevention (Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie) di Atlanta per incontrare esperti che sono al lavoro per combattere il virus.
Ingegneri militari americani, hanno riferito alti funzionari dell’amministrazione, si coordineranno con i governi locali per costruire 17 cliniche con 100 posti letto ciascuna per la cura dei pazienti che hanno contratto la malattia. Gli Stati Uniti, inoltre, formeranno fino a 500 operatori sanitari alla settimana per almeno sei mesi e, oltre a fornire disinfettanti e farmaci, distribuiranno migliaia di kit sanitari. L’Africa Command del dipartimento della Difesa, hanno riferito funzionari americani, stabilirà un comando congiunto a Monrovia, capitale della Liberia, per monitorare gli Stati Uniti e gli sforzi internazionali ed offrirà circa 3mila militari per le attività di aiuto.
(Ses/Adnkronos)

Ginevra, 16 settembre – Anche la Cina, il primo partner commerciale del continente, si mobilita e invia altri medici in Africa Occidentale per combattere l’epidemia di ebola, che finora ha causato quasi 2.300 morti. L’OMS ha fatto sapere che il governo di Pechino mandera’ un laboratorio mobile in Sierra Leone, dove finora sono morte oltre 500 persone, e insieme una squadra di 59 tecnici dal Centro cinese per il controllo delle malattie. Tra gli operatori sanitari, epidemiologi, medici e infermieri, che si aggiungeranno agli altri 115 addetti gia’ sul terreno.
Il contributo del governo cinese arriva in risposta al pressante appello dell’OMS a tutta la comunita’ internazionale per intensificare gli sforzi contro l’epidemia. Washington ha gia’ risposto all’appello e prevede di inviare 3mila soldati, che parteciperanno alla costruzione di nuovi centri di cura nelle zone piu’ colpite e aiuteranno anche nel reclutamento e nella formazione del personale responsabile della loro gestione (500 operatori sanitari ogni settimana). Anche Cuba, nota per l’alta qualita’ dei suoi sanitari, ha inviato 165 tra medici ed infermieri in Sierra Leone. (AGI)

Il frutto avvelenato della “rivoluzione dei gelsomini”

tunisia

Nonostante le ripetute smentite delle autorità locali e dell’ambasciata a stelle e strisce, sono sempre più numerose le fonti che riferiscono circa la decisione del governo islamista di Ennahda al potere in Tunisia di consentire ad AFRICOM, il comando delle forze armate USA per l’Africa, di insediare la sua prima base militare nel Maghreb, dopo che i precedenti tentativi statunitensi di insediarsi nella regione si erano scontrati con i rifiuti di Ben Ali, Gheddafi, Bouteflika e Mubarak.
Il sito scelto sarebbe Remada, località nel sud del Paese a pochi chilometri dal confine con la Libia “liberata”.
Il pretesto quello solito della lotta al terrorismo e al connesso traffico di armi.

Nuovi “Vietnam” in Africa?

pan-sahel initiative

“Per contrastare la crescente influenza cinese in Africa, Washington ha assicurato il suo appoggio a una Francia economicamente indebolita e politicamente disperata, per ridare vigore all’impero coloniale francese, in una forma o nell’altra. La strategia, che si è rivelata nel tentativo franco-statunitense di usare il gruppo terroristico di Al Qaeda per abbattere prima Gheddafi in Libia e ora per causare distruzione dal Sahara al Mali, è di incoraggiare i combattimenti fra etnie e gruppi differenti come Berberi, Arabi e altri in Nord Africa. Divide et Impera.
Sembra che essi abbiano anche già optato per una vecchia “formula francese” per il controllo diretto. In un’analisi pionieristica, l’analista geopolitico e sociologo canadese, Mahdi Darius Nazemroaya scrive, “la mappa usata da Washington per combattere il terrorismo nell’area del Pan-Sahel è molto esplicativa. L’ampiezza dell’area di azione dei terroristi, che include i confini dell’Algeria, Libia, Niger, Chad, Mali e la Mauritania secondo ciò che è stato delineato da Washington, è molto simile ai confini dell’entità territoriale coloniale che la Francia cercò di controllare nel 1957. Parigi pensò di promuovere quest’entità africana nel Sahara occidentale come dipartimento francese legato direttamente alla Francia, assieme all’Algeria costiera”.
I francesi la chiamarono Organisation commune des régions sahariennes (OCRS). Comprendeva i confini interni del Sahel e delle nazioni sahariane del Mali, Niger, Chad e Algeria. Parigi la usò per controllare i paesi ricchi di risorse, per favorire lo sfruttamento francese di materie prime come petrolio, gas e uranio.
Egli aggiunge anche che Washington aveva chiaramente pensato a quest’area ricca di risorse quando designò le aree dell’Africa che dovevano essere “ripulite” dalle cellule terroristiche e gruppi criminali. Perlomeno ora AFRICOM aveva un piano per la sua nuova strategia africana. L’istituto francese delle relazioni internazionali (Institut français des relations internationals, IFRI) discusse chiaramente questo legame fra i terroristi e le aree ricche di materie prime nel rapporto di Marzo 2011.
La mappa usata da Washington per combattere il terrorismo secondo l’iniziativa del Pentagono per il Pan-Sahel mostra un’area di attività dei terroristi all’interno di Algeria, Libia, Niger, Chad, Mali e Mauritania secondo il disegno di Washington. La Trans-Saharian Counterterrorism Initiative (TSCTI) fu creata dal Pentagono nel 2005. Al Mali, Chad, Mauritania e Niger si aggiungevano ora Algeria, Mauritania, Marocco, Senegal e Nigeria e Tunisia in un teatro di cooperazione militare con il Pentagono. La Trans-Saharian Counterterrorism Initiative fu trasferita sotto il comando dell’AFRICOM il 1 ottobre 2008.
I piani francesi furono frustrati durante la guerra fredda dalla guerra d’indipendenza dell’Algeria e delle altre nazioni africane, il “Vietnam” francese. La Francia fu costretta a sciogliere l’OCRS nel 1962, a causa dell’l’indipendenza algerina e del sentimento anticoloniale in Africa. Nonostante ciò, le ambizioni neocoloniali di Parigi non sono scomparse.
I francesi non nascondono certo la loro preoccupazione riguardo la crescente influenza cinese in quella che fu l’Africa francese. Il Primo ministro francese Pierre Moscovici affermò nel dicembre scorso a Abidjan che le imprese francesi devono andare all’attacco e scatenare un’offensiva contro l’influenza della rivale Cina scommettendo su mercati africani sempre più competitivi. “È evidente che la Cina è sempre più presente in Africa… le imprese (francesi) che hanno i mezzi devono perseguire questa offensiva. Esse devono essere più presenti sul territorio. Esse devono combattere” affermò Moscovici durante un suo viaggio in Costa d’Avorio.
Chiaramente Parigi aveva in mente un’offensiva militare per sostenere l’offensiva economica che egli aveva previsto per le compagnie francesi in Africa.”

Da L’AFRICOM in Mali: obiettivo Cina, di F. William Engdahl.

L’assolato avamposto di Camp Lemonnier

Una base statunitense isolata al centro di operazioni segrete
di Craig Whitlock

Gibuti Città (Gibuti) – Notte e dì, circa 16 volte al giorno, i droni decollano o atterrano qui, a una base militare statunitense, lo snodo per le guerre antiterrorismo dell’amministrazione Obama nel Corno d’Africa e nel Medio Oriente.
Alcuni degli aeroplani senza pilota sono destinati alla Somalia, lo Stato imploso il cui confine si trova proprio 10 miglia a sud-est. La maggior parte dei droni armati, comunque, fanno rotta a nord attraverso il Golfo di Aden verso lo Yemen, un altro Paese instabile ove vengono utilizzati in una guerra sempre più mortale contro una componente di al-Qaeda che ha preso di mira gli Stati Uniti.
Camp Lemonnier, un assolato avamposto nel Terzo Mondo fondato dalla Legione Straniera francese, iniziò come campo temporaneo di addestramento per Marines statunitensi alla ricerca di un punto d’appoggio nella regione un decennio fa. Nel corso degli ultimi due anni, l’esercito statunitense lo ha surrettiziamente trasformato nella più trafficata base per Predator all’esterno della zona operativa afgana, un riferimento per combattere una nuova generazione di gruppi terroristi.
L’amministrazione Obama ha fatto ricorso a misure straordinarie per nascondere i dettagli legali e operativi del suo programma di uccisioni mirate. A porte chiuse, scrupolose discussioni precedono ogni decisione di posizionare qualcuno al centro del mirino nella guerra perpetua degli Stati Uniti contro al-Qaeda ed i suoi alleati.
Sempre più, gli ordini di trovare, pedinare o uccidere queste persone vengono presi a Camp Lemonnier. Praticamente tutti i 500 acri della base sono dedicati all’antiterrorismo, rendendola l’unica installazione di questo tipo nella rete globale di basi del Pentagono. Continua a leggere

Tra boschi e caverne, il covo di Plutone

“Per decenni è stata la punta avanzata della follia strategica USA e NATO che ritenevano possibile una guerra nucleare “limitata” per contenere l’avanzata delle truppe sovietiche nel nord-est d’Italia. A Site Pluto, installazione militare top secret, occultata tra le caverne carsiche e i boschi del comune di Longare (Vicenza) sono state immagazzinate le testate nucleari del tipo W-79 con una potenza tra i 5 e i 10 kiloton e W-82 da 2 kiloton, destinate agli obici a corto raggio M-109 e M-110 dell’esercito USA e ai missili Nike Hercules della vicina base dell’Aeronautica italiana di San Rocco. Poi Longare è caduta in sonno per risvegliarsi all’alba delle nuove campagne militari del Pentagono in terra d’Africa. Adesso che i lavori di costruzione della megainstallazione della 173^ Brigata aviotrasportata volgono al termine nell’ex aeroporto Dal Molin e il comando di US Army Africa è pienamente operativo, servono nuovi poligoni per addestrare i reparti di Vicenza. E Site Pluto, con chissà quante altre aree demaniali in Veneto e Friuli, è pronto a fare la sua parte.”

Pluto Longare Vicenza alle guerre in Africa, di Antonio Mazzeo continua qui.

26 Novembre 2011

L’operazione di guerra della NATO contro la Libia, ideologicamente giustificata con la retorica dei diritti umani e della democrazia – che in Italia ha trovato nel Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il suo maggiore ed indefesso sostenitore in quanto rappresentante più autorevole del “partito americano” – ha raggiunto l’obiettivo che fin dal primo giorno si era fissato – e che ha sempre cercato di mascherare grazie alla copertura di tutti i mass media occidentali della NATO e dei suoi intellettuali di punta – ovvero l’uccisione del capo del governo della Giamahiria Muammar Gheddafi, e dei suoi stretti collaboratori, omicidio indispensabile per ottenere quel “regime change” che le centrali del potere atlantico si erano prefissati di ottenere fin dall’inizio della guerra.
“La Libia è stata infatti vittima di un’ennesima aggressione della NATO, politicamente per nulla diversa da quella contro la Serbia nel 1999 e da quella contro l’Iraq nel 2003, per scopi totalmente geopolitici (approvvigionamento petrolifero e insediamento di un governo non ostile a Washington) e geo-strategici (espansione della sfera d’influenza della NATO, attraverso il comando AFRICOM), volti al contenimento di potenze rivali nei fondamentali scenari del Vicino Oriente e del Mediterraneo”. (testo ripreso da qui)
Il 20 Ottobre, il ritornello propagandistico della “protezione dei civili” si è frantumato platealmente: Muammar Gheddafi è stato deliberatamente ucciso nella sua città natale di Sirte, dopo aver eroicamente resistito fino all’ultimo, fra la sua gente, alla guerra totale scatenata dalla NATO. La dinamica della morte del Colonnello, oltre a confermare l’integrità e lo spirito libero del capo della Giamahiria, esemplifica bene quelle che sono state le caratteristiche di questa guerra criminale, ovvero una guerra a guida USA/NATO in cui i ratti libici del CNT hanno fatto solo da bassa manovalanza: i droni americani hanno individuato e sparato al convoglio su cui viaggiava il colonnello, aerei francesi sono arrivati in supporto a bombardare, truppe a terra delle SAS britanniche hanno coordinato i ribelli e li hanno accompagnati a ridosso delle macerie; a quel punto i ratti qaedisti della NATO hanno provveduto a finire i giochi nel modo orripilante che tutti abbiamo avuto modo di vedere.
Dopo la morte di Gheddafi può cominciare ufficialmente la ripartizione della “torta libica” da parte delle grandi potenze della NATO, con USA, Francia e Inghilterra in testa; ma la resistenza lealista è tutt’altro che doma, guidata da Saif Al Islam Gheddafi e dalle tribù che gli hanno rinnovato fedeltà. E’ pertanto certo che, in un modo o nell’altro, con questa o con quella copertura giuridica, le forze militari dei Paesi NATO non lasceranno la presa sulla Libia, coinvolgendo in questo compito di “stabilizzazione” anche l’Italia, che non avrà margine per sottrarsi.
La NATO ha pertanto raggiunto il suo obiettivo in Libia. Ora a chi tocca? Le mire sembrano essere tutte dirette alla Siria. “Da Marzo 2011, si è scatenata infatti la macchina mediatica della NATO contro la Siria di Assad, replicando lo stesso schema utilizzato dalla propaganda di guerra contro Gheddafi per giustificare moralmente l’intervento militare di fronte all’opinione pubblica occidentale, invocando una nuova “azione umanitaria in difesa dei civili”: Assad sarebbe un feroce dittatore autore di abominevoli repressioni contro la popolazione civile che vuole democrazia e libertà; Assad sarebbe un uomo politicamente finito odiato dal suo popolo, etc. etc. Non importa che i disordini siano in realtà dovuti anche qui a terrorismo armato guidato da componenti esterne alla società siriana; no, le falsità dei media della NATO sono fondamentali per spianare la strada alle sanzioni economiche, alle menzognere risoluzioni dell’ONU e, in ultimo, all’aggressione militare funzionale alle mire strategiche dell’occidente euro-atlantico. Come per la Libia, l’Italia ha seguito e segue supinamente passo dopo passo l’escalation pianificata dalla NATO contro la Siria e tutto fa pensare che l’“Italian Repubblic” non si sottrarrà a partecipare ad una nuova aggressione militare contro un Paese sovrano, laico e socialista, se le verrà ordinato di farlo dai suoi padroni di Washington e Londra. E dopo la Libia e la Siria, sarà il turno dell’Algeria, o magari della Russia, come auspicato dal senatore americano, ex candidato alla presidenza, John McCain? Dove condurranno l’Italia le strategie guerrafondaie di quei Paesi, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che guidano e la fanno da padroni nella NATO?” (testo ripreso da qui)
Questo stato di sudditanza dell’Italia alla NATO e agli USA trova la sua più clamorosa ed evidente testimonianza nelle oltre 113 basi NATO-USA presenti sul territorio italiano, da dove vengono coordinate e dirette le operazioni militari nel Mediterraneo e in Africa, compresa quella di Libia.
“Come per la Libia, anche nel caso della Siria, nessun movimento, partito o gruppo è riuscito ad alzare una voce forte e decisa contro questo nuovo tentativo di aggressione, tanto più a sinistra e nel mondo tradizionalmente “pacifista”, dove si è sostenuta la linea imperialista e neo-colonialista imposta da Obama, da Cameron e da Sarkozy. Preso atto del fallimento storico e politico di queste componenti della società civile, e dell’impossibilità per le ragioni anti-imperialiste e della sovranità nazionale di avere una seria rappresentanza all’interno di istituzioni e grandi organi di stampa” (testo ripreso da qui), alcuni membri del comitato promotore della mobilitazione del 30 Agosto a Roma e di quella del 15 Ottobre a Milano, hanno deciso di dare continuità all’aggregazione di forze ed intenti di quelle manifestazioni, allargandone la piattaforma, per organizzare un nuovo presidio unitario a sostegno della resistenza lealista in Libia, della Repubblica Araba di Siria e per la sovranità dell’Italia.

E’ perciò convocato un:
PRESIDIO A NAPOLI,
VICINO ALLA BASE NATO DI BAGNOLI,
SABATO 26 NOVEMBRE 2011,
DALLE 14.30 ALLE 16.30, CON CONCENTRAMENTO ALLE 15.30,

PER CHIEDERE:
1. La fine immediata di qualsiasi tipo di sostegno e coinvolgimento militare italiano in Libia e da tutte le missioni per conto della NATO e degli Stati Uniti d’America;
2. Il ritiro di tutte le forze armate americane dalle basi militari in Italia, dall’Europa e dal Medio Oriente;
3. La fine di qualsiasi tipo di sostegno dell’Italia alle azioni terroristiche in Siria e ai tentativi di destabilizzazione del Paese da parte della NATO.
4. Le dimissioni dei politici italiani servi della NATO e degli USA, come Napolitano, Frattini, La Russa e Berlusconi, per violazione dell’articolo 11 della Costituzione.

PER MANIFESTARE:
1. Il nostro appoggio alla resistenza lealista e alla popolazione libica di fronte ai mercenari, ai tagliagole jihadistii, e all’occupazione della NATO.
2. Il nostro sostegno alla Siria del presidente Assad, vittima degli attacchi terroristici delle bande criminali jihadiste fomentate dall’Occidente e dalle squallide campagne mediatiche dei media della NATO.
3. Al mondo, ma soprattutto al popolo libico e siriano, che c’è un’Italia che non dorme e non subisce passivamente i diktat della NATO e che si ribella alle sue logiche criminali e che disprezza i propri politici servi e traditori.

Per aderire, scrivere a 26novembre2011@libero.it.

Modalità di svolgimento, luogo e regole del presidio sono qui

“Più saranno i Paesi… meglio sarà per noi”

In Somalia sono decine di migliaia i morti per la grave carestia che ha colpito buona parte del paese, mentre 750.000 persone potrebbero morire di fame nei prossimi quattro mesi se la comunità internazionale non garantirà sufficienti aiuti alimentari alle popolazioni del Corno d’Africa. Secondo le Nazioni Unite, dodici milioni e mezzo di persone hanno urgente bisogno di cibo, acqua e medicinali, mentre sta crescendo giorno dopo giorno il numero dei disperati in fuga dalle sei macroregioni somale duramente colpite dalla siccità. Oltre 600.000 somali hanno attraversato il confine per raggiungere i campi profughi sorti nei paesi confinanti. Nella tendopoli di fortuna di Dadaab, Kenya orientale, il più affollato centro per rifugiati al mondo, sono stipati oggi più di 420.000 persone. In Etiopia, le agenzie internazionali hanno installato quattro grandi campi di accoglienza, dove affluiscono oltre un migliaio di sfollati al giorno. Una crisi umanitaria imponente ma con radici lontane, che le grandi reti mediatiche stanno rendendo visibile internazionalmente sulla scia della campagna interventista lanciata dal Dipartimento di Stato e da USAID, l’agenzia per gli aiuti allo sviluppo degli Stati Uniti d’America. Per Washington è indispensabile aprire manu militari corridoi “umanitari” che consentano il flusso degli aiuti alle popolazioni colpite. Un’occasione da non perdere per chiudere di rimessa e definitivamente, la partita in Africa orientale contro le organizzazioni combattenti nemiche.
“Abbiamo contribuito con quasi 600 milioni di dollari nei primi otto mesi del 2011 fornendo aiuti a più di 4,6 milioni di abitanti del Corno d’Africa e confermando il ruolo degli Stati Uniti come il maggiore dei donatori mondiali nella regione”, affermano i funzionari di USAID. “Il nostro governo ha inoltre annunciato che finanzierà la fornitura di aiuti umanitari addizionali al popolo somalo e sta lavorando con le agenzie internazionali per portare alla popolazione i bisogni basici”. A metà agosto, il presidente Obama ha approvato uno stanziamento straordinario di 105 milioni di dollari per l’acquisto di “cibo, farmaci, shelter e acqua potabile per coloro che hanno disperatamente bisogno di aiuto in tutta la regione”, come recita un dispaccio del Dipartimento di Stato. Troppo poco. Per le Nazioni Unite, infatti, c’è bisogno di un miliardo di dollari in più per rispondere a tutte le necessità alimentari e sanitarie in Corno d’Africa. Gli ha risposto solo l’Unione europea annunciando fondi per 100 milioni di dollari e, bontà sua, la Banca mondiale, disponibile a stanziare sino a 500 milioni di dollari, 8 milioni appena per affrontare l’emergenza, il resto per chissà quali progetti “a lungo termine” a favore degli “agricoltori della regione”. Washington però avverte: sino a quando opereranno impunemente in Corno d’Africa le milizie degli Shebab, le formazioni integraliste somale ritenute vicine alla costellazione di al-Qaeda, “per le organizzazioni umanitarie sarà impossibile raggiungere e prestare assistenza alle popolazioni”.
“La mancanza di sicurezza e di vie di accesso alle aree colpite limita significativamente gli sforzi assistenziali in Somalia”, ha dichiarato il vicesegretario di Stato per gli affari africani, Don Yamamoto, in una sua audizione al Senato. “Esistono difficoltà a portare cibo dove c’è più necessità a causa della presenza dell’organizzazione terroristica degli Shebab. Le sue minacce hanno costretto le Nazioni Unite a ritirarsi dai programmi di assistenza in diverse parti della Somalia sin dall’inizio di quest’anno”. Secondo Yamamoto, “i più colpiti dall’odierna siccità sono gli oltre due milioni di somali intrappolati nelle aree meridionali e centrali della Somalia sotto il controllo degli Shebab”. Secondo il vicesegretario, gli Stati Uniti si stanno attivando insieme ai principali partner internazionali “per contrastare gli Shebab e impedire che minaccino i nostri interessi nell’area o continuino a tenere come ostaggio la popolazione somala”. In che modo ci ha pensato lo staff di USAFRICOM, il Comando degli Stati Uniti per le operazioni militari nel continente africano, riunitosi a fine luglio a Stoccarda (Germania).
“La grave carestia in Corno d’Africa è una delle priorità del Comando USA congiuntamente alla crescita nella regione dei gruppi estremisti violenti”, ha spiegato il generale Carter F. Ham, comandante di AFRICOM. “La situazione attuale non richiede un significativo ruolo militare, ma il governo USA potrebbe chiederci qualche forma di supporto per il futuro. Se vado aldilà dell’aspetto umanitario e guardo a quello militare, posso affermare che il rischio più grave in Africa orientale è oggi rappresentato dagli estremisti di Shebab”. Per il generale Ham, il primo passo per “indebolire” le milizie è quello di accrescere l’assistenza USA nel campo della “sicurezza e della stabilità interna” al Governo federale di transizione della Somalia e agli altri paesi della regione. “L’organizzazione di esercitazioni e scambi militari multinazionali è un mezzo importante per sviluppare la cooperazione tra le nazioni africane”, ha dichiarato Ham. “Più saranno i Paesi che si uniranno per partecipare simultaneamente alle esercitazioni e meglio sarà per noi”.
(…)
Grazie ad AFRICOM è stata costituita la East Africa’s Standby Force (EASF), una forza di pronto intervento a cui i paesi dell’Africa orientale hanno assegnato i propri reparti d’élite. La formazione del personale EASF e l’addestramento operativo è curato dai marines della Combined Joint Task Force-Horn of Africa (CJTF-HOA), la task force USA creata a Gibuti nel 2002 per “combattere le cellule terroristiche in Africa orientale” e che, dopo la creazione di AFRICOM nel 2008, è divenuta la struttura chiave per la proiezione avanzata delle forze armate statunitensi nel continente. Oltre a formare i reparti militari africani, CJT-HOA ricopre un variegato ventaglio di missioni, compresi la pianificazione delle operazioni multinazionali in Africa, la negoziazione di accordi legali per futuri interventi e/o installazioni in loco, il sostegno alle operazioni anti-pirateria delle flotte USA, NATO ed UE nelle acque del Mar Rosso.
(…)
Il Comando USA per le operazioni speciali in Africa è lo stesso che dal mese di giugno pianifica e dirige le operazioni in Somalia di bombardamento missilistico con l’utilizzo di velivoli UAV senza pilota (i droni del tipo Predator) contro obiettivi top secret, come rivelato dai maggiori quotidiani statunitensi. Il Pentagono sta inoltre preparando il trasferimento di quattro UAV alle forze armate di Uganda e Burundi, che hanno messo a disposizione 9.000 uomini per la forza multinazionale dell’Unione Africana presente a Mogadiscio e in altre città somale. Ai due Stati africani Washington ha fornito nei mesi scorsi equipaggiamenti militari (camion di trasporto, blindati, giubbotti antiproiettile, visori notturni, ecc.), per un valore di 45 milioni di dollari.
Attivissima nella formazione dei militari somali nell’individuazione e smascheramento dei miliziani Shabab è anche la famigerata CIA – Central Intelligence Agency degli Stati Uniti d’America. Oltre a finanziare ed armare la neo costituita agenzia di spionaggio nazionale (la Somali National Security Agency), la CIA ha collaborato alla realizzazione di una grande stazione d’intelligence all’interno dell’aeroporto di Mogadiscio, nota localmente come “the Pink House” o più semplicemente “Guantanamo”, perché utilizzata per gli interrogatori sotto tortura dei prigionieri sospettati di terrorismo. Come rivelato da un lungo reportage del New York Times (11 agosto 2011), per l’addestramento delle unità africane in lotta contro gli Shebab, il Dipartimento di Stato e la CIA si sarebbero pure affidati ai mercenari di origine sudafricana, francese e scandinava contrattati dalla Bancroft Global Development, una società di sicurezza privata statunitense con uffici alla periferia di Mogadiscio. Secondo il quotidiano USA, Bancroft Global Development verrebbe utilizzata ufficialmente in ambito Unione Africana dalle forze armate di Uganda e Burundi, successivamente rimborsate per le loro spese da Washington. Dal 2010, la compagnia privata avrebbe conseguito in Somalia utili per circa 7 milioni di dollari.
(…)

Da Crociata “umanitaria” USA in Corno d’Africa, di Antonio Mazzeo.

15 Ottobre 2011

Dopo oltre sei mesi dal suo inizio, sembra non avere fine la guerra della NATO contro la Giamahiria di Muammar Gheddafi: migliaia di morti causati dai bombardamenti dal cielo contro la popolazione e le infrastrutture civili, uso di elicotteri Apache e droni, mercenari e truppe speciali, rifornimenti di armi micidiali e di ultima generazione ai terroristi qaedisti di Bengasi, tutti insieme non sono stati sufficienti per avere la meglio sull’eroica resistenza del popolo libico guidato da Muammar Gheddafi. I grandi media della NATO continuano a fare propaganda proclamando la vittoria da settimane, se non da mesi; eppure dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che si tratta di disinformazione strategica a scopi militari. La realtà è che nei sobborghi di Tripoli, a Sirte come a Bani Walid, la resistenza continua, rifiutando la resa e il tradimento!
L’Italia, a cui è stato ordinato di partecipare al conflitto – anche contro i suoi interessi – dal suo padrone d’oltreoceano, per mezzo dei suoi politici servi e traditori continua a giustificare la partecipazione militare alla guerra in Libia con la disgustosa retorica dell’”azione umanitaria a difesa dei civili”.
“La Libia è invece vittima di un’ennesima aggressione della NATO, politicamente per nulla diversa da quella contro la Serbia nel 1999 e da quella contro l’Iraq nel 2003, per scopi totalmente geopolitici (approvvigionamento petrolifero e insediamento di un governo non ostile a Washington) e geo-strategici (espansione della sfera d’influenza della NATO, attraverso il comando Africom), volti al contenimento di potenze rivali nei fondamentali scenari del Vicino Oriente e del Mediterraneo”. (testo ripreso da qui)
Contemporaneamente all’azione di aggressione militare alla Libia iniziata a Marzo, si è scatenata la macchina mediatica della NATO contro la Siria di Assad, replicando lo stesso schema utilizzato dalla propaganda di guerra contro Gheddafi per giustificare moralmente l’intervento militare di fronte all’opinione pubblica occidentale, invocando una nuova “azione umanitaria in difesa dei civili”: Assad sarebbe un feroce dittatore autore di abominevoli repressioni contro la popolazione civile che vuole democrazia e libertà; Assad sarebbe un uomo politicamente finito odiato dal suo popolo, etc. etc. Non importa che i disordini siano in realtà dovuti anche qui a terrorismo armato guidato da componenti esterne alla società siriana; no, le falsità dei media della NATO sono fondamentali per spianare la strada alle sanzioni economiche, alle menzognere risoluzioni dell’ONU e, in ultimo, all’aggressione militare funzionale alle mire strategiche dell’occidente euro-atlantico. Come per la Libia, l’Italia ha seguito e segue supinamente passo dopo passo l’escalation pianificata dalla NATO contro la Siria e tutto fa pensare che l’“Italian Repubblic” non si sottrarrà a partecipare ad una nuova aggressione militare contro un Paese sovrano, laico e socialista, se le verrà ordinato di farlo dai suoi padroni di Washington e Londra. E dopo la Libia e la Siria, sarà il turno dell’Algeria, o magari della Russia, come auspicato dal senatore americano, ex candidato alla presidenza, John McCain? Dove condurranno l’Italia le strategie guerrafondaie di quei Paesi, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che guidano e la fanno da padroni nella NATO?
“Come per la Libia, anche nel caso della Siria, nessun movimento, partito o gruppo è riuscito ad alzare una voce forte e decisa contro questo nuovo tentativo di aggressione, tanto più a sinistra e nel mondo tradizionalmente “pacifista”, dove si è sostenuta la linea imperialista e neo-colonialista imposta da Obama, da Cameron e da Sarkozy. Preso atto del fallimento storico e politico di queste componenti della società civile, e dell’impossibilità per le ragioni anti-imperialiste e della sovranità nazionale di avere una seria rappresentanza all’interno di istituzioni e grandi organi di stampa” (testo ripreso da qui), alcuni membri del comitato promotore della mobilitazione del 30 agosto 2011 hanno deciso di dare continuità all’aggregazione di forze ed intenti di quella manifestazione, allargandone la piattaforma, per organizzare un nuovo presidio unitario in difesa della Giamahiria e della Repubblica Araba di Siria contro la NATO.

E’ perciò convocato un:
PRESIDIO A MILANO,
DAVANTI AL CONSOLATO GENERALE DEGLI STATI UNITI D’AMERICA,
SABATO 15 OTTOBRE 2011,
DALLE 15.30 ALLE 17.30, CON CONCENTRAMENTO ALLE ORE 16.30,

PER CHIEDERE:
1. L’immediato ritiro delle forze militari italiane dalla missione criminale in Libia e da tutte le missioni per conto della NATO e degli Stati Uniti d’America;
2. Il ritiro di tutte le forze armate americane dalle basi militari in Italia, dall’Europa e dal Medio Oriente;
3. La fine di qualsiasi tipo di sostegno dell’Italia alle azioni terroristiche in Siria e ai tentativi di destabilizzazione del Paese da parte della NATO.
4. Le dimissioni dei politici italiani servi della NATO e degli USA, come Napolitano, Frattini, La Russa e Berlusconi, che per esaudire i desideri atlantici continuano a violare l’art. 11 della Costituzione attaccando militarmente la Libia e attuando la destabilizzazione della Siria progettandone l’aggressione militare.

PER MANIFESTARE:
1. Il nostro appoggio all’eroica resistenza della Giamahiria di Muammar Gheddafi e della popolazione libica di fronte ai mercenari, ai tagliagole jihadistii, alle bombe e alle truppe speciali della NATO.
2. Il nostro sostegno alla Siria del presidente Assad, vittima degli attacchi terroristici delle bande criminali jihadiste fomentate dall’occidente e dalle squallide campagne mediatiche dei media della NATO.
3. Al mondo, ma soprattutto al popolo libico e siriano, che c’è un’Italia che non dorme e non subisce passivamente i diktat della NATO e che si ribella alle sue logiche criminali, che disprezza i propri politici servi e traditori e che vuole al più presto ristabilire dei rapporti di amicizia e cooperazione con la Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista e con la Repubblica Araba di Siria.

Per aderire, scrivere a sabato15ottobre@libero.it.

Modalità di svolgimento, luogo e regole del presidio sono qui.

Giù le mani dalla Libia

Strategos, think-tank di geopolitica, lancia un appello per fermare l’aggressione militare alla Libia, con l’auspicio di organizzare prossimamente una manifestazione a sostegno di tale obiettivo.

“Ormai è evidente che:
– La risoluzione ONU è stata oltrepassata e violata, anche alla luce delle nuove prove che hanno documentato la quasi completa inconsistenza dei principali capi d’imputazione contro Gheddafi (fosse comuni poi rivelatesi inesistenti, massacri mai filmati, bombardamenti sulla folla mai documentati ecc. …)
– La Libia è vittima di un’ennesima aggressione della NATO, politicamente per nulla diversa da quella contro la Serbia nel 1999 e da quella contro l’Iraq nel 2003, per scopi totalmente geopolitici (approvvigionamento petrolifero e insediamento di un governo non ostile a Washington) e geo-strategici (espansione della sfera d’influenza della NATO, attraverso il comando AFRICOM), volti al contenimento di potenze rivali nei fondamentale scenari del Vicino Oriente e del Mediterraneo.
– L’Italia è a tutti gli effetti un membro della coalizione atlantica e sta svolgendo un ruolo attivo all’interno del teatro operativo in Libia.
Eppure, stavolta, a distanza di otto anni dall’avvio dello sciagurato intervento in Iraq, nessun movimento, partito o gruppo è riuscito ad alzare una voce forte e decisa contro questa aggressione imperialista, tanto più a sinistra e nel mondo tradizionalmente “pacifista”, dove si è sostenuta la linea imperialista e neo-colonialista imposta da Obama, da Cameron e da Sarkozy, e dove addirittura le opinioni puramente personali e umorali in merito a Gheddafi hanno prevalso su qualsiasi ragionamento strategico e politico a lungo termine. Preso atto del fallimento storico e politico di queste componenti della società civile, e dell’impossibilità per le ragioni anti-imperialiste di avere una seria rappresentanza all’interno di istituzioni e grandi organi di stampa, risulta opportuno utilizzare al meglio la rete e qualunque mezzo a disposizione per sensibilizzare la pubblica opinione nazionale e mobilitarne le coscienze, affinché sia possibile organizzare una manifestazione popolare unitaria, per chiedere l’immediato ritiro delle truppe italiane dalla missione in Libia e da tutte le missioni per conto della NATO e degli Stati Uniti d’America, e per chiedere le dimissioni del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, del Ministro della Difesa, Ignazio La Russa, e del Ministro degli Esteri, Franco Frattini, in seguito alla gravissima violazione degli accordi bilaterali tra Italia e Libia, stabiliti nel 2008 all’interno del Trattato di Amicizia di Bengasi.”

La versione integrale dell’appello è qui.
Per adesioni, commenti e proposte scrivere a rivistastrategos@hotmail.it

Alba dell’Odissea

Odyssey Dawn, l’operazione internazionale contro la Libia iniziata, non significa “Odissea all’Alba”, come riportato dai nostri giornalisti, bensì “Alba dell’Odissea”. Secondo Gianluca Freda può sembrare una notazione peregrina da traduttore perfezionista, invece si tratta di una precisazione dai risvolti sostanziali e inquietanti. Thierry Meyssan spiega il perché qui, precisando:
“In ogni caso, l’operazione iniziata il 19 marzo 2011 in applicazione della risoluzione 1793 [in realtà 1973, ndr] del Consiglio di Sicurezza, è reale e non un’esercitazione. Soltanto la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno partecipato alla prima giornata. In attesa della partecipazione di altri Stati membri della NATO e della formazione di un comando della coalizione, tutte le operazioni, comprese quelle francesi, vengono coordinate dall’AFRICOM, con sede a Stoccarda (Germania) sotto la direzione del generale americano Carter Ham. Le forze navali – comprese le navi italiane e canadesi operanti nella zona – e il comando tattico sono posti sotto l’autorità dell’ammiraglio statunitense Samuel J. Locklear, a bordo della USS Mount Whitney. Il tutto in conformità con le direttive predefinite della NATO.”

La quale NATO, nei prossimi giorni, potrebbe assumere il comando e controllo delle operazioni:
Londra, 20 marzo – La Gran Bretagna auspica che il comando e controllo dell’operazione contro la Libia sia trasferito ”entro i prossimi giorni” alle strutture della NATO, pur chiarendo che quella in corso ”non è una missione della NATO”. A parlare in questi termini, è il ministro della difesa, Liam Fox, in una intervista alla BBC, ricordando che sono in corso a Bruxelles riunioni del Consiglio Nord Atlantico proprio per discutere dell’eventuale assunzione di un ruolo formale, da parte dell’Alleanza Atlantica e le sue strutture di comando, nell’intervento contro le forze di Gheddafi.
(Adnkronos/Dpa)

Frattini e La Russa, ovviamente, si allineano:

Bruxelles, 21 marzo – Dopo l’avvio dei raid occidentali contro le truppe di Muammar Gheddafi, è ora venuto il momento di andare oltre la coalizione che comprende Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada e Italia, verso un coordinamento sotto l’ombrello dell’Alleanza Atlantica.
Lo ha detto oggi il ministro degli Esteri Franco Frattini, al Consiglio Esteri a Bruxelles. “Crediamo che sia il tempo di andare oltre la coalizione dei volenterosi, verso un approccio più coordinato sotto il controllo della NATO”.
Riferendosi alle dichiarazioni di Frattini, una fonte della Farnesina ha poi detto che “l’attuale guida delle operazioni, a tre teste (di Francia, Gran Bretagna e USA, ndr), è anarchica”, definendo allo stesso modo anche il bombardamento contro la Libia, iniziato nel fine settimana, che costituisce “un problema per il mondo arabo”.
“Tenere la NATO in disparte mina la credibilità dell’Alleanza”, ha aggiunto, senza tuttavia spiegare quali sarebbero le posizioni di Germania e Turchia nel caso di un coinvolgimento NATO, cui si oppone la Francia. La fonte inoltre ha sollecitato che vengano “circoscritti gli obiettivi militari e che si limiti l’escalation”.
(Reuters)

Roma, 21 marzo – L’Italia ritiene opportuno che il “cappello dell’operazione” contro la Libia passi alla NATO. Lo ha affermato il ministro della Difesa Ignazio La Russa, nel corso di una conferenza stampa a palazzo Chigi al termine del Consiglio dei Ministri.
(Adnkronos)

Mentre il generale Prosciutto afferma che le operazioni sulla Libia puntano ora ad estendere la no fly zone, portandola a 1.000 chilometri, e ribadisce che non saranno impiegate truppe di terra, il portavoce del Comando della II Flotta della marina militare statunitense comunica che la forza anfibia di pronto intervento Bataan ARG salperà entro 48 ore dalla costa atlantica degli Stati Uniti d’America per raggiungere le unità navali già impegnate nelle operazioni di bombardamento. “La task force sarà attiva sin dalla prossima settimana. La Bataan ARG opererà a supporto del piano d’intervento USA ed internazionale associato alla crisi in Libia ed è preparata a condurre missioni che vanno dalla presenza navale avanzata alle operazioni di sicurezza marittima, alla cooperazione di teatro e all’assistenza umanitaria”.

E se Obama detta la linea, l'”opposizione” pacifinta scatta sull’attenti:

Santiago del Cile, 21 marzo – Questione di giorni e il comando della missione in Libia verrà trasferito alla NATO e agli alleati. Lo ha sottolineato il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, nel corso della conferenza stampa congiunta con l’omologo cileno Sebastian Pinera, al palazzo de La Moneda a Santiago.
(Adnkronos)

Roma, 21 marzo – ”Nessuno è contrario” a che la NATO prenda il comando delle operazioni in Libia. Lo afferma il segretario del PD, Pier Luigi Bersani in un’intervista al Tg1 chiarendo che però ”un principio deve essere chiaro: la nostra Costituzione ripudia la guerra come metodo per risolvere le controversie tra Stati” ma ”accetta l’uso della forza per questioni di giustizia e sotto il mandato di organismi internazionali”.
(ASCA)

Altrove, invece, l’opposizione è al governo.

Il capo della CIA ha fatto un viaggio-lampo…

Roma, 22 marzo – “L’escalation militare di questi giorni e gli attacchi aerei contro la Libia hanno rappresentato una brusca accelerazione della crisi determinata da qualche circostanza imprevedibile? Oppure i bombardamenti contro le postazioni dei lealisti gheddafiani erano già programmati?”. Due domande che non hanno risposte, ma una chiave di interpretazione la si trova sul sito http://www.globalist.it, collegato al Centro studi strategie internazionali, diretto da Gianni Cipriani. Nelle settimane scorse, si legge nell’articolo di apertura, “in missione (chiaramente segreta) in alcune capitali europee, è arrivato il capo della CIA, Leon Panetta. Direttamente il numero uno, come si conviene quando c’è una situazione particolarmente delicata da affrontare. Al di là dei consueti rapporti di tipo diplomatico con i capi delle intelligence alleate, in questo caso gli scopi del viaggio erano prettamente operativi. In primo luogo il capo della CIA – ovviamente in pieno accordo con il presidente Obama e coordinandosi con Hillary Clinton – si è occupato del dopo-Gheddafi. L’ipotesi che il rais alla fine sia costretto ad andarsene è considerata molto probabile dagli Stati Uniti ed è anche un obiettivo dichiarato”. Per cui, prosegue l’articolo, “si lavora per il dopo, ipotizzando uno scenario che non sia traumatico per gli interessi statunitensi”. In secondo luogo “bisognava fare il punto sulle attività operative, soprattutto per coordinare eventuali azioni clandestine con altri servizi in territorio libico”.
Altro punto importante: “Al momento i ribelli della Cirenaica non hanno un leader o una struttura propriamente detta. Italiani, americani, inglesi, francesi e arabi del Golfo hanno interlocutori diversi. E’ una babele. L’obiettivo era (ed è) quello di fare un po’ di ordine ed appoggiare quei leader o gruppi in grado di dare maggiori garanzie. Ad esempio rifornendoli di armi leggere, che gli 007 della CIA stanno facendo arrivare da diversi giorni attraverso il confine egiziano”. Un viaggio-lampo, “quello di Panetta. Per pianificare quello che sarebbe accaduto. Restano, appunto, due domande: quello che è accaduto in questi giorni era programmato da tempo? Oppure il capo della CIA si è scomodato ad attraversare l’Oceano in previsione di uno scenario possibile ma non affatto certo? La risposta si potrà avere solo tra molti anni. A meno di una nuova fuga di documenti, come ultimamente avviene”.
(DIRE)

Quasi miracolosa, nell’attuale panorama dell'”informazione”, la schiettezza geopolitica del Porta a Porta vespiano di ier notte (23 marzo), durante il quale si è arrivati persino ad insinuare la volontà USA di nascondersi dietro la Francia, snocciolando le cifre delle sortite aeree effettuate sino a quel momento: 212 statunitensi contro 55 transalpine.
Del resto, è la stessa agenzia di stampa Reuters a sostenere che “la spinta diplomatica di Obama, in telefonate a Cameron, Sarkozy e altri leader, ha sottolineato la sua ansia di mettere un volto non-USA alla campagna contro le forze di Gheddafi, anche se l’esercito americano potrebbe restare il pilastro dell’operazione”.
Se alla fine si trovasse un’accordo per affidare in toto il comando delle operazioni alla NATO, allora meritano una particolare attenzione le parole pronunciate dal generale dell’A.M.I. (in pensione) Tricarico, a detta di cui il coordinamento delle missioni aeree, in tal caso, sarà conferito alla base di Poggio Renatico in provincia di Ferrara.
Nell’ovattata campagna ferrarese tra i fiumi Po e Reno, c’è un Pioppo che cresce.

Giunge conferma:
Bruxelles, 24 marzo – La NATO ha elaborato un piano di comando per eseguire le operazioni militari in Libia da base italiana. Lo riferiscono all’AFP fonti diplomatiche, precisando che il comando operativo e quello specifico per le operazioni navali saranno situati a Napoli, mentre il comando delle missioni aeree sarà realizzato alla base di Poggio Renatico, nel nord Italia.
(ASCA-AFP)

Trattasi evidentemente di una forma grave ed acuta di sadomasochismo. Nelle parole di Gianluca Freda, la nazione Italia, prima al mondo, si avvia “intonando i peana ideologici della “libertà” e della “democrazia”, in un conflitto il cui scopo dichiarato è quello di ledere i suoi interessi nazionali. La fanteria italica della logorrea libertaria marcia spedita, sotto la frusta dei suoi capi, verso la devastazione dei suoi interessi energetici, verso l’ignominia diplomatica internazionale, verso la rinuncia alla sua area naturale d’interesse geostrategico. E non – si badi bene – nell’interesse dei suoi despoti, verso i quali, com’è comprensibile, la resistenza potrebbe costare cara; bensì nell’interesse dei suoi concorrenti di zona, di altri sguatteri di pari livello che hanno avuto l’intelligenza di calare meno le brache, conquistandosi così, se non il rispetto dei padroni, almeno la prima fila nelle razzie banditesche che seguiranno alla battaglia. I capi puniscono severamente le ribellioni dei servi, ma disprezzano con altrettanta forza la loro mancanza di dignità.”

“Voto contro”. Brava nipotina!

Roma, 24 marzo – ”Qui ci sono missili e razzi, c’è di tutto… io voto contro questa risoluzione”. Alessandra Mussolini esprime in aula alla Camera la sua dichiarazione di voto sulla risoluzione di maggioranza sull’intervento in Libia, in dissenso dal gruppo del PdL. Mussolini cita l’articolo 11 della Costituzione che rifiuta la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. ”Non credo nell’intervento militare, voto contro”, insiste.
(Adnkronos)

Nel frattempo, sono giunti a Mineo i primi 420 extracomunitari sbarcati nei giorni scorsi a Lampedusa .
Saranno “ospitati”, insieme ad un migliaio di altri già presenti, nel complesso residenziale recentemente lasciato dai militari USA operanti a Sigonella, di proprietà della Pizzarotti di Parma che stava disperatamente cercando qualcuno a cui riaffittarlo.
Ora l’ha trovato: lo Stato italiano, con costi a carico dei contribuenti (nella foto sotto).

La drammatica situazione dei cittadini stranieri che lavoravano in Libia, causata dall’esplodere della guerra civile e che certamente non migliorerà con l’intervento militare occidentale, è sintetizzata qui.

Italiani, non lo avevate capito? Il PD costruisce la pace…

Iseo (Brescia), 25 marzo – “Guerrafondaio è chi è contro l’intervento internazionale in Libia e non certo noi che siamo costruttori di pace. Lo è chi vuole aiutare Gheddafi a fare la guerra ai popoli che cerca di sopprimere”. Il vicesegretario del PD, Enrico Letta, replica così alle accuse di chi non condivide la posizione del partito in merito all’intervento in Libia.
(Adnkronos)

A coloro che, fin dall’inizio, avevano invece capito dove i “costruttori di pace” volevano andare a parare, è dedicata l’intervista del giornalista RAI Amedeo Ricucci, il quale spiega che la disseminazione scientifica di balle spaziali è stata funzionale a spingere l’opinione pubblica ad appoggiare e perfino invocare una guerra che produrrà sul serio (e sta già producendo) le migliaia di morti che la “rivolta” non aveva provocato:

In attesa dell’imminente passaggio del comando delle operazioni militari alla NATO, per la gioia degli ascari (bianchi, rossi e neri) d’Italia, ecco la nuda contabilità di chi mena le danze dell’aggressione alla Libia:

Washington, 28 marzo – A poche ore dall’effettivo passaggio del comando di tutte le operazioni militari in Libia dagli USA alla NATO i jet americani sono ancora i principali autori dei raid aerei sul Paese. Sui 167 attacchi effettuati tra le 21,30 di sabato e le 17 di domenica oltre la metà, 97, sono stati opera di aerei americani. Una percentuale di poco inferiore al 62% in media delle 1.424 sortite effettuate dall’inizio delle operazioni il 19 marzo scorso.
(AGI)

Intanto Giorgio Napolitano, fra un caffè da Starbucks ed un pisolino al Waldorf Astoria di Manhattan, trova anche il tempo di inviare un messaggio augurale all’Arma Azzurra, così gravemente impegnata in “una delicata e rischiosa missione di protezione di popolazioni civili dalla violenza delle armi di un conflitto fratricida”.
“Viva l’Aeronautica Militare, viva le Forze Armate, viva l’Italia!”.

Alle fandonie del Pres della Rep risponde il ministro degli Esteri russo Sergei “sarò franco” Lavrov:

Mosca, 28 marzo – Mosca ha espresso preoccupazione in merito ai raid aerei della coalizione internazionale contro le forze fedeli al regime libico di Muammar Gheddafi. ”I funzionari dei Paesi che partecipano al conflitto dicono che il loro scopo è proteggere la popolazione civile, ma stanno bombardando” i lealisti a ”sostegno dei ribelli armati”, ha detto il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. ”Riteniamo che tale interferenza della coalizione nella guerra civile libica non sia sancita dalla risoluzione delle Nazioni Unite”, ha poi aggiunto Lavrov
(ASCA-AFP)

Rasmussen puntualizza. Ed è la barzelletta del giorno:

Londra, 28 marzo – La coalizione internazionale in Libia non prende posizione per nessuna delle due parti in lotta, ha detto alla BBC il segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen.
Parlando con Radio 4, Rasmussen ha detto che teoricamente i ribelli potrebbero finire sotto attacco se mettono a rischio la vita di civili. ”Chi attacca i civili diventa nostro bersaglio. Finora sono state le forze pro-Gheddafi ad attaccare il proprio popolo”, ha detto il capo dell’Alleanza, che domani parteciperà alla Conferenza di Londra sulla Libia.
Oggi il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha accusato al coalizione di essere intervenuta ”in quella che è essenzialmente una guerra civile interna”.
(ANSA)

L’obiettivo? Rovesciare Gheddafi.
Evviva la sincerità di Obama!

New York, 29 marzo – Gli USA hanno fatto il proprio dovere in Libia, evitando con il loro intervento una strage da parte del regime di Gheddafi. Ora la palla può passare alla NATO, che da domani prenderà il comando operativo delle operazioni militari, continuando a proteggere i civili minacciati. In un intervento in diretta tv, il presidente americano Barack Obama ha spiegato per la prima volta nei dettagli la sua decisione di intervenire in Libia, confermando che l’obiettivo è di rovesciare Gheddafi.
(ANSA)

“Mezzi non militari”??? Anche questo giorno ha la sua barzelletta.

Washington, 29 marzo – Gli Stati Uniti “perseguiranno attivamente” la cacciata del leader libico Muammar Gheddafi attraverso “mezzi non militari”. Lo ha detto il presidente americano Barack Obama nel suo discorso sulla Libia, sottolineando come “non vi sia dubbio che la Libia e il mondo staranno meglio con Gheddafi lontano dal potere”.
(Adnkronos)

Su chi dovrebbe stare “lontano dal potere” affinché il mondo sia migliore, potremmo fare un lungo discorso…

Qui da noi si riapre Coltano. Certi luoghi portano davvero male (anche ai poeti americani…).

Firenze, 29 marzo – Una vecchia stazione radar, utilizzata dall’esercito americano durante la seconda guerra mondiale, nella località pisana di Coltano. Questo sarebbe uno dei siti scelti dal governo per l’accoglienza dei profughi dalla Libia. Questa mattina il sindaco di Pisa Marco Filippeschi (PD), che contesta l’iniziativa dell’esecutivo e ha scritto una lettera al ministro dell’Interno Roberto Maroni, ha condotto un sopralluogo nell’area. ”Si tratta – spiega il vicesindaco e assessore alla protezione civile Paolo Ghezzi – di un edificio suddiviso in tre ambienti di cui uno è quasi interamente occupato dai trasformatori gli altri due sono senza finestre, con pavimenti flottanti in buona parte dissestati, senza acqua (l’approvvigionamento avveniva attraverso un sistema di pozzi attualmente in disuso) con corrente a media tensione da ricondurre a bassa. Lo spazio esterno, che potrebbe ricevere una tendopoli, è suddiviso da una serie di canali che servivano per scopi militari, e presenta gravi problemi di bonifica: è facilmente allagabile, collocato in una zona fortemente acquitrinosa, dotato di una doppia recinzione militare”.
In quest’area dovrebbero essere allestite almeno 100 tende. L’area di Coltano è collocata all’interno del Parco Naturale di San Rossore, sito patrimonio dell’Unesco, vicino (500 metri) alle strutture della vecchia stazione radio costruita da Marconi, per il cui recupero si sono mobilitate recentemente 12 mila persone che hanno risposto all’appello del FAI. Nell’area (che alla fine della seconda guerra mondiale fu utilizzata dagli Alleati come campo di concentramento per i prigionieri) sono già presenti anche tre insediamenti Rom.
(ASCA)

Accanto ai “nani” (politici), non potevano mancare le “ballerine”:

Roma, 29 marzo – “Se tanto ami il tuo popolo e la tua terra come sempre ci hai detto, prendi una decisione importante anche se per te molto dolorosa: ‘Lascia il potere!’ e magari chiedi nuove elezioni democratiche”. E’ quanto scrivono le ragazze di ‘Hostessweb’ e Alessandro Londero, responsabile dell’agenzia, che organizzò la presenza delle hostess agli incontri con il leader libico Muammar Gheddafi a Roma, in una lettera a Gheddafi pubblicata sul sito internet della stessa agenzia e inviata al colonnello “attraverso amici libici” a lui vicini.
(Adnkronos)

Oltreoceano si fanno i conti in tasca. Raytheon (azienda produttrice dei Tomahawk) e compagnia cantante gongolano.

Washington, 29 marzo – Le operazioni militari condotte dalle forze USA sulla Libia sono costate finora 550 milioni di dollari e saliranno di almeno altri 40 milioni nelle prossime tre settimane. Lo ha reso noto il Pentagono.
Tra il 19 ed il 28 marzo, il Dipartimento alla Difesa ha speso oltre il 60% di questi fondi per le munizioni, in particolare missili e bombe, mentre il restante 40% è andato in spese logistiche come il dispiegamento delle truppe, ed il carburante per aerei e navi. Le forze USA hanno lanciato 192 dei 199 Tomahawk utilizzati contro le difese aeree ed i centri di comando militari in Libia. Ogni esemplare costa 1,5 milioni di dollari. Sganciate dagli USA anche 455 delle 602 bombe a guida laser utilizzate dalla coalizione.
(ASCA-AFP)

La “libera stampa” scopre che in Libia sono in corso “operazioni segrete dell’intelligence”. Talmente segrete che se ne parla da settimane.
Una descrizione convincente della loro pianificazione ed attuazione è qui.

New York, 31 marzo – In Libia operano da diverse settimane agenti della CIA che tengono i contatti con i ribelli e raccolgono informazioni sulle forze di Muammar Gheddafi. Lo ha scritto il sito del New York Times, dopo che ABC News aveva dato notizia che Barack Obama ha emesso un ordine presidenziale che autorizza operazioni segrete dell’intelligence USA nel Paese nordafricano “a sostegno” delle operazioni in corso. Al fianco della CIA, ha riferito il quotidiano della Grande Mela, ci sarebbero anche “decine di agenti” dell’MI6 britannico che collaborano nella raccolta di dati sull’armamento delle forze di Gheddafi e sugli obiettivi per raid aerei e bombardamenti.
(AGI)

Continua qui.

L’Africa come cavia

Per lo sviluppo del programma sono già stati investiti più di 500 milioni di dollari e lavorano fianco a fianco i ricercatori di un colosso mondiale del settore farmaceutico e i migliori medici delle forze armate USA. Sponsor, l’onnipotente padrone delle nuove tecnologie informatiche. Si tratta della sperimentazione di un nuovo vaccino contro la malaria, nome in codice “RTS,S/ASO2”. Una speciale unità dell’esercito statunitense in Kenya (USAMRU-K) e la multinazionale britannica GlaxoSmithKline (GSK) stanno eseguendo decine di migliaia di test su bambini e neonati in alcuni dei villaggi più poveri del continente africano. Il tutto sotto l’occhio vigile di US Army Africa, il comando delle forze militari terrestri in Africa istituito a Vicenza che tra gli scopi annovera il “supporto delle missioni mediche di US Army nel continente nero”.
È nel Muriithi-Wellde Clinical Research Centre di Kombewa, città della provincia di Nyanza (Kenya), che i dati della sperimentazione del vaccino vengono raccolti ed analizzati dal team di USAMRU-K. “La nostra unità dipende dal Comando per la Ricerca Medica dell’US Army (USAMRMC) che ha sede a Fort Detrick, Maryland, ma noi stiamo coordinando le attività nel continente con l’US Africa Command (AFRICOM) di Stoccarda e US Army Africa di Vicenza”, spiega il portavoce di USAMRU-K. “A Kombewa è in avanzata fase di sviluppo la ricerca sull’efficacia del vaccino contro la malaria, malattia trasmessa da zanzare infette. USAMRU-K partecipa alla sperimentazione di quello che potrebbe diventare il primo vaccino anti-malarico per bambini. I partecipanti ricevono cure gratuite per la durata di tre anni scolastici. Una volta provata la sua sicurezza ed efficacia, il vaccino potrà essere immesso sul mercato. Lo studio odierno nasce da una partnership con la PATH Malaria Vaccine Initiative (MVI) e la compagnia farmaceutica GlaxoSmithKline (GSK)”. Per lo sviluppo del vaccino, GSK ha già investito 300 milioni di dollari e altri 100 verranno spesi nei prossimi due anni. Al finanziamento delle ricerche ha contribuito con 107,6 milioni di dollari l’organizzazione statunitense “no-profit” Path, utilizzando un fondo ad hoc della Bill & Melinda Gates Foundation, la fondazione “umanitaria” del magnate di Microsoft, Bill Gates.
Il vaccino RTS,S/AS02 è stato creato nel 1987 nei laboratori del Belgio di GSK Biologicals (una partecipata Glaxo) ed è stato testato la prima volta nel 1992 su “alcuni volontari” negli Stati Uniti d’America, grazie alla collaborazione dell’US Walter Reed Army Institute of Research, l’istituto di ricerca medica dell’esercito USA con sede a Washington. La prima campagna di sperimentazione ad ampio raggio dell’RTS,S ha però preso via in Africa nel 1998 e nel biennio 2002-2003 i test sono stati eseguiti sulla popolazione “adulta” dei villaggi di Kombewa nel Centro clinico co-gestito da USAMRU-K. “I test fornirono dati incoraggianti in termini di sicurezza e immunogenicità, così a partire della fine del 2003 è stata avviata la fase sperimentale “Ib” su 90 bambini della stessa aerea geografica, che ha prodotto risultati ancora una volta incoraggianti”, si legge in un report della GlaxoSmithKline. “Subito dopo è partita la fase “II”, condotta su oltre 2.000 bambini nel sud del Mozambico. I risultati di questo test, pubblicati dalla rivista medica The Lancet nel 2004 e 2005, hanno mostrato che l’RTS,S è stato efficace per un periodo di 18 mesi nel ridurre la malaria clinica nel 35% dei casi, e la malaria grave nel 49%”. Ignoto, ovviamente, cosa sia accaduto nel restante numero di casi, 1.300 bambini cioè in carne ed ossa.
(…)
Se appare incredibilmente spregiudicata e priva di etica la massiccia sperimentazione del vaccino in aree del continente dominate dalla fame, dal sottosviluppo, dall’analfabetismo e dall’assenza di qualsivoglia servizio primario, desta profonda inquietudine il ruolo assunto nella vicenda da un’unità “sanitaria” d’élite delle forze armate USA. USAMRU-Kenya vanta però una lunga tradizione nel campo della “ricerca scientifica” e della “prevenzione” delle infermità tropicali. In qualità di task force operativa estera del Walter Reed Army Institute of Research, l’unità fu inviata in Kenya nel lontano 1969 per avviare uno studio sulla tripanosomiasi, un’infezione parassitica trasmessa dalla mosca tse-tse. Nel 1973 USAMRU stabilì una propria sede permanente a Nairobi grazie ad un accordo con il Kenya Medical Research Institute. Negli anni successivi furono aperti laboratori nella capitale e nel Kenya occidentale (Kisumu, Kisian, Kombewa e Kericho) per la sperimentazione di farmaci contro malaria, tripanosomiasi, “malattie infettive globali emergenti” e l’HIV/AIDS. Proprio all’AIDS sono stati destinati gli sforzi maggiori più recenti: nell’ambito dell’United States Military HIV Research Program (USMHRP), lo staff di US Army sta sviluppando il vaccino HIV-1 ad efficacia globale e testando e valutando altri vaccini sperimentali contro l’AIDS. La sede del programma HIV è stata stabilita ancora una volta in Kenya, a Kericho, alla fine del 2000.
Coincidenza vuole che a fine dicembre 2000 nasceva pure in Gran Bretagna la GlaxoSmithKline (GSK) grazie alla fusione di due grandi società farmaceutiche, Glaxo Wellcome e SmithKline Beecham. Con oltre 100 mila dipendenti e un fatturato di 34 miliardi di euro, GSK si colloca al secondo posto nel mondo con una quota di mercato del 5,6%, dietro il gruppo Pfizer. Il comportamento “etico” della multinazionale è stato duramente stigmatizzato da più parti e non sono mancati gli scandali che l’hanno vista direttamente coinvolta.
(…)
Mentre fatturati e guadagni si moltiplicano inverosimilmente, il management di GSK ha varato un piano che prevede la chiusura a breve termine del Centro ricerche e produzione antibiotici di Verona, uno dei due impianti posseduti in Italia dalla società. A rischiare il licenziamento sono più di 600 lavoratori. Delocalizzazioni nel sud-est asiatico, test sui bambini africani, smantellamento dell’apparato produttivo in Europa. E nello sfondo la guerra, altro crimine del capitalismo dal volto sempre più disumano. Nell’ultima decade, la GlaxoSmithKline ha sottoscritto con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America ben 61 contratti per la fornitura di vaccini, farmaci e attrezzature sanitarie, per un importo complessivo di 75.555.579 dollari. Assai meno di quanto fatto però dal partner e “mecenate” Bill Gates: in computer, programmi e war games, Microsoft-Gates ha fatto affari con il Pentagono per 278.480.465 dollari. Due volte e mezzo in più di quello che è stato reinvestito per i nuovi vaccini contro la malaria.

Da Neonati africani cavie del vaccino di US Army Africa e Glaxo, di Antonio Mazzeo.

Guerre USA 2011

Lacrime e sangue per tutti, tranne che per i signori delle armi e delle guerre. Il Congresso degli Stati Uniti d’America ha approvato il budget 2011 del Dipartimento della Difesa. Saranno 725 i miliardi di dollari destinati alle missioni di guerra e ai nuovi programmi militari. Buona parte del bilancio, 158,7 miliardi di dollari, sarà speso dal Pentagono per prolungare le operazioni in Iraq e Afghanistan, a cui si aggiungeranno 13,1 miliardi per lo “sviluppo delle forze di sicurezza afgane e irachene”. Sempre nell’ambito della “guerra permanente” al terrorismo internazionale, il Congresso ha destinato 75 milioni di dollari per l’addestramento e l’equipaggiamento delle “forze di controterrorismo” dello Yemen, Paese mediorientale sempre più attenzionato e corteggiato dal Pentagono.
(…)
Assai articolato il piano di potenziamento delle infrastrutture militari USA all’estero, con un particolare occhio di riguardo per il continente africano e il Medio oriente. Le vecchie e nuove priorità strategiche sono delineate dal report sui “Piani di lavoro del Naval Facilities Engineering Command”, pubblicato nel giugno 2010 da Jeff Borowey, responsabile del Comando d’ingegneria dell’US Navy per l’Europa, l’Africa e l’Asia sud occidentale. Tra i programmi più ambiziosi, il “completamento del Master Plan di Camp Lemonnier, Gibuti, a supporto delle operazioni di Africom”, il nuovo Comando USA per il continente africano, per cui vengono stanziati 110,8 milioni di dollari; “l’installazione di un crescente numero d’infrastrutture in Africa per sostenere le richieste dei partner africani, di AFRICOM, CENTCOM e delle forze statunitensi della JTF-HOA di Gibuti”; “l’espansione delle basi in Bahrain e negli Emirati Arabi Uniti”, con progetti per 213,2 milioni di dollari. Altrettanto imponente la spesa per alcune delle maggiori installazioni USA in Europa: nelle voci di bilancio sono stati inseriti 28,5 milioni di dollari per la base aerea di Aviano (Pordenone) per realizzare “dormitori” e un “centro per il supporto delle operazioni aeree”; 23,2 milioni per la base aeronavale di Rota in Spagna (una “torre per il controllo del traffico aereo”); 33 milioni di dollari per la costruenda base dell’US Army al “Dal Molin” di Vicenza.
Oltre 300 milioni di dollari andranno invece al programma di trasformazione dell’isola di Guam, nell’oceano Pacifico, nel principale centro strategico-operativo d’oltremare delle forze armate USA. A Guam, dove da ottobre operano i velivoli-spia “Global Hawk” dell’US Air Force, verranno realizzate piste e aree di parcheggio nella base aerea di Andersen, infrastrutture portuali ad Apra Harbor per l’approdo delle portaerei e probabilmente pure un centro operativo per la “difesa missilistica”. A medio termine è previsto il trasferimento nell’isola degli 8.600 Marines oggi ospitati nella base di Okinawa; il governo giapponese contribuirà con 498 milioni di dollari che saranno utilizzati dal Pentagono per realizzare alcune facilities nell’area di Finegayan (caserme, edifici amministrativi e logistici, un poligono di tiro, una stazione anti-incendio, un ospedale). Neppure un dollaro invece per i sopravvissuti dell’occupazione giapponese di Guam durante la Seconda guerra mondiale; originariamente il “National Defense Authorization Act of 2011” destinava 100 milioni di dollari come risarcimento per gli eccidi subiti dalla popolazione locale, ma i legislatori USA hanno preferito alla fine cancellare il fondo per “esigenze di risparmio nazionale”. Un ulteriore taglio ai finanziamenti pro diritti umani è giunto con la decisione di non sostenere le richieste del Dipartimento della Difesa per la chiusura del lager di Guantanamo. Il Congresso ha formalmente proibito il possibile trasferimento negli States dei detenuti ospitati nella base navale illegalmente realizzata nell’isola di Cuba.

Da Bilancio di guerra record per le forze armate USA, di Antonio Mazzeo.
[grassetto nostro]

Il viaggio africano del ministro Frattini

Dopo le minacce di un nuovo intervento USA in Yemen e Somalia uscite dalla bocca di Barack Obama a West Point, il ministro degli Esteri Frattini, nel suo ultimo tour, questa volta nell’Africa Sahariana, accompagnato da un codazzo di alti funzionari della Farnesina, ha rilasciato durante le tappe della maxi-missione di rappresentanza in Mauritania, Mali, Etiopia, Kenya, Uganda, Egitto e Tunisia una serie di dichiarazioni che definire semplicemente vergognose è poco.
La trasferta della comitiva su uno dei A-319 CJ in allestimento VIP a disposizione dal 2000 della Presidenza del Consiglio – l’ordine di acquisto all’Airbus di Tolone fù firmato dal Baffo di Gallipoli – è cominciata a Nouakcott l’11 Gennaio e finita a Tunisi il giorno 19 (!) dopo l’incontro con il Presidente Ben Alì.
La prima tappa della combriccola tricolore ha fatto sosta nella capitale della Mauritania, uno dei Paesi che hanno rotto le relazioni diplomatiche con Israele nel gennaio 2009 come risposta al bombardamento dell’IDF su Gaza. Le difficoltà di Frattini sono apparse fin all’inizio evidenti con un percorso in salita.
Il Presidente Oul Abdallahi lo ha platealmente snobbato, lasciando l’onere dei contatti con il Ministro degli Esteri ad una semplice rappresentanza di parlamentari di maggioranza e di opposizione.
La richiesta avanzata dal titolare della Farnesina di un interessamento del governo di Nouakcott per la ricerca e la liberazione di due ostaggi italiani, Sergio Cicàla e sua moglie Filomen Kabouree – sequestro attribuito ufficialmente dalla Farnesina ad un nucleo di guerriglieri di Al Qaeda del Maghreb operante in Mauritania, sulla sola scorta di “informazioni“ sospette di fonte USA – ha finito per peggiorare le relazioni bilaterali.
L’iniziativa di Frattini è stata interpretata, e non poteva essere diversamente, come suscettibile di dare credito internazionale o ad uno scarso controllo della Mauritania sul suo territorio o, peggio, ad avvalorare il sospetto che Nouakcott ospiti e protegga formazioni armate legate all’internazionale del “Terrore“ del fantasmagorico e inossidabile Osama bin Laden nell’Africa Sahariana.
Un’ulteriore richiesta di informazioni avanzata da Frattini alla Repubblica del Mali dalla Mauritania (!) per un altro ostaggio, questa volta di nazionalità francese, Pierre Kemat, ha finito per convincere il Presidente Abdallahi di un’azione concordata tra Italia e Francia per danneggiare l’immagine del suo Paese.
Un Paese che dal 2008 ha dato concreti segnali di volersi sganciare dalla residua dipendenza coloniale, economica e culturale, di matrice occidentale per avvicinarsi a quel multilateralismo che si sta mangiando a fette USA ed Europa in Asia, Africa ed America Indio-Latina. Continua a leggere

AFRICOM avanza a grandi passi

us military commands

Nel suo ultimo Rapporto Anti-Impero l’analista politico William Blum scrive: “La prossima volta che sentirete che l’Africa non può produrre buoni dirigenti, persone impegnate per il benessere della maggioranza dei loro popoli, pensate a Nkrumah ed al suo destino. E ricordatevi di Patrice Lumumba, rovesciato nel Congo del 1960-1 con l’aiuto degli Stati Uniti; e dell’angolano Agostinho Neto, contro il quale Washington fece guerra negli anni settanta, rendendogli impossibile l’introduzione di cambiamenti in senso progressista; del mozambicano Samora Machel contro cui la CIA sostenne una contro-rivoluzione negli anni settanta-ottanta; e del sudafricano Nelson Mandela (adesso sposato con la vedova di Machel), che ha trascorso 28 anni in prigione grazie alla CIA”.
Blum si riferisce ad una serie di guerre per procura sostenute dagli Stati Uniti e dai suoi alleati della NATO (e per certi versi anche dal Sud Africa dell’apartheid e dal regime di Mobutu in Zaire) a partire dalla metà degli anni settanta e per tutti gli anni ottanta, armando ed addestrando il Fronte Nazionale per la Liberazione dell’Angola (FNLA) e l’Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola (UNITA), la Resistenza Nazionale Mozambicana (RENAMO), i separatisti eritrei in Etiopia così come l’invasione somala del deserto etiope dell’Ogaden nel 1977.
Ma in tutto il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, in Africa c’era stato soltanto un intervento militare americano di tipo diretto, il bombardamento aereo della Libia nell’aprile 1986, la cosiddetta Operazione El Dorado Canyon.
Mentre nella seconda metà del secolo scorso conduceva guerre, bombardamenti, interventi militari di varia natura ed invasioni vere e proprie in America Latina e nei Caraibi, nel Vicino e Medio Oriente, e recentemente nell’Europa sudorientale, il Pentagono ha lasciato il continente africano relativamente indenne. Tutto ciò è destinato a cambiare dopo l’istituzione del Comando statunitense per l’Africa (AFRICOM) l’1 ottobre 2007 e la sua attivazione nell’anno successivo.
Gli Stati Uniti avevano intensificato il loro impegno militare in Africa nei precedenti sette anni con progetti quali l’Iniziativa Pan Sahel, nell’ambito della quale sono stati dispiegate le Forze Speciali dell’esercito in Mali, Mauritania ed altri luoghi. Ancora oggi, personale militare statunitense è impegnato nelle attività di controguerriglia contro i ribelli Tuareg in Mali ed in Niger.
Alla fine del 2004, l’Iniziativa Pan Sahel è stata sostituita dall’Iniziativa Trans-Sahariana contro il Terrorismo che prevede l’assegnazione di personale militare USA in undici Paesi africani: Algeria, Burkina Faso, Libia, Marocco, Tunisia, Ciad, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria e Senegal.
Tre anni fa, un sito del Pentagono riferiva che “i funzionari del Comando statunitense per l’Europa (EUCOM) spendevano tra il 65 ed il 70% del loro tempo ad occuparsi dell’Africa”. L’allora comandante EUCOM, James Jones, affermò che “l’istituzione di un gruppo di esperti militari in Africa occidentale poteva anche servire a convincere le aziende statunitensi che investire in molte zone dell’Africa fosse una buona idea”.
Durante gli ultimi mesi del suo doppio incarico di comando presso EUCOM e la NATO, Jones ha trasferito l’Africa dal controllo di EUCOM a quello di AFRICOM, al contempo aumentando le responsabilità della NATO nel continente.
Nel giugno 2006, l’alleanza ha lanciato la sua Forza di Reazione Rapida (NATO Response Force – NRF) con una esercitazione militare in grande stile al largo delle coste di Capo Verde, nell’Oceano Atlantico ad ovest del Senegal.
La prima operazione della NATO in Africa è stata, nel maggio 2005, il trasporto delle truppe dell’Unione Africana in Darfur per la relativa operazione di mantenimento della pace. Da allora, l’alleanza ha dispiegato unità navali nel Corno d’Africa e nel Golfo di Aden, l’anno scorso nell’ambito dell’operazione Allied Protector, ora in quella denominata Ocean Shield. Queste operazioni non consistono unicamente in attività di sorveglianza e scorta del traffico commerciale ma includono anche regolari abbordaggi a mano armata, l’impiego di cecchini ed altri usi della forza armata, spesso in modo letale. Ad esempio, lo scorso 22 agosto un elicottero olandese del contingente navale appartenente all’operazione gemella Atalanta, condotta dall’Unione Europea, ha attaccato un’imbarcazione di cui hanno poi preso il controllo soldati sbarcati da un’unità navale norvegese.
Del resto, tre anni or sono, sempre l’attuale Consigliere per la Sicurezza Nazionale James Jones – relativamente a quale fosse al tempo la sua maggiore preoccupazione in tema di “sicurezza nazionale” – aveva ipotizzato lo scenario in cui la NATO assumesse un ruolo nel combattere la pirateria al largo del Corno d’Africa e del Golfo di Guinea, specialmente quando questa mettesse in pericolo le rotte di rifornimento energetico verso i Paesi occidentali.
In aggiunta alle nazioni già prese di mire come la Somalia, il Sudan e lo Zimbabwe, anche un devoto alleato militare statunitense come la Nigeria potrebbe trovarsi oggetto dell’ostilità del Pentagono. Essa è la maggior potenza appartenente alla Comunità Economica degli Stati Africani Occidentali, che negli scorsi nove anni ha dispiegato le proprie trupppe in Sierra Leone, Liberia e Costa d’Avorio. Altri delegati militari per conto USA nel continente sono l’Etiopia e Gibuti nell’Africa nordorientale, il Ruanda in quella centrale ed il Kenia in entrambe, e prospettive analoghe esistono per Sud Africa, Senegal e Liberia.
Sin dalla sua istituzione, AFRICOM ha impiegato poco tempo a mettere il proprio marchio sul continente. Ancor prima della sua effettiva attivazione, il Pentagono ha condotto un’esercitazione militare denominata Africa Endeavour 2008 che ha coinvolto una ventina di Paesi africani e… la Svezia.

Se fino al mese di ottobre del 2008 l’Africa era l’unico continente insieme all’Oceania a non avere un Comando militare statunitense dedicato, il fatto che esso sia stato istituito indica che l’Africa rappresenta una rilevante posta strategica per il Pentagono ed i suoi alleati.
Un’analisi delle cause di questa crescente rilevanza strategica è stata elaborata da Paul Adujie in un commento sul New Liberian dello scorso 21 agosto: “AFRICOM, in termini concettuali e nella sua attuale realizzazione, non è inteso a servire i migliori interessi dell’Africa. E’ soltanto successo che è aumentata l’importanza geopolitica e geoeconomica dell’Africa per gli Stati Uniti ed i suoi alleati. L’Africa è sempre stata allineata. C’erano, ad esempio, rapporti di come l’esercito americano, agendo teoricamente in collaborazione o cooperazione con quello nigeriano, avesse letteralmente preso possesso del quartier generale della Difesa nigeriana. (…) AFRICOM è lo strumento mediante il quale i governi occidentali perseguono la loro ostentata influenza globale economica, politica ed egemonica a spese degli Africani così come una porta di servizio attraverso la quale gli occidentali possono avvantaggiarsi con i rivali della Cina e forse anche della Russia”.

Mal d’Africa

mary carlin yates

L’ingerenza negli affari interni di Stati sovrani secondo la consolidata prassi statunitense.

È il traffico di stupefacenti il nuovo nemico di AFRICOM, il neo costituito comando per le operazioni delle forze armate USA nel continente africano. Dopo aver dichiarato guerra alla pirateria nel Golfo di Aden, Washington è intenzionato ad estendere all’Africa l’intervento militare contro la produzione e il traffico di stupefacenti, implementato – con scarso successo – in America Latina. “Il traffico illegale di narcotici rappresenta una minaccia significativa alla stabilità della regione”, ha dichiarato il generale William E. Ward, comandante supremo di Africom, nel corso della sua audizione davanti alla Commissione difesa del Senato, il 17 marzo scorso.
“Secondo l’International Narcotics Control Strategy Report del 2008, l’Africa occidentale è divenuta un punto critico per il transito marittimo della cocaina sudamericana destinata principalmente ai mercati europei”, ha aggiunto Ward. “La presenza di organizzazioni di trafficanti in Africa occidentale, così come l’uso locale di stupefacenti creano seri problemi alla sicurezza. UNODOCS, l’Ufficio contro la droga e il crimine delle Nazioni Unite, stima che il 27% di tutta la cocaina consumata annualmente in Europa transita dall’Africa occidentale, e il trend sta crescendo significativamente. Il valore della droga inviata in Africa dall’America Latina è raddoppiato dal 2005, ed ha sfiorato i due miliardi di dollari nel 2008”.
Per il comando USA è divenuto “significativo” pure il traffico di stupefacenti sulla rotta Asia sud-occidentale – Africa orientale e meridionale. Così, in vista del contrasto dei traffici di droga nel continente africano, il Pentagono ha istituito nel quartier generale Africom di Stoccarda (Germania), un team composto da militari di esercito, marina, aeronautica, corpo dei marines e guardiacoste USA, e da funzionari della Drugs Enforcement Agency (DEA), l’agenzia anti-droga USA, dell’FBI e del Dipartimento di Stato. Alla sua direzione è stata chiamata Mary Carlin Yates, ex ambasciatrice USA in Ghana ed odierna vice-comandante per le attività civili-militari di Africom (l’“assistenza sanitaria ed umanitaria, le azioni di sminamento, l’intervento in caso di disastri naturali, le operazioni di peacekeeping”).
(…)
Il programma preso come modello da Africom è il famigerato Plan Colombia (oggi denominato “Plan Patriota”), miliardi di dollari in armi, apparecchiature radar, diserbanti altamente tossici distribuiti ai partner più fedeli delle regioni andine ed amazzoniche per contrastare la produzione di coca. Anche per questo il comando USA per le operazioni nel continente africano ha avviato una serie di contatti con il suo omologo di Miami che sovrintende all’intervento militare in Centroamerica, America del Sud e Caraibi. “L’US Southern Command ed Africom vogliono lavorare insieme”, ha spiegato l’ambasciatrice Yates. “I narcotrafficanti arrivano in Africa dall’America Latina, così noi dobbiamo lavorare sia in funzione del rafforzamento delle autorità nazionali sia in quello della partnership tra i due comandi e i nostri partner in Africa e Sud America. Ho visitato di recente i reparti di US Southern in Florida, apprezzandone le modalità di coordinamento delle relazioni militari statunitensi con l’America Latina e gli stretti contatti con le autorità internazionali impegnate contro il traffico di droga in centro e sud America”.
Nella proposta di bilancio per l’anno fiscale 2010, il Dipartimento della Difesa ha chiesto di destinare in Africa 52 milioni e 125 mila dollari nell’ambito dell’International Narcotics Control and Law Enforcement, il programma di Washington per combattere il narcotraffico. Si tratta del doppio di quanto è stato previsto per l’anno in corso (29 milioni e 600 mila dollari). Per il Pentagono, i soldi dovranno servire a “combattere il crimine transnazionale e le minacce ad esso collegato e sostenere lo sforzo contro le reti terroristiche che operano nel settore del traffico di droga e in altri affari illeciti”.
(…)
“L’impegno degli Stati Uniti nell’addestramento delle forze navali africane per individuare e sequestrare i carichi di droga è cresciuto negli ultimi anni principalmente grazie all’iniziativa denominata African Partnership Station (APS)”, ha aggiunto l’ambasciatrice Yetes. “L’APS è parte di un piano a lungo termine che vede protagonisti nazioni ed organizzazioni di Africa, Stati Uniti, Europa e Sud America. Una grande attività di cooperazione militare e civile che contribuisce alla crescita della sicurezza nelle coste dell’Africa occidentale e della professionalità dei militari, delle guardia coste e dei marines africani. Il programma è portato avanti attraverso le visite di unità navali, aerei, team di addestramento e progetti d’ingegneria e costruzione navale”.

Da Il Pentagono in guerra contro il narcotraffico africano, di Antonio Mazzeo.

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Il Rwanda è sicuramente uno dei paesi chiave nella nuova strategia di penetrazione politica e militare degli Stati Uniti nel continente africano. Tanto importante che recentemente è stato meta di una visita di tre giorni da parte del generale statunitense William E. Ward, comandante in capo di AFRICOM, il comando delle forze armate USA per l’Africa. Dopo aver assistito ad alcune esercitazioni congiunte USA-Rwanda nei campi-presidi di Gabiro e Gako, Ward ha incontrato i giornalisti preannunciando il “rafforzamento della cooperazione militare” tra i due paesi, specie nel settore della “lotta ai traffici di droga”, nelle acque del Lago Kivu, al confine con la Repubblica Democratica del Congo. AFRICOM rafforzerà la propria azione anche nel campo della “formazione” degli ufficiali locali. Il comando USA collabora già con l’Accademia militare di Nyakinama (istituita nel 2001); adesso, grazie ai fondi dell’International Military Education and Training Program (IMET), una quarantina di appartenenti alle forze armate ruandesi potranno specializzarsi nei principali college di guerra degli Stati Uniti. In aggiunta, Africom offrirà assistenza alla “Scuola Ufficiali” che entrerà in funzione in Rwanda entro il 2012.
È tuttavia l’ambigua operazione di “stabilizzazione del Darfur”, quella che ha assorbito il maggior numero di risorse umane e finanziarie della partnership Washington-Kigali. Attualmente 3,454 “peacekeepers” ruandesi sono impegnati nella regione occidentale del Sudan nell’ambito della missione internazionale voluta dall’ONU e dall’Unione Africana. L’aeronautica militare USA ha garantito tutte le operazioni di trasporto del personale, dei sistemi d’arma e dell’equipaggiamento pesante delle forze armate del Rwanda, sin dall’avvio della missione in Darfur (ottobre 2004). Di conseguenza è frequente la presenza nello scalo aereo di Kigali di aerei cargo C-130 “Hercules” e C-17 “Globemaster” del Comando USA per la Mobilità Aerea (AMC), e di team operativi dell’US Air Force provenienti dalle basi di Ramstein, Mildenhall (Gran Bretagna) e Charleston (South Carolina). L’ultimo grande ponte aereo Rwanda-Darfur è stato attivato da AFAFRICA tra il gennaio e il febbraio di quest’anno. Prima del loro trasferimento, i “peacekeepers” hanno partecipato ad un addestramento specifico a Gako, con l’immancabile presenza dei “consiglieri” di US Army Africa, giunti apposta da Vicenza.
(…)
Nel suo report sui diritti umani del 2007, il Dipartimento di Stato ha infatti stigmatizzato il bilancio del governo del Rwanda in tema di difesa dei diritti dell’uomo. “Ci sono casi di abusi gravi”, segnalava Washington. “Si nota un aumento di esecuzioni extragiudiziarie, di arresti e di detenzioni arbitrarie da parte dei servizi di sicurezza (…) I crimini impuniti rimangono numerosi”. Ciononostante gli aiuti e i programmi di addestramento militare statunitensi sono cresciuti esponenzialmente: il loro valore è stato di 811 milioni di dollari nel biennio 2008-09, più i 500 milioni previsti per il 2010 con l’International Military Education and Training Program (IMET). Altri 200 milioni di dollari in “aiuti militari diretti” dovrebbero arrivare a Kigali il prossimo anno.
La fiducia del Pentagono per la tenuta “democratica” delle forze armate ruandesi non è stata turbata neanche dalle risultanze delle inchieste promosse dalle autorità giudiziarie spagnole e francesi sugli omicidi di cittadini dei due paesi commessi tra il 1990 e il 2002 in Rwanda e nella Repubblica Democratica del Congo. Il 6 febbraio 2008, il tribunale di Madrid ha emesso quaranta mandati di cattura nei confronti di altrettanti militari ruandesi, accusati di genocidio e terrorismo. Tra i principali indiziati, il generale Karake Karenzi, alla guida della forza multinazionale di “peacekeeping” in Darfur. Dopo la conquista Tutsi di Kigali, il generale Karake sarebbe stato tra i responsabili dei massacri scatenati nei campi profughi ai confini con il Congo dove si erano nascosti gli estremisti Hutu responsabili della prima fase del genocidio. Sempre secondo i magistrati spagnoli, nel 2000 l’alto ufficiale era al comando delle truppe che nel corso di uno scontro armato con reparti ugandesi a Kisangani in Congo, causarono la morte di 760 civili innocenti. Grazie alla protezione del presidente Kagame (altro “big” accusato di crimini contro l’umanità) e del grande alleato statunitense, Karake Karenzi è stato mantenuto al suo incarico di vice-comando della missione ONU-UA in Darfur sino al 3 maggio 2009.

Da US Army Vicenza, Africom e il Rwanda: una lezione di cinismo, di Antonio Mazzeo.

La Somalia nel mirino degli USA

somalia

Tutto lascia ormai pensare che si faccia imminente l’attacco contro le basi terrestri dove, secondo il Pentagono, si nasconderebbero i pirati. Negli Stati Uniti sono sempre più numerosi i servizi giornalistici e radiotelevisivi che equiparano “terrorismo islamico” e “pirateria somala”, descrivendo improbabili legami strategico-operativi tra i gruppi di combattenti che si oppongono all’occupazione alleata dell’Iraq e dell’Afghanistan e gli autori degli assalti ai mercantili. L’Associated Press, in un recente articolo a firma della giornalista Lolita C. Baldor, riporta le dichiarazioni di alcuni funzionari dell’esercito e dell’anti-terrorismo USA, secondo i quali “sta crescendo l’evidenza che gli estremisti stanno fuggendo dal confine Pakistan-Afghanistan tentando d’infiltrasi in Africa orientale, portando con loro le sofisticate tattiche terroristiche e le tecniche di attacco acquisite durante sette anni di guerra contro gli Stati Uniti e i loro alleati”.
“L’allarme è che la Somalia si appresti a divenire il nuovo Afghanistan, un santuario dove i gruppi legati ad al-Qaeda potrebbero addestrarsi e pianificare gli attacchi contro il mondo occidentale”, aggiungono le fonti militari. Il numero di estremisti islamici giunti in Corno d’Africa sarebbe ancora abbastanza piccolo, non più di 24-36 persone, “ma una cellula di queste dimensioni è stata responsabile dei devastanti attentati dell’agosto 1998 contro le ambasciate USA in Kenya e Tanzania che causarono la morte di 225 persone”. Il generale William “Kip” Ward, capo di Africom, il Comando statunitense per le operazioni nel continente africano, ha confermato all’Associated Press, l’“inquietudine” delle forze armate USA per quanto starebbe accadendo in Somalia. “Quando hai a disposizione ampi spazi territoriali, che sono senza governo, riesci ad avere un rifugio sicuro per le attività di sostegno e per quelle di addestramento”, ha dichiarato Ward. “E i combatterti stranieri che si stanno trasferendo in Africa orientale accrescono la minaccia terroristica nella regione”.
Secondo il Pentagono, il rischio terrorismo in Somalia proverrebbe dal gruppo islamico Al-Shebab, i cui uomini controllano ormai buona parte del paese, e dall’organizzazione militare nota con l’acronimo EEAQ. “Anche se ancora non viene considerata come una cellula ufficiale di al-Qaeda – scrive l’Associated Press – l’EEAQ ha legami con i maggiori leader terroristici ed è stata implicata negli attentati del 1998 in Tanzania e Kenya”. Secondo Washington, EEAQ ed Al-Shebab potrebbero decidere di addestrasi ed operare congiuntamente, “favorendo l’ingresso delle fazioni terroristiche di al-Qaeda tra le migliaia di miliziani che vivono in Somalia, organizzati prevalentemente su basi claniche e impegnati fino ad oggi in diatribe interne”.
Anche all’interno dell’Alleanza Atlantica non mancano i sostenitori della tesi sulla penetrazione di al-Qaeda in Corno d’Africa. In un’intervista al quotidiano on line Il Velino, un “alto ufficiale di provenienza NATO” ha dichiarato che la Somalia è “al momento utilizzata per reclutare e addestrare guerriglieri da inviare nelle aree ‘calde’”. “Presto però, si passerà ad altro come gli attacchi terroristici”, ha aggiunto l’anonimo interlocutore. Ricordando il sanguinoso attentato suicida del 12 ottobre del 2000 contro la fregata statunitense USS Cole, ancorata nel porto di Aden, l’ufficiale ipotizza che le flotte militari internazionali anti-pirateria potrebbero essere il prossimo bersaglio di un atto terroristico.
Con uno schema propagandistico già sperimentato alla vigilia dell’attacco all’Iraq di Saddam Hussein, gli alti comandi USA e NATO descrivono minuziosamente alleanze e minacce diaboliche, senza fornire però elementi concreti che provino quanto dichiarato. Basta però a creare un clima d’insicurezza generale e legittimare i piani d’intervento militare in Somalia.

Da Alla Turchia il comando della crociata anti-pirati, di Antonio Mazzeo.

Center of Excellence for the Stability Police Units (CoESPU)

coespu

Sovente da queste pagine abbiamo parlato di Vicenza, in merito alla questione del raddoppio della base statunitense presso l’ex aeroporto Dal Molin. Ma nel capoluogo berico sorge un’altra struttura sulla quale vale la pena spendere qualche parola. Dal primo marzo 2005, è stato infatti istituito a Vicenza, presso la caserma Chinotto, il CoESPU (Center of Excellence for the Stability Police Units – Centro di Eccellenza per le Unità di Polizia di Stabilità), struttura nella quale viene addestrato il personale per le PSO (Operazioni per il Supporto della Pace). La creazione del CoESPU venne stabilita (su proposta italiana) nel vertice dei Paesi del G8 tenutosi nel 2004 a Sea Island negli Stati Uniti, occasione nella quale i Paesi partecipanti al vertice hanno formalmente adottato un piano d’azione denominato “Espansione della Capacità Globale nelle Operazioni per il Supporto della Pace”, che mira ad aumentare la capacità globale di sostegno a tali operazioni, in particolare nei Paesi africani.
Le basi erano state gettate nel 2002 al vertice di Kananaskis, dove ci si era prefissi l’obiettivo di far sì che le nazioni africane entro il 2010 potessero partecipare a tali operazioni. La ricerca di un sempre maggiore coinvolgimento dei Paesi africani in questo tipo di operazioni è un chiaro segnale di come gli Stati Uniti siano sempre meno in grado di gestire da soli le situazioni di conflitto da essi stessi generate, in particolare in Afghanistan ed Irak.
L’obiettivo che il Centro si prefigge è l’addestramento entro il 2010 di 7.500 unità, il 10% del quale formato da personale tipo Carabinieri/Gendarmeria. Si conta di aver addestrato entro tale data 3.000 ufficiali e sottufficiali, i quali una volta fatto ritorno al loro Paese di origine potranno addestrare ulteriori 4.500 unità. Il modello al quale ci si ispira è quello delle MSU (Unità Multinazionali Specializzate) che ha fornito personale per le operazioni in Bosnia, Kosovo ed Irak. A tal proposito va evidenziato come la caserma Chinotto sia anche la sede della Gendarmeria Europea, un corpo di oltre 3.000 uomini cui partecipano le forze di polizia militarizzate di Italia, Francia, Spagna, Portogallo ed Olanda. La forza sarà a disposizione dell’Unione Europea ma potrà operare in favore dell’ONU, della NATO, dell’OCSE e di altri organismi internazionali.
Ritornando al CoESPU, il personale che partecipa ai corsi viene preparato ad operare sia in contesti militari che in contesti civili, gestendo la fase di transizione da un contesto di guerra ad un contesto per così dire di normalità.
La durata dei corsi varia dalle 5 alle 7 settimane, le lezioni si tengono in inglese e si concludono con l’assegnazione di un certificato che abilita all’impiego ONU. Va sottolineato che la scuola usufruisce di robusti finanziamenti del governo americano, anche se purtroppo l’ammontare di tali finanziamenti non è noto. Il comando resta interamente italiano, ma il vicedirettore (svincolato dalla catena di comando) è un ufficiale statunitense, ed ulteriori contributi sono stati offerti da Francia e Canada. Al momento i Paesi coinvolti sono una trentina ma sembra siano destinati ad aumentare.
Concludiamo riportando uno dei punti-chiave fra quelli che sono indicati come obiettivi principali del CoESPU, così come riportato sul sito dell’Arma dei Carabinieri: “Interagire con organizzazioni internazionali e regionali, quali le Nazioni Unite, la NATO, l’OSCE, l’Unione Europea […]; accademie ed istituti di ricerca (per es. il George Marshall Center); istituzioni di ricerca militari come il NATO Joint Analysis and Lesson Learned Center o lo US Army Peacekeeping and Stability Operations Institute e lo US Army Center for Lesson Learned”.

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Quello che ricorda per certi aspetti la famigerata “Scuola delle Americhe” che formò migliaia di ufficiali latinoamericani nelle decadi in cui le dittature imperversavano nel continente, si chiama “Center of Excellence for Stability Police Units, (CoESPU)”, e dal marzo 2005 è ospitato presso la Caserma “Chinotto” di Vicenza, sotto il comando dell’Arma dei Carabinieri. Il 4 e 5 maggio, il centro di formazione e addestramento internazionale delle “forze di polizia” africane è stato visitato dal generale William “Kip” Ward, a capo del Comando Africom di Stoccarda. Nell’occasione, Ward ha incoraggiato l’alto ufficiale dei Carabinieri Umberto Rocca, responsabile del CoESPU, a proseguire nello “sviluppo delle abilità degli ufficiali delle forze di polizia africane affinché operino nelle missioni di peacekeeping nel continente”, assicurando che “Africom continuerà a mantenere stretti legami con il Centro d’Eccellenza di Vicenza”. “Fate buon uso di quest’esperienza”, ha poi raccomandato ai militari di Camerun, Nigeria, Mali e Burkina Faso, ospiti di uno dei corsi attualmente in fase di realizzazione nella città veneta. Prima di lasciare la caserma “Chinotto”, lo zar delle nuove campagne USA in Africa ha rivelato che Serbia, Nepal ed Indonesia potrebbero inviare presto propri reparti per potenziare le missioni internazionali di “peacekeeping” nel continente.
(…)
Durante la sua visita a Vicenza, il capo supremo di Africom si è recato pure a Camp Ederle. A conclusione dell’incontro con il generale William B. Garrett III, comandante di US Army Africa, William Ward ha voluto ringraziare ufficialmente i militari statunitensi per il ruolo assunto nelle missioni in terra d’Africa. “US Army Africa sta supportando Africom in una serie d’incarichi finalizzati a migliorare le funzioni dei militari africani, costruire partenariati e promuovere forze militari professionali”, ha dichiarato l’alto comandante USA.
“In Rwanda, il personale US. Army lavora attualmente insieme ai militari della Gran Bretagna per addestrare i soldati ruandesi. In Liberia, più di una dozzina di sottufficiali dell’esercito statunitense appoggiano il Liberia Security Sector Reform, un programma diretto dal Dipartimento di Stato per aiutare la ricostituzione delle forza armate liberiane”, ha aggiunto Ward. “Altre missioni degne di menzione includono i programmi logistici a favore di Botswana, Uganda e Rwanda. Ufficiali dell’US Army operano con la African Partnership Station, la missione della marina statunitense in Africa occidentale, e con la Combined Joint Task Force – Horn of Africa, la forza militare che opera congiuntamente con i nostri partner in Africa orientale”.
Vicenza si conferma sempre più il cuore strategico delle operazioni terrestri di Africom.

Da Vicenza è sempre più Africom, di Antonio Mazzeo.

“La sfida più grande si giocherà a Vicenza”

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Chissà se si riferiva alle proteste dei No base o alle questioni burocratiche made in Italy. Però lo ha detto chiaro: «La sfida più grande? Sarà la nuova base a Vicenza».
Lui è il generale Carter Ham, comandante dell’US Army Europe, che durante una conferenza stampa al Pentagono parlava della pesante ristrutturazione delle forze armate USA in Europa, del suo timore che in Germania restino troppo pochi soldati e delle varie dislocazioni dei battaglioni. E quando davanti ai giornalisti americani cita Vicenza e il Dal Molin il generale Carter Ham non nasconde come stanno le cose: «La sfida più grande («the biggest challenge») che ci resta per la trasformazione del comando è il consolidamento della 173esima Airborne Brigade Combat Team in Italia».
Insomma è proprio sul Dal Molin che si gioca, sostiene il generale, tutta la riorganizzazione dell’esercito statunitense in Europa.
«Quell’unità ha adesso alcune truppe in Germania, ma si riunificherà a Vicenza con la costruzione di nuovi edifici». Quindi il Pentagono, a sentire il comandante dell’US Army in Europa, sulla nuova base nell’ex aeroporto vicentino e sull’allargamento della Ederle ci conta eccome. «Per ospitare – si legge nell’articolo comparso sul sito web Armytimes.com – i 3.800 soldati della 173rd brigata oltre ai loro parenti e agli impiegati civili».
Dal Molin a parte, il generale Carter Ham era andato al Pentagono per chiedere di cambiare il progetto iniziale di ristrutturazione dell’esercito americano in Europa. «Meglio fermarci a quarantaduemila soldati e non, come previsto dal programma iniziale, di ridurli a trentaduemila entro il 2012-13». In altre parole mantenere tra Italia e Germania quattro combat team e non due come vorrebbe il Pentagono.
Carter Ham ha parlato anche del neonato US Africa Command che, sempre a Vicenza, ha sostituito la vecchia Setaf: «Così come è strutturato oggi non avrà a disposizione truppe ma dovrà servirsi di quelle sparse in Europa». E solo quando ci saranno le condizioni logistiche e di fondi l’esercito trasferirà il comando dalla Ederle all’Africa.

Da Il Giornale di Vicenza del 4 marzo 2009, p. 19, di Al. Mo.

Le dichiarazioni del generale Prosciutto sono riportate più estesamente da Antonio Mazzeo, il quale sottolinea come il programma di ridimensionamento delle forze statunitensi in Europa – in corso da alcuni anni – sembri destinato ad interrompersi.
Da Potenziate le basi dell’esercito USA in Europa:

Uno stop al piano di riduzione delle forze terrestri USA in Europa. Lo ha chiesto il comandante dell’US Army nel vecchio continente, generale Carter F. Ham, in occasione della sua recente visita a Washington dove ha incontrato gli alti comandi dell’esercito e del Dipartimento della difesa. Ham ha raccomandato che il numero dei militari in forza al comando USAREUR, venga congelato al suo livello odierno di 42,000 unità, bloccando il programma che prevede il ridimensionamento ad un massimo di 32,000 soldati entro il 2012-13. Nello specifico, il Pentagono ha programmato la riduzione della presenza in Europa da quattro a due brigate pesanti (la 2^ Stryker Brigade a Vilseck, Germania e la 173^ Brigata Aviotrasportata a Vicenza, Italia).
Il generale Ham ha spiegato che il commando USAREUR ha bisogno di una forza maggiore per “rispondere efficacemente alle richieste operative in Iraq, Afghanistan, nei Balcani e dove sarà necessario”, e per condurre simultaneamente “l’ambizioso programma di addestramento con gli alleati, particolarmente con le nuove nazioni appartenenti alla NATO e con quelle che hanno fatto richiesta di entrare nell’organizzazione”.
Negli ultimi anni, il Pentagono ha chiuso in Europa 43 tra basi e piccole installazioni dell’US Army, richiamando negli Stati Uniti 11.000 militari. Il piano di riduzione prevede adesso il ritiro della 172^ Brigata di fanteria (oggi di stanza nelle città tedesche di Schweinfurt e Grafenwöhr) e della 1^ Divisione Corazzata di Baumholder (ancora in Germania), destinata a Fort Bliss, Texas. La richiesta formalizzata dal generale Carter F. Ham potrebbe tuttavia condurre a una modificazione di questo scenario.
’US Army punta intanto a centralizzare i suoi reparti di guerra in cinque grandi centri “hub”, quattro in Germania (Ansbach, Grafenwöhr, Kaiserslautern e Wiesbaden), ed uno in Italia, per l’appunto Vicenza. Nel budget previsto per il 2009 dall’amministrazione USA per il potenziamento delle basi militari all’estero, è prevista una spesa di 349 milioni di dollari per le infrastrutture e le postazioni ospitate in questi “hub” europei dell’esercito.
(…)

Nella foto: il ritrovamento di alcune bombe inesplose della Seconda Guerra Mondiale durante i lavori in corso all’aeroporto Dal Molin di Vicenza.

AFRICOM: un Comando del Pentagono, rifiutato dall’Africa, accolto tra Sigonella, Ederle e Dal Molin

africom

Nel Dicembre 2008 il Ministro degli Esteri annunciava un importante accordo dalle pesanti ricadute in politica interna e internazionale: Africom sarebbe stato ospitato in Italia. Pochissimi ne hanno preso atto con la serietà e la preoccupazione che sarebbe stata necessaria, pochi di più ne sanno qualcosa. Non se ne parla affatto, né ne è stato discusso in Parlamento o nelle amministrazioni locali delle regioni interessate, eppure, il nostro Paese ospiterà il comando del Pentagono, coordinato tra Vicenza e Napoli, nella basi operative americane Ederle, Dal Molin e Sigonella; a quest’ultima – come s’è appurato nel 2005 – fa già capo la centrale d’intelligence per le operazioni anti-terrorismo in Africa: un osservatorio di telecomunicazioni e aerei P-3C Orion gestiscono il controllo di un’area compresa tra Golfo di Guinea e Corno d’Africa e ora sopraggiungeranno altri soldati (750), armamenti e logistica. Alex Zanotelli e la sua rete stanno facendo molto per sensibilizzare la cittadinanza circa i modi in cui una decisione di tale importanza sia stata presa senza alcun riguardo per le Istituzioni: noi, in qualità di studiosi, invitiamo a prendere in seria considerazione le implicazioni di un simile accordo.
Segue l’informativa e le firme dei sottoscrittori.

Studiosi africanisti e di diverse aree disciplinari desiderano portare all’attenzione nazionale come sia passata inosservata la decisione, esternata poco prima di Natale dal Ministro degli esteri Frattini, di offrire ospitalità ad AFRICOM sul nostro territorio, e precisamente a Napoli e Vicenza (basi operative Ederle, Dal Molin e Sigonella), senza alcuna discussione in Parlamento o, quantomeno, senza alcun coinvolgimento apparente delle amministrazioni locali coinvolte [1]. Un dibattito aperto su una questione così delicata avrebbe probabilmente permesso di far riflettere questo Governo circa le reali implicazioni non solo interne, ma anche internazionali di una tale decisione e non solo alla luce di un prevedibile passaggio di consegne dall’Amministrazione Bush a quella di Obama, ma nel rispetto dell’autodeterminazione dei popoli e degli Stati.
Pochi sanno di cosa si tratti e ci sembra quindi opportuno offrire degli elementi che consentano di farsi un quadro più preciso della situazione.
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L’Alliance Ground Surveillance (AGS) a Sigonella

ags

Ignazio La Russa ce l’ha fatta. Lo aveva promesso nel giugno 2008: “Faremo di Sigonella una delle più grandi base d’intelligence del mondo”. Adesso è certo: la stazione aeronavale in mano all’US Navy ospiterà il nuovo sistema AGS (Alliance Ground Surveillance) dell’Alleanza Atlantica per la sorveglianza della superficie terrestre e la raccolta e l’elaborazione d’informazioni strategiche. Il governo italiano ha sbaragliato un’agguerritissima concorrenza: a volere i sofisticati impianti di spionaggio c’erano Germania, Grecia, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna e Turchia. Gli investimenti in infrastrutture per oltre un miliardo e 560 milioni di euro facevano gola a tutti. Gli Stati Uniti dovevano però ripagare in qualche modo l’incondizionata fedeltà dei governi d’Italia alle scelte più scellerate di questi ultimi anni (guerre in Afghanistan e Iraq, nuova base militare di Aviano, comandi AFRICOM a Napoli e Vicenza, stazione radar satellitare MUOS a Niscemi, interventi in Libano, Darfur, Somalia e adesso Gaza). Roma dovrà comunque sborsare 150 milioni di euro entro la fine del 2010, anno in cui l’AGS diventerà pienamente operativo. Ma gli affari per i soliti noti del settore costruzioni militari è assicurato.
(…)
L’elemento cardine del sistema sarà rappresentato da un modernissimo velivolo senza pilota equipaggiato con sistemi radar e sensori in grado di rilevare, seguire ed identificare con grande accuratezza e da grande distanza il movimento di qualsiasi veicolo sul terreno. Lo scorso anno, l’Alleanza Atlantica ha formalizzato la scelta per l’Euro Hawks UAV, una variante specifica dell’RQ-4B Global Hawk acquisito da US Air Force e US Navy, che offrirebbe “maggiori benefici in termini di supporto logistico, manutenzione ed addestramento”.
(…)
Il primo prototipo di Euro Hawk diventerà operativo entro il 2009: due colossi del complesso militare industriale, Northrop Grumman ed EADS lo stanno costruendo dopo aver sottoscritto un contratto di 410 milioni di euro. I velivoli senza pilota della NATO destinati a Sigonella dovrebbero essere 6, a cui si aggiungeranno i 4 RQ-4B che l’US Air Force dislocherà in Sicilia quando saranno completati i lavori di realizzazione degli hangar di manutenzione degli aerei. “L’AGS è uno dei più costosi programmi di acquisizione intrapresi dall’Alleanza”, dicono a Bruxelles. Per l’intero sistema di rilevazione è infatti prevista una spesa che sfiora i 4 miliardi di euro. A beneficiarsene sarà un consorzio costruito ad hoc da imprese statunitensi ed europee: oltre a Northrop ed EADS ci sono pure General Dynamics, Thales e l’italiana Galileo Avionica, società del gruppo Finmeccanica. Se era ormai nota da tempo la notizia dell’arrivo a Sigonella di squadriglie di velivoli spia senza pilota, ha destato sorpresa l’accenno del Capo di Stato Maggiore della Difesa, Vincenzo Camporini, all’“allestimento a Sigonella del sistema SIGINT” (acronimo di Signals Intelligence). Ha dichiarato Camporini: “Abbiamo scelto questa base dopo un’attenta valutazione e per la sua centralità strategica nel Mediterraneo che le consentirà di concentrare in quella zona le forze d’intelligence italiane, della NATO e internazionali”. A Sigonella saranno dunque centralizzate le attività di raccolta d’informazioni ed analisi di comunicazioni, segnali e strumentazioni straniere, trasformando la Sicilia in un’immensa centrale di spionaggio mondiale. Un “Grande Fratello” USA e NATO, insomma, ma non solo. I sistemi di Signals Intelligence hanno infatti una funzione determinante per scatenare il “first strike”, convenzionale o nucleare che sia. Sono lo strumento chiave di ogni “guerra preventiva”. Una delle articolazioni SIGINT è la cosiddetta ELINT – Electronic Intelligence, che si occupa in particolare d’individuare la posizione di radar, navi, strutture di comando e controllo, sistemi antiaerei e missilistici, con lo scopo di pianificarne la distruzione in caso di conflitto. Per il funzionamento di aerei senza pilota, AGS e centrali di spionaggio, il ministro della difesa ha preannunciato l’arrivo in Sicilia di “800 uomini della NATO, con le rispettive famiglie”. I solerti sindaci dei comuni di Motta Sant’Anastasia (Catania) e Lentini (Siracusa) sono stati premiati. Ben quattro varianti ai piani regolatori approvate negli ultimi anni, consentiranno bibliche colate di cemento su terreni agricoli e aranceti: su di essi prolifereranno residence e villaggi per i militari nordamericani.

Da Il Grande Fratello di Sigonella, di Antonio Mazzeo.
[grassetti nostri]

agslogo

Secondo il governo Zapatero, con l’AGS a Zaragoza la Spagna avrebbe dovuto contribuire con 90 milioni di euro, il 5,8% del budget previsto per il sistema. Ignazio La Russa fa invece fa riferimento ad un contributo italiano per Sigonella di 150 milioni di euro, il 10% cioè del costo del programma. Come fa l’Italia a giudicare attrattivo l’AGS quando spenderà quasi il doppio di quanto avrebbe speso Madrid, che però si è ritirata per la scarsa sostenibilità di quell’investimento?
Ma non è ancora finita. Il rappresentante del governo, Javier Fernández, ha infatti spiegato ai giornalisti che l’AGS a Zaragoza “presentava molti inconvenienti perché, dovendo essere implementato nei pressi dell’aeroporto della città, poteva generare restrizioni al traffico aereo, saturazione nello spazio aereo e problemi durante gli atterraggi e i decolli. Proprio per questo l’uso di aerei senza pilota non è stato ancora regolato in Spagna”. Prima il governo Prodi, poi quello Berlusconi, devono probabilmente aver dimenticato che a Sigonella operano quotidianamente centinaia di cacciabombardieri, aerei cargo e cisterna di Stati Uniti, Italia e alleati NATO, e che a meno di una ventina di chilometri sorge lo scalo di Catania-Fontanarossa, più di due milioni di passeggeri all’anno, il cui traffico è regolato da due impianti radar di Sigonella, gestiti da personale dell’Aeronautica militare italiana.
A credere alle promesse di ricaduta economica e occupazionale dell’AGS c’è comunque il quotidiano La Sicilia di Catania che ha ottenuto dal ministro La Russa una lunga intervista. “Sigonella diventerà ancora di più un punto nevralgico della sicurezza dove si concentreranno le forze di intelligence dell’Italia e della NATO, e questo non solo aumenterà il ruolo italiano nella NATO, ma sul piano sociale darà posti di lavoro con l’arrivo di alcune migliaia di americani, cioè le 800 famiglie dei militari, che diventeranno piccoli ambasciatori della Sicilia”, ha spiegato La Russa. “Sigonella aveva il vantaggio di trovarsi geograficamente in posizione ottimale per il controllo sia dello spazio aereo europeo e sia di quello dell’Africa e del Medio Oriente, mentre se fosse stata scelta una base tedesca il controllo della zona sud sarebbe stato difficoltoso. Sono lieto di aver portato questa iniziativa nella mia Sicilia, contribuendo in questo modo anche allo sviluppo del territorio”.
Sarà opportuno non dimenticare che a capo dello storico quotidiano siciliano c’è l’editore-industriale-costruttore Mario Ciancio, proprietario di un immenso aranceto nel territorio di Lentini che, provvidenzialmente, l’amministrazione comunale ha autorizzato a variarne la destinazione d’uso. Vi potranno essere costruite più di mille villette unifamiliari per il personale USA di Sigonella. Per il progetto esecutivo e i futuri lavori esiste già una società, la Scirumi Srl. I soci? La Maltauro di Vicenza e la famiglia Ciancio, naturalmente.

Da Le beffe dell’AGS Nato che il ministro La Russa impone a Sigonella, di Antonio Mazzeo.
[grassetti nostri]

L’AFRICOM (e l’Italia) in Darfur

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Il Comando USA per le operazioni in Africa, AFRICOM, ha dato il via ad un ponte aereo per trasferire in Darfur, via Ruanda, 75 tonnellate di materiali pesanti (camion per il trasporto carburante, elevatori, depositi d’acqua ed attrezzature varie non meglio specificate), a sostegno dell’ambigua operazione di “peacekeeping” che ONU e Unione Africana sostengono nella regione occidentale del Sudan dal 2004.
La missione aerea, la maggiore mai realizzata da quando il comando è divenuto operativo, prevede l’utilizzo di due aerei cargo C-17 “Globemaster III” dell’Air Mobility Command (AMC), ed è stata autorizzata l’1 gennaio 2009 dal presidente uscente George W. Bush. In una nota inviata alla Segretaria di Stato Condoleezza Rice, è stata definita d’“importanza strategica per gli interessi e la sicurezza degli Stati Uniti d’America”.
Le operazioni di trasporto saranno coordinate dal 618th Tanker Airlift Control Center dell’AMC, con sede presso la Scott Air Force Base, e dalla “Seventeenth Air Force” USA, riattivata nella base tedesca di Ramstein quale principale strumento operativo aereo di AFRICOM.
Secondo Vince Crawley, portavoce del Comando USA per l’Africa, “i velivoli C-17 effettueranno numerosi viaggi tra l’aeroporto di Kigali, Ruanda, ed uno scalo aereo in Darfur non ancora individuato, dove le truppe statunitensi opereranno solo il tempo richiesto per le attività di scarico dei materiali”. Parallelamente al dispositivo attivato dal Pentagono, il Dipartimento di Stato avvierà un analogo intervento in Darfur con fondi propri, che vedrà l’affidamento ad una compagnia aerea privata della movimentazione di circa 240 container di “materiali pesanti” che giungeranno a Port Sudan, città nordorientale sul Mar Rosso.
(…)
Molto probabilmente, il ponte aereo USA-Germania-Ruanda-Sudan coinvolgerà direttamente il nostro paese, in primo luogo la base siciliana di Sigonella, che l’Air Mobility Command vorrebbe trasformare in uno dei principali scali europei dei velivoli cargo e cisterna USA. In un’intervista rilasciata al periodico Air Forces Magazine (novembre 2008), il generale Duncan J. McNabb, la più alta autorità militare nel settore del trasporto aereo statunitense, ha spiegato che “per assicurare il successo dell’intervento in Africa”, è indispensabile “sviluppare le infrastrutture delle basi chiave, come Lajes Field, l’isola Ascensione nell’Atlantico e Sigonella, Sicilia”. “L’Air Mobility Command – ha aggiunto McNabb – sta lavorando con il comando dell’US Air Force in Europa per trasferire in queste installazioni, dalla base aerea di Ramstein, Germania, il traffico aereo di AFRICOM”.
L’Italia, però, non si limiterà a fornire basi logistiche per i velivoli da trasporto delle forze armate USA. Alla vigilia di Natale, il ministro della Difesa Ignazio la Russa, e il capo di stato maggiore Vincenzo Camporini hanno annunciato che le nostre forze armate si stanno preparando a partecipare alla missione congiunta ONU-UA nel Darfur, “mettendo a disposizione i propri velivoli da trasporto e proteggere le popolazioni locali da una sorta di pulizia etnica che in qualche modo si suppone guidata da poteri politici locali”.
(…)

Da Anche l’Italia giocherà un ruolo nel Darfur, di Antonio Mazzeo.

Aerei spia USA a Vicenza

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L’Esercito USA ha assegnato un plotone di aerei senza pilota (UAV) “Shadow 200” alla 173^ Brigata Aerotrasportata di Vicenza. Lo ha reso noto il comandante del “Joint Multinational Training Command” dell’US Army, colonnello Tim Touzinsky. Annunciando l’intenzione del Pentagono di realizzare a Grafenwöhr, Germania, la principale area addestrativa in Europa dei nuovi aerei spia, Touzinsky ha accennato all’attivazione di tre plotoni “Shadow”, il primo presso la 172^ Brigata di Fanteria di Grafenwöhr, il secondo presso il 2° Reggimento di cavalleria di Vilseck (Germania), e il terzo presso la 173^ Brigata di Vicenza.
(…)
I residenti che vivono attorno all’aeroporto Dal Molin di Vicenza sono avvisati. Gli aerei spia “Shadow 200” hanno una spiccata propensione a schiantarsi a terra dopo il decollo, come è confermato dalle cronache dei primi voli sperimentali eseguiti in Kosovo nel 2004. Nei soli primi due giorni d’addestramento, l’US Army perdette due velivoli e fu costretta a sospenderne la sperimentazione. Dopo la “correzione” di alcuni problemi tecnici agli apparati di bordo furono riprese le operazioni, ma altri due gravi incidenti imposero un lungo stop ai nuovi aerei senza pilota. Furono poi testati negli scenari di guerra afghano ed iracheno. Qualche mese fa, gli “Shadow 200” sono stati dislocati dalla 172^ Brigata di Fanteria dell’US Army presso la base avanzata “Warhorse” di Baqubah, Iraq.
(…)
L’attribuzione di un plotone di “Shadow 200” alla 173^ Brigata Aviotrasportata di Vicenza va infatti interpretata nel quadro dei nuovi piani USA di penetrazione in Africa, insieme alla recentissima trasformazione del comando SETAF (Southern European Task Force) – ospitato anch’esso nella città veneta – in US Army Africa, la componente terrestre di Africom. Il 9 dicembre 2008, alla presenza dei due massimi rappresentanti dell’esercito USA in Europa, il generale William E. Ward, comandante Africom, e il generale Carter Ham, comandante di US Army Europe, la SETAF ha mutato emblema e bandiera, assumendo il ruolo di reparto d’élite per l’intervento armato nel continente africano. In realtà, per la SETAF di Vicenza non si tratterrà di un debutto in Africa. La forza aerotrasportata ha infatti una lunga storia operativa in questa vasta area geografica. Nel 1994, gli uomini della 173^ Brigata furono inviati in Rwanda per un’ambigua operazione di “peacekeeping” che non impedì lo sterminio di centinaia di migliaia di civili durante il conflitto interno. Due anni più tardi la SETAF fu mobilitata per facilitare l’evacuazione di personale USA presente a Monrovia, Liberia.
Ancora nel 1996, i reparti USA di Vicenza presero parte alla “Joint Task Force Guardian Assistance” inviata in Uganda e Rwanda per “assistere” le operazioni di rimpatrio dei rifugiati ruandesi dall’allora Zaire. Quando una parte dei rifugiati rientrò nel paese d’origine, la missione USA si trasformò in assistenza militare e logistica a favore delle nuove autorità del Rwanda. Nel 1997 fu la volta della Repubblica del Congo, dove la 173^ Brigata fu schierata per fornire “assistenza” all’evacuazione di popolazione non combattente proveniente dallo Zaire. Quando il paese fu nominato “Repubblica Democratica del Congo”, gli obiettivi della missione furono ridisegnati, e i militari USA si trasformarono in “consiglieri” del governo di transizione.

Da Aerei spia “Shadow” alla 173^ Brigata aerotrasportata di Vicenza, di Antonio Mazzeo.

L’AFRICOM a Vicenza (e Napoli)

Roma, 2 dicembre – Dovrebbe essere ospitato nelle basi americane di Vicenza e Napoli il nuovo “Comando AFRICOM”. E’ quanto apprende l’Adnkronos da fonti informate alla vigilia di una conferenza stampa alla Farnesina del ministro degli Esteri Franco Frattini e dell’ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli, durante la quale dovrebbe arrivare l’annuncio.
(Adnkronos)

Bruxelles, 2 dicembre – “Ci sono quattro componenti di AFRICOM, di cui due saranno ospitate in Italia, una a Vicenza e l’altra a Napoli”. Lo ha detto il ministro degli Esteri Franco Frattini, in una conferenza stampa a Bruxelles, confermando quanto scritto dall’Adnkronos e precisando che “non ci sono truppe americane assegnate su base permanente a queste componenti”.
(Adnkronos/Aki)

Roma, 3 dicembre – “Un grande aspetto della politica estera americana è che c’è poca discontinuità e grande continuità e per questo penso che gli ottimi rapporti Italia-USA continueranno”. Lo ha detto l’ambasciatore statunitense a Roma, Ronald Spogli, in una conferenza stampa congiunta alla Farnesina con il ministro degli Esteri, Franco Frattini. Per Spogli, “l’Italia per molti motivi è un Paese chiave per gli Stati Uniti”, un “partner coinvolto in teatri molto importanti, come il Libano, i Balcani e l’Afghanistan”. E, con l’insediamento di Barack Obama, “non c’è motivo per un cambiamento in questi rapporti”. “Contiamo molto sul contributo italiano” in Afghanistan, ha aggiunto Spogli.
(AGI)

africom

“Ripetendo il copione che caratterizza ogni scelta di politica militare, sono tante le menzogne e le omissioni del governo italiano. Nel corso di una conferenza stampa, presente l’ambasciatore statunitense in Italia Ronald Spogli, il ministro Frattini ha dichiarato che le due componenti di AFRICOM che saranno ospitate a Napoli e Vicenza, «operano nel quadro della NATO». Ebbene, al contrario di quanto dice Frattini, AFRICOM è stato istituito lo scorso anno dell’amministrazione Bush senza consultare gli alleati atlantici. Il Pentagono ha deciso unilateralmente le finalità dell’intervento in Africa [lotta al terrorismo, addestramento e armamento dei paesi partner] e i tempi di attivazione del comando transitorio di Stoccarda [Germania], delle basi e delle unità destinate ad intervenire in Africa. Le operazioni [molte delle quali segrete] e le esercitazioni che si realizzano nel continente sono gestite esclusivamente da personale statunitense. Fare riferimento alla NATO per le operazioni USA in Africa è solo un modo per occultare la piena sudditanza di Roma a Washington.
(…)
Il ministro degli esteri ha pure aggiunto che «non ci saranno truppe da combattimento americane assegnate su base permanente» a Napoli e Vicenza, ma solo «componenti civili». Frattini, cioè, enfatizza le finalità di «assistenza umanitaria» del nuovo comando USA occultando ciò che ha fortemente irritato il Congresso e buona parte delle organizzazioni non governative degli Stati uniti. A Stoccarda, infatti, solo una decina di persone assegnate ad Africom non sono dipendenti del Dipartimento della Difesa, mentre più di mille sono i militari di aeronautica, esercito, marina, guardia costiera e corpo dei marines.
Frattini, bontà sua, precisa che «i problemi dell’Africa non si risolvono con truppe da combattimento», e che nel malaugurato caso in cui ci fosse bisogno di esse, «queste proverranno dalla Germania ma non dall’Italia». Ma non vengono forse dalle basi tedesche di Bamberg e Scweinfurt i reparti della 173esima Brigata aviotrasportata che raggiungeranno Vicenza quando saranno conclusi i lavori all’aeroporto Dal Molin?
(…)
All’ambasciatore statunitense Ronald Spogli va riconosciuta maggiore sincerità. «Gli obiettivi dei nuovi comandi AFRICOM – ha dichiarato – vertono su sicurezza e incremento dell’assistenza umanitaria, attraverso quattro attività: prevenzione dei conflitti; promozione della crescita economica; controllo dei flussi migratori e prevenzione del terrorismo».Per Spogli, la creazione dei due comandi subordinati di Napoli e Vicenza «favorirà la cooperazione Italia-USA, come già si sta facendo nell’ambito delle iniziative G8 per l’addestramento delle forze di peacekeeping e nelle azioni contro la pirateria a largo delle coste somale». Una strizzatina d’occhio agli accordi multimilionari sottoscritti dai complessi militari-industriali dei due paesi e all’ex premier Romano Prodi, nominato dall’ONU quale responsabile degli interventi di «peacekeeping» in Africa. Quando si dice scelte bipartisan.”

Da L’Italia raddoppia: Africom a Napoli e Vicenza, di Antonio Mazzeo.

L’AFRICOM e “la portaerei nel Mediterraneo”

Dopo quattro anni in cui il Pentagono gli ha cercato una sede in giro per il continente ed in attesa di porlo nella base di Camp Lemonier a Gibuti, lo scorso 1 ottobre 2008 si è insediato AFRICOM, il comando delle forze armate USA per l’Africa, diretto dal generale William E. (Kip) Ward. Per ora a Stoccarda, città tedesca che ospita anche il comando per l’Europa, detto EUCOM. La centrale d’intelligence per le operazioni in Africa è tuttavia presente da cinque anni nella base aeronavale di Sigonella. Nel più assoluto segreto, stazioni di telecomunicazioni e aerei P-3C Orion coordinano la “Guerra globale al Terrorismo” in un’area compresa tra il Golfo di Guinea e il Corno d’Africa.
Il generale James L. Jones, comandante dell’EUCOM, in un’audizione davanti alla sottocommissione difesa del Senato, l’1 marzo 2005, aveva dichiarato che “EUCOM ha istituito nel dicembre 2003 la Joint Task Force denominata Aztec Silence, ponendola sotto il comando della VI Flotta USA, per contrastare il terrorismo transnazionale nei Paesi del nord Africa e costruire alleanze più strette con i governi locali”. Il generale statunitense si era poi soffermato sulle unità d’eccellenza prescelte per coordinarne le operazioni. “A sostegno di JTF Aztec Silence, le forze d’intelligence, sorveglianza e riconoscimento (ISR) della US Navy basate a Sigonella, Sicilia, sono state utilizzate per raccogliere ed elaborare informazioni con le nazioni partner. Questo robusto sforzo cooperativo ISR è stato potenziato grazie all’utilizzo delle informazioni raccolte dalle forze nazionali locali”.
Sino allo scorso anno, la “JTF Aztec Silence” si basava sullo sforzo operativo di differenti squadroni di pattugliamento aereo della US Navy che venivano trasferiti in Sicilia per periodi di circa sei mesi da basi aeronavali statunitensi. Il 7 dicembre 2007, tuttavia, il Comando Centrale degli Stati Uniti ha istituito il “Patrol Squadron Sigonella (Patron Sig)”, assegnando in pianta stabile in Sicilia uomini e mezzi provenienti da tre differenti squadroni di pattugliamento aeronavale (il VP-5, il VP-8 e il VP-16), più il personale del “Consolidated Maintenance Organization” di Jacksonville (Virginia), addetto alla manutenzione dei velivoli.
Le operazioni del “Patron Sig” sono pianificate e dirette dal “Sigonella’s Tactical Support Center” (TSC), uno dei nodi a livello mondiale della Rete di comando e controllo della Marina USA. “TSC Sigonella – spiega il comando delle forze navali USA in Europa – fornisce 24 ore su 24 il supporto alle operazioni di comando, controllo, comunicazione, computer ed intelligence (C4I) per il pattugliamento aereo marittimo nel teatro europeo ed in buona parte del continente africano”.

Alla “JTF Aztec Silence” sono attribuite le missioni della “Operation Enduring Freedom – Trans Sahara” (OEF-TS), il complesso delle operazioni militari condotte dagli Stati Uniti e dai suoi partner africani nella vasta area del Sahara-Sahel. In OEF-TS le forze armate USA possono contare sulla collaborazione di ben undici Paesi: Algeria, Burkina Faso, Libia, Marocco, Tunisia, Ciad, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria e Senegal. Grazie ad OEF-TS, Washington addestra, equipaggia ed assiste gli Stati partner.
Più propriamente, OEF-TS è la componente militare della più ambiziosa “Trans Sahara Counter Initiative” (TSCTI), il piano a lungo termine degli Stati Uniti d’America per “prevenire i conflitti” nella regione, “attraverso un’ampia gamma di strumenti politici, economici e per la sicurezza”. Il TSCTI prevede al suo interno una “componente civile”, in cui è importantissimo il ruolo di USAID, l’agenzia statunitense per la cooperazione allo sviluppo. All’iniziativa trans-sahariana sono stati destinati 31 milioni di dollari nel 2006, 82 milioni nel 2007 ed è prevista una spesa di circa 100 milioni all’anno dal 2008 al 2013. A ciò si aggiungono i 1.300 milioni di dollari già approvati dal Congresso per l’anno 2009 per l’esecuzione di “programmi militari bilaterali” con i Paesi africani e l’attivazione del nuovo comando AFRICOM a Stoccarda.

Se per le attività belliche nello scacchiere nord-occidentale EUCOM ha creato la “JTF Aztec Silence”, nel Corno d’Africa, Mar Rosso e Golfo di Aden opera dal 2002 la “Combined Joint Task Force – Horn of Africa” (CJTF-HOA). Della CJTF-HOA fanno parte oltre 1.800 militari di esercito, marina ed aeronautica USA, più i rappresentanti dei Paesi membri della coalizione (Gibuti, Etiopia, Eritrea, Kenya, Uganda, Somalia, Sudan, Tanzania, Yemen, Seychelles, Isole Comore, Mauritius e Madagascar). I comandi ed i centri operativi della sono stati insediati a Camp Lemonier, dove sono in corso alcune delle opere infrastrutturali più costose delle forze armate USA (oltre 120 milioni di dollari nel 2007 per la realizzazione di piste e parcheggi aeroportuali, impianti elettrici e depositi carburanti). Ad esse non hanno fatto mancare il loro apporto i reparti di stanza a Sigonella, primi fra tutti i “Seabees” del Genio della Marina e l’“Explosive Ordnance Disposal Mobile Unit 8” (EODMU8), il reparto speciale utilizzato per l’individuazione di esplosivi “nemici”, la manutenzione di mine, armi convenzionali, chimiche e nucleari e la loro installazione a bordo di portaerei e sottomarini.
EODMU8 opera senza interruzione a Gibuti dalla primavera del 2004 ed è intervenuto anche nell’addestramento di unità speciali “anti-terrorismo” dei Paesi alleati USA della regione. In particolare, il gruppo mobile di Sigonella ha operato a fianco delle forze armate di Etiopia e Kenya alla vigilia dell’attacco scatenato a fine 2006 contro le Corti Islamiche somale. Proprio in preparazione dell’intervento militare USA in Somalia, dal maggio al novembre 2006 furono trasferiti dalla Virginia in Sicilia i reparti di volo del “Patrol Squadron 16 VP-16” (oggi in buona parte confluiti nel “Patrol Squadron Sigonella”).

E sempre Sigonella pare destinata ad ospitare anche il nuovo sistema di sorveglianza Alliance Ground Surveillance (AGS), dopo che la candidatura avanzata dal ministro della Difesa Ignazio La Russa ha ricevuto il gradimento da parte del suo omologo statunitense Robert Gates. E’ l’esito della visita ufficiale condotta oltre oceano dal titolare della Difesa alla fine di ottobre, che è così riuscito a superare la “concorrenza” dei tedeschi. L’AGS è un sistema finalizzato a potenziare la capacità di proiezione della NATO “fuori area”, rendendo più incisivo il ruolo svolto dalla forza di risposta rapida NRF. Che il costo di questo progetto sia sostenibile come auspicato da La Russa appare quantomeno improbabile, la NATO stessa definendolo come uno dei suoi programmi più costosi, per una spesa totale di almeno 4 miliardi di euro.

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“Stando a quanto preannunciato dal Comando dell’US Air Force in Germania, a Sigonella opererà uno squadrone con cinque velivoli. Nella base siciliana sarà pure realizzato il Global Hawk Aircraft Maintanance and Operations Complex, il complesso per le operazioni di manutenzione degli aerei senza pilota che US Air Force e US Navy schiereranno periodicamente per missioni di spionaggio e “anti-terrorismo” in Europa, Medio Oriente e continente africano.
I Global Hawk hanno assunto un ruolo determinante nelle strategie di guerra degli Stati Uniti d’America. Realizzati negli stabilimenti della Northrop Grumman di San Diego (California) e della Raytheon Systems di Falls Church, Virginia, possiedono grande autonomia di volo ed un estesissimo raggio di azione. I Global Hawk sono strumenti teleguidati con caratteristiche simili ai missili da crociera Cruise, poiché volano secondo mappe predeterminate che possono mutare in qualsiasi momento su ordine dei centri operativi terrestri.
Il nuovo velivolo senza pilota sarà il nucleo vitale del sistema AGS – Alliance Ground Surveillance (sorveglianza alleata terrestre), che la NATO prevede di rendere operativo sin dal prossimo anno. Il sistema diverrà lo strumento d’intelligence prioritario per gli interventi della Forza di Risposta Nato (NRF) attivata recentemente dall’Alleanza Atlantica. Il ministro della difesa La Russa vuole a tutti i costi che il Centro di comando AGS venga ospitato in Italia. Dove? Ma a Sigonella naturalmente.”
Tratto da È ufficiale: a Sigonella i Global Hawk dell’US Air Force, di Antonio Mazzeo.
(Dello stesso autore, di pochi giorni successivo, Dopo Sigonella, anche a Decimomannu i Global Hawk USA).

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“Era prevedibile che con l’istituzione del nuovo comando militare USA per le operazioni nel continente africano, AFRICOM, una parte delle attività di direzione, controllo ed intervento venissero ospitate dalle maggiori installazioni che le forze armate statunitensi possiedono in Italia. Dopo l’istituzione a Vicenza del Comando per le operazioni terrestri in Africa, e a Napoli di quello per le operazioni navali, gli Stati Uniti d’America puntano a trasformare la stazione aeronavale di Sigonella in uno dei principali scali europei dell’Air Mobility Command (AMC), il Comando unificato che sovrintende alle operazioni di trasporto aereo negli scacchieri di guerra internazionali.
“Con la piena operatività di AFRICOM, le accresciute necessità d’intervento nel continente africano richiedono lo spostamento del personale AMC dall’Inghilterra e dalla Germania verso il sud, in Spagna, Italia e Portogallo”, ha annunciato il colonnello Keith Keck, comandante della divisione di pianificazione strategica dell’Air Mobility Command, con sede presso la base aerea di Scott, Illinois. Le installazioni destinate alla dislocazione di uomini e mezzi? A rispondere è il comandante Stephen McAllister, dell’ufficio di pianificazione dell’Air Mobility Command: “Le basi che potrebbero ricevere un afflusso di uomini dell’AMC includono la stazione navale di Rota e l’aeroporto di Morón in Spagna, lo scalo di Lajes Field, nelle Azzorre (Portogallo) e la Naval Air Station di Sigonella, in Italia”.
L’uso del condizionale lascerebbe pensare ad una scelta non ancora definitiva, ma in un’intervista rilasciata al periodico statunitense Air Forces Magazine (novembre 2008), il generale Duncan J. McNabb, la più alta autorità militare nel settore della mobilità e del trasporto aereo USA, ha dichiarato che “per assicurare il successo dell’intervento in Africa”, è indispensabile “sviluppare le infrastrutture delle basi chiave, come Lajes Field, l’isola Ascensione nell’Atlantico e Sigonella, Sicilia”. “L’Air Mobility Command – ha aggiunto McNabb – sta lavorando con il comando dell’US Air Force in Europa per trasferire in queste installazioni, dalla base aerea di Ramstein, Germania, il traffico aereo di AFRICOM”.”

Da Prosegue la colonizzazione militare della Sicilia di Antonio Mazzeo.

Soldati americani in giro per il mondo

Trimestralmente il Ministero della Difesa statunitense diffonde uno stringato censimento del personale militare attivo alle proprie dipendenze, diviso per area geografica e per Paese.

Giusto per puntualizzare i dati più significativi, considerando le aggregazioni maggiori:
– il grosso dei soldati statunitensi (più di un milione) opera nella madrepatria;
– quelli in Europa sono poco meno di 85.000, oltre la metà dei quali appartengono all’US Army, altri 31.000 abbondanti all’US Air Force ed il rimanente diviso tra US Navy (oltre 5.000) e Marines (briciole);
– altra grossa fetta è rappresentata dall’Estremo Oriente e dall’area del Pacifico, che ospitano più di 70.000 militari, abbastanza equamente distribuiti fra i quattro corpi: 20.000 circa per esercito ed aviazione, 15.000 circa per marina e Marines;
– le rimanenti quattro aree geografiche registrano presenze assai più modeste: Nord Africa, Vicino Oriente ed Asia meridionale per poco meno di 8.000 unità; Africa sub-sahariana per circa 2.700; il cosiddetto Emisfero Occidentale (in pratica, l’America centrale e meridionale) per poco più di 2.000; infine i territori delle ex repubbliche sovietiche a malapena per 154 unità;
– vi è infine un dato residuale ma significativo, che comprende i militari cosiddetti “non distribuiti” i quali ammontano ad oltre 122.000 unità. Di questi la maggior parte dovrebbero essere imbarcate sulle varie Flotte statunitensi che solcano le acque internazionali, visto che quasi 88.000 fanno capo alla US Navy e quasi 26.000 ai Marines.

Esaminiamo ora le presenze nei singoli Paesi:
– partendo dall’Europa, è ancora massiccia la presenza statunitense in Germania (56.200 militari, quasi per intero quelli che stazionano sul nostro continente in capo all’US Army e circa la metà di quelli che appartengono all’USAF); seconde “a pari merito” vengono Italia e Gran Bretagna, con poco meno di diecimila soldati ciascuna: in Italia stazionano poco meno della metà degli appartenenti all’US Navy in Europa, mentre in Gran Bretagna i militari sono quasi tutti in forza all’USAF (e, sia detto per inciso, in gran numero impegnati in attività di intelligence, presso le basi di Menwith Hill – che ospita importanti infrastrutture della rete Echelon – e di Lakenheath, che è anche il più importante deposito di armamenti nucleari statunitensi rimasto in Europa dopo il probabile smantellamento di quello di Ramstein, in Germania);
– trasferendoci in Estremo Oriente, si trovano gli oltre 33.000 militari stazionanti in Giappone, di cui circa 14.000 Marines (quasi tutti quelli dispiegati nella regione), ed i 26.339 in Corea del Sud, per due terzi appartenenti all’US Army;
– infine, segnaliamo il caso di Gibuti, il piccolo Stato africano posto all’ingresso del Mar Rosso e di fronte alla penisola Arabica, dove l’ex base della Legione Straniera francese di Camp Lemonier – allargata di cinque volte tanto – ospita 2.400 militari di cui 750 Marines, 700 marinai, 600 fanti e 350 aviatori; qui gli Stati Uniti vorrebbero porre la sede del nuovo comando AFRICOM, per ora collocata in Germania insieme a quella dell’EUCOM.

Tirando le somme: 290.178 militari statunitensi stazionano in Paesi stranieri, e di questi 81.709 operano sul territorio di Paesi membri della NATO. Addizionati a quelli operativi nella madrepatria, si raggiunge la cifra di 1.373.205 che costituiscono gli effettivi delle Forze Armate statunitensi.
Di questi, 195.000 sono dispiegati nell’operazione Iraqi Freedom e 31.100 in quella Enduring Freedom in Afghanistan. Una percentuale di poco inferiore al 10% di questi due dispiegamenti è effettuata a partire da truppe dislocate sul territorio di Paesi stranieri, in particolare Germania, Italia e Giappone (nonché Corea del Sud e Gran Bretagna). Il che basterebbe a rendere i Paesi in questione complici della cosiddetta “Guerra Globale al Terrore” decretata dall’amministrazione statunitense dopo l’11 Settembre 2001, anche se non fossimo in presenza – come nel caso dell’Italia sicuramente siamo – di un contributo militare attivo ai disegni egemonici a stelle e strisce.

Il documento, la cui ultima edizione risale a marzo 2008, è disponibile qui.

English version

American soldiers all over the world

translation: L. Bionda.

Every three months the US Department of Defense publishes a short report on active duty military personnel strength, listed by regional area and by country.

Let’s focus on the most significant data:
– the greatest part of the US soldiers (more than 1 million) works in the United States;
– the ones deployed in Europe are no more than 85,000; more than a half of them works in the US Army, 31,000 in the US Air Force, 5,000 in the US Navy; only few of them belongs to the Marine Corps;
– a large number works in the Far East and Pacific Area, with more than 70,000 military units, more or less uniformly distributed: 20,000 in the Army and the Air Force, 15,000 in the Navy and the Marine Corps;
– in the four remaining parts of the world the US military presence is very small: in North Africa, Middle East and Southern Asia there are no more than 8,000 soldiers; in Sub-Saharan Africa about 2,700 units. In the so-called “Western Hemisphere” (Southern and Central America) about 2,000 troops. In some of the former USSR countries about 154 US military are deployed;
– finally, there is a small but significant data which refers to the so-called “undistributed” troops, about 122,000 soldiers. Most of them are probably deployed in US fleets in international waters, since almost 88,000 units work in the US Navy, and about 26,000 are Marines.

Let’s examine these data by region and country:
– starting with Europe, the military presence in Germany is still very large (56,200 soldiers, almost the entire US Army in the whole Europe, about a half of the USAF units); just behind Germany come Italy and Great Britain with less than 10,000 soldiers each: in Italy remains less than a half of the US Navy units in the whole Europe, while in Great Britain most of the soldiers works for the USAF (mainly dealing with intelligence activities at Menwith Hill base – with hosts important infrastructure of the Echelon network – and in the Lakenheath base, which will be the most important US nuclear weapons’ warehouse in Europe after the probable dismantling of Ramstein, Germany);
– in the Far East there are 33,000 units based in Japan, of which 14,000 are Marines (almost the entire Marines presence), and 26,339 in South Korea, with 2/3 of them working for the US Army;
– finally, we can underline the situation in Djibouti, a small African country near the Red Sea facing the Arabic Peninsula, where the in former “Foreign Legion” base in Camp Lemonier – enlarged five times – 2,400 military units are deployed (750 Marines, 700 US Navy, 600 units from infantry and 350 units working in the air forces); here in Djibouti the US State Department plan to build the headquarters of the new AFRICOM command, now based in Germany as well as the EUCOM.

In conclusion, 290,178 US soldiers are deployed in foreign countries, with 81,709 of them in NATO member countries. If we add those who work in the USA, we have 1,373,205 soldiers as the total strength of the US armed forces.
195,000 of them are deployed in Iraq (Operation Iraqi Freedom) and 31,000 in Afghanistan (Operation Enduring Freedom). About 10 per cent of these soldiers comes from military bases in foreign countries, in particular Germany, Italy and Japan (but also South Korea and Great Britain). This fact allows to consider these countries as accomplices in the “Global war on terror” started by US administration soon after 11/9, even though in absence (and this is certainy not the case of Italy) of an active military contribution to the American egemonic plans.

You can read that document (most recent edition – March 2008) here.

Italian version

Aree di responsabilità

eucom logo

All’inizio del ventunesimo secolo, il Pentagono ha completato la divisione del pianeta in “aree di responsabilità” militari attribuite a Comandi Supremi. Niente chiarisce l’ambizione egemonica a stelle e strisce meglio dell’elencazione di queste cinque – poi diventate sei – zone, che coprono tutto il Pianeta e partecipano direttamente al controllo dell’Eurasia. Essendo quest’ultima la vera posta in palio, a partire dalla dottrina Brzezinski fino agli ideologi neoconservatori William Kristol e Lawrence Kaplan i quali affermano testualmente: “La nostra supremazia non può essere mantenuta a distanza. L’America deve al contrario considerarsi sia una potenza europea, sia una potenza asiatica, sia – beninteso – una potenza mediorientale”.
Ebbene, due di questi comandi supremi non sono rilevanti per il nostro discorso. Il primo, il Comando Nord (NORTHCOM), copre il continente nordamericano ed una zona fino a cinquecento miglia marine dalle coste. Il secondo, il Comando Sud (SOUTHCOM), continuazione della vecchia Dottrina Monroe, copre l’America centrale, i Caraibi e l’insieme dell’America meridionale; controlla inoltre il Golfo del Messico, le acque territoriali prospicienti alle coste ed una parte dell’Oceano Atlantico.
Gli altri comandi ci interessano più direttamente, in particolare il terzo, il Comando Europa (EUCOM), la cui area di responsabilità non si limita all’Unione Europea ma include la zona balcanica, Ucraina, Bielorussia, il Caucaso e la Russia fino a Vladivostock. L’EUCOM, rispetto agli altri Comandi, ha una peculiarità: i suoi legami con la NATO. Il comandante dell’esercito statunitense in Europa è infatti anche il comandante supremo delle forze inquadrate nella NATO. Questo doppio comando sempre attribuito ad un alto ufficiale statunitense integra la NATO nella struttura del Pentagono e quindi nella strategia egemonica globale degli USA. Un rapporto di dipendenza che viene ribadito in un documento ufficiale dell’EUCOM quando afferma che “la trasformazione dell’EUCOM sosterrà la trasformazione della NATO”.
Il quarto è il Comando di Centro (CENTCOM) che comprende l’Egitto, il Vicino e Medio Oriente sino al Pakistan e le repubbliche dell’Asia centrale. E’ il comando che conduce le operazioni attualmente in corso in Irak ed Afghanistan, in collaborazione con la NATO.
Il quinto è il Comando Pacifico (PACOM) che ingloba l’India, il Sud-est asiatico, la Cina, il Giappone e le isole del Pacifico. La sua zona marittima si estende dalla costa occidentale del continente americano alla costa orientale dell’Africa, dall’Artico all’Antartico. Può essere considerato la zona cruciale del dispiegamento, per lo spazio che copre, perché ospita il 60% della popolazione mondiale e le sei forze armate più consistenti per numero di effettivi: Cina, India, Russia, Stati Uniti e le due Coree.
Una sesta zona di comando è stata creata nel 2007 per l’Africa. L’AFRICOM dovrebbe diventare operativa entro il 2008, coprendo tutto il continente nero tranne l’Egitto. E’ l’evidente segnale che l’Africa, a causa soprattutto della penetrazione cinese, è oggi una vera posta strategica, non distinta però dall’area eurasiatica, e lo dimostra il fatto che la sede del suo comando si trova in Germania, a Stoccarda, sede anche dell’EUCOM.