L’omicidio geopolitico di Alfred Herrhausen

Prima di intraprendere la carriera di banchiere e di entrare nelle grazie del cancelliere Helmut Kohl, Alfred Herrhausen aveva gestito con grande intelligenza la ristrutturazione di Daimler-Benz, alla quale aveva imposto un processo di diversificazione culminato con la trasformazione dell’azienda in un gruppo tecnologico integrato, dotato del know-how necessario ad operare nei settori strategici dell’aerospazio, della difesa, dell’elettronica e della tecnica ferroviaria. È nell’ambito del disegno di Herrhausen che la divisione Mercedes venne progressivamente affiancata dagli altri tre comparti fondamentali, costituiti dalla Dasa, rivolta all’aerospazio e alla difesa, dall’AEG, orientata sull’elettronica, e dalla Debis, concentrata sul ramo finanziario. Da buon industriale “prestato” al mondo della finanza, Herrhausen aveva pensato di smaltire i costi della riunificazione mettendo le elevate competenze degli ingegneri e dei lavoratori dell’ex Germania orientale al servizio di un progetto mirante al rilancio economico di tutta l’Europa dell’est. «Entro dieci anni – affermò Herrhausen – la Germania orientale diverrà il complesso tecnologicamente più avanzato d’Europa e il trampolino di lancio economico verso l’est, in modo tale che Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, e anche la Bulgaria svolgano un ruolo essenziale nello sviluppo europeo» (1). In un articolo pubblicato sul quotidiano economico tedesco «Handelsblatt», Herrhausen denunciò che la politica debitoria adottata dalle banche, in particolare quelle statunitensi, nei confronti dei Paesi in difficoltà finanziarie era orientata a peggiorare le loro condizioni, e indicò nella forte riduzione della massa debitoria (fino al 70%) delle nazioni povere, nel taglio dei tassi di interesse a cinque anni e l’allungamento della durata dei presti le misure da adottare per conseguire una robusta ripresa economica dei Paesi in via di sviluppo. Una simile ricetta avrebbe infatti «permesso a queste nazioni di riassegnare alla ripresa economica le risorse finora destinate al servizio del debito» (2). La concezione di Herrhausen traeva ispirazione dall’accordo sul debito raggiunto a Londra del 1953, grazie al quale la Germania occidentale era riuscita a rilanciarsi poderosamente dal punto di vista industriale. Il banchiere considerava gli squilibri debitori un vero e proprio “rischio sistemico”, e propose pertanto di mitigarli attraverso l’istituzione a Varsavia di un organismo modellato sul calco del KFW, l’ente che aveva gestito con grande successo il rilancio dell’economia tedesca disintegrata dalla Seconda Guerra Mondiale. Un organismo alternativo a Banca Mondiale e FMI preposto all’erogazione dei prestiti nell’ambito di un “nuovo Piano Marshall” finalizzato al rilancio dei Paesi est-europei, e non alla loro conversione immediata al sistema neoliberale. Conformemente a questa “nuova Ostpolitik”, il banchiere tedesco premeva per l’abolizione del debito “intra-im¬prese”, un dato contabile che gravava sulle industrie ex comuniste (nel 1994 raggiunse i 200 miliardi di marchi) grazie al quale Banca Mondiale e FMI tenevano in pugno i Paesi dell’Europa orientale. Il presidente della Deutsche Bank arrivò persino a sottolineare che il rilancio economico dello spazio ex sovietico e la sua integrazione con l’assetto produttivo dell’Europa occidentale erano nell’interesse della Germania, che per realizzare tutto ciò avrebbe dovuto destinare risorse alla costruzione di linee ferroviarie veloci in grado di assicurare il rapido trasporto di materie prime dalla Russia ai poli industriali tedeschi. Si trattava proprio del tipo di progetto che Gran Bretagna prima e Stati Uniti poi avevano irriducibilmente ostacolato nel corso dei decenni precedenti, come ammesso candidamente dallo stesso Kissinger: «se le due potenze [Germania e Russia] si integrassero economicamente intrecciando rapporti più stretti, si verrebbe a creare il pericolo della loro egemonia» (3). Nella visione profondamente innovativa di Herrhausen, la Germania si sarebbe dovuta trasformare in un ponte fra est ed ovest e in motore della riconversione industriale dell’Europa orientale – della Polonia soprattutto, considerata la nazione chiave della regione. Mentre si prodigava per mettere in pratica i suoi piani, che comportavano l’affrancamento di tutto il “vecchio continente” dalla “tutela” statunitense esercitata sotto il profilo economico da Banca Mondiale e FMI, Herrhausen rivelò di essersi imbattuto in “massicce critiche” formulate soprattutto dal presidente di Citibank Walter Reed, specialmente dopo aver caldeggiato pubblicamente l’applicazione di una moratoria di qualche anno sul debito dell’Europa orientale. Nonostante le forti resistenze con cui era costretto a fare i conti, Herrhausen riuscì comunque ad allargare il campo d’azione di Deutsche Bank assorbendo la Banca d’America e d’Italia, le merchant bank Mdm (portoghese), Albert de Bary (spagnola) e Morgan Grenfell (prestigiosa banca d’investimento londinese). Il potenziamento di quello che si configurava già come il maggior istituto di credito tedesco risultava necessario a costituire un valido e potente polo economico che fungesse da contraltare ai grandi gruppi finanziari anglo-americani, i quali stavano portando avanti una vasta campagna di espansione monetaria mediante la concessione di crediti ad alto tasso di interesse ai Paesi poveri. Dal punto di vista di Washington, il disegno di Herrhausen rappresentava una minaccia particolarmente insidiosa perché metteva in discussione la presa statunitense sui Paesi in via di sviluppo (il presidente messicano Miguel de la Madrid, colpito dalle idee di Herrahusen, lo invitò a Città del Messico nel 1987 per analizzare le sue proposte) da cui dipendeva il mantenimento dell’ordine economico istituito nel periodo reaganiano. «I mercati finanziari e valutari globalizzati oggi sono una questione di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti» (4), dichiarò senza mezzi termini il direttore della CIA William Colby facendo eco al suo collega della CIA William Webster, secondo cui, con la caduta del Muro di Berlino, «gli alleati politici e militari dell’America sono ora [diventati] i suoi rivali economici» (5).L’1 dicembre 1989, un ordigno esplosivo dotato di innesco laser posizionato all’uscita dell’abitazione di Herrhausen di Bad Homburg (ricco sobborgo di Francoforte) fece saltare l’automobile blindata su cui il banchiere era appena salito. La responsabilità venne attribuita al gruppo terroristico di ispirazione comunista Rote Armee Fraktion (RAF), benché la sofisticazione dell’attentato suggerisse di allargare lo spettro delle indagini. Non a caso, i tre membri della “nuova generazione” della vecchia Baader-Meinhof che erano stati arrestati durante le prime indagini risultarono in seguito estranei alla consumazione del fatto. Ancora oggi la giustizia tedesca non è riuscita a individuare i colpevoli. Il colonnello Fletcher Prouty, veterano della CIA che in passato aveva dipinto al procuratore Jim Garrison lo sfondo politico sul quale si era materializzato l’assassinio di John F. Kennedy, rivelò che l’omicidio di Herrhausen era avvenuto «quattro giorni prima che [il banchiere] venisse negli Stati Uniti a pronunciare un discorso che avrebbe potuto cambiare i destini del mondo. Era crollato il Muro di Berlino ed Herrhausen voleva spiegare agli Americani i nuovi orizzonti dell’Europa […]. Herrhausen parlava di una grande Europa unita, senza più le interferenze della Banca Mondiale. Parlava di un progetto di integrazione tra est e ovest europeo. Un’operazione che avrebbe mutato i rapporti internazionali e che è stata freddata sul nascere» (6). Per questo, a detta di Prouty, l’assassinio del presidente della Deutsche Bank rientra nello stesso quadro generale in cui si sono verificati gli omicidi di Enrico Mattei e Aldo Moro.

Giacomo Gabellini

Note

1) Cfr. Engdahl, William, What went wrong with East’s Germany economy?, «Executive Intelligence Review», 2 ottobre 1992.

2) Herrhausen, Alfred, Die zeit ist reif. Schuldenkrise am wendepunkt, «Handelsblatt», 30 giugno 1989.

3) Cfr. Kissinger: «Der western mussß sich an das neue selbstbewußtsein der Deutschen gewöhnen», «Welt am Sonntag», 3 maggio 1992.

4) Cfr. Taino, Danilo, Belzebù sullo yacht, «Corriere della Sera», 10 marzo 1993.

5) Cfr. CIA director Webster targets US allies, «Executive Intelligence Review», 13 ottobre 1989.

6) Cfr. Cipriani, Antonio, Il colonnello Prouty: «Vi spiego chi governa il mondo», «L’Unità», 19 marzo 1992.

Fonte

Quel che Pasolini sapeva e perché fu ucciso

La verità ha un suono speciale.
Pier Paolo Pasolini (24/9/1975)

Pasolini scrittore, Pasolini poeta, regista, linguista, sceneggiatore. Meno nota e meno compresa è da sempre però la figura del Pasolini-Giornalista, che il Centro Studi ha pensato bene di approfondire lungo il corso di una serie di incontri svoltisi nel novembre 2017 e nell’aprile 2018 presso la sala consiliare del Municipio di Casarsa della Delizia e che ha visto gli interventi di diversi studiosi e giornalisti su quest’aspetto della professione intellettuale del Nostro, prolifica soprattutto, ma non soltanto, negli ultimi periodi della sua vita. Quegli incontri da noi organizzati si sono poi trasferiti in forma scritta in un volume edito nel 2019 e distribuito da Marsilio Gettiamo il nostro corpo nella lotta. Il giornalismo di Pier Paolo Pasolini (a cura di Luciano De Giusti e della compianta Angela Felice).
Uno degli interventi della giornalista Simona Zecchi L’ultimo linguaggio del poeta massacrato è parte di questa raccolta di saggi. L’autrice nel 2020 ha dato poi alle stampe per i tipi di Ponte alle Grazie il suo secondo libro-inchiesta sulla morte dello scrittore L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini, e proprio la figura del Pasolini-giornalista è quanto più emerge da questo lavoro nuovo e complesso. L’autrice nel 2018 ha anche dato alle stampe per la nave di Teseo il libro-inchiesta La Criminalità servente nel Caso Moro. Per la precisione ciò che emerge nettamente da L’inchiesta spezzata è la figura del giornalista d’inchiesta, un’altra branca del giornalismo se vogliamo più nobile, che collega fatti apparentemente lontani tra loro, va alla ricerca di fonti (persone o documenti) e che non si limita nel passare in rassegna le carte giudiziarie o investigative che eventualmente caratterizzano una vicenda. Insomma il giornalista d’inchiesta cerca elementi o prove nuove, altre che possano svelare verità nascoste o mistificate.
Pasolini sapeva e ha ottenuto le prove secondo le indagini di Simona Zecchi.
A 45 anni dal suo omicidio, la sua inchiesta riapre di fatto il dibattito sul movente che condusse lo scrittore e il regista alla violenta morte quel 2 novembre del 1975 e svela ciò che sin qui era rimasto celato. Un dibattito da sempre incastrato tra due opposti: la versione ufficiale dell’omicidio maturato all’interno di un contesto di prostituzione maschile e quella tutta stretta dentro l’ambito del complotto (nello specifico nella sparizione dell’Appunto 21, capitolo a cui Pasolini in Petrolio rimanda, ma che non si è mai trovato, o che forse non è mai stato scritto).
Il libro L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini, invece, porta, a sostegno della nuova tesi che ne risulta, una vasta serie di documenti, testimonianze, carteggi, storie ed analisi nuove che indicano come l’espediente utilizzato per condurlo al massacro (le bobine di Salò sottratte nell’agosto del 1975 e da lui tenacemente ricercate) avesse il preciso intento di spegnere definitivamente la sua voce e ancor di più la ricerca della verità sulle stragi, su tutte la strage di Piazza Fontana (1969). L’autrice, dopo aver mostrato nel libro Pasolini, massacro di un Poeta edito nel 2015 dallo stesso editore, come e da chi è stato ucciso l’intellettuale, cancellando per sempre la pista a sfondo sessuale riconosciuta dall’unico processo, ha qui ricucito le parti spezzate di una indagine che si scopre Pasolini stava svolgendo.
L’inchiesta spezzata…, dunque, ci accompagna fuori dal campetto di Ostia e dal «complotto» fine a sé stesso. È una indagine complessa e doppia questa, perché affronta sì il movente dell’omicidio ma ne sviluppa anche i contenuti, inoltrandosi nel territorio della strategia della tensione in modo inedito e inserendo al suo interno la figura del poeta-giornalista che negli anni invece è sempre stata sottratta dalle ricostruzioni di un periodo per certi versi ancora oscuro. Negli ultimi mesi della sua vita Pasolini indossa i panni dell’investigatore preferendoli a quelli dello scrittore per «ragioni pratiche», come scrisse già dal 1971, e arriva dritto al cuore politico e finanziario delle stragi: dove DC, Vaticano e CIA si incontrano.

(Fonte)

“Col sangue l’Italia è stata avvertita”


“Ci hanno avvertito, ci hanno mandato a dire con la strage che l’Italia deve stare al suo posto sulla scena internazionale. Un posto di comparsa, di aiutante. Ci hanno fatto sapere col sangue che il nostro Paese non può pensare di muoversi da solo nel Mediterraneo. Ci hanno ricordato che siamo e dobbiamo restare subalterni. E noi non abbiamo un sistema di sicurezza nazionale capace di opporsi a questi avvertimenti. I nostri servizi di sicurezza sono inefficienti perché così li hanno voluti gli accordi internazionali. Non difendono l’Italia perché non debbono difenderla. Sono funzionali alla nostra condizione di inferiorità. Altro che strage fascista: è accaduto qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa che pone il problema della nostra autonomia internazionale”.
Rino Formica è capogruppo dei deputati del PSI, il partito del Presidente del Consiglio. E’ stato commissario nell’indagine parlamentare sulla P2. Sa quello che il Parlamento conosce dell’ attività dei nostri servizi segreti. Sa quello che il governo davvero temeva prima della strage e soprattutto quello che il governo teme oggi. Ragiona sul macello del treno 904 e arriva a una conclusione che gli appare ferrea: “La strage è un avvertimento venuto da fuori ma questo non assolve nessuno. Anzi, evidenzia drammaticamente la debolezza del nostro Stato, la precarietà della nostra democrazia, la pigrizia mentale delle nostre forze politiche. Ci hanno avvertito e facciamo finta di non capire”.
Un momento, onorevole, chi ci ha avvertito?
“Da due anni abbiamo una presenza internazionale più autonoma. Con un atto di guerra ci hanno detto di smetterla”.
E’ solo una mezza risposta la sua. Le chiedo: anche lei parla di pista internazionale. Si riferisce alle minacce di vendetta degli estremisti islamici, a Paesi spesso tirati in ballo per atti di terrorismo come la Libia?
“Per carità, le vendette internazionali si consumano in modo mirato. Se qualcuno vuole che l’ Italia liberi i Libanesi che ha messo in carcere sequestra degli Italiani. Se qualcuno volesse punirci per fatti specifici fa presto a far fuori tecnici o diplomatici italiani. La pista internazionale di cui parlo io non è il folklore sui cattivi nel mondo. E’ purtroppo una cosa più seria”.
E allora ci dica dove porta questa pista.
“Voglio partire da quanto ho visto l’altro giorno in Parlamento, mentre si discuteva della strage: uno spettacolo desolante, un’assemblea stordita. Tutti contenti nel dire fascismo contro antifascismo, rifacciamo l’unità e stiamo a posto. Che pochezza emiliana. E allora io provo a ragionare. Abbiamo avuto due fenomeni terroristici: uno rosso che nasce dalla costola dell’ estremismo marxista e cattolico e che è stato qualcosa di carattere sostanzialmente nazionale, un terrorismo che mirava ai simboli, un terrorismo logico. L’altro crea paura di massa. Ma ci domandiamo cosa vuol dire: significa che non dobbiamo compiere passi azzardati, non dobbiamo andare oltre certi confini. Questo è il senso delle stragi. La strage è una decimazione indiscriminata. Può venire dall’interno se si è in presenza di una guerra civile. Altrimenti appartiene a una logica esterna, anche se può trovare pali, manovalanza e supporti in sede locale”.
Questa, onorevole, è la premessa di un ragionamento. Dove sta la conclusione?
“Ci arrivo, ci arrivo. Ma ancora qualche considerazione: la strage di Natale è così perfettamente copiata su quella dell’Italicus da avere dentro di sé le caratteristiche del depistaggio. Ce la prendiamo col fascista assassino così come abbiamo fatto per le altre stragi. E non a caso non abbiamo mai trovato nessun colpevole. Tranne in un caso: il 17 maggio del 1973 in via Fatebenefratelli Gianfranco Bertoli, ex informatore del SIFAR, lancia una bomba contro il presidente del Consiglio Rumor. Quattro morti, decine di feriti. Sedicente anarchico veniva da un kibbutz israeliano. Se lo sono dimenticato tutti, eppure è l’unico filo, l’ unico nome che abbiamo in materia di stragi”.
E allora?
“Allora vuol dire che non sappiamo o non vogliamo indagare e ragionare sulle stragi. Le voglio ricordare un’altra cosa: il 5 novembre del 1972 Forlani, il cauto Forlani, parlava della Rosa dei venti come del tentativo più pericoloso della destra italiana dal dopoguerra e aggiungeva: un tentativo ancora in corso. Un tentativo con collegamenti internazionali. Da allora Forlani non ne ha parlato più. Di Bertoli nessuno ha parlato più”.
E quale sarebbe la verità che nessuno in fondo vuol conoscere?
“Quella per cui le stragi servono per introdurre avvertimenti a fini interni e quella per cui il nostro Paese è troppo debole per difendersi”.
Torniamo alla domanda originaria. Difendersi da chi?
“Non puoi crescere in democrazia, non puoi accettare sfide mondiali, stare al centro di un’area di guerra come il Mediterraneo e avere dei servizi di sicurezza funzionali, nati e cresciuti per la subalternità internazionale. Non puoi essere fino in fondo autonomo all’interno delle alleanze se i nostri servizi di sicurezza nemmeno hanno la parità dei flussi d’informazione con quelli alleati”.
Insomma, qualcuno ci ha avvertito, dall’estero e col sangue, che stavamo diventando troppo autonomi. E i nostri servizi di sicurezza non sono serviti a nulla. E’ così?
“E’ così e io credo che vada rinegoziata l’integrazione dei sistemi di sicurezza con i servizi analoghi dei Paesi alleati”.
Onorevole Formica, l’avvertimento di cui lei parla, la richiesta che i nostri servizi di sicurezza siano messi su un piano di parità con quelli alleati, vogliono dire che quella bomba sul treno è stata messa per iniziativa di qualche servizio segreto straniero. Qualcosa che i nostri avrebbero potuto sapere e non hanno saputo.
“E’ plausibile che sia andata così”.
E quale servizio è plausibile che sia l’ organizzatore dell’ avvertimento?
“Forse l’ uno, forse l’ altro. A certi livelli si scambiano favori. Io questo non lo so ma so che i nostri non funzionano”.
Già, se non sanno quello che fa il KGB o la CIA o altri che ci stanno a fare?
“Le racconterò tra un attimo dei servizi. Ma prima voglio spiegare meglio perché ci mandano questi avvertimenti. A metà e alla fine degli anni Settanta ci dissero che non potevamo procedere speditamente ad un’evoluzione democratica perché questo metteva in circolo forze politiche di cui era discutibile la fedeltà internazionale”.
Si riferisce a quello che fu il tentativo di Moro?
“Anche. Quello che di Moro all’estero non potevano accettare era la sua disponibilità a stare con i comunisti. Potevano accettare dei comunisti al governo, come poi accadrà in Francia. Non potevano accettare una sorta di democrazia popolare in Occidente”.
E anche la morte di Moro fu un avvertimento?
“Questo non posso dirlo. Non posso stabilire rapporti di causa ed effetto. Posso dire che quel tentativo in parte ambiguo di autonomia nazionale fu osteggiato. Oggi però il problema è diverso”.
Oggi per che cosa ci hanno avvertiti?
“Perché stavamo diventando un Paese che cominciava a dire la sua. In campo economico, sullo scacchiere del Mediterraneo. Perché stavamo diventando nazione all’interno delle alleanze. E invece ci ricordano che al massimo possiamo mandare qualche corvetta da qualche parte. Oggi non è problema di questa o quella forza politica al governo. Chiunque comandi in Italia deve ricordarsi di stare al suo posto”.
E deve smettere di far girare ministri degli Esteri e presidenti del Consiglio nel Mediterraneo?
“Deve ricordarsi delle nostre dipendenze internazionali. Questo è l’avvertimento. In quest’area un’Italia protagonista dà fastidio sia ad Est che ad Ovest”.
Dicevamo dei nostri servizi segreti…
“Il giorno 20 dicembre viene Scalfaro in Parlamento. Dice: l’ Italia è un Paese senza frontiere, entra ed esce chi vuole, il libanese ammazzato a Roma non sappiamo come si chiama, come è venuto. Promette: metterò ordine negli stranieri all’Università di Perugia. Gli dico: bravo, ma ricordati che perfino i finti studenti di Perugia sono stati contrattati internazionalmente. Voglio dire che nei nostri servizi la devianza è certamente rilevante ma peggio è la loro inefficienza. Inefficienza voluta al loro atto di nascita sancita negli accordi. E nel buco nero dell’inefficienza nasce la devianza: Non potendo, non dovendo difendere il Paese, s’industriano a spiare i politici, a stendere dossier”.
Che vuol dire inefficienza?
“Vuol dire che quando gli Americani hanno deciso tempo fa di sospendere il flusso delle informazioni in loro possesso, siamo rimasti ad aspettare che cambiassero idea. Vuol dire che i sistemi di reclutamento sono incredibili. Poiché i servizi sono segreti, una delle garanzie di riservatezza è che ognuno tira dentro un parente. Vuol dire che riciclano le informazioni delle Questure. Vuol dire, un esempio: dieci anni fa segnalano Freda in Grecia. Si discute come andarlo a prendere. Si decide: lo rapiamo. Si appalta l’ operazione al camorrista Zaza in cambio di denaro e impunità. Zaza subappalta il rapimento. Il rapimento fallisce. Freda resta libero. Zaza vola via con i soldi. Ecco i nostri servizi”.
Ma non sono gli stessi servizi che avevano detto a Craxi che “signori con la valigia giravano per l’ Italia”?
“Ma quelle sono soffiate che arrivano a centinaia. Col senno di poi ci si ripensa. Ma se volessimo ascoltarle i treni bisognerebbe fermarli tutti ogni giorno. Quando ero ministro dei Trasporti il direttore generale mi diceva: fermiamo solo quando la telefonata arriva ai Carabinieri perché i Carabinieri si presentano in stazione, altrimenti potremmo chiudere tutte le linee per sempre”.
Craxi, perché non è andato a Bologna?
“Sbaglia chi critica la sua assenza. Non ha potuto, ma sarebbe stata una risposta vecchia. Altre sono le risposte: non smettere una politica di pace nel Mediterraneo…”.
Ignorare l’avvertimento?
“Possiamo fare solo due cose: o rientrare nei ranghi o dotare il Paese di sistemi di difesa e di sicurezza adeguati alle nostri ambizioni. Ci sarebbe una terza cosa da fare: diventare una democrazia compiuta, ma altri ci hanno messo secoli, noi ci proviamo da appena due generazioni. E purtroppo, nel dopoguerra si è scelta una democrazia del compromesso, una democrazia lenta”.
Onorevole, che vuol dire non smettere una politica di pace nel Mediterraneo?
“Vuol dire che una volta si sta con Israele e una volta no”.
E che vuol dire capire l’avvertimento senza subirlo?
“Vuol dire sofferenza per tutti i partiti. Perché significa imparare a discriminare il bene e il male sullo schieramento internazionale senza garanzie e certezze. Vuol dire diventare nazione. L’unità antifascista, purtroppo, non basta più né per capire né per fermare le stragi. E’ questo il dramma della pista internazionale, quella vera”.

Intervista di Mino Fuccillo, 29 dicembre 1984

“Lei la pagherà cara”


Col sottotitolo Cabina di regia USA, Vaticano e apparati di Stato dietro l’affare Moro, “Lei la pagherà cara” (Edizioni Pendragon, Bologna, 380 pagine) è il secondo volume che noi di Faremondo dedichiamo ad uno dei tornanti decisivi della storia contemporanea del nostro Paese: in precedenza (2014), ci eravamo già occupati di questi ed altri aspetti dirimenti dell’operazione Moro attraverso lo scritto di un nostro collaboratore tanto prezioso quanto schivo ad apparire: Aurelio Macedonio Aldrovandi, il cui studio (353 pagine) venne allora pubblicato a nostra cura col titolo Friendly fire. Il sequestro Moro come false flag operation orchestrata dagli USA.
Nel 2019, appena doppiato il quarantennale dell’agguato militare di via Fani, ulteriori infauste vicende (in primis la parabola e gli esiti nefandi dell’ultima “commissione d’inchiesta” parlamentare), diverse importanti acquisizioni documentali e nuove ricerche di rilievo uscite nel frattempo, ci hanno spinto a rivolgere nuovamente lo sguardo verso questa cospicua e crucialissima parte del nostro presente su cui i mainstream media continuano a stendere pesanti inganni, false bandiere e plurimi veli di silenzio…
Non a caso la nostra disgraziatissima penisola era e rimane per i dominanti un laboratorio di manipolazione politica di prima grandezza a livello planetario. Per questo, nello scorrere dei decenni, dentro questo tipo specifico di presente l’affare Moro si conferma sempre più nitidamente quale vero pivot ineludibile e “punto più alto” di tutte le strategie psicologiche, politiche e criminali messe in campo a danno delle italiche genti dall’intero establishment (occidentale), con tutto il suo nutrito stuolo di perpetratori, la gerarchia dei suoi agenti, le schiere dei fiancheggiatori e degli esecutori ai vari livelli: un affare oggi più attuale e più significativo che mai, a riprova, se ce ne fosse ancora bisogno, della longeva continuità dei disegni di potere dei dominanti di allora e di oggi, uniti in profondo dal loro “essere” funzionari del capitale.
Ad inizio 2020, proprio mentre stavamo mettendo in programma una serie di presentazioni del libro in diverse città, una rinnovata cabina di regia degli stessi dominanti ha preso a muovere i suoi innumerevoli asset subordinati sparsi per il mondo, inscenando le prime stanze della cosiddetta pandemia e promuovendo la prima incarcerazione domiciliare su scala globale che la storia della specie ricordi.
Saltate o congelate sine die le presentazioni del volume, ci siamo impegnati per mesi nell’analisi dei fatti e nella decifrazione degli eventi di quello che, mano a mano che si srotolano i papiri dell’agenda dei dominanti, si rivela essere, dopo e oltre l’11 settembre 2001, un inedito azzardo di portata planetaria volto alla risistemazione globale del mondo secondo i desiderata dei funzionari del capitale.
In una temperie di specie come questa, ci siamo detti, un nostro rinnovato e ancor meglio consapevole ritorno di attenzione sul “caso Moro” non potrebbe mai essere vissuto come un’operazione di depistaggio intellettuale. Τutto il contrario, semmai, se è vero come è vero, in profondità, che il pulviscolo di senso fatto alzare durante il sequestro dell’esponente democristiano (ma già in aria all’epoca dell’assassinio di J.F. Kennedy), è, pur nella differenza di scala fra gli eventi, fatto esso stesso della medesima grana di quello fatto spargere su Manhattan la mattina dell’11 settembre, che a sua volta è il diretto antecedente storico di quello attuale seminato in aria col nome di “nuovo coronavirus”.
Qui di seguito ci permettiamo quindi di proporre per la prima volta all’attenzione dei frequentatori del nostro sito-rivista una breve traccia che dia almeno una sommaria idea dei contenuti del volume, che può essere ordinato tanto sul sito dell’editore quanto sui portali di vendita dedicati.
«Lei la pagherà cara»: questo è il succo del sinistro avvertimento di Kissinger a Moro durante una sua visita negli Stati Uniti del 1974, quando era ministro degli esteri: la politica di avvicinamento al PCI e il recupero parziale di indipendenza da parte dell’Italia, pur sotto l’ombrello NATO e occidentale, son cose che non s’han da fare…
La macchina del “lucido superpotere” (Pecorelli) che porterà al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro è già in pista da tempo. Le sue componenti “operative” rispondono ed una mente, a registi made in USA che hanno a loro completa disposizione i grandi mezzi degli arcana imperii (la rete della loro Intelligence Community, CIA in testa), l’obbedienza cieca dei loro funzionari in loco (i servizi segreti italiani) e la manovalanza fabbricata ad arte (i brigatisti).
Se a questo si aggiungono la fedeltà atlantica di tutti gli apparati dello Stato e la subalternità collaborante dei principali partiti politici (DC, PCI, PSI), vediamo come nulla sia stato lasciato al caso nell’affare che più di tutte le altre stragi ha impresso il suo marchio funesto sulla storia del nostro Paese…
Dalla potenza sterminatrice del commando di professionisti in azione in via Fani – che non fu composto da brigatisti, relegati a comparse dell’agguato – all’esfiltrazione da manuale del sequestrato da via Casale de Bustis, con ogni probabilità via elicottero; dalla permanenza del prigioniero in due location in riva al mare, superprotette e off limit per gli investigatori (Palo Laziale e Fregene), all’epilogo macabro della sua lenta esecuzione maturata nel perimetro di palazzi nobiliari ad alta intensità di intelligence (palazzo Antici-Mattei e palazzo Caetani), da dove la famosa R4 rossa col cadavere di Moro percorse appena 50 metri prima di essere abbandonata in via Caetani…

Fonte

Com’è NATO un golpe – il caso Moro

Il documentario ripercorre le ultime fasi di vita di Aldo Moro, dal viaggio negli USA del 1974, al rapimento, la detenzione e l’uccisione del Presidente della DC. Una narrazione condotta dal senatore Sergio Flamigni, dall’ex magistrato Carlo Palermo, dai giornalisti ed autori di testi inerenti Marcello Altamura, Rita Di Giovacchino, Carlo D’Adamo e dal perito balistico Martino Farneti.
Una narrazione che si contrappone con dati di fatto alla verità ufficiale del “memoriale”. Una nuova nuova analisi balistica per fare luce sulla dinamica dell’agguato, un filmato inedito di via Fani riguardante la 127 rossa, auto mai presa in considerazione dalle indagini e la fonte “Beirut2”, intervistata da Carlo Palermo, che riferisce di una foto scattata ad Aldo Moro in un cortile durante la prigionia, di come la Guerra Fredda era fattivamente diretta da gruppi che controllavano sia Washington sia il Cremlino, a conferma del fatto che Aldo Moro doveva morire e non per mano delle Brigate Rosse al fine di attuare un golpe in Italia.

Per essere aggiornati sulle proiezioni del documentario o per organizzarne una nella vostra città, potete consultare la seguente pagina.

Questa è sovranità limitata


“C’è un episodio che bisogna richiamare. Quando nel 1973 capita la guerra del Kippur, Moro rifiuta [di concedere] l’utilizzo delle basi militari della NATO per aiutare Israele. Sostiene la tesi, diventata di tutto il governo italiano, che quella guerra esorbita dall’area della NATO, quindi gli Americani non possono utilizzare le basi che sono nel nostro territorio per svolgere un’azione che è sì di aiuto anche ad un Paese nostro alleato come Israele, ma che deve tener conto che noi abbiamo una politica per il Medio Oriente di pacificazione, tendiamo alla soluzione di quel problema e non possiamo metterci contro i Paesi arabi. Pertanto, il nostro governo ritiene di assumere quella posizione e Kissinger “se la lega al dito”. Moro farà riferimento all’acredine che, a seguito di quel fatto, Kissinger crea. E’ una causa che probabilmente ha giocato.
(…) Non ci soffermiamo qui a parlare di quello che avviene a Portorico quando si riunisce lo stato maggiore atlantico e lasciano Moro fuori dalla porta, proprio nel momento in cui si discute sugli aiuti da dare all’Italia e si finisce col condizionare quegli aiuti. Siamo dopo le elezioni del 1976. E’ bene che guardiate cosa avviene a Portorico. In quel momento Moro viene lasciato fuori, eppure è ancora Presidente del Consiglio italiano; ma lui e Mariano Rumor, che è ministro degli Esteri, vengono lasciati alla porta mentre si discute degli aiuti all’Italia. Se ne escono con un comunicato in cui danno l’incarico al tedesco Helmut Schmidt di esprimere la posizione che era quella della discriminazione: “Se voi mettete al governo i comunisti, non vi daremo gli aiuti”.
Questa è sovranità condizionata, limitata, indiscutibilmente, dopo il suffragio popolare che aveva dato quei risultati e che non permetteva il grande gioco politico, perché i rapporti di forza erano quelli che erano e la politica di Moro era lungimirante. Dunque, il fatto di liberarsi di un personaggio che rappresentava quella politica era una tentazione non solo di Kissinger, anche di altri dirigenti di Stato nei Paesi europei, perché avevano timore di una diffusione della stessa formula di collaborazione in altri Paesi.”

Dall’audizione del senatore Sergio Flamigni, svoltasi il 2 dicembre 2014, nell’ambito della II Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro.
Ora in Rapporto sul caso Moro. Il sequestro di Aldo Moro, Steve Pieczenik e il golpe atlantico quarant’anni dopo, di Sergio Flamigni, 2019, Kaos edizioni, pp. 75-76.

Primule rosse in fuga

I latitanti di Stato

Si parla molto di Alessio Casimirri, il brigatista rosso rifugiato in Nicaragua per il quale nessun governo italiano si è mai attivato per ottenerne l’estradizione in Italia perché a conoscenza dei segreti del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro.
Solo dopo l’estradizione di Cesare Battisti si è, invece, parlato poco di Giorgio Pietrostefani, condannato a 22 anni di reclusione per l’omicidio del commissario di PS Luigi Calabresi.
Qualcuno lo ha definito «primula rossa in fuga», il giudice istruttore Guido Salvini ne ha parlato come di un individuo che «vive protetto all’estero, probabilmente in Francia».
Apriti cielo!
A indignarsi dinanzi alla pretesa di considerare Giorgio Pietrostefani un «latitante», anzi una «primula rossa in fuga», è il suo compagno di omicidio Adriano Sofri il quale interviene con un articolo su Il Foglio del 17 gennaio 2019 intitolato: «No, Giorgio Pietrostefani non è una “primula rossa in fuga”».
Come si permettono costoro a definirlo un fuggiasco? Sofri spiega, con il solito tono borioso e arrogante, che per quanto riguarda Pietrostefani «non c’è niente di clandestino nella sua esistenza. Ha sempre e regolarmente lavorato. Chiunque voglia frequentarlo – e lui voglia frequentare – lo può fare: io per esempio».
Giusto! Latitanti sono gli altri mentre non può esserlo uno che ha riportato una condanna a 22 anni di reclusione per aver ammazzato (in concorso con Sofri e Bompressi) un commissario di Pubblica sicurezza, perché lui è di Lotta continua.
Lo sappiamo: abbiamo letto gli insulti a Salvador Allende pubblicati sul loro giornale, è noto che lo stesso veniva stampato in una tipografia di pertinenza della CIA, è di pubblico dominio il rapporto amichevole con il prefetto Umberto Federico D’Amato, direttore della divisione «Affari riservati» del ministero degli Interni, lo dice il giudice Guido Salvini che nell’esecutivo del gruppo c’era la fonte «Como», informatore dei servizi segreti mai identificato, lo ha scritto Mino Pecorelli che a Lotta Continua giungevano finanziamenti da parte del ministero degli Interni, del Partito Socialista e del petroliere Nino Rovelli.
Con questo passato alle spalle perché mai Giorgio Pietrostefani deve essere considerato un latitante?
È un probe servitore dello Stato per il quale, insieme ai compari Sofri e Bompressi, la magistratura milanese si è coperta di ridicolo e di vergogna condannandolo a 22 anni di reclusione invece che all’ergastolo per omicidio premeditato aggravato dalle finalità di terrorismo di un commissario di Pubblica sicurezza.
Una condanna che viene inflitta a pentiti e dissociati, solo che i tre non lo erano e la sentenza che li riguarda rimane uno scandalo giudiziario senza precedenti, considerando che cittadini comuni per lo stesso reato (omicidio premeditato) senza aggravanti ai danni di altri cittadini non appartenenti alle forze di polizia sono stati sempre condannati all’ergastolo.
E con questi precedenti qualcuno si permette di considerare Giorgio Pietrostefani una «primula rossa in fuga»?
Ha ragione a indignarsi Sofri e a chiarire che l’amico suo in Francia ha sempre fatto i fatti suoi alla luce del sole perché nessuno lo ha mai cercato, anzi non si è mai permesso di cercarlo.
Ci mancherebbe altro!
A questo punto l’accusa di favoreggiamento personale nei confronti di tutti i ministri degli Interni e della Giustizia in carica dal giorno in cui, con l’autorizzazione della polizia, Pietrostefani si è trasferito in Francia, sarebbe doverosa, anche nei confronti di Matteo Salvini.
Ma, a quanto pare, Pietrostefani non è Cesare Battisti, non è un fuggiasco senza segreti e capacità di ricatto, ma è di Lotta Continua e per lui (e gli altri due) il Parlamento varò addirittura una legge ad personam per fargli ottenere la revisione dei processo perché i tre dovevano essere salvati a ogni costo.
Chissà perché?
È normale che con cotanta storia alle spalle, Adriano Sofri, sicuro che ancora oggi può contare sull’aiuto di tutti i rinnegati di Lotta continua passati al centro-destra, possa esibire per l’ennesima volta la sua arroganza con la certezza che nessuno si prenderà la briga di agire di conseguenza nei confronti suoi e di Giorgio Pietrostefani.
Ma, forse, Sofri è rimasto sconvolto dal fatto che l’amico è stato definito «primula rossa», perché di rosso qui non c’è niente e non c’è mai stato se scriviamo la storia di Lotta Continua.
Dopo l’11 settembre 2001, Sofri mandò i suoi compari in piazza con un cartello nel quale era scritto: «Lotta continua per gli Stati Uniti».
Non ne avevamo mai dubitato.
Vincenzo Vinciguerra

Fonte

Verità e sovranità

Da quando Donald Trump è divenuto presidente degli Stati Uniti, la destra italiana si è riscoperta «sovranista», facendo intendere che vuole difendere la sovranità nazionale senza, però, specificare da chi.
Non lo può dire perché il «sovranismo» è la mera reiterazione dello slogan di Donald Trump, è quindi l’ennesima dimostrazione di sudditanza psicologica e politica della destra nei confronti dell’alleato-padrone.
Invece, la sovranità nazionale è l’obiettivo primo di quanti si propongono di restituire l’Italia agli Italiani è per raggiungerlo l’ostacolo primo da rimuovere è rappresentato dalla politica coloniale degli Stati Uniti nei nostri confronti.
Come può l’Italia riacquistare la propria sovranità nazionale?
In un modo solo: uscire dopo 73 anni dal tunnel della sconfitta militare del 1945.
Sul finire del 2018, possiamo prendere atto che la classe politica dirigente imposta dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale all’Italia sconfitta è quasi scomparsa per un fisiologico ricambio generazionale, così che diviene possibile confrontarsi con la storia nazionale post-bellica.
Non sarà agevole perché non ci sono segnali da parte della classe politica italiana della volontà di percorrere a ritroso il cammino fatto dall’Italia sotto il dominio assoluto degli Stati Uniti per comprendere che siamo ancora una colonia americana.
Si può prendere coscienza di questa amara realtà ristabilendo la verità storica su quanto è accaduto nel nostro Paese perché è dalla sua affermazione che sarà possibile, per tutti gli Italiani, riconoscere che la prima conseguenza della sconfitta militare è stata proprio la perdita della sovranità nazionale, della dignità nazionale, della libertà di tutti e di ognuno a prescindere dallo schieramento ideologico nel quale si sono trovati a militare.
La verità è una sola, senza aggettivi, perché non può esistere una verità giudiziaria, una storica, una politica.
La verità si può raggiungere sia attraverso le indagini su episodi specifici svolte dalla magistratura, sia per mezzo delle ricerche fatte dagli storici ma tocca ai dirigenti politici – i soli che ne hanno i mezzi – la decisione di aprire gli archivi segreti dello Stato e di imporre a ufficiali, funzionari, dirigenti dei vari ministeri chiave (Esteri, Difesa, Interni) e della presidenza del Consiglio di dire quello che sanno.
In questo modo si potrà leggere la storia italiana senza ricorrere ai «distinguo» che la costellano per mantenere separati i fatti come se fossero avulsi dal loro contesto.
Non si possono, difatti, presentare le stragi di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 e quella di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974, come ispirate a una logica diversa da quella di un anticomunismo che si era preposto di utilizzare ogni mezzo per bloccare la lenta ma inesorabile avanzata elettorale del PCI, ritenuto nel 1947 e nel 1974 la «quinta colonna sovietica» in Italia.
Non sarà più possibile non collegare il piano predisposto nel giugno del 1964 per una manifestazione indetta a Roma dalle forze anticomuniste, primo il Movimento Sociale Italiano, destinata a degenerare in sanguinosi incidenti per fornire ai politici del tempo il pretesto per far intervenire le Forze armate e i Carabinieri, con quello poi attuato nel mese di dicembre del 1969 che prevedeva, dopo le stragi del 12 dicembre, una manifestazione missina a Roma con l’identico fine del giugno 1964.
Sappiamo che nell’estate del 1964 fu il generale Giovanni De Lorenzo a opporsi al piano che trova implicita ma chiara conferma nelle parole dette alla moglie al rientro a casa dopo la riunione presso l’abitazione del senatore Tommaso Morlino: «Volevano fare di me un nuovo Bava Beccaris, ma non ci riusciranno».
Nel mese di dicembre del 1969 non sappiamo se, viceversa, c’era un «nuovo» Bava Beccaris perché a vietare le manifestazioni sul territorio nazionale, compresa quella indetta a Roma il 14 dicembre dal MSI, fu il presidente del Consiglio Mariano Rumor.
Sarà anche possibile, finalmente, chiedere conto all’alleato-padrone della morte del presidente dell’ENI Enrico Mattei, del sabotaggio dell’aereo «Argo 16», della morte del generale Enrico Mino, del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, fine all’uccisione del questore Nicola Calipari.
L’affermazione della verità, pertanto, non è fine a se stessa, non è circoscritta alla conoscenza dei nomi di esecutori e mandanti, viceversa è il mezzo più idoneo per riconquistare la sovranità nazionale.
Nelle tragiche pagine della storia italiana post-bellica, difatti, non ci sono responsabilità esclusivamente nazionali ma anche – e soprattutto – internazionali.
L’adesione alla NATO è stata un’operazione liberticida e suicida da parte della classe politica dirigente perché ha vincolato il Paese a una guerra alla quale, restando neutrale, poteva evitare di prendere parte.
Non conosciamo i protocolli segreti, le intese multilaterali e bilaterali stipulate con la potenza egemone e i suoi alleati, ma sappiamo con certezza assoluta che in questo Paese hanno agito con libertà d’azione e con totale impunità tutti i servizi segreti dei Paesi occidentali e che i servizi di sicurezza italiani sono ancora mero strumento di quelli americani.
Una condizione di servaggio che nessuno osa denunciare, che nessuno chiede di modificare perché nessuno osa scrivere la storia per quella che essa è stata.
La storia in Italia non rappresenta un problema politico, non è oggetto di dibattiti parlamentari né di esami sul piano governativo che dovrebbero concludersi con provvedimenti legislativi finalizzati a rivendicare l’indipendenza del Paese.
Nell’Italia dei rinnegati al potere, abbiamo assistito perfino alla richiesta, avanzata dal governo diretto dall’ex comunista Massimo D’Alema a quello americano, di non rendere pubblici i documenti desecretati della CIA sulle elezioni politiche del 1948.
Non risulta che i governi successivi abbiano revocato la richiesta perché temono che emerga la verità sui fatti che risalgono a 70 anni fa.
Non è che un esempio, questo, di tutto quello che hanno fatto nel tempo i governi italiani contro la verità.
Non si può sperare, oggi, che si possa invertire la tendenza quando al governo siedono i rinnegati della Lega Nord complici da un trentennio di ogni infamia perpetrata contro la verità e chi se ne è fatto portatore.
I Salvini passano, l’Italia resta.
Quando l’Italia firmò a Parigi il Trattato di Pace, le campane di tutte le chiese suonarono a morto per segnalare che era un giorno di lutto nazionale.
Può ancora arrivare il giorno in cui potranno suonare a festa per dire agli italiani che hanno ritrovato libertà, indipendenza e sovranità.
Il mezzo c’è e ha un nome breve: verità.
Vincenzo Vinciguerra

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Il quarto uomo del delitto Moro

L’introduzione dell’ultimo libro di Sergio Flamigni, pubblicato da Kaos Edizioni, che il parlamentare del PCI dal 1968 al 1987, nonché membro delle Commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, sulla P2 e Antimafia, ha dedicato all’enigma del brigatista Germano Maccari.

“La II Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Moro (2014-2017) ha accertato tre dati di fatto di estrema gravità sul sequestro e l’uccisione del presidente della DC.
Il primo è che subito dopo la strage di via Fani, la mattina del 16 marzo 1978, i terroristi in fuga con l’ostaggio si rifugiarono in uno stabile di via Massimi 91 di proprietà dello IOR (la banca vaticana). Dunque non ci furono trasbordi del rapito in piazza Madonna del Cenacolo, né la successiva tappa nel sotterraneo del grande magazzino Standa dei Colli Portuensi, e men che meno l’approdo finale nel covo-prigione di via Montalcini, come sostenuto dalla menzognera versione ufficiale dei terroristi assurdamente avallata dalla magistratura.
Il secondo dato accertato dalla II Commissione parlamentare Moro è che anche le modalità dell’uccisione del presidente DC raccontate dai terroristi – all’interno del box auto di via Montalcini, nel baule dell’auto Renault 4 rossa, con 11 colpi, alle ore 6-7 del mattino – sono una sequela di menzogne. Le vecchie e le nuove perizie hanno infatti definito improbabile il luogo, ben diverse le modalità, e falso l’orario del delitto indicato dalla versione brigatista.
Il terzo dato di fatto è che la “verità ufficiale” sulla prigionia e sull’uccisione di Moro in via Montalcini – originata dal “memoriale Morucci”, poi confermata da altri ex brigatisti, e avallata da un paio di magistrati – è stata confezionata in carcere con la regia del servizio segreto del Viminale (SISDE) e la fattiva collaborazione di settori della DC. Si è trattato cioè di una vera e propria operazione politica e di intelligence, dopo la quale gli ex terroristi hanno ottenuto i promessi benefici penitenziari e la semilibertà. In proposito, le risultanze della Commissione parlamentare sono inequivocabili: «Il memoriale [Morucci] presenta le caratteristiche formali e compositive di un elaborato interno agli apparati di sicurezza, che dunque non possono essere ritenuti a priori estranei alla composizione del testo… La costruzione della verità giudiziaria sulla vicenda Moro appare legata all’azione di una pluralità di soggetti, che operarono attorno al percorso dissociativo di Morucci: i giudici istruttori Imposimato e Priore, il SISDE, alcune figure di rilievo della politica e delle istituzioni».
Del resto, i particolari rapporti del SISDE col terrorista dissociato Valerio Morucci, supportati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con la benedizione dell’allora Presidente del Senato e poi Presidente della Repubblica Francesco Cossiga (già ministro dell’Interno durante il sequestro Moro), erano finalizzati proprio a confezionare una versione di comodo per coprire quelle “verità indicibili” di connivenze e complicità all’interno dei servizi di sicurezza e dei poteri occulti, nazionali e esteri, che hanno accompagnato la preparazione e l’attuazione del delitto Moro. Non a caso Morucci, anni dopo la detenzione, verrà assunto da una società privata di intelligence (la G Risk srl) di proprietà dell’ex colonnello dei Carabinieri e ex dirigente dei Servizi segreti Giuseppe De Donno, e amministrata dal generale dei Carabinieri Mario Mori ex capo del SISDE – plastica saldatura fra un ex capo brigatista e gli ex vertici dei Carabinieri e dei Servizi.
Il procuratore generale della Corte d’appello del Tribunale di Roma, Enrico Ciampoli, con la requisitoria dell’11 novembre 2014 aveva già smentito la versione del duo Morucci-Moretti circa la dinamica dell’agguato e della strage. Secondo la versione brigatista, i terroristi in via Fani avrebbero sparato tutti e solo da sinistra, mentre per la Procura generale «il caposcorta dell’on. Moro [maresciallo Oreste Leonardi, nda] fu ucciso inequivocabilmente da destra, come d’altronde conferma la perizia balistica. Quindi, oltre ai 4 brigatisti di cui parlano Morucci e Moretti…, c’era necessariamente un quinto sparatore. Un killer solitario, posizionato a destra, la cui presenza, con alta probabilità, non fu neppure percepita dal caposcorta dell’on. Moro, se è vero che il suo cadavere venne ritrovato “in posizione rilassata e serena”».
I tre dati di fatto accertati dalla II Commissione parlamentare, in pratica, smentiscono la versione ufficiale del delitto Moro dall’inizio (la fuga con l’ostaggio fino in via Montalcini) alla fine (l’uccisione del prigioniero nel box auto di via Montalcini con trasporto del cadavere nel centro di Roma), e confermano che il sequestro del Presidente della DC è rimasto un delitto senza verità. Infatti non c’è nessuna certezza sul luogo (o i luoghi) dove Moro fu tenuto segregato per quasi due mesi, né si sa chi, come e perché lo abbia ucciso. E si tratta di tre questioni – Moro nella fantomatica prigione di via Montalcini, le modalità della sua uccisione, e il castello di menzogne confezionato dal quartetto Morucci-Moretti-destra DC-SISDE – che delineano il contesto in cui si colloca l’enigmatica figura del brigatista Germano Maccari.
Secondo l’ex capo brigatista Moretti, Maccari sarebbe stato presente nel covo di via Montalcini con lo pseudonimo di “Luigi Altobelli” come finto marito dell’intestataria dell’appartamento-covo Anna Laura Braghetti. A detta del trio Faranda-Morucci-Moretti, Maccari sarebbe stato uno dei carcerieri di Moro durante tutti i 55 giorni della prigionia, avrebbe collaborato all’uccisione dell’ostaggio, e avrebbe partecipato poi al grottesco trasporto del cadavere fino in via Caetani la mattina del 9 maggio 1978. La vera identità dell’Altobelli di via Montalcini restò coperta per un quindicennio, fino all’estate del 1993: cioè fino a quando l’ex capo brigatista Mario Moretti, nel ruolo di delatore interessato, decise di permettere l’individuazione e l’arresto di Maccari.
La vicenda che ha avuto come protagonista Germano Maccari è un compendio delle ambiguità, delle menzogne, delle omertà, delle oscurità, del criminale cinismo e delle “verità indicibili” che hanno caratterizzato le sanguinarie BR morettiane e che hanno scandito la strage di via Fani e il delitto Moro. Ed è una vicenda che rende vieppiù inverosimile la versione brigatista, assurdamente avallata dalla magistratura, sulla prigionia e sull’uccisione dello statista democristiano.”

Fonte

9 maggio 1978


Siamo stati noi a mettere il dito dei brigatisti sul grilletto della pistola. Le Brigate Rosse sono state manipolate in questa direzione, verso l’esecuzione di Moro. Non l’hanno mai capito o scoperto, ma è così che è andata.
(…) La trappola era che dovevano ucciderlo. Sono stati sopraffatti dalla loro stessa incapacità di capire ciò che davvero stava accadendo. Ancora una volta sono stati eccellenti sul piano tattico, ma strategicamente si sono fatti manovrare come degli ingenui.
(…) Li ho messi a tal punto con le spalle al muro che non gli restava altro da fare che uccidere il loro prigioniero. Si sono fatti manipolare fino a diventare i responsabili del loro stesso annientamento.
Steve Pieczenik

Da Abbiamo ucciso Aldo Moro, di Emmanuel Amara, Cooper, 2008, pp. 173-174.

Steve Pieczenik è uno psichiatra, scrittore di gialli psico-politici “acclamato dalla critica”, consulente del Dipartimento di Stato USA inviato in Italia in qualità di negoziatore, all’epoca del sequestro dell’esponente democristiano.
Dopo averlo insultato, egli si assume la responsabilità primaria della decisione del governo allora in carica di rifiutare qualsiasi negoziato con i sequestratori per il suo rilascio. Qui.

Steve Pieczenik, oggi:

Una curiosa pellicola

L’assassinio di Moro è consumato cinematograficamente due anni prima che il cadavere del presidente della DC sia ritrovato in Via Caetani, nel bagaglio della Renault 4…

“Nel corso degli anni ‘70, quando l’ipotesi di un PCI “governativo” cresce e matura, Sciascia pubblica due romanzi che suonano come una severa condanna al compromesso storico: Il contesto (1971) e, appunto, Todo Modo (1974). Nel primo lavoro, un giallo sui generis, il Partito Comunista è presentato così organico al potere da insabbiare persino, per ragioni di Stato, la verità sull’omicidio del proprio segretario. Nel secondo libro, il protagonista, un pittore disilluso e agnostico, soggiorna nel misterioso eremo Zafer, dove il luciferino padre Gaetano ospita cardinali, ministri e boiardi di Stato per gli annuali esercizi spirituali: due indecifrabili omicidi culminano con l’assassinio dello stesso don Gaetano per mano del pittore, che compie così una sorta di redenzione. Il “giallo” è un durissimo attacco alla Democrazia Cristiana, dipinta come un nido di serpi, un informe ammasso di ladri e bigotti, devoti soltanto al potere e all’arricchimento personale. Il pittore-protagonista sogna “di vederli tutti annaspare dentro una frana di cibi in decomposizione”: è lo stesso sogno che coltivano gli ambienti anglofili e liberal, sogno poi avveratosi nei primi anni ‘90 con la stagione di Tangentopoli eterodiretta da Washington e Londra.
Passa qualche anno e, in vista delle elezioni del giugno 1976 (dove il PCI raggiunge il massimo storico, toccando il 34% dei consensi), crescono i timori che il compromesso storico si inveri: insediatosi il nuovo Parlamento, formato un governo con l’appoggio esterno dei comunisti, eletto Aldo Moro al Quirinale, il PCI potrà finalmente entrare a pieno titolo nella compagine governativa, dando all’Italia una stabilità (ed un peso geopolitico) senza precedenti. La macchina propagandistica si mette perciò prepotentemente in moto: i due romanzi di Sciascia sono un’ottima base per produrre altrettanti film, destinanti al grande pubblico, per denigrare il PCI, la DC ed il temutissimo compromesso storico.
Il contesto è riproposto abbastanza fedelmente nel film Cadaveri Eccellenti diretto da Francesco Rosi e uscito nella sale nel novembre 1976: la frase di chiusura, “la verità non è sempre rivoluzionaria”, è fedele allo spirito del libro e, messa in bocca ad un dirigente comunista, tratteggia un PCI totalmente succube degli intrighi e delle logiche di potere.
Todo Modo esce nella sale nell’aprile del 1976, nonostante alcuni dirigenti della DC facciano pressione sulla Warner Brothers, attraverso Dino Laurentiis, per bloccarne o, perlomeno ritardarne, l’uscita. La trama subisce però profondi e significativi cambiamenti, per adattare il film alla precisa situazione politica del 1976: scompare il pittore-protagonista ed appare una misteriosa epidemia di peste che affligge il mondo esterno (una probabile allusione al terrorismo dilagante), permane la figura di don Gaetano (interpretato da Marcello Mastroianni) e sopratutto compare la figura di Aldo Moro, interpretato da Gian Maria Volonté. La scia degli omicidi consumati nell’eremo si allunga e culmina con la plateale e brutale esecuzione di Aldo Moro: inginocchiato a terra, piagnucolante, Moro è giustiziato dal suo autista con una raffica di colpi alla schiena. Due anni prima dell’effettiva esecuzione nella “prigione del popolo”, Aldo Moro muore così sul grande schermo: taluni la definiscono una “profezia”, ma fu piuttosto un avvertimento mafioso.
Regista del film è Elio Petri, divenuto celebre nel 1970 con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, una corrosiva rappresentazione delle forze dell’ordine, rozze e prevaricatrici, che si colloca nell’incandescente clima di Piazza Fontana e dell’omicidio Pinelli. I produttori di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto furono Marina Cicogna e Daniele Senatore. La prima, all’anagrafe Marina Cicogna Mozzoni Volpi di Misurata, è la titolare della casa Euro International Film, nonché nipote di Giuseppe Volpi, Conte di Misurata: è la rampolla di una ricca e potente famiglia, da sempre legata all’Inghilterra per ragioni economiche e di obbedienza massonica. Il secondo, Daniele Senatore, è anche il produttore, assieme alla Warner Brothers, di Todo Modo: fondatore della “Vera Film”, con cui produce insieme alla Universal Pictures e alla Vic Films di Londra, la prima coproduzione anglo-italiana (In search of Gregory), produttore di una lunga serie di film di denuncia sociale (La classe operaia va in paradiso, Mimì metallurgico, etc.) lascia l’Italia dopo l’uscita di Todo Modo per vivere tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Tornerà in Italia nei primi anni ‘90, assumendo la carica di consulente di Telecom per le tecnologie avanzate.
Un film, Todo Modo, concepito, scritto e prodotto dagli ambienti liberal e anglofoni: gli stessi che, a distanza di due anni dall’uscita dal film, diressero poi l’effettivo rapimento di Aldo Moro e ne decretarono la morte, seppellendo insieme al suo corpo il compromesso storico e la nascita di una nuova Italia, poggiante su basi più forti e stabili. Vedendo la pellicola, Aldo Moro avrà senza dubbio colto il messaggio, neppure troppo subliminale, inviatogli dagli angloamericani: andò comunque avanti, non pensando forse che tutti lo avrebbero tradito.”

Da Todo Modo: genesi del film che “anticipò” l’assassinio di Aldo Moro, di Federico Dezzani.

Moro è caduto per aver troppo capito e troppo osato

16 marzo 1978: quella mattina alla Camera.
La testimonianza di un allora deputato del PCI.

La notizia della strage in via Fani e del sequestro dell’on. Aldo Moro giunse, veloce e terribile, a Montecitorio di prima mattina. Ricordo lo smarrimento di capi e gregari democristiani, il nostro sgomento. Nel “transatlantico” le urla di pochi soverchiavano i silenzi atterriti di tanti.
Antonello Trombadori, deputato comunista ed ex gappista romano, correva come un pazzo avanti e indietro gridando “al muro, al muro”. Perfino un uomo misurato come Ugo La Malfa giunse a invocare in Aula la pena di morte.
Il giorno non fu scelto a caso: quel 16 marzo 1978 la Camera era stata convocata per votare la fiducia al quarto governo Andreotti. Per la prima volta, dopo trent’anni, il PCI entrava nella maggioranza anche se non rappresentato nel governo. Un altro voto difficile, per noi, ma necessario per realizzare il secondo passaggio dell’intesa strategica fra Moro e Berlinguer.
I nemici occulti di tale strategia decisero di fermarla al secondo passaggio, giacché al terzo, che avrebbe visto i comunisti al governo, sarebbe stato altamente rischioso.
Un disegno funesto, devastante, ideato da forze potenti, tutt’ora ignote, ben più potenti delle BR che l’hanno eseguito. Almeno così in molti leggemmo la vicenda sulla quale pesano ancora tante stranezze operative e alcuni interrogativi riguardanti la sua gestione politica, per altro molto riservata e accentrata.
Aldo Moro fu colpito in quanto unico leader in grado di traghettare la DC verso questa svolta decisiva. Salvando lui si sarebbe dovuto salvare anche il progetto politico di cui era co-protagonista, ufficialmente condiviso da circa il 90% delle forze parlamentari.
Perché, dunque, non si tentarono tutte le possibili vie di salvezza?
La cosiddetta “linea della fermezza”, anche se invocata in buona fede, non era in fondo una condanna a morte del sequestrato?
Interrogativi angoscianti che in quei giorni convulsi non trovarono risposte esaurienti.
Perciò, mi parve illogico respingere la “trattativa” che avrebbe consentito, se non altro, di scoprire le carte dei sequestratori. Se fosse stato un bluff, come molti temevano, le BR avrebbero confermato il diffuso sospetto di essere al servizio di un disegno più grande di loro, mirato soltanto all’eliminazione fisica dell’on. Aldo Moro.
Purtroppo, le cose andarono per un altro verso. Moro verrà barbaramente assassinato. Il danno fu grande per la sua famiglia e per la democrazia italiana che, d’allora, appare sempre più contratta, fiacca, vacillante.
La verità sul caso Moro è ancora lontana. Un caso o un affaire come lo definì Leonardo Sciascia col quale più volte ebbi a parlare quando veniva a Montecitorio.
Lo scrittore aveva ragione: quel tragico evento non poteva essere ridotto a un “caso”, perché caso non era, ma un delitto politico complesso, ideato e programmato in tutti i suoi aspetti militari e politici.
Forse, un giorno sapremo (o sapranno) tutta la verità sull’affaire Moro. Tuttavia, credo si possa senz’altro affermare che Egli è caduto per avere troppo capito e troppo osato.
Osato fino a sfidare il veto dell’establishment USA e della NATO che, specie in tempi di “Guerra Fredda”, impediva di portare il più grande partito comunista d’Occidente al governo di un Paese-cerniera qual era l’Italia.
Oltre agli aspetti geo-strategici decisi al vertice della NATO, vigeva una prassi, non dichiarata ma decisamente praticata, secondo la quale ai parlamentari del PCI non era consentito l’accesso a determinate informazioni di tipo militare. Comunisti, dunque, da discriminare, da demonizzare, anche forzando il dettato costituzionale. Ora, Aldo Moro voleva portarli addirittura al governo!
Una mutazione piuttosto sorprendente, frutto di un pensiero lungimirante, che un po’ stupì anche noi abituati a percepire il gruppo dirigente della DC come un blocco dominante composito, talvolta anche rissoso, che, al bisogno, sapeva far quadrato a difesa di un potere gretto, fine a se stesso che si voleva conservare al governo, in eterno.
Un punto di vista piuttosto diffuso, giacché questo era il volto del potere democristiano, soprattutto in Sicilia e nel meridione.
Nacque così, dopo la poderosa avanzata del PCI del 1976, il “governo delle astensioni” . Una formula per molti di noi deludente, indigeribile anche perché basata, sostanzialmente, su un’intesa riservata, quasi sulla parola, fra Berlinguer e Moro.
Tuttavia, quell’accordo produsse un clima di rasserenamento, di relativa fiducia tra i partiti, soprattutto fra DC e PCI che insieme disponevano del 75% della rappresentanza parlamentare: una vera superpotenza politica capace di riformare finalmente il Paese. E le riforme – si sa – suscitano grandi speranze ma anche grandi paure in chi si sente minacciato.
Da qui una serie di preoccupazioni insorte anche nel cuore dei principali centri decisionali internazionali politici, militari e finanziari. La paura per un tale cambiamento avrà spinto le forze ostili, italiane e straniere, a fermare l’ideatore di questo passaggio così innovativo.
Agostino Spataro

Lo sprezzo del ridicolo

I sefarditi de Il Corriere della sera, quando non si occupano di propagandare la Shoah, le imprese israeliane contro il popolo palestinese, le grottesche iniziative dell’italo-israeliano Emanuele Fiano, si calano nelle vesti di agenti dell’Interpol e danno la caccia ai “terroristi” di quasi mezzo secolo fa.
Oggi esultano perchè, dopo aver dato per morto un certo Maurizio Baldasseroni, classe 1950, scoprono che è vivo e, come lui, lo è anche un suo complice, tale Oscar Tagliaferri, entrambi di “Prima linea”.
I due, in realtà, dopo aver inutilmente ucciso tre clienti in un bar di via Adige, a Milano, il 1° dicembre 1978, vennero espulsi dall’organizzazione e, quindi, classificarli come “sanguinari terroristi” è fuori luogo, anzi dichiaratamente falso.
Si sono dati alla fuga e sono scomparsi in Sud America senza che nessuno li abbia mai realmente ricercati. Ora, vogliono ritrovarli e riportarli in Italia come Cesare Battisti.
I toni dei sefarditi del Corriere sono truci: dargli la caccia “ad ogni costo”, perbacco!
Peccato che qualche giorno prima avevano parlato di Alessio Casimirri, condannato all’ergastolo per concorso nel sequestro e nell’omicidio di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta e da sempre rifugiato in Nicaragua non clandestinamente ma alla luce del sole.
In questo caso, il Corriere della Sera racconta che, forse, Casimirri era stato arrestato dai carabinieri ma misteriosamente rilasciato, fatto che alimenta il dubbio che il “terrorista” sia stato in realtà un “infiltrato” dei servizi segreti nelle Brigate Rosse.
Sospetto avvalorato dalla circostanza che nessuno governo italiano, prima di quello presieduto da Matteo Renzi, abbia mai richiesto la sua estradizione al Nicaragua.
Manco a dirlo, nell’articolo mancano i toni truculenti, sono assenti i riferimenti all’ansia di giustizia dei familiari di Aldo Moro e degli uomini della scorta, non si chiede che venga riportato “ad ogni costo” in Italia perché “giustizia” sia fatta.
Siamo abituati da una vita all’ipocrisia, alla falsità, alla menzogna di troppi italici pennivendoli ma dovrebbero avvertire costoro almeno il senso del ridicolo.
Stanno facendo, difatti, una caciara per una nullità come Cesare Battisti al quale ora vogliono aggiungere altri due signor nessuno come Baldasseroni e Tagliaferri e si “dimenticano” con senso di opportunità di parlare di Giorgio Pietrostefani.
Perché non c’è solo il latitante di Stato Alessio Casimirri, rifugiato in Nicaragua, ma anche il “lottatore continuo” e figlio del prefetto di Arezzo Giorgio Pietrostefani, fuggito in Francia con l’autorizzazione del Ministero degli Interni.
Insomma, la “giustizia” dei sefarditi del Corriere della Sera è a corrente alternata: si accende solo quando i “terroristi” sono inoffensivi per lo Stato, per il regime e per gli “amici degli amici”, in questo caso la faccia diventa feroce e si chiede che “paghino” all’interno di una casa di riposo carceraria perché l’età di costoro è ormai sui 70 anni più o meno, quella giusta per iniziare a scontare ergastoli con fine pena mai.
Quando, invece, si tratta dei Casimirri e dei Pietrostefani la sete di giustizia si estingue, la corrente si spegne, neanche osano balbettare, stanno zitti proprio.
Uno Stato che ha fomentato una guerra civile per gli interessi propri e dei propri alleati, non ha il diritto di mettere in galera qualcuno, e tantomeno di selezionare quelli che ci devono andare e gli altri che devono evitarla ad ogni costo.
Quanti sono stati salvati dallo Stato italiano?
Tanti, dai latitanti ai quali è stata garantita la liberta, agli assolti per insufficienza di prove, sono una legione i “terroristi” veri o, più spesso, presunti che nessuno ha mai chiamato a “pagare” alla faccia dei familiari delle vittime.
Questo revival di una inesistente giustizia ha scopi diversi e non dichiarati.
I “pregiudicati” di ieri servono forse a distrarre l’attenzione pubblica dai pregiudicati di oggi che dirigono partiti politici, sostengono il governo, si propongono come persone in grado di ridare agli Italiani sicurezza e giustizia.
Quella che un tempo fu una tragedia, l’hanno trasformata oggi in una farsa nella quale tutti sono chiamati a recitare la loro parte fingendo di volere giustizia e di voler evitare la cancellazione della memoria, quando viceversa l’obiettivo è quello di evitare che da quella memoria emergano le responsabilità dello Stato e del regime, per questa ragione Cesare Battisti sì, Alessio Casimirri no, Baldasseroni e Tagliaferri sì, Pietrostefani no.
È la memoria mafiosa che ricorda i delitti degli altri ma non i propri.
È così difficile comprenderlo? Crediamo di no.
Vincenzo Vinciguerra

Fonte

“Una strategia fallita ma che ha lasciato un effetto duraturo”

L’intervento del dott. Guido Salvini, magistrato presso il Tribunale di Milano, presentato al convegno “La rete eversiva di estrema destra in Italia e in Europa (1964-1980)”, svoltosi a Padova l’11 novembre 2016.

“Il quinquennio 1969-1974 rappresenta il periodo cruciale e più sanguinoso, l’apice di quella che è stata chiamata la strategia della tensione: in Italia si verificano ben cinque stragi, un’altra mezza dozzina di stragi almeno, soprattutto su linee ferroviarie, falliscono per motivi tecnici perché l’ordigno non esplode o il convoglio riesce a superare il tratto di binario divelto, vi è il tentativo di colpo di Stato del principe Valerio Borghese seguito da altri progetti che durano fino al 1974, vi è infine un attentato in danno dei Carabinieri quello di Peteano, con tre vittime, del maggio ‘72 caratterizzato, come vedremo, da una propria specificità.
Già l’anno 1969 in Italia anno è denso di avvenimenti politici.
In quel momento il governo è un debole monocolore guidato dall’on. Rumor che si muove in una situazione incandescente per il rinnovo dei più importanti contratti e la mobilitazione quindi di centinaia di migliaia di operai; inizia la protesta studentesca nei licei e nelle università con un anno di ritardo rispetto al 1968 francese. Sono poi in discussione in quella fase politica riforme decisive sul piano strutturale e culturale come lo Statuto dei Lavoratori, l’approvazione del sistema delle Regioni, la legge sul divorzio.
Nixon è presidente gli Stati Uniti e sono gli anni della dottrina Kissinger, quella secondo cui i governi italiani e i partiti politici di centro dovevano respingere ogni ipotesi di accordo e di compromesso con il PCI e le forze di sinistra, scelta facilitata in passato, come ha ricordato anche Aldo Moro nel suo memoriale scritto dalla prigionia, da continui flussi di finanziamenti distribuiti nascostamente dall’amministrazione americana a partiti e organizzazioni di centrodestra talvolta tramite il SID del gen. Miceli. Il 27 febbraio 1969 il presidente della Repubblica americano fa una visita in Italia ed incontra al Quirinale il presidente Saragat. Vi è stata da poco la scissione del PSI e attorno al PSDI, cui Saragat appartiene, si radunano le correnti più determinate in senso filo-atlantico e più contrarie al mantenimento dell’esperienza di centro-sinistra.
Secondo un dossier contenuto negli archivi di Washington e desecretato il Presidente italiano concorda con quello americano sul “pericolo comunista” e afferma che agli occhi degli italiani il PCI si fa passare per un partito rispettabile ma è dedito agli interessi del Cremlino.
Il giorno della visita del presidente Nixon a Roma la città è blindata e scoppiano gravissimi incidenti tra la polizia ed extraparlamentari di sinistra cui seguono nell’Università scontri tra questi ultimi e militanti dell’estrema destra: vi è la prima vittima di quell’anno Domenico Congedo, uno studente anarchico, Congedo che durante un attacco dei fascisti alla facoltà di Magistero precipita da una finestra.
Del resto a livello internazionale la situazione è critica per il blocco occidentale in quanto molti Paesi afro-asiatici sotto la spinta della decolonizzazione entrano nell’orbita dei Paesi socialisti e alcuni passaggi di campo vengono impediti solo attraverso guerre civili o colpi di Stato molto sanguinosi da quello in Indonesia nel 1965 a quello in Cile nel 1973.
Non sembra un caso che la stagione delle stragi si collochi all’interno di questo quadro internazionale e coincida quasi perfettamente con la durata della presidenza Nixon e declini nel 1974 dopo la crisi del Watergate e lo sfaldarsi dei regimi dittatoriali in Europa, la Grecia, la Spagna, il Portogallo con il conseguente venir meno dell’ipotesi di un colpo di Stato anche in Italia che s’ispiri a quelle esperienze.”

Gli anni 1969-1974 in Italia: stragi, golpismo, risposta giudiziaria continua qui.

L’unica riconciliazione possibile

“Verificata la possibilità di ottenere i voti di poco più di un milione di Italiani che, abbagliati dalla propaganda antifascista, lo vedevano come l’erede del fascismo, il Movimento Sociale Italiano si offre come ruota di scorta della Democrazia Cristiana con i cui attivisti svolge la campagna elettorale della primavera del 1948 con lo slogan “Chi vota DC vota bene, chi vota MSI vota meglio”.
Dopo, più si allontana dai postulati dottrinari ed ideologici del fascismo più s’impegna nel campo attivistico contro il Partito Comunista per rendersi strumento prezioso ed indispensabile dell’alta borghesia e del Vaticano, non trascurando di servire gli interessi degli Stati Uniti e della neo-costituita Alleanza Atlantica.
Si viene, in questo modo, a formare un “neo-fascismo” di propaganda al servizio dell’antifascismo cattolico e liberale al potere.
Già negli anni Cinquanta, il MSI è solo un partito di estrema destra senza più legami ideologici e storici con il fascismo mussoliniano e rivoluzionario che considerava la borghesia la “rovina dell’Italia” e che aveva invitato i propri militanti ad aderire al Partito Socialista di Unità Proletaria di Pietro Nenni.
Del resto, la Democrazia Cristiana guidata dalla gesuitica politica vaticana la sua riconciliazione l’aveva portata avanti, per fini elettoralistici, fin dal febbraio del 1946, quando aveva chiamato alla leva tutti quei giovani che avevano fatto parte delle Forze Armate repubblicane [si intenda Repubblica Sociale Italiana – n.d.r.].
Erano seguiti la fine dell’operazione, il reimpiego dei licenziati, il reintegro nelle Forze Armate di quanti avevano pur giurato fedeltà allo Stato repubblicano, riconoscimenti pensionistici e quanto altro poteva servire per dimostrare che per la Democrazia Cristiana ed i suoi alleati la guerra civile italiana era solo un ricordo.
Lo stesso Movimento Sociale Italiano era ritenuto, giustamente, forza politica di sostegno esterno ai governi democristiani e, forse, sarebbe riuscito perfino ad ottenere qualche sottosegretariato se lo scarso seguito elettorale suo e dei partiti laici non avesse convinto Aldo Moro a varare la politica di centro-sinistra con la benedizione dell’amministrazione Kennedy ed il contributo decisivo della CIA.
Un partito di estrema destra che rappresentava solo sé stesso non poteva rappresentare la controparte fascista all’antifascismo perché era al servizio, anche segreto, delle sue componenti cattoliche e liberali.
Quale conciliazione si sarebbe mai potuta fare con una forza fascista che non esisteva se non nelle manifestazioni esteriori di un partito che ingannava i suoi elettori autorizzando saluti romani e slogan nostalgici alle sue manifestazioni salvo servire gli interessi del potere antifascista?
Una commedia all’italiana, una tragica commedia che ha raggiunto il suo apice con i grotteschi abbracci fra reduci della RSI e delle forze di liberazione nel 1994 quando il pregiudicato Silvio Berlusconi sdoganò il Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale per farne il proprio alleato politico.
Non passarono due anni che tutti i “fascisti” del MSI-DN, a partire dal loro segretario nazionale, Gianfranco Fini, si volsero in antifascisti condannando esplicitamente il fascismo ritenuto il “male assoluto”.
A quel punto, non si comprende con chi gli antifascisti avrebbero potuto riconciliarsi, se non con i sparuti gruppuscoli di estrema destra che ostentavano di restare fedeli al Movimento Sociale Italiano che mai era stato fascista.
In realtà, l’unica riconciliazione possibile in questo Paese sarebbe quella con la storia che andrebbe raccontata secondo verità.
Ma questo non è possibile perché il potere antifascista si regge sulla menzogna.
E per non smentirsi inventa l’esistenza, ancora nel 2017, di temibili gruppi “fascisti” la cui unica attività è quella di presentarsi ogni anno, almeno a Milano, nella parte del cimitero riservata ai caduti della RSI per offenderne la memoria con il saluto romano.
Per il resto dell’anno brigano con La Russa, Alemanno, Meloni, Salvini con i quali devono salvare l’Italia da migranti, zingari e barboni.
Anche le pulci reclamano un palcoscenico saltellando fra i piedi dei Pulcinella e degli Arlecchino nazionali.
Nessuna riconciliazione nazionale, quindi, è mai stata fatta e mai potrà essere fatta in un Paese in cui solo i morti rimangono coerenti: così per i fascisti, così per i comunisti, così per i “terroristi”.
Per i pochissimi che non rinnegano, non ripudiano, non si dissociano rimane la prospettiva consolante di morire in una solitudine orgogliosa, dimenticati nel tempo presente perché mai vinti.
Ed è quello che alla fine conta.”

Da Riconciliazione, di Vincenzo Vinciguerra.

Matteo Renzi e il suo consigliere per la politica estera

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“Da Ledeen a Renzi e ritorno a Tel Aviv. Le stragi non vanno mai in prescrizione anche sotto governi telecomandati dall’estero. Quei 20 chilogrammi di esplosivo che il 2 agosto 1980 fecero saltare in aria la stazione di Bologna provocando 85 morti e 200 feriti non c’entrano niente con il terrorismo palestinese, né tanto meno con il terrorista Carlos. Il giudice per le indagini preliminari di Bologna Bruno Giangiacomo ha recentemente archiviato in via definitiva le indagini a carico dei terroristi tedeschi, Thomas Kram e Margot Christha Frohlich che erano finiti indagati dalla Procura nel filone della pista palestinese soffiata dal Mossad. Dopo 35 anni, tuttavia, la magistratura italiana non ha ancora individuato i mandanti e gli esecutori materiali.
Si trattò di un eccidio anomalo, perché avvenne in una situazione politica stabilizzata; perciò la strage assume la caratteristica di un tentativo di cancellare dalla città, dall’attenzione dei mass media e dell’opinione pubblica, dal dibattito politico, dall’indagine dei magistrati la precedente strage di Ustica.
Il Dc-9 Itavia ammarato il 27 giugno 1980 al largo di Ustica, mentre volava da Bologna a Palermo con 77 passeggeri e 4 membri dell’equipaggio, non esplose in volo e nelle vicinanze c’era almeno un altro aereo che lo attaccò, quasi certamente con un missile, lasciando una traccia radar che per anni era stata scambiata per i rottami del Dc-9 stesso. Lo afferma uno studio del Dipartimento di ingegneria aerospaziale dell’Università di Napoli consegnato ai legali dei familiari di alcune vittime. Gli ingegneri dell’Università Federico II, a distanza di anni dalle ultime indagini tecniche promosse dalla magistratura, sono giunti alla fine del 2014, a queste conclusioni rielaborando con nuove tecnologie gli stessi dati che erano stati acquisiti subito dopo il disastro.”

La strage di Bologna per occultare quella di Ustica, di Gianni Lannes continua qui.

Il caso Moro

In questi giorni si sta rievocando sui media il “caso Moro”. Si ricorda cioè il rapimento e l’uccisione del leader della DC, ufficialmente rapito ed assassinato dalle “Brigate Rosse”.
Non mi ha mai convinto la versione ufficiale. Né tutto il polverone, i depistaggi, le balle spaziali, le carriere esplose o finite del sottobosco di potere che si agitò in quel periodo. E dopo.
E mi sono fatta un’idea mia. Assolutamente pazza e fuori dal coro. Ma che alla mia zucca ha il pregio di stare in piedi. Oltretutto ha una logica.
Vediamo un po’.
Aldo Moro è la testa pensante della D.C. Ed ha un progetto: aggregare il P.C.I. nella gestione del potere. Per due motivi essenziali: “fagocitarlo” politicamente e avviare una democrazia dell’alternativa che l’osservanza sovietica dei trinariciuti impediva. Non sto a dare giudizi di valore: ognuno la pensi come vuole.
Però il P.C.I. era forte sostenitore di Assad, il dittatore della Siria, padre dell’attuale leader siriano, fortemente sostenuto dall’U.R.S.S..
La Siria era uno dei maggiori nemici di Israele, col quale già aveva fatto guerre e guerricciole.
Il premier di Israele era Rabin, antico terrorista durante il pasticciaccio della creazione dello Stato ebreo.
Rabin quindi non vedeva di buon occhio l’ascesa del P.C.I. nella gestione del potere, visti anche i buoni rapporti con gli arabi che da sempre ha avuto l’Italia, fino ad arrivare a Mussolini, la Spada dell’Islam.
Quindi Rabin si rivolge ad un altro ebreo, Kissinger, allora Segretario di Stato USA (ministro degli esteri), potentissimo personaggio, che molti hanno definito “criminale”.
Kissinger chiama Moro a Washington e gli dà una lavata di testa memorabile. Tanto che al ritorno Aldo Moro ha un attacco di cuore, e lo curano due cardiologi (ricordate questo particolare, vedremo poi).
Però Moro va avanti nel suo progetto catto-comunista.
Ed allora i padroni israeloamericani decidono di intervenire: eliminare Moro, utilizzando i sicuri lacché presenti nel governo: Andreotti e Cossiga, da sempre filo (leggi: servi) USA.
E chi deve fare il lavoro sporco? Continua a leggere

Non si deve dire ma si deve sapere

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“Bisogna distinguere tra valore di verità e giustificazione di una credenza, quando si tratta di argomenti come i Misteri d’Italia. Nel caso Moro appare esserci stato almeno un altro caso di giustificazione falsa di una verità. Cossiga diceva che lui e i DC avevano ucciso Moro; intendendo di avere causato la morte di Moro indirettamente, come effetto collaterale previsto ma non voluto, e per una scelta autonoma di difesa dello Stato; mentre fu una responsabilità di tipo diretto, e in esecuzione di volontà esterne. L’affermazione di Cossiga, anch’essa una risposta alle accuse, nella sua arrogante ambiguità ha alcune somiglianze con quella di Scelba a Catanzaro.
Non va dimenticato d’altra parte che se i dettagli non sono ricostruibili con certezza, il quadro generale è abbastanza chiaro. Personalmente non ho bisogno di studi interminabili per comprendere che coloro che occupano le istituzioni dello Stato sono corrotti e venduti a forze sovranazionali: lo vedo coi miei occhi ogni giorno. Bisogna anche evitare che, come tendono a fare accademici e magistrati, venga sabotata l’accuratezza in nome della precisione; cioè che si neghi il quadro generale perché alcuni particolari vengono periodicamente messi in discussione e corretti.
Oltre che un depistaggio, le rivelazioni false che indicano la verità e la loro successiva demolizione possono essere una forma di intimidazione, e hanno un effetto demoralizzante. Col conseguente procedimento per calunnia il paradosso intimidisce il pubblico dal profferire ciò che d’altro canto gli si lascia capire. Una nota, questa del negare e mostrare, presente in tutta la vicenda Moro. Sembra anzi che faccia parte della strategia del terrore il far intravedere chi sono i veri mandanti, prima ai politici e alla classe dirigente, ora al pubblico generale; dando così un esempio e lanciando una minaccia. E rivelando quindi il senso di un’operazione altrimenti folle, oltre che scellerata; di una “follia” che apparentemente pervase anche la risposta dello Stato.
Gli atti terroristici del potere, come ho potuto apprezzare a Brescia, hanno, dopo la frazione di secondo dell’esplosione, o della penetrazione del proiettile, un lungo fall-out di corruzione e di degrado, che dura anni e decenni. Con Moro si può ancora intimidire il popolo e addestrarlo alla sottomissione. Pochi giorni prima dell’indagine per calunnia, Pieczenik, emissario di Kissinger presso il governo italiano in veste di consulente per il caso Moro, intervistato da Minoli ha affermato, similmente a quanto aveva fatto negli anni precedenti, che vi era un interesse USA a eliminare Moro, e che egli agì in questo senso; attribuendo a sé stesso “il sacrificio” di Moro, come un merito. Con un discorso simile nella struttura formale a quello di Cossiga.
Appare che vi sia la volontà di imporre, mediante ammissioni parziali e distorte da un lato e smentite e minacce giudiziarie dall’altro, una forma di omertà particolarmente umiliante, che si può chiamare “manzoniana”, descritta nella sua perversità da Manzoni, a proposito della dominazione spagnola sull’Italia (v. epigrafe): non si deve dire ma si deve sapere. Così il mostro può circolare liberamente nelle menti ma non nel discorso pubblico. Già nell’agorà la convinzione privata dell’omicidio di Stato in esecuzione di ordini sovranazionali diviene un argomento poco maneggevole e opinabile, al quale vengono affibbiate connotazioni da chiacchiera da bar, complici la diffusa vigliaccheria e il diffuso atteggiamento ruffiano verso il potere. E nelle assemblee ufficiali la terribile accusa di essersi venduti agli stranieri nel partecipare a un assassinio politico non entra se non per essere condannata come una calunnia, che getta fango sui fieri rappresentanti di un popolo fiero.”

Da L’omertà manzoniana su Moro, di Francesco Pansera.

I panni sporchi della sinistra

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La cosiddetta superiorità morale della sinistra non esiste più?
Sulla base delle inchieste giornalistiche condotte in questi anni e del quadro organico che abbiamo assemblato ci siamo persuasi che, nei fatti, questa diversità non esiste più.

La struttura del vostro libro sembra suggerire che il padre di questa mutazione della sinistra sia Giorgio Napolitano. È così?
Napolitano è un garante dei poteri forti. È il comunista borghese collaterale al PSI di Craxi e favorevole, già negli anni Ottanta, ai rapporti con Berlusconi. Trovo significativa una sua frase, pronunciata quando si insediò al ministro degli Interni nel primo governo di centrosinistra della Seconda Repubblica, nel 1996. “Non sono venuto qui per aprire gli armadi del Viminale”, disse Napolitano facendo intendere di non voler indagare sui tanti segreti italiani irrisolti. Una dichiarazione che è tutta un programma.

Nel libro viene citata tra l’altro una fonte anonima che sostiene l’appartenenza di Napolitano alla massoneria…
L’appartenenza di Napolitano alla massoneria non è provata. E’ l’opinione della nostra fonte, noto avvocato figlio di un esponente del PCI, il quale riconduce le famiglie Amendola e Napolitano, interpreti della corrente di pensiero partenopea “comunista e liberale”, alla massoneria atlantica. Anche l’ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Giuliano Di Bernardo, ipotizza per il presidente della Repubblica l’affiliazione ad ambienti massonici atlantici. Ma siamo nell’ambito delle opinioni. E’ invece emerso da un documento datato 1974, l’Executive Intelligence Review, che Giorgio Amendola, il mentore di Napolitano, era legato alla CIA. Napolitano fu il primo dirigente comunista ad essere invitato negli Stati Uniti. Andò in visita negli USA al posto di Berlinguer, a tenere confererenze nelle università più prestigiose: proprio nei giorni del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Un episodio che chiarisce quanto Napolitano fosse, sino da allora, il più affidabile per i poteri atlantici e che spiega almeno in parte la sua ascesa.

Insomma, Napolitano grimaldello degli USA per portare il PCI a posizioni più allineate al potere atlantico?
Napolitano ha saputo muoversi perfettamente. A livello pubblico e ufficiale è sempre stato fedele al partito, sostenendo la causa di Togliatti persino nella difesa dell’invasione sovietica di Budapest nel 1956, poi come “ministro degli Esteri” del PCI. In maniera sommersa ha coltivato relazioni dall’altra parte della barricata, accreditandosi a più livelli di potere, italiani e internazionali.”

Da un’intervista di Lorenzo Lamperti a Stefano Santachiara, autore insieme a Ferruccio Pinotti del libro I panni sporchi della sinistra. I segreti di Napolitano e gli affari del PD, edito da Chiarelettere.

Ferruccio Pinotti è autore di molti libri-inchiesta che hanno smascherato le trame e gli interessi dei poteri forti. Lavora al “Corriere della Sera” e ha scritto per “MicroMega”, “l’Espresso”, “Il Sole 24 Ore”, “la Repubblica”, “Il Fatto Quotidiano”.
Stefano Santachiara, giornalista d’inchiesta, dal 2009 è corrispondente de “il Fatto Quotidiano”, dalle cui colonne ha svelato il primo caso accertato di rapporti tra ’ndrangheta e PD al Nord, nel comune appenninico di Serramazzoni, in provincia di Modena.

Imposimato, giudice bendato

14029337-illustration-of-lady-with-blindfold-holding-scales-of-justice-with-american-stars-and-stripes-flag-sA proposito del caso Imposimato, è certo che questo magistrato condusse istruttorie giudiziarie gravemente manchevoli, anche di circostanze visibilissime agli occhi di tutti, sull’assassinio della sua scorta, il rapimento di Aldo Moro e la sua successiva eliminazione, 16 Marzo-9 Maggio 1978: come progettato nel 1976, da carte già declassificate del Foreign Office, dal nazista e razzista Henry Kissinger, feroce anti-cristiano ancora adesso (è tra i più accaniti sostenitori, con gli ashke-nazisti Shimon Peres e Benjamin Netanyahu, dell’attacco alla romana Siria di Paolo apostolo… E coi beduini di Wall Street loro colleghi, la cosiddetta Famiglia ‘Reale’ saudita, i bidelli dei pozzi di petrolio USA del Golfo Persico: stella uncinata&scimitarra wahabita unite contro la croce di nostro signore Gesù Cristo, e del suo Popolo, peraltro niente affatto più disarmato, come era ai tempi di Aldo Moro…).
Ma per tornare a Imposimato.
Grazie alle gravi lacune delle sue inchieste, che “istruirono” secondo un preciso indirizzo, “negazionista” di ogni pista estrinseca ai quattro sfigati dei suoi carcerieri-assassini tra cui l’ancora “ignoto” assassino, Imposimato venne cooptato nell’aeropago eurocomunista del P.C. B.R.linguerinnegato e anti-nazionale, asservato a stelle-strisce, tanto da diventare parlamentare inamovibile per ben tre legislature consecutive alla Camera e al Senato, prima di ritornare giudice di Cassazione (!).
Immaginate quanto equanime.
La commissione d’inchiesta del Congresso USA sull’11 Settembre si è ispirata al suo metodo, detto “dei quattro sfigati”, nel concludere che i soli responsabili della strate delle Twin Towers, 3.000 morti, era stato un quartetto di pastori erranti per l’Asia, casualmente nei cieli di Manhattan alla guida di due jumbo-jet!!!
Grazie ancora alle sue manchevoli indagini Imposimato è diventato fortunato ‘dietrologo’ best-sellerista, proprio dei “misteri del caso Moro”, con numerosi libri a carico… sostenendo tesi contrarie a quanto da egli stesso “giudicato” negli anni degli interminabili processi-Moro!!!
Con un’ultima piroetta scandalistica, egli attribuisce, figuratevi voi che serietà, a una fonte pseudonima (tale “Puddu”, invece Ladu), di notizie inviate “via post-el”, le balle esposte nel suo ultimo libello: dove mischia abilmente verità inconfessabili (=Cossiga assassino consapevole di Aldo Moro) con palesi menzogne (Andreotti, che invece subì tutta la vicenda venendo pure estromesso dal governo che presiedeva, sei mesi dopo “il fatto”, e proprio dal vincitore Enrico B.R.linguer: mentre Cossiga suo cugino diretto, divenne Presidente del Qui-orinale, da allora totalmente massonizzato).
Perché questi sono “fatti evidenti”, e non dietrologie fumiste.
Incredibilmente un magistrato invece di indagare “per calunnia di organi dello Stato”, l’autore Imposimato, firmatario e pubblicante le notizie false con nome e cognome, inquisisce invece il privatissimo pseudonimo estensore di alcune “post-el”, il detto Ladu-Puddu…!!!
Tutto ciò a quale scopo? Quello di vanificare i risultati della sconvolgente intervista di Giovanni Minoli a Steve Pieczenik, il “consulente” inviato a Roma-Viminale direttamente da Washington, durante il colà soggiorno dell’attuale Bresidende Sir George Nazolitano, ossia proprio durante il sequestro di Aldo Moro, che confessa candidamente il suo scopo: assicurare che Aldo Moro fosse ucciso. Intervista che avrebbe richiesto una immediata riapertura delle indagini, per fatti nuovi occorsi, e di grande evidenza.
Ora non c’è più alcun pericolo: caso Moro? Calunnia!!!
Imposimato, come giudice, bendato.
Ma come agente confusionario, veramente abilissimo.
Gianni Caroli

Scrollarci di dosso tutto questo marciume e ripartire

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Più volte su questo giornale abbiamo sottolineato le negatività conseguenti alla sudditanza politico-militare dell’Italia e dell’Europa agli Stati Uniti d’America, e le sue ricadute negative anche per lo sviluppo industriale e tecnico-scientifico della nazione. Crede che questa ragione geopolitica possa essere utile per spiegare il ritardo accumulato dall’Italia in molti settori innovativi e ad alta tecnologia e lo scarso interesse della sua classe politica in merito a questi temi?
O ce ne sono secondo lei altre più rilevanti?

Premetto che noi dovremmo rivolgere le nostre critiche non tanto agli Stati Uniti d’America quando al “governo americano”, il quale più che rappresentare il “popolo americano” rappresenta la classe dominante di quel paese. Il socialismo ci insegna a ragionare anche in termini di classi sociali e non solo di popoli. Un paese in cui eleggere il presidente costa ormai sei miliardi di dollari, dove i ricchissimi (l’1% della popolazione) possiedono un terzo del patrimonio complessivo e i ricchi (il 10%) possiedono il 70% della ricchezza nazionale, dove sessanta milioni di cittadini sono esclusi dal servizio sanitario e due milioni di cittadini sono in carcere è una democrazia fino a un certo punto. Conosco moltissimi cittadini americani apertamente critici verso il sistema e, se vogliamo cambiare qualcosa in Europa e nel mondo, dobbiamo evitare un consolidamento tra classe dominante e dominata. Criticando gli “americani” in senso lato, facciamo soltanto il gioco dell’elite finanziaria che guida quel paese, che scientemente sventola da sempre lo spauracchio del nemico esterno per ottenere la fedeltà della classe media e del proletariato. Se gli USA sono stati coinvolti in almeno duecento tra guerre e campagne militari, dalla fondazione ad oggi, non è certo un caso. Gli USA sono in uno stato di guerra permanente contro il mondo esterno per evitare di sfaldarsi. Si costruisce artatamente un patriottismo della paura, per evitare l’esplodere del conflitto interno tra le classi sociali, le tante etnie, i tanti gruppi religiosi. Per venire alla sua domanda, non mi stupisce il fatto che un paese che ha perso una guerra si trovi temporaneamente in uno stato di subalternità nei confronti della potenza vincitrice. È nella natura delle cose. Tuttavia, ci sono due aspetti dei rapporti Italia-USA che mi lasciano alquanto perplesso. Il primo è che lo stato di subalternità più che temporaneo sembra permanente. Dura da settanta anni. Alla fine della guerra fredda si pensava che sarebbe cessato. In fondo i russi si sono ritirati dai cosiddetti “paesi satelliti”. Invece, gli americani non solo non si sono ritirati dall’Europa occidentale, ma hanno aperto nuove basi in quella orientale. Il secondo aspetto che mi rende perplesso è che i tentativi di svincolarsi dalla tutela dei vincitori, che sono anch’essi nella natura delle cose, si sono registrati più in passato che oggi. Oggi la classe politica italiana sembra più rassegnata di quella della Prima repubblica, dove potevamo avere un Giulio Andreotti che faceva una politica apertamente filo-araba, un Aldo Moro che portava i comunisti al governo o un Bettino Craxi che schierava l’esercito a Sigonella. Oggi, gli italiani, gli europei, vengono spiati, svillaneggiati, trattati con sufficienza, e invece di reagire come dovrebbero – mostrando di avere un minimo di orgoglio – si umiliano ulteriormente, arrivando a violare leggi internazionali e protocolli diplomatici per eseguire gli ordini di Washington. Mi riferisco al caso del presidente boliviano Evo Morales, dirottato a Vienna, dopo che Italia, Spagna, Francia e Portogallo hanno negato l’autorizzazione al sorvolo, sulla base del sospetto che trasportasse il dissidente Edward Snowden. Si tratta di un caso enorme, prontamente relegato in penultima pagina dai giornali di sistema. I latino-americani evidentemente hanno la schiena più dritta di noi, dato che hanno convocato i nostri ambasciatori e hanno offerto asilo a Snowden. Il comportamento di Enrico Letta ed Emma Bonino non mi stupisce, a dire il vero, perché conosciamo la biografia di questi signori. Ma noi cittadini non possiamo non provare un senso di vergogna, quando vediamo i nostri rappresentanti politici genuflettersi di fronte ad uno Stato straniero che fa palesemente i propri interessi, a scapito dei nostri. È evidente infatti che gli USA agiscono a beneficio dell’economia nazionale, mentre la nostra classe dirigente è incapace di difendere imprenditori e lavoratori. La ragione ultima di questo riprovevole comportamento non la conosciamo. Possiamo pensare che i nostri politici siano ricattati, dato che lo spionaggio ha proprio questo fine. Oppure sono semplicemente pavidi, impreparati, geneticamente gregari, o pagati. Ma quale che sia la ragione, se agli italiani è rimasto un minimo di dignità, che siano di destra o di sinistra, al prossimo appuntamento elettorale, non dovrebbero dare un solo voto ai rappresentanti di questo governo e alle forze politiche che lo sostengono. L’Italia e l’Europa hanno bisogno di essere guidate da statisti, non da servi.

Potrebbe entrare più nello specifico, facendo magari qualche esempio, per spiegare in che senso la subalternità geopolitica può risolversi in un danno per l’industria nazionale, lo sviluppo tecnologico, l’occupazione?
Possiamo per esempio richiamare alla memoria quanto è accaduto negli anni sessanta, se non altro perché paghiamo ancora le conseguenze di quei fatti. Negli anni sessanta c’è il miracolo economico. Non solo cresce l’industria, ma la scienza italiana si dota di strutture all’avanguardia che promettono di mantenerla alla pari con gli altri paesi occidentali. Un esempio è il Nobel attribuito a Giulio Natta che – si badi – ottiene il premio lavorando in Italia e presentando i risultati all’Accademia dei Lincei, mentre gli altri (pochi) premi nobel italiani del dopoguerra sono stati ottenuti lavorando all’estero. Nel triennio 1962-1964 accade però qualcosa che blocca tutti i programmi di ricerca più avanzati e immette l’Italia “sulla via del sottosviluppo”, per usare un’efficace espressione di Toraldo di Francia. Le nostre università diventano solo “di insegnamento” e non più “di ricerca”. Le stesse grandi aziende pubbliche si disimpegnano. Qui, per capire quello che è successo, dobbiamo affiancare alla storia della cultura anche l’analisi geopolitica. L’orientamento luddista dell’intellighenzia comunista è solo una con-causa di quanto accade. Diciamo che il PCI, forse perché influenzato da alcuni suoi intellettuali che fanno ormai un’equazione tra capitalismo e tecnologia, non fa la necessaria opposizione. Tuttavia, non dobbiamo scordare che al potere in Italia, in quegli anni, c’è la DC, con la sponda del PSDI di Saragat. La DC decide a riguardo delle politiche di ricerca e dei finanziamenti alle università e alle aziende pubbliche d’avanguardia. E decide in una situazione di sovranità limitata: l’Italia è soltanto un elemento del quadro geopolitico deciso a Yalta. Ebbene, la ricerca tecno-scientifica italiana riceve in quegli anni quello che Enrico Bellone, ne La scienza negata, definisce “il colpo di maglio”. Nel 1962 muore Enrico Mattei e con lui il progetto di approvvigionamento energetico autonomo dell’Italia. Su questo caso non spenderò troppe parole, perché è piuttosto noto. Non ci sono prove certe che si sia trattato di un omicidio su commissione, ma ben pochi credono all’incidente. Meno noti sono altri fatti. Il 10 agosto del 1963 Saragat lancia un’offensiva mediatica contro il CNEN – l’ente pubblico che gestisce il programma nucleare – che sfocierà nell’arresto del direttore Felice Ippolito, il quale rimarrà in carcere quattro anni, fino a quando non sarà graziato dalla stessa persona che lo aveva rovinato. A concedere la grazia sarà infatti lo stesso Saragat, nel frattempo premiato con la Presidenza della Repubblica. Sempre nel 1964 viene arrestato il chimico Domenico Marotta, direttore dell’Istituto Superiore della Sanità, che aveva approntato un programma avanzatissimo per l’Italia nel campo della medicina e della farmacologia. E qui alla campagna denigratoria collabora l’Unità. Questa è stata la Caporetto della scienza italiana, dalla quale non ci siamo più ripresi. Qui concorrono gli interessi di grandi gruppi industriali e petroliferi stranieri e la pochezza della nostra classe politica che per interesse, insipienza, irresponabilità, subalternità, o amor di quieto vivere si è prestata a questi giochi. Le accuse si riveleranno infatti ridicole: Marotta verrà assolto e Ippolito – dopo molti anni di carcere – vedrà le accuse ridimensionarsi ad irregolarità amministrative. Ma i programmi di ricerca e i relativi finanziamenti non verranno più riattivati. Per un po’ abbiamo retto alla concorrenza straniera grazie alla svalutazione competitiva. Poi, quando siamo entrati nella zona Euro, è finita la festa. Se l’Italia è ferma da vent’anni in termini di PIL è anche per queste ragioni, delle quali nel talk show non si parla mai. Possiamo dare la colpa agli americani di tutto questo? Sì e no. Sappiamo bene chi ha finanziato la “scissione di Palazzo Barberini”, nel 1947. La fuoriuscita del PSDI di Saragat dal PSI, allora filosovietico, è stata il viatico per l’ingresso dell’Italia nella NATO. Tutto il resto è conseguenza. Ma gli USA fanno semplicemente il proprio mestiere di superpotenza, fanno i propri interessi nazionali o quelli delle proprie oligarchie. È normale che cerchino di stabilire un’egemonia. La colpa del nostro declino va piuttosto ricercata nella mollezza delle nostre classi dirigenti, che hanno rinunciato a difendere la scienza e l’industria nazionale. Non dubito che la situazione fosse difficile. I giocatori in campo non erano partecipanti a un ballo di gala: servizi segreti, mafie, logge coperte, gruppi terroristici di destra e di sinistra, organizzazioni paramilitari e paralegali. Ci sono stati molti morti in Italia. Mi chiedo però se ora dobbiamo andare avanti così e arrivare al default, vittime di una classe politica prigioniera di ricatti incrociati, o se possiamo finalmente scrollarci di dosso tutto questo marciume e ripartire, ricostruendo la società sulle fondamenta solide della scienza, della tecnica, dell’industria.”

Da Il socialismo nel XXI secolo. Intervista a Riccardo Campa, a cura di Michele Franceschelli.
[I collegamenti inseriti sono nostri]

Nino Galloni: “Come ci hanno deindustrializzato”

Claudio Messora intervista Nino Galloni, economista ed ex direttore del Ministero del Lavoro.
Un viaggio nella storia d’Italia che passa per Enrico Mattei e Aldo Moro, lungo un progetto di deindustrializzazione che ha portato il nostro Paese da settima potenza mondiale a membro dei “Pigs”.
Si tratta di un lungo intervento ma sappiate che la vostra pazienza sarà adeguatamente ricompensata…

Lotta Continua e la “pratica” Feltrinelli&Calabresi

Nel 40° del suo assassinio, opera di un ‘commando’ dei servizi militari di Lotta Continua, al comando del cugino-genero di Enrico Berlinguer – ossia Luigi Manconi, marito del direttore del TG più ‘stelle-strisce’ della RAI, e figlia del medesimo Ras della costa catalana di Sardegna allorché ‘ei fu’ – il Commissario Luigi Calabresi non è stato minimamente ricordato sui giornali.
Addirittura, in occasione dell’attentato al dirigente Ansaldo Finmeccanica, dieci giorni fa, nelle pagine dedicate alla nascita del terrorismo degli anni Settanta, in Italia come interfaccia del Libano, sia il Corriere, che La Repubblica, che La Stampa, fra i tanti esempi addotti anche con foto e articoli dedicati, ignoravano l’attentato a Calabresi!
Evidentemente, lo sbirro ficcanaso, nella vicenda di Piazza Fontana; in quelle, ugualmente oscurissime al profano, della ‘nascita delle Brigate Rosse a stelle–strisce’; come in quelle dell’assassinio dell’editore anti-imperialista Giangiacomo Feltrinelli, due mesi prima del suo (15 Marzo-17 Maggio 1972) è tuttora un convitato di pietra troppo ingombrante per poter fare i conti col medesimo da parte degli stessi terroristi-assassini che oggi, in Italia e in Europa, per investitura del SuperStato Federale d’Oltremare, governano totalitariamente la comunicazione mediatica ufficiale, di tutti i tele&giornali, privati e di Stato.
Invece è tutto molto semplice. Continua a leggere

Una subordinazione che si paga con il sangue

Italia, il triste destino di essere una colonia

Doveva essere l’esecutivo in grado di rilanciare l’autorevolezza dell’Italia all’estero ma il Governo Monti si conferma ogni giorno di più incapace anche solo di gestire le difficoltà quotidiane. Il caso diplomatico del sequestro dei marò in India e la drammatica uccisione ieri di un ingegnere italiano in Nigeria durante un blitz delle forze speciali inglesi – assalto condotto senza neanche avvisare la Farnesina – dimostrano l’assoluta inadeguatezza della nostra politica estera.
Certo non si tratta di una novità in un paese in cui i rari personaggi politici di spessore come Enrico Mattei, Aldo Moro e Bettino Craxi vengono uccisi per la loro politica filo-araba nel Mediterraneo volta a tutelare gli interessi nazionali italiani.
Una nazione che “sacrifica” una ventina di testimoni della vicenda Ustica per coprire le responsabilità dell’Alleanza Atlantica nel tentativo di eliminare Gheddafi nei cieli italiani. Dove avventurieri come Silvio Berlusconi vengono prima costretti a bombardare il loro migliore alleato in Libia e poi a dimettersi per la loro amicizia personale con Vladimir Putin, utilizzando ricatti e speculazioni finanziarie ormai nemmeno nascosti. Forse qualcuno credeva di aver già pagato abbondantemente il conto durante la “guerra fredda” con le stragi che insanguinarono dal 1969 al 1980 l’Italia, sotto la regia di burattini al servizio della CIA e della NATO.
Ma ovviamente non è così; il problema infatti non consisteva nella rivalità ideologica USA-URSS ma nella condizione di sottomissione dell’Italia alle potenze atlantiste, una condizione coloniale che dura dal 1945 fino ad oggi.
Fanno perciò ridere e pena sia le dichiarazioni del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che parla di “comportamento inspiegabile degli inglesi” sia la “richiesta di chiarimento” avanzata dal Capo del Governo di Roma Mario Monti.
Il comportamento britannico, così come quello statunitense ad esempio nel caso degli sciatori uccisi al Cermis, sono perfettamente spiegabili e riconducibili alla storica sudditanza dell’Italia a Londra e a Washington, una subordinazione che si paga con il sangue.
Non solo la nostra intelligence ma i nostri stessi vertici militari non possiedono infatti nessuna autonomia di fronte ai servizi segreti angloamericani, così come non esercitano alcuna sovranità nei confronti delle oltre 100 basi militari USA/NATO presenti nella penisola italiana.
Prima perciò di “indignarsi” di fronte ai comportamenti dei finti “alleati” (finti perché i loro interessi nazionali e i nostri non coincidono praticamente mai) si rifletta se siamo davvero liberi: senza sovranità, infatti, non c’è nessuna libertà se non quella di morire, come successo al povero Franco Lamolinara in Nigeria.
Steve Brady

Fonte: statopotenza.eu

Intanto paghiamo

Adesso la quadruplice sta facendo pagare all’Italia l’alleanza con Putin e Gheddafi.
Con la Clinton in testa, il Club non tollera autonomia e soluzioni energetiche nazionali

di Piero Laporta per ItaliaOggi

Capolinea? ItaliaOggi del 7 ottobre 2009 scrisse che Silvio Berlusconi traballava a causa dei legami con Gheddafi e Putin, dopo la vittoria di Hussein Barak Obama e Hillary Clinton. Tre mesi prima ItaliaOggi accostò le fucilate mediatiche sulle ospiti di villa Certosa ai «terroristi che un tempo annunciavano a rivoltellate le elezioni imminenti». Seguì un copione sperimentato dal 1945, quando il «quartetto» dei vincitori (Gran Bretagna, Francia, USA e URSS), irradiatosi nei nostri interessi, li predò più o meno di comune accordo, manipolandoci la democrazia, corrompendola e non solo. Crollata l’URSS, subentrò la Germania e il nuovo Quartetto eliminò alleati esigenti a vantaggio di ex nemici ricattabili.
Berlusconi entrò in politica nel 1994 per salvare la sua proprietà? I valvassori del Quartetto rapinavano da sempre le ricchezze italiane; dopo il 1989 Mediaset fu tra le appetibili. I valvassori ebbero sempre man salva purché assicurassero la ciclica spremitura degli italici servi della gleba, come desiderano mercati, BCE, IMF e agenzie di rating. L’Italia è come le mucche dei Masai. I valvassori le incidono ogni tanto le vene del collo, badando di non ucciderla; raccolgono il sangue nella zucca e lo porgono al Quartetto che lascia qualcosa sul fondo da leccare. Negli anni ’50 gli USA bevevano per primi; oggi Berlino ha il primato, segue Parigi, ultima la Clinton che freme dopo gli abili inglesi. Il deficit statale fu pure sperperi e corruzione, però conseguenti a politiche agricole, industriali ed energetiche genuflesse al Quartetto vampiro.
Il sistema (difeso con bombe, terrore rossonero, mafia e agenzie di rating) perseguita e uccide chiunque tenti di scalfirlo o svelarlo, come Enrico Mattei, Aldo Moro, Giovanni Leone, Luigi Calabresi, Mino Pecorelli, Walter Tobagi, Bettino Craxi. Piemme comunisti? Una balla rancida: o effimeri autocrati a caccia di visibilità oppure organici ai quattro del Quartetto. Vi sono pure, grazie a Dio, tanti liberi, onesti e coraggiosi; va detto e ricordato con un grazie.
Berlusconi parvenu (come sibilarono Gianni Agnelli e Indro Montanelli, valvassori fra i più zelanti) s’adattò alle regole dei Quattro che spaccano il paese in due partiti, l’uno contro l’altro, i capponi manzoniani: comunisti contro anticomunisti, poi nord contro sud, guelfi contro ghibellini, obbligandoci a un moto parossistico e immobile, come un calabrone, di fronte al fiore inarrivabile delle riforme. «Faremo, cambieremo, riformeremo» ronzava il calabrone Silvio, mentre agguantava il futuro legando Vladimir Putin a George Bush Sr, nonostante costui sia assiduo col suo peggiore nemico in Svizzera. Sembrava fatta. Tornata tuttavia al potere la sitibonda Clinton, ogni equilibrio s’infranse nella guerra di rapina alla Libia. Berlusconi maramaldo che pugnala Gheddafi, anticipa quello col «cuore grondante sangue» che tradisce gli elettori. La Germania sta alla finestra, come gli USA nella guerra dello Yom Kippur del 1973; lascia che altri combattano, agevolando i suoi disegni, in Libia come a Roma, dove osserva Giulio Tremonti accostarsi a palazzo Chigi col primo di tre indispensabili passi: uccidere Berlusconi, politicamente s’intende. Deve, può o vuole? È presto per dirlo. Anche il secondo passo, cavar sangue come i valvassori, potrebbe essere obbligato da politiche spietate. Arriverà il terzo e decisivo passo di Tremonti, se vorrà omologarsi? Porgerà la zucca, come Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, prima di lui? A chi la porgerà prima? Che cosa conterrà? ENI, Finmeccanica? Washington condivide le priorità di Giulio con le altre tre? I guai di Marco Milanese crescono mentre si colma la zucca? Oltre le congetture, sono seri i guai del Cavaliere se smarrisce la realtà come Bettino Craxi, quando aprì le porte del Quirinale a Oscar Luigi Scalfaro e chiuse le proprie. La volpe ansima e i cani la incalzano. A meno che, a marzo, Vladimir Putin_ o forse prima, vedremo, intanto paghiamo.

Felice Ippolito, italiano “pericoloso”

Dopo il 1945, quel che rimane della fisica italiana giace tra le ceneri della guerra. Della scuola di Via Panisperna, dissolta alla fine degli anni Trenta, l’unico rimasto in Italia è Edoardo Amaldi. La ricostruzione delle strutture dedicate alla ricerca era iniziata a Roma già nel 1944, riportando al loro posto strumenti e attrezzature precedentemente messi al sicuro.
Su iniziativa di Amaldi e Carlo Bernardini e sotto l’egida del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), viene istituito nella capitale il Centro di studi di fisica nucleare e delle particelle elementari. Contemporaneamente, inizia a muoversi un nuovo nucleo di fisici italiani con l’intento di promuovere la fisica atomica, per scopi di ricerca e applicativi a favore del sistema industriale, il quale fonda a Milano il Centro Informazioni Studi ed Esperienze (CISE). Amaldi tiene regolarmente seminari al CISE, e nel 1948 decide di portare con sé Felice Ippolito, un ingegnere civile avviato alla carriera di geologo, appassionato di ricerca di radionuclidi nelle rocce italiane. Ippolito intende dimostrare che in Italia vi sia uranio in quantità maggiore a quanto supposto dai geologi del tempo.
Le industrie che partecipano al CISE sono dotate di scarsi capitali, per cui viene posta la questione di richiedere un intervento da parte statale, opzione fortemente sostenuta proprio da Ippolito, in contrasto con le aziende, convinte che se lo Stato avesse messo le mani sul nucleare prima o poi sarebbe arrivato a controllare l’intera filiera della produzione di energia elettrica, allora completamente in mani private.
Il primo successo delle pressioni dei fisici arriva con l’approvazione governativa del bilancio 1950-1951 del CNR, il cui presidente è il matematico e ingegnere Gustavo Colonnetti, democristiano. Egli mette in piedi una Commissione per le ricerche nucleari di cui chiama a far parte, oltre a fisici, anche esponenti della politica, dell’industria e militari. Già nel 1947 Colonnetti aveva scritto a De Gasperi, capo del governo di unità nazionale, cercando nell’argomento della difesa un motivo d’interesse al nucleare da parte del leader DC, facendo notare – senza successo – che gli Stati Uniti avevano intenzione “non solo di conservare il vantaggio già conseguito nelle ricerche e nella fabbricazione delle armi atomiche e speciali, ma di aumentare sempre più questo vantaggio”.
Il nuovo tentativo di attirare l’attenzione governativa sulla questione nucleare non ottiene l’effetto sperato, per cui da quel momento Colonnetti e Amaldi vanno avanti da soli, fondando, l’8 agosto 1951, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. L’anno successivo è varato il Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari (CNRN), del quale segretario generale viene nominato l’ingegnere Ippolito.
Alla scadenza del primo mandato triennale del Comitato, senza che il governo rinnovasse l’incarico, Ippolito si comporta come Enrico Mattei quando, in una situazione analoga, gli era stata affidata la liquidazione dell’AGIP: invece di licenziare il personale e vendere le poche attività, si scatena provocando una violenta campagna stampa contro il governo che faceva mancare i finanziamenti a un organismo scientifico statale, e così facendo lasciava spazio alle industrie elettriche private. L’attacco di Ippolito convince finalmente (agosto 1956) il governo a riconfermare il mandato del CNRN, che deve però aspettare il 1960 per assumere, prima personalità giuridica, poi, con il terzo governo Fanfani, trasformarsi in Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare (CNEN), forte di una dote quinquennale di 80 miliardi di lire che si rivelerà comunque insufficiente.
E’ solo alla fine del 1962, all’epoca del quarto governo dello stesso Fanfani, che il disegno di legge per “l’impiego pacifico dell’energia nucleare”, elaborato due anni prima, riceve integrale approvazione; il Comitato, il cui ruolo diventa strategico per la contemporanea nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’istituzione dell’ENEL (legge n. 1643 del 6 dicembre 1962), di cui Ippolito diventa consigliere mantenendo anche la carica di segretario al CNEN, conquista una adeguata autonomia.
Si tratta dell’inizio concreto del nucleare italiano, che nel giro di pochi anni porterà all’attivazione delle prime tre centrali (Latina, Garigliano e Trino Vercellese), per un totale in potenza elettronucleare di 3,5 miliardi di KW – il 4,2% della produzione di energia elettrica nel 1965 – ponendo l’Italia al terzo posto come produttore tra i Paesi occidentali, dopo Gran Bretagna e Stati Uniti.
Da quel momento in poi, con il miracolo economico che ormai volge al termine, la storia del nucleare italiano inizia ad andare incontro, più che a semplici difficoltà, a veri e propri boicottaggi. La convivenza tra CNEN ed ENEL non si rivela per niente facile e invece di dialogare, come ci si aspetterebbe da due enti che dipendono l’uno dall’altro, visto che il secondo distribuisce l’energia elettrica prodotta dal primo, si fanno presto guerra. A mezzo stampa e di prese di posizione politiche.
A dar fuoco alle polveri è L’Espresso, che in un editoriale del 4 agosto 1963 si scaglia contro il direttore generale dell’ENEL per la “mentalità puramente aziendale” che starebbe prevalendo nell’ente. A questi ribatte l’allora segretario del Partito Socialdemocratico (PSDI), Giuseppe Saragat, che difende i vertici dell’ENEL attaccando “l’ossessione dell’energia atomica” del CNEN. Principale elemento critico delle centrali nucleari, secondo Saragat, sarebbe il fatto che esse non possono produrre energia elettrica a prezzi competitivi rispetto alle fonti tradizionali, petrolio e carbone; il nucleare italiano sarebbe quindi antieconomico, determinando per l’Italia la convenienza a restare fuori dal settore.
Fra le azioni convergenti contro Ippolito pare preminente quella svolta dalle multinazionali petrolifere, tale da fargli dichiarare successivamente: “I petrolieri desiderosi di smistare barili e costruire nuovi impianti di raffinazione, avevano tutto l’interesse che l’Italia non sviluppasse una politica nucleare alternativa al petrolio. E il mio tentativo di creare un’industria nucleare italiana urtava appunto gli interessi delle Sette Sorelle (…) che dominavano il mercato mondiale”.
Un’altra analogia con Enrico Mattei, anch’egli antagonista degli interessi statunitensi in campo energetico, tale da indurre il quotidiano di Confindustria – allora semplicemente 24 Ore – a chiamare spesso Ippolito “il Mattei atomico”.
Rimanendo ai fatti, va notato come il maggior critico di Ippolito, Saragat, è stato una figura chiave nei rapporti Italia-USA fino agli anni Settanta, prima attraverso la costituzione del PSDI, nato da successive rotture con i comunisti e i socialisti, poi con un ruolo di grande importanza, come attivo atlantista, nell’adesione italiana al Piano Marshall, strumentale a porre il Paese nell’orbita economica e geopolitica degli Stati Uniti.
Questi ultimi, però, guardano ancora più avanti e si augurano, una volta salita al governo la debole coalizione di centrosinistra, che tale stagione di collaborazione finisca quanto prima possibile, facendo leva – come emerge da carteggi oggi pubblici – propria sulle accuse rivolte a Ippolito. La protezione politica di cui egli aveva sino a quel momento goduto viene meno rapidamente. L’incompatibilità tra le cariche di segretario del CNEN e di consigliere dell’ENEL è il cavillo legale che darà spunto alle inchieste successive, previa sospensione – con decreto ministeriale del 31 agosto 1963 – da segretario del CNEN, a breve seguita da analogo provvedimento per il suo ruolo in ENEL.
Il 3 marzo 1964, la Procura generale di Roma arresta presso il suo domicilio nella capitale Felice Ippolito, a conclusione di una istruttoria, sommaria, durata tre mesi, accusandolo di peculato aggravato continuato per alcune centinaia di milioni, falso in atto pubblico e abuso di poteri d’ufficio, e ponendolo in regime di “grande sorveglianza”.
Con Ippolito finiscono in tribunale almeno otto imputati, come negli auspici de l’Unità, che insieme a Il Corriere della Sera si distingue per la violenza delle invettive. Due giorni dopo l’arresto, il quotidiano fondato da Gramsci rilancia le accuse di Saragat, secondo il quale “il Comitato per l’energia nucleare è diventato un centro di occulti poteri e di sprechi favolosi (…) è urgente subito eliminare il bubbone”. In stupefacente assonanza con quanto dichiarerà di lì a poco, il 30 aprile, il presidente di FIAT, Vittorio Valletta, circa l’impegno nell’elettronica da parte di Olivetti.
All’indomani della messa fuori gioco di Ippolito, il nuovo ministro dell’Industria Giuseppe Medici (governi Moro I e II) non riesce che a confermare i finanziamenti stanziati nel precedente quinquennio, a fronte di un CNEN molto più grande, con tre centrali nucleari a regime e 2.400 dipendenti. Nuovo segretario generale viene nominato un funzionario del Tesoro, che addirittura ne stabilisce l’intero bilancio in soli 15 miliardi all’anno, “prescindendo dalla realizzazione dei programmi”.
Per iniziativa congiunta di CNEN e CNR erano peraltro nati due centri di ricerca al di fuori della fisica atomica, il Laboratorio internazionale di biofisica e genetica e il Laboratorio per la preparazione dei minerali, le cui attività si interrompono alla metà degli anni Sessanta proprio in coincidenza con la crisi Ippolito.
La sentenza di primo grado a suo carico – undici anni e quattro mesi di reclusione, una sanzione di sette milioni e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici – in appello viene ridotta a una serie di “favoritismi, di clientelismo e di leggerezze, facilitate, peraltro, e qualche volta determinate, dalle particolari condizioni di disordine amministrativo e organizzativo, dell’ente in vertiginosa crescita”, con una pena più che dimezzata e una effettiva permanenza in carcere a Rebibbia di poco più di due anni.
Nel marzo 1968 sarà proprio Giuseppe Saragat, nel frattempo eletto Presidente della Repubblica, a concedere la grazia a Ippolito, restituendogli i diritti civili e la facoltà di tornare all’insegnamento. Ormai, però, il CNEN era stato affossato, decretando di fatto la sconfitta dell’Italia nella corsa internazionale all’energia nucleare.

[Le informazioni contenute nel presente articolo sono tratte da “Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta”, di Marco Pivato, Donzelli editore]

L’Anello contro Aldo Moro

Giovanni Maria Pedroni, classe 1927, partigiano a Trieste, illustre chirurgo conosciuto in tutto il mondo è la prima persona a parlare pubblicamente dell’esistenza dell’Anello, una struttura segreta la cui esistenza è stata confermata anche da Licio Gelli. Su questa struttura, di cui si sta interessando anche il Copasir, è uscita da poco tempo una dettagliata inchiesta di Stefania Limiti, edita da Chiarelettere che Pedroni così commenta: “Tutto esatto. L’Anello avrebbe potuto liberare molto facilmente Aldo Moro, fece fuggire Herbert Kappler, l’uomo delle Fosse Ardeatine per superiori esigenze di Stato, intervenne direttamente nella vicenda Cirillo”. Pedroni – intervistato da Paolo Cucchiarelli dell’Ansa, giornalista investigativo di primo piano, denuncia la “grande ipocrisia politica” che pesa ancora su tutta la vicenda visto che il servizio segreto clandestino passato alla storia come L’Anello inizia la sua vita nell’immediato dopoguerra e attraversa tutta la storia dell’Italia Repubblicana: “C’è una sacco di gente che sa di queste cose; soprattutto a livello politico. L’Anello era una struttura operativa che era riconosciuta ufficialmente dal governo. Il Viminale sapeva tutto. Tanti politici sapevano. Con una struttura segreta si potevano ottenere certi risultati senza che nessuno si scottasse le mani: questo era il compito dell’Anello”.
Pedroni racconta che questo speciale servizio segreto era stato fondato da un israeliano, Otimsky, “una persona anziana che mandava avanti operativamente le cose ma era politicamente nelle mani di Giulio Andreotti”. A Pedroni sta a cuore soprattutto il capitolo Moro. “Noi – scandisce – potevamo liberarlo, tranquillamente, senza problemi. La politica ci ha sbarrato la strada affinché non intervenissimo. C’era un ordine superiore di non intervenire, e potevamo farlo”. Aggiunge Pedroni con un’espressione non proprio felice: “Moro d’altra parte se l’è proprio cercata. Un dato è certo: alle cancellerie internazionali Moro non piaceva per nulla; Kissinger non lo poteva vedere. Aveva espressioni durissime per Moro che dava fastidio in Italia ma anche all’estero. Si scelse di non intervenire, lasciando le cose al loro destino. Lasciando che Moro venisse ucciso. Chi fa fuori Moro? Le BR? Mah… Non lo so… Si è deciso di lasciare morire Moro: le ragioni e il perché riguardano però la politica. Tutti i servizi italiani e stranieri si mossero per cercare di utilizzare tutto ciò che era utile a risolvere la questione. Alla fine non fu così. Moro pensava di essere vicino ad una soluzione positiva per sé. Sapeva però benissimo chi erano gli oppositori alle sua linea in Italia e all’estero. E’ una storiaccia… Moro fu lasciato morire. Questo lo sanno tutti. E nessuno parla”.

[Fonte: misteriditalia; grassetto nostro]

In cattedra e dietro i banchi… gli spettri

Nonostante l’avversione dello stesso regime fascista, il progetto gentiliano, pur stravolto e svuotato di contenuti in molti suoi punti, restò l’unico punto di riferimento possibile per la formazione di nuove leve dirigenti nell’arco di tutto il Ventennio. I suoi effetti benefici continuarono a prodursi nel dopoguerra, quando le nuove generazioni, formatesi grazie all’impostazione meritocratica gentiliana, iniziarono a guidare il “boom” economico e industriale che doveva condurre l’Italia fuori dalla tragedia della guerra e verso la riacquisizione di una sovranità nazionale fondata su una riconquistata posizione di forza sullo scenario degli scambi internazionali.
Fu allora che, negli Stati Uniti, i responsabili della nostra colonia iniziarono a preoccuparsi.
Non si poteva permettere all’Italia di acquisire spazi troppo ampi di sovranità, che avrebbero rischiato di renderla una pedina pericolosamente autonoma nello scacchiere europeo e perfino di trascinarla, sul medio periodo, fuori dall’alleanza atlantica. Ogni velleità di espansione commerciale, di autonomia nella politica estera e nazionale, di crescita industriale, di tutela e recupero dell’identità culturale – tutte cose che l’impianto educativo di Gentile, in modo diretto o indiretto, consentiva di attuare – doveva essere stroncata sul nascere. Una colonia le cui strutture educative siano in grado di produrre una classe dirigente, di alto o medio livello, che si ponga a capo delle strutture politiche, economiche e finanziarie, nonché di garantire la refrattarietà della cultura nazionale alla penetrazione dei nuovi modelli di pensiero imposti dai dominanti attraverso i mezzi di comunicazione di massa, non resterà una colonia per molto tempo. Tutto questo doveva essere fermato.
Com’è noto, l’ostracismo al boom economico che avrebbe potuto sollevare l’Italia dal suo giogo iniziò fin da subito e si indirizzò su diverse linee d’azione. Il 27 ottobre 1962 venne assassinato, tramite un finto incidente aereo, il presidente dell’ENI Enrico Mattei, l’uomo che rischiava di dare all’Italia l’autosufficienza energetica necessaria per sostenere la sua crescita industriale indipendente. Mattei aveva iniziato a stringere accordi con Paesi petroliferi come l’Egitto di Nasser, l’Iran, il Sudan, restituendo all’Italia una politica estera mediterranea e mediorientale di grande prestigio che ampliava a dismisura gli ambiti d’iniziativa della politica nazionale. I proventi dell’ENI avrebbero potuto inoltre finanziare una classe politica autoctona del tutto slegata dalle logiche neocoloniali imposte dai dominanti. A piazzare la bomba sull’aereo di Mattei furono gli uomini di Giuseppe di Cristina, capo di una famiglia mafiosa manovrata, come molte altre, dagli interessi statunitensi.
Successivamente la battaglia per privare l’Italia di una classe politica autonoma si servì della “strategia della tensione”, durata quasi un ventennio e culminata nel rapimento e nell’assassinio di Moro. Essa doveva servire a tenere sotto costante minaccia la politica nazionale, allo scopo di chiudere all’Italia, con il ricatto e gli omicidi politici, ogni spazio di trattativa con l’estero che rischiasse di allentare i legami con la NATO. Tutte le strategie terroristiche e le bombe di quegli anni, pur diramate in mille rivoli di connessioni, collusioni, depistaggi, strumentalizzazioni e partecipazioni di agenzie d’intelligence nazionale e internazionale di varia provenienza ed estrazione, puntano decisamente ad una regia di marca statunitense che ideò e diresse le linee portanti dell’operazione.
Ma tra l’assassinio di Mattei e l’avvio della strategia della tensione, vi fu un altro evento, che servì a distruggere definitivamente alla radice ogni possibilità che una nuova classe dirigente italiana potesse rinascere dalle ceneri del terrorismo. Tale evento fu la contestazione studentesca del ’68, che spazzò via per sempre dall’impianto educativo italiano ogni forma di selettività e meritocrazia, eliminando una volta per tutte l’idea stessa che scopo e funzione primaria della scuola di Stato sia quello di garantire ad una nazione un’élite di “optimates” capaci di assicurarne la guida e i necessari spazi di sovranità. Quest’idea squisitamente gentiliana è stata sradicata non solo dalle normative scolastiche, ma dalle stesse teorizzazioni sulla funzione della scuola – falansteri “pedagogici”, la maggior parte dei quali sono, manco a dirlo, di provenienza statunitense – e rappresenta oggi, per chi osa riproporla, l’equivalente ideologico di una bestemmia in chiesa.
(…)
Privata della sua originaria e primaria funzione – quella di plasmare l’élite di una nazione, elevandola al di sopra della massa – la scuola è sopravvissuta ritagliandosi (senza mai ammetterlo) una serie di ruoli posticci: quello di ammortizzatore sociale, per lenire i morsi della disoccupazione che l’aborto prematuro del “boom” industriale ha disastrosamente generato; quello di baby-sitter, per tenere occupati con frizzi e lazzi di lieta ebetudine i figli delle famiglie così fortunate da contare ancora fra i propri membri una pluralità di individui dotati di stabile occupazione; quello di rinforzo all’ordine pubblico, assumendo su di sé il controllo e la parziale “detenzione” coatta giornaliera degli elementi più esagitati, sbandati e criminali del sottobosco giovanile, proliferati a dismisura con l’espansione dello scimunimento televisivo e dell’immigrazione; infine quello di vivaio clientelare che ha garantito per anni la permanenza ai vertici delle istituzioni degli artefici della rivolta sessantottarda. Costoro rappresentano l’élite borghese locale “di sinistra” che, su direttive impartite dall’establishment politico statunitense, si occupò della devastazione della scuola pubblica e della definitiva cancellazione dei criteri meritocratici gentiliani, sopravvissuti per un quarantennio e forieri di rischiose prospettive per i dominatori d’oltreoceano. A compenso dei loro servigi, i guastatori dell’istruzione nazionale ricevettero, com’è noto, una generosa distribuzione di poltrone di potere nel campo dell’informazione, della politica, dell’amministrazione e dell’industria di Stato; poltrone che occupano ancora oggi e che trasmettono per via ereditaria ai propri discendenti, su solenne giuramento di continuare a servire, nei secoli dei secoli, gli interessi contingenti dei loro munifici mecenati. Ottennero anche l’illimitata fiducia degli ambienti statunitensi, che consentì loro, dopo l’ordalia di “mani pulite”, di accreditarsi come successori privilegiati della vecchia classe politica scomparsa e come liquidatori della sovranità italiana a prezzi di realizzo, a favore, inutile dirlo, degli stessi loro burattinai. Le cose non andarono esattamente come avevano sperato a causa della discesa nell’agone politico di un certo Silvio Berlusconi… ma questa è un’altra storia.
Nella scuola pubblica, i guastatori sessantottardi hanno allevato per anni un’abnorme progenie di manutengoli in grado di fungere da serbatoio elettorale e da giustificazione politico-sociale delle loro cariche di potere. Ma questa sciarada volge ormai al termine. La burocrazia nata dal ’68 è ormai anagraficamente decrepita e politicamente sfiancata, non tanto dall’inatteso protrarsi del berlusconismo, quanto dalla rivelazione coram populo del suo tradimento e delle sue antiche vergogne. Il vivaio di funzionari della “cultura”, che ha garantito per anni la sua permanenza al potere, non ha più tutori. Si infittiscono i provvedimenti miranti a sfoltire e decurtare senza pietà le schiere di insegnanti, bidelli, dirigenti e rettori che hanno prosperato per decenni sulla devastazione della cultura nazionale, sull’asservimento ad ignobili politiche propagandistiche eterodirette (si pensi all’indecente celebrazione scolastica della “giornata della memoria”), sullo smantellamento sistematico di ogni residuo di sovranità nazionale. Contestualmente al repulisti, si levano stridule le grida di lesa maestà da parte degli ex intoccabili colpiti dalla falcidia. Che urlino pure. Se una critica (pesantissima) deve essere mossa ai recenti provvedimenti sulla razionalizzazione degli operatori della scuola, essa non sta nella meritoria potatura dei rami secchi che tali provvedimenti perseguono, bensì nel fatto che tali “riforme” non accennano neppure a mettere mano alla questione di base. Che sarebbe quella di estirpare alla radice, con metodi appropriatamente dolorosi, tutta la vanvera pedagogica sull’”egualitarismo”, sulla “valorizzazione delle diversità”, sui “programmi personalizzati”, sulla “didattica del gioco”, sul “cooperative learning”, sul pernicioso antiautoritarismo d’accatto, fonte d’indisciplina generalizzata che ha reso impossibile tanto la didattica quanto l’apprendimento… e su una pletora di altre sesquipedali fesserie con cui la scuola post-sessantottina, perduta la finalità di selezione delle eccellenze per cui era stata istituita, ha cercato di rifarsi un maquillage teorico-funzionale sbarazzandosi del fondamentale “perché” della propria esistenza e concentrandosi sull’abito da indossare nelle feste di società. Del ripristino di una funzione concreta e credibile dell’istruzione pubblica, nelle recenti rattoppature ministeriali non si trova la minima traccia.
E’ la perdita di un “perché” autentico e veritiero in grado di giustificare e rendere rilevante il suo compito che rende la scuola la città fantasma che è oggi. Un deserto in cui gli spettri di operatori e fruitori dell’insegnamento si aggirano in cerca di un senso, senza più ricordare il significato originario, di nobile e insostituibile pilastro della sovranità nazionale, un tempo assegnato al loro comune lavoro. Una commedia dell’arte in cui insegnanti ed allievi improvvisano giorno per giorno il proprio singolo ruolo, avendo perso di vista la sceneggiatura e la visione d’insieme della rappresentazione. S’intenda bene: non si tratta affatto di “crisi della scuola” (la scuola, in altre realtà nazionali, produce ben diversi e più preziosi risultati), ma di crisi di un “sistema scolastico”: quello italiano del dopoguerra, annichilito, insieme al resto dell’ossatura culturale del Paese, da un asservimento ai vincitori che sembra non lasciare scampo. E invece non si tratta di una dipartita terminale, ma di un semplice, benché funesto, aggiustamento delle strutture locali in funzione delle contingenze storiche. Che sono mutevoli e, come qualche recente avvisaglia lascia sperare, stanno già faticosamente cambiando direzione.

Da Scuola pubblica: chi l’ha uccisa e perché?, di Gianluca Freda.
[grassetto nostro]

Verità (poco) nascoste

Un estratto delle riflessioni di Maurizio Barozzi a riguardo del libro Intrigo Internazionale, scritto dal giornalista Giovanni Fasanella e dall’ex magistrato Rosario Priore.
In due parti: qui e qui.

“Ma nello specifico di quella “strategia”, invece, tutto nasce dalla delicata situazione che venne a crearsi nel sud Europa e nel mediterraneo in conseguenza della guerra arabo israeliana ovvero l’aggressione sionista all’Egitto e alla Siria che dal 5 giugno 1967 diede vita alla famosa guerra dei “sei giorni”. Una aggressione da tempo progettata a Washington e Tel Aviv e che doveva consentire ad Israele di rapinare territori altrui da sempre agognati e di raggiungere uno stato strategico di definitiva sicurezza nei propri confini.
Il periodo antecedente e susseguente alla “guerra dei sei giorni” è la chiave di volta interpretativa del perchè nel nostro paese si ritenne opportuno applicare le strategie, made CIA, della “guerra non ortodossa”.
Fu proprio in prospettiva di quella guerra, infatti, con la relativa situazione esplosiva che si sarebbe inevitabilmente creata nel mediterraneo (con il pericolo che i sovietici potessero in qualche modo approfittarne per insinuarsi nell’area) che gli Stati Uniti, supporto neppure troppo nascosto alle mire belliche sioniste, intesero premunirsi, soprattutto in virtù del fatto che dal 1966 la Francia di De Gaulle era uscita dalla struttura militare della NATO.
In Italia, più o meno già dal 1965, si era iniziato a gettare le basi per la guerra non ortodossa, uno stato di tensione estrema continuo fatto di infiltrazioni e gestione di movimenti cosiddetti eversivi (altra strategia americana detta Chaos), incrudimento delle violenze studentesche e sociali in atto nel paese e dal 1967 anche un crescendo di attentati sempre più cruenti.
Tutti questi riferimenti si riscontrano facilmente quando si va a considerare che ad aprile del 1967, gli americani pilotarono il famoso golpe dei colonnelli in Grecia, un intervento necessario per avere la certezza che quel paese, molto importante per la NATO e con una situazione politica in ebollizione (si prevedeva una vittoria delle sinistre alle prossime elezioni), potesse garantire, nell’imminente situazione di emergenza, il ruolo che gli era stato assegnato nella NATO.
Lo stesso pericolo di scollamenti dalla collocazione atlantica lo si poteva paventare in Italia a seguito della cronica crisi dei governi di centro sinistra, della presenza del più forte partito comunista europeo, e di un agguerrito fronte sindacale che in quegli anni post boom economico rendevano caotica ed esplosiva anche la situazione sociale.
Insomma, in vista e poi in conseguenza della crisi aperta dalla “guerra dei sei giorni”, occorreva assolutamente evitare che in Italia potessero sorgere iniziative governative che mostrassero una certa autonomia sul piano internazionale (come già era accaduto con quelle di Mattei) e che invece, a tutti i costi, il nostro paese rimanesse ingessato e ancorato indissolubilmente ai suoi impegni NATO. Non essendo possibile in Italia, paese molto più evoluto della Grecia, un golpe risolutivo, la strategia della guerra non ortodossa doveva creare quello stato di insicurezza e di terrore con il fine di “destabilizzare per stabilizzare” la situazione del paese, ovvero ricattare, terrorizzare e tenere sotto pressione i governi e le iniziative politiche affinché non ci fossero “sorprese” e l’ingessamento italiano nella NATO restasse stabile e sicuro.
(…)
A prima vista, per fare un esempio, potrebbe sembrare assurdo che il potente e planetario servizio segreto statunitense, la CIA, fosse dietro una struttura preposta a progettare e ispirare attentati soprattutto contro persone, uffici e caserme americane o della NATO o di paesi alleati.
Ed invece, se solo applichiamo il classico cui prodest, ci accorgiamo che anche queste strategie, per così dire “autolesioniste”, potevano essere indirettamente funzionali al controllo geopolitico del continente. Intanto questi servizi segreti occidentali sapevano benissimo che, per quanto vasti e cruenti potessero essere gli attentati anti americani e anti NATO, militarmente erano pressoché insignificanti, ma sapevano anche che indirettamente potevano contribuire a mantenere le nazioni e i governi europei in un clima di continua tensione e spesso di caos interno, favorendo così quella instabilità politica utile ad impedire ai governanti europei di intraprendere politiche o iniziative tendenzialmente autonome e divergenti dalla loro sottomissione stabilità a Jalta. Una sottomissione imposta a tutto il continente nel 1945, ma che con il passare degli anni, per le naturali e inevitabili dinamiche storiche si sarebbe potuta in qualche modo allentare. Ed infine, dietro la facciata di queste azioni terroristiche, non a caso venivano ad essere spesso eliminati personaggi affatto scomodi proprio per la stabilità di Jalta (vedi Moro) o per certi interessi dell’Alta Finanza (vedi Schleyer).
Per ragionare in quest’ottica bisogna avere una profonda esperienza di relazioni internazionali e di realtà geopolitiche, oltre che ad una certa elasticità mentale. Occorre, infatti, partire dal presupposto vero e sacrosanto che gli accordi di Jalta avevano una funzione strategica (sia pure temporale, perdurarono infatti quasi 45 anni), mentre tutti i dissidi, anche cruenti causati dalla divisione del mondo in due blocchi apparentemente contrapposti e sfociati in anni di guerra fredda e guerre di servizi segreti, avevano una caratteristica sostanzialmente “tattica”, ovvero quella di reagire, anticipare o prevenire a ogni tentativo del blocco opposto di allargare la sua influenza rispetto a quanto stabilito da quegli accordi o in conseguenza dei cambiamenti scaturiti dalla naturale dinamica geopolitica degli avvenimenti storici.
Quindi il vero substrato di Jalta era la “coesistenza pacifica”, lo scambio segreto di “piaceri” e informazioni ad alto livello che garantiva agli USA e all’URSS il mantenimento dello status quo.
Lo stesso giudice Priore osserva giustamente, che i paesi del Patto di Varsavia sapevano bene che gli assetti e la spartizione geografico – politica stabilita a Jalta era immutabile ed infatti mai si è verificato che un paese di uno schieramento sia poi passato dall’altra parte, però poi il magistrato non ne trae la giusta conseguenza quella ovvero che le attività e le rivalità dei servizi segreti dei paesi comunisti contrapposti a quelli occidentali avevano altri scopi e interessi che non quelli di conquistare al proprio blocco un paese dell’altro schieramento.
Questo ovviamente non toglie che al contempo le due superpotenze fossero anche obbligatoriamente costrette a farsi le scarpe a vicenda, a farsi la guerra per interposta persona o a praticare la guerra delle spie.
(…)
Potremmo sbagliarci, ma avvertiamo nel testo un (involontario?) “ridimensionamento”, circa il ruolo e la presenza della CIA e del Mossad negli anni di piombo. Strutture di Intelligence queste che sono state le “vere” vincitrici negli avvenimenti storici successivi che portarono alla “caduta del muro” (1989) e all’implosione e disintegrazione di tutti gli stati dell’Est Europa, Russia compresa.
Chi legge il libro di Fasanella e Priore, invece, e non è bene informato su tutto il resto, potrebbe trarne la errata considerazione che in questi “intrighi internazionali” CIA, Mossad, M16, KGB, Stasi, Palestinesi, ecc., ebbero più o meno le stesse responsabilità nella strategia della tensione e nel terrorismo, quando è vero invece che tutti erano presenti e inzupparono il loro “biscotto”, ma alcuni tirarono i fili dei loro burattini più degli altri e soprattutto ne colsero i frutti molto più degli altri.
Il Fasanella, per fare un esempio, nella introduzione al libro ricorda quando il giudice Priore con il collega Ferdinando Imposimato fecero dei sopraluoghi notturni ed in incognito nei pressi di via Caetani dove era stato ritrovato il cadavere di Moro. Il giorno dopo, ricorda il giornalista, i magistrati trovarono le foto di quella loro ricognizione nelle proprie cassette delle lettere. Una evidente minaccia e un avvertimento a non proseguire in quelle indagini.
Ma il giornalista omette di specificare o comunque di dire chiaramente, che quelle ricognizioni avvennero nel ghetto ebraico, alla ricerca di covi brigatisti, di cui uno si era già trovato in via Sant’Elena e quindi, se di intimidazione trattavasi, non poteva che ipotizzarsi che era finalizzata a tenere nascosta l’ubicazione dell’ultima prigione di Moro e di altre basi brigatiste, sospettate nel ghetto, una zona ben controllata dal Mossad.
Ma anche il giudice Priore fa una affermazione infelice, che lascia trasparire come egli quando esprime osservazioni verso Israele tenda ad andarci con i piedi di piombo.
Ad un certo punto, infatti, egli afferma quanto segue: “Il dato dal quale non si può prescindere è la particolare situazione di quello stato (Israele, n.d.r.), circondato da nazioni arabe ostili, che vogliono distruggerlo fisicamente…”.
Una affermazione questa apparentemente realistica, ma fuorviante perchè dimentica letteralmente il particolare che “quello stato”, circondato da nazioni arabe ostili, fin dalla sua nascita nel 1948, già segnata da sconfinamenti e stragi, espulsioni di residenti e villaggi conquistati a fil di spada e nel corso di altre innumerevoli guerre e aggressioni, ha allargato a dismisura i suoi confini, più che quadruplicando la sua estensione geografica e provocato l’espulsione di popolazioni scacciate dalle proprie abitazioni con operazioni (vedi anche oggi quanto accada a Gaza) da vera e propria “pulizia etnica”.
Semmai il magistrato avesse voluto sottolineare che Israele era costretto a vivere in condizioni di costante vigilanza armata, avrebbe dovuto almeno aggiungere che tutto questo era in conseguenza della sua politica guerrafondaia e di rapina. Anzi, visto che “quelle nazioni arabe confinanti e ostili” (vedi il Libano) erano loro a dover temere aggressioni, Israele doveva considerarsi più carnefice che vittima.”

[grassetti nostri]

CIA, P2 e l’omicidio di Olof Palme

N.B.: il codice penale svedese prevede un limite di 25 anni per lo svolgimento dell’istruttoria processuale per omicidio, ovvero fino al 2011, dopodiché il caso dovrà essere archiviato.
L’arma del delitto non è mai stata trovata.