“La nostra bandiera”


Un commento pubblicato a margine di un mio recente post sul 25 aprile “ucro-atlantista” mi offre lo spunto per una considerazione sul “tricolore” italiano.
Partiamo da un’esperienza personale. Circa vent’anni fa, il Campo Antimperialista (qualcuno se lo ricorda?) organizzò alcune iniziative per “l’Iraq che resiste”. Si era alle porte dell’invasione americana dell’Iraq e questo piccolo gruppo “trozkista”, capeggiato da Moreno Pasquinelli, ebbe l’ardire di aprire le porte a chiunque, senza alcuna “pregiudiziale”. Una delle teste pensanti che si associò a quell’operazione politico-culturale fu Costanzo Preve, col quale, all’epoca, mi sentivo abbastanza spesso.
Se qualcuno si ricorda bene, quell’iniziativa dette parecchio fastidio ai piani alti che comandano nella colonia Italia, perché in un certo senso era “avanti” rispetto al sentire medio degli “antagonisti” di ogni risma. Era stata violata, nei fatti, quella muraglia innanzitutto mentale tra “destra” e “sinistra”, tra “fascismo” e “antifascismo”. Le accuse di “leso antifascismo”, rivolte da “sinistra” ai promotori del Campo Antimperialista, piovvero come chicchi di grandine. Dalle illazioni sui “fascisti infiltrati” di anonimi “commissari telematici” (termine che coniai all’epoca) su Indymedia (anche di questa si ricorda qualcuno?) alla pubblicazione, all’unisono, su tutti i quotidiani, alla vigilia della marcia sull’ambasciata americana di Via Vittorio Veneto, dei nomi dei “fascisti” che, “scandalosamente”, avevano firmato, insieme a nomi importanti della cultura italiana (ricordo tra gli altri Franco Cardini e Angelo Del Boca) l’appello del Campo (a “sinistra” c’è la mania degli “appelli da firmare”, ma quello, con tutti quei nomi così disomogenei per cultura politica, aveva comunque un suo perché). Leggere “Il Manifesto” e il “Corriere” che si ponevano la medesima domanda (“che ci fanno i fascisti in un’iniziativa di sinistra”?) fu l’ennesima conferma che questo è un regime dove le differenze sono pura facciata. Intendiamoci bene: non si trattò di un’alleanza di questo movimento “trozkista” con qualche partitino della cosiddetta “estrema destra”, ma solo dell’adesione di singole individualità che il regime (da Indymedia al “Corriere”) aveva l’interesse a dipingere come il Male con l’etichetta infamante di “fascisti”. Di lì a breve, scatenato l’inferno mediatico scattarono pure degli arresti per tre esponenti di punta del Campo, tanto per far capire chi comanda in Italyland.
Ma dopo questa lunga premessa veniamo al punto. Sempre se qualcuno ricorda bene, quella volta, alla viglia dell’invasione americana dell’Iraq (20 marzo 2003), a Roma venne organizzata una manifestazione oceanica di protesta (alcuni parlarono di un milione di persone!). Sui balconi e alle finestre delle case comparvero tantissime “bandiere della pace”. Sì, quelle arcobaleno che lasciano il tempo che trovano. Ad ogni modo, erano indice di un sentimento diffuso contro quella guerra (di fatto una strage a senso unico). Altri tempi rispetto ad oggi, quando dopo vent’anni di ulteriore istupidimento dell’italiano medio troviamo una maggioranza di persone pronte ad andare al macello per l’Ucraina testa di ponte della NATO.
Dicevo della “bandiera della pace”. Bene, in alcune conversazioni con Costanzo Preve, che era ascoltato a volte sì a volte no dal Pasquinelli (sono le classiche dinamiche tra “il braccio” e “la mente”), mi trovai a perorare la necessità, per dare un segnale forte, di mettere il tricolore italiano al tavolo degli oratori nelle varie iniziative. La cosa, detta oggi, sembra di nessuna importanza, ma vent’anni fa – lo ricordo ai più giovani – era considerato “scandaloso” per un gruppo comunque “di sinistra” adottare la bandiera nazionale, storicamente appannaggio delle destre d’ogni tipo. Con quel tricolore, a mio avviso, si sarebbe data plastica rappresentazione al superamento delle obsolete categorie politiche che tanto male hanno fatto, a danno del popolo. E così effettivamente fu fatto, perché – anche se in questo momento la memoria mi tradisce – a Roma, anche se il corteo non venne fatto arrivare all’ambasciata americana benché fosse del tutto pacifico, sventolarono anche dei tricolori.
Ma oggi, dopo altri vent’anni di scatafascio (penso al tradimento dell’alleato libico, ad oltre dieci anni di “governi tecnici” blindati dal Quirinale, alla follia del covid governata in senso pseudo-patriottico), mi chiedo: ha ancora senso il “tricolore” come simbolo dell’unità della Nazione? La mia risposta è no, e qui mi aggancio al mio post dell’atro giorno in cui, “provocatoriamente” ma non troppo, mi definivo “etrusco” e “italico”. La risposta è no perché quel tricolore è ormai completamente squalificato, in quanto, anche facendo la tara alle sue origini “giacobine”, è la bandiera di una massa di abbrutiti, di gente senza cervello che specialmente in questi ultimi due anni ha dato prova di non avere alcuna consistenza. Ed anche se s’è convinta – come lo è stato – di essere in guerra (in “guerra contro il covid”), ‘stringendosi a coorte’ attorno al governo, alle virostar e alle guardie che multavano per una mascherina abbassata, ciò non cambia d’un millimetro la mia convinzione che quel “tricolore” sia da lasciare a tutti costoro: a quelli che seguono ancora lo sport dei triplodosati, dei bollettini farlocchi sulla “pandemia” e le relative assurde “regole”, fino a quest’ultima pagliacciata di una Nazione che dovrebbe, sempre per chissà quale “patriottismo” (“atlantico”) andare al sacrificio estremo per salvare una banda di marionette e accodarsi alla russofobia di regime.
Enrico Galoppini

Paolo Villaggio anti-americano

Film commedia di Nanni Loy.
Con Paolo Villaggio, Christa Linder, Rita Savagnone, Sterling St Jacques.
Italia, 1974

N.B.: la versione del film qui presentata è tagliata di circa 30 minuti rispetto a quella cinematografica. Trattandosi di una delle pochissime critiche circostanziate al “sogno americano” provenienti dall’Italia, le sforbiciature alle battute più incisive abbondano.

Il problema americano

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“L’antiamericanismo è oggi diventato ‘anacronistico’, abbiamo letto un po’ di tempo fa in un settimanale parigino. E’ del tutto vero. Come del resto è sempre ‘anacronistico’ rifiutare l’occupazione del momento, opporsi all’ideologia dominante, andare controcorrente, non gridare con i lupi. Era anacronistico organizzare la resistenza già a partire dal 1940. Era anacronistico non essere stalinista negli anni Cinquanta, di sinistra negli anni Sessanta, liberali negli anni Ottanta. Oggi, è ugualmente anacronistico -Nietzsche avrebbe detto ‘intempestivo’ o ‘inattuale’- non accettare l’egemonia americana. Ma questo anacronismo è forse il modo migliore per essere puntuali in questo appuntamento con la storia. Cristoforo Colombo ha scoperto l’America più di 500 anni fa. Il momento è arrivato per l’Europa di dimenticarlo e di riscoprire se stessa.”
Alain De Benoist

Tratto da L’antiamericanismo oltre l’americanofobia, in Il problema americano. Contro l’americanismo di maniera, contro la retorica antiamericana, atti del convegno svoltosi il 2 aprile 2016 a Roma, pubblicati dal Circolo Proudhon.

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Quel pischello di Psy

Il rapper sudcoreano Psy autore del tormentone Gangnam Style, a Roma per esibirsi nel prepartita della finale di Coppa Italia, si è di nuovo scusato pubblicamente per una sua canzone del 2004 dai contenuti antiamericani, sostenendo che si trattò di una reazione alle rivelazioni circa gli abusi commessi nella prigione di Abu Ghraib in Iraq.
Il cantante ha spiegato che la canzone, eseguita durante un concerto del 2004 con il gruppo metal NEXT, venne pensata dopo l’incidente nel quale fu coinvolto un mezzo corazzato americano in Corea del Sud che provocò la morte di due studentesse.
Ben gli stanno i fischi dello Stadio Olimpico…

Chico e Amanda: ingiustizia è fatta

Amanda, ora libera e milionaria, che in America per molto meno sarebbe finita nel braccio della morte (provate voi negli States a raccontare un sacco di balle alla polizia e a fare la ruota nell’ufficio dello sceriffo…). Chico, che in 12 anni ha visto una sola volta i suoi tre figli, in Italia non sarebbe mai stato neppure processato sulla base di indizi così labili e ora marcisce nella quasi totale indifferenza in un carcere di massima sicurezza della Florida da dove potrebbe uscire solo in una bara di zinco. Le decine e decine di giornalisti americani che hanno commentato in diretta da Perugia la sentenza hanno descritto il nostro sistema giudiziario come «medioevale», i nostri magistrati come una manica di incapaci, gli italiani come dei bigotti sessisti assetati del sangue di una ragazza acqua e sapone di Seattle. Il nostro per molti aspetti è un Paese indecente e ridicolo, ma per ben altre vicende giudiziarie. La sentenza che ieri ha assolto Amanda Knox dimostra piuttosto, in modo inequivocabile, che l’Italia ha una giustizia forse inefficiente ma garantista. È semmai quello americano lo Stato di diritto da Far West dove se sei ricco eviti la forca, altrimenti non ti resta che piangere o pregare. Pregiudizi? Antiamericanismo? Mettiamo davanti allo specchio Amanda e Chico e vediamo dove sta il giustizialismo e dove sopravvive, a fatica, la civiltà del diritto. Amanda ammise di essere in casa durante l’omicidio (salvo ritrattare) e poi mentì accusando del delitto di Meredith un innocente, tanto da essere condannata per calunnia.
Chico Forti, senza l’assistenza di un avvocato, raccontò alla polizia di Miami di non aver incontrato la vittima Tony Pike il giorno dell’omicidio. L’indomani si corresse spiegando di aver mentito per paura, ma per la giuria quella bugia equivaleva ad una confessione. Amanda e Raffaele vennero visti da un clochard nei pressi del luogo del delitto, c’era dunque un testimone oculare, ma la sua deposizione è stata ritenuta inattendibile. Chico Forti non è stato visto da nessuno nei pressi della spiaggia dove venne ucciso Dale Pike. Sul reggiseno di Meredith sono state trovate tracce di dna riferibili a Sollecito, ma per la difesa c’era stata una contaminazione. Sul luogo del delitto a Miami venne trovato un guanto dell’assassino: il dna repertato al suo interno non era di Chico Forti: visto che non poteva essere lui l’assassino, per l’accusa l’italiano divenne a questo punto il mandante. Gli indizi raccolti dalla Scientifica nel delitto Meredith sono stati demoliti dalle difese a colpi di consulenze. Nessuna evidenza scientifica è stata mai raccolta a carico di Chico, salvo delle tracce di sabbia magicamente comparse a mesi di distanza sul gancio di traino della sua auto. Amanda Knox e Sollecito dopo essere stati condannati in primo grado con una sentenza lungamente motivata hanno avuto il diritto (nel nostro ordinamento lo ha anche un ladro di biciclette) ad un processo d’appello (e poi ci sarà la Cassazione) in cui tutte le prove sono state rivalutate e l’istruttoria riaperta. Chico invece è stato condannato senza uno straccio di motivazione, mentre l’appello se lo sogna di notte. Amanda è stata difesa da un agguerrito e costosissimo collegio difensivo. L’avvocato di Chico Forti, si è scoperto solo in seguito, lavorava anche per la procura di Miami ed era dunque incompatibile.
Chico Forti si è sottoposto alla macchina della verità: per il poligrafo è innocente, ma il risultato non valeva in giudizio. Amanda si è sempre proclamata innocente, ma nessun l’ha mai sottoposta allo stesso marchingegno. L’incubo di Amanda è durato 1.448 giorni; quello di Chico prosegue da 4380. Per la bella Amanda, incarcerata ingiustamente dagli italiani, si è mobilitato un intero Paese: la copertura mediatica è stata pari a quella per la morte del Papa, gli americani hanno minacciato di boicottare i nostri prodotti, i fan hanno tifato in diretta come al Super bowl, il segretario di Stato Hillary Clinton ha seguito personalmente il caso. Mancava solo che mandassero contro il Tribunale di Perugia i «berretti verdi». Solo lo zio Gianni, gli amici, il popolo di Facebook e qualche sterile interrogazione parlamentare, hanno evitato che su Chico calasse l’oblio. Il nostro ministro degli esteri Franco Frattini ha scelto, come fa spesso, il basso profilo per non urtare Washington. Per il futuro speriamo in un sussulto di attivismo. Lunedì sera dopo l’assoluzione di Amanda e Raffaele la folla a Perugia urlava «Vergogna! Vergogna!». Sbagliavano. La vera vergogna si consuma, tutti i giorni da 12 anni, nella più grande democrazia del mondo, dove un uomo sconta una condanna all’ergastolo senza lo straccio di una prova.

Fonte: ladige.it

[Il caso Forti: ombre e dubbi di un processo surreale]

L’attualità di una “secessione europea”

Mettendo in fila gli episodi che collegano la guerra alla Jugoslavia, le due guerre irachene e l’attuale conflitto in Afghanistan, svolte dalla comunità internazionale sulla spinta della volontà d’affermazione planetaria occidentale, l’11 settembre 2001 appare come un semplice drammatico acceleratore di velocità degli avvenimenti, con un tale repertorio di falsità e strumentalizzazioni, che a destra come a sinistra è difficile distinguere al peggio. Dittature che all’occorrenza divengono amiche o nemiche. Introvabili armi di distruzione di massa, non fosse altro che sono cercate quando non si forniscono più alla propria bisogna. Guerre preventive non dichiarate, poi ricomposte e metabolizzate in quel comitato d’affari che è l’Organizzazione delle Nazioni Unite, dove il diritto internazionale appare come la molla di una bilancia sbalestrata dai dieci pesi e le mille misure.
Dall’ossimoro della “guerra umanitaria” progressista, all’aggressività delle “guerre democratiche”, cioè di conquista dei “nuovi conservatori”, quello che accomuna il pensiero dominante è l’universalismo, il determinismo storico, l’etnocentrismo, il sentimento di superiorità materiale e quindi redenzione morale occidentale. Pacificatori guerrafondai e pacifisti dell’ingerenza bombardiera, hanno retoriche diverse, ma entrambe perseguono un mondo a loro immagine e somiglianza. Il pantagruelico libero mercato globale degli uni è l’altra faccia dell’individualismo apolide e impolitico dell’utopia cosmopolita degli altri.
In tale contesto l’utilizzo polemico dei termini “americanismo” e “antiamericanismo” è l’apice dell’ipocrisia argomentativa dei “pensatori” circensi. Agli occhi dei sacerdoti del pensiero liberale, assumere una posizione critica della deriva unilaterale internazionale, significa appartenere ad uno schieramento oggettivamente eretico, nemico della libertà, cioè l’antiamericanismo. Poco importa ai fini dialettici, che la stucchevole filastrocca sulla “società aperta” faccia poi rientrare gli “eretici” nelle accoglienti braccia della “superiorità” delle istituzioni liberali. Chiunque è onesto intellettualmente riconosce che nelle società complesse uguaglianza e libertà sono una a scapito dell’altra e non offrono parità di manifestazione delle idee, quanto relativismo, censura ed autocensura. Le democrazie liberali hanno caratteri d’esclusione sottile, che ne preservano la funzionalità legata ai poteri politici, economici e d’opinione che le condizionano. In tal senso, l’espediente dell’“antiamericanismo”, è un capro espiatorio ad uso dialettico per delegittimare il contraddittore. Automaticamente, in ogni ambito culturale, gli Stati Uniti diventano un improbabile letto di Procuste storico e filosofico cui sottoporre immaginari nostalgici di Gulag o campi concentrazionari, in realtà per negare dignità concettuale e marginalizzare chiunque abbia opinioni difformi sul monismo ideologico della modernità. Ma si può ridurre millenni di storia, civiltà e culture allo spirito di redenzione dei Padri pellegrini sbarcati nel Massachussets circa tre secoli fa? Ovviamente no, quindi si inverte la rotta e si fanno sbarcare i Marines in ogni dove.
(…)
La consapevolezza della drammaticità degli eventi consiglierebbe ben altro spirito tragico alla commedia umana che stiamo recitando. Occorrerebbe opporsi a tutto ciò che, entro la “logica imperiale”, ha l’effetto di omologare, unire, sedare, “pacificare”, orientare verso una meta cosmopolitica e universalistica. L’obiettivo dovrebbe essere quello di sottrarre consenso alla prospettiva di uno Stato mondiale e, nello stesso tempo, di operare perché alla gerarchia unipolare delle relazioni internazionali si sostituisca gradualmente un assetto pluralistico: un “pluriverso” di grandi aree di civiltà in interazione il più possibile pacifica, anche se competitiva, fra di loro. Ben ulteriore alla pantomima multilaterale delle organizzazioni mondiali esistenti: ONU, FMI, BM, WTO, FAO, con il corollario impolitico e moralistico del volontarismo impolitico delle ONG.
Un regionalismo multipolare, ad esempio, potrebbe essere capace di ridurre realisticamente l’asimmetria delle forze oggi in campo e sconfiggere l’aggressivo unilateralismo degli Stati Uniti. Senza giri di parole necessita pensare l’attualità di una “secessione europea” dalla sua attuale lealtà e subalternità atlantica.
Si pensi come eponimo degli aggressivi interessi statunitensi al politologo statunitense Robert Kagan. A parere di quest’ultimo e di molti osservatori europei e statunitensi, stanno aumentando le ragioni di un “dissenso strategico” fra le due sponde atlantiche. Stati Uniti ed Europa si dividono su un numero crescente di questioni, soprattutto su temi come il dissesto ecologico del pianeta, il rispetto del diritto internazionale, i rischi connessi alla guerra infinita contro i reprobi di turno, la nuova Corte penale internazionale (ICC). Se il dissenso transatlantico si farà più acuto, minaccia Kagan con toni arroganti assai stonati con lo stato dell’arte della situazione irachena, gli Stati Uniti saranno costretti a svolgere la loro funzione di guardiano armato del mondo senza tenere in minimo conto le opinioni dei leader politici europei.
Bene, si prenda in parola la presunzione degli onnipotenti di turno. Una Europa affrancata dal soffocante abbraccio atlantico e cioè meno occidentale, e soprattutto più mediterranea, potrebbe manifestare una identità politica capace teoricamente di un mutamento sostanziale degli equilibri nei rapporti di forza che sottendono la globalizzazione. Una forte autonomia e identità europea potrebbe favorire una riduzione dell’uso arbitrario della forza internazionale e attualizzare il principio dell’autodeterminazione dei popoli, a cominciare da quello palestinese.
(…)
Uscire dal prometeismo occidentale per tornare in grembo alla civiltà europea, dove la democrazia significa partecipazione comunitaria (polis) e libertà ciò che ha in sé il principio dei suoi atti.

Da Americanate da rigettare in toto, di Eduardo Zarelli.
[grassetto nostro]

Chi ride e chi piange

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“Ed il punto essenziale sta in ciò, che la religione olocaustica sancisce l’asservimento dell’Europa agli USA. Non è neppure così difficile capirlo. Hitler è morto nel 1945, il nazismo non ha alcuna possibilità di ritornare, ma la Germania (chiave geopolitica dell’Europa) deve restare inchiodata per i secoli dei secoli alla colpa originaria. Persino l’allievo sciocco e politicamente corretto dei suoi ben migliori maestri francofortesi Jürgen Habermas è costretto a sostenere che la Germania, essendo colpevole del crimine unico e incomparabile di Auschwitz, non potrà avere mai più un “patriottismo” nazionale, ma soltanto un “patriottismo della costituzione”, e cioè una totale mancanza di legittimo patriottismo nazionale. E perché, di grazia, in un’ottica di razionalismo universalistico di matrice illuministica, l’Inghilterra, l’Olanda e Israele possono essere “patriottiche” e la Germania no? Perché c’è stato Hitler dal 1933 al 1945? Ma tutti i paesi, nessuno escluso, hanno avuto personaggi criminali nella loro storia (persino i socialdemocratici scandinavi hanno schiavizzato la gente per un millennio nel loro periodo vichingo-normanno-variago).
E allora? Forse che le giovani generazioni nate dopo devono esservi inchiodate?
Certo. Devono esservi inchiodate. E devono esservi inchiodate perché la nuova religione imperiale USA deve poter giustificare il mantenimento delle basi militari in Europa e la trasformazione della NATO da alleanza difensiva europea a mercenariato militare occidentalistico globalizzato (Afghanistan, eccetera) press’a poco con questo ragionamento: “Voi Europei siete come bambini incoscienti che vi fareste male da soli, se noi vi lasciassimo fare a modo vostro. Avete fatto la mattanza della prima guerra mondiale, avete permesso che la diarchia Hitler-Stalin vi dominasse, ed avete soprattutto permesso Auschwitz, incomparabile con qualsiasi altro evento (Hiroshima è stato uno spiacevole mezzo per salvare le vite dei nostri ragazzi). E allora meritate di essere occupati in sæcula sæculorum. Se poi qualcuno vi dice che lo facciamo per ragioni geopolitiche, sappiate che si tratta di un fanatico antiamericano e certamente anche antisemita.”

In Dalla giudeofobia alla giudeolatria, di Costanzo Preve, da “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” anno VI, numero 2, maggio-agosto 2009, pp. 176-177.

[Dello stesso autore: Una vera storia infinita]

Il lascito di Bill, le colpe di George, i compiti di Barack

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Da “L’ultima chance. La crisi della superpotenza americana” di Zbigniew Brzezinski, Salerno editrice, 2008 (traduzione italiana di “Second chance. Three presidents and the crisis of american superpower”, Basic Books, 2007).

Il lascito di Bill
“La fine repentina delle divisioni in Europa pose l’accento sul desiderio degli Stati postcomunisti di diventare parte integrante della Comunità atlantica. La risposta di Clinton a questo problema impiegò diversi anni a svilupparsi, ma alla fine divenne la parte piú costruttiva e duratura del suo lascito in materia di politica estera. La contestuale realtà della NATO, che abbracciava ventisette membri (venticinque dei quali europei), e un’Unione Europea a venticinque membri, indicava che il vecchio slogan di una « collaborazione transatlantica» poteva alla fine acquistare sostanza reale. Tale collaborazione possedeva il potenziale per iniettare vitalità politica in un tentativo vigoroso di forgiare un sistema mondiale piú cooperativo.
Il tema catalizzatore per il rinnovamento dell’alleanza era la questione dell’espansione della NATO. (…)
A sorpresa, quando il presidente Walesa espresse il desiderio che la Polonia diventasse membro della NATO, il presidente russo Eltsin rispose positivamente. Nel corso di una visita a Varsavia nell’agosto del 1993, con le truppe russe ancora in Germania Est, Eltsin affermò pubblicamente che non riteneva tale prospettiva contraria agli interessi russi. Il principale consigliere di Clinton per gli affari russi e il suo segretario di Stato gli suggerirono comunque cautela. Pertanto, ancora per un anno, gli sforzi statunitensi si concentrarono su un processo di “preparazione” all’allargamento, ingegnosamente etichettato «collaborazione per la pace», che aveva il merito di rendere l’allargamento piú probabile mentre ne rimandava l’effettiva decisione.
(…)
Alla fine del 1996, alla vigilia delle elezioni presidenziali statunitensi, Clinton impegnò pubblicamente gli Stati Uniti per l’espansione della NATO, e lo sforzo ebbe un’accelerazione a seguito della sua rielezione. Il segretario di Stato del primo mandato lasciò il posto a Madeleine Albright, piú dinamica e con maggiori relazioni politiche, una protégé della First Lady (oltre che amica ed ex socia dell’autore di questo libro). Impegnata personalmente per l’espansione a est della NATO, la Albright conferì una precisa direzione strategica all’operazione.
Il processo su due fronti procedeva ora con minori esitazioni. Nel maggio del 1997 fu firmato l’Atto fondatore che regolava le relazioni NATO-Russia. Il suo intento era quello di rassicurare la Russia che la NATO adesso era un partner per la sicurezza. Clinton, ancora una volta, colse l’occasione per ribadire l’amicizia dell’America con la Russia di Eltsin. In luglio Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria furono invitate ufficialmente a unirsi alla NATO. Segui presto l’invito alle Repubbliche Baltiche, a Romania e Bulgaria.
(…)
Questa volta [Kosovo, 1999 – ndr] gli Stati Uniti agirono con maggior decisione. Il segretario Albright assunse il comando per conto del governo USA. La Albright approfittò dell’impulso politico offerto dall’allargamento della NATO per modellare una coalizione politica che ponesse la Serbia di fronte a un ultimatum preciso: lasciare il Kosovo o esserne cacciata con la forza. Con l’America e l’Europa fortemente coese, una campagna di bombardamenti inflisse gravi danni alle infrastrutture serbe (anche nella capitale), mentre le truppe della NATO si ammassavano in Albania e in Grecia per organizzare una campagna di terra decisiva.
La Russia, che si oppose con forza a tali azioni, operò un estremo tentativo di inserirsi nel conflitto dispiegando un piccolo reparto nell’aeroporto di Pristina, la capitale del Kosovo, forse nel tentativo di salvare un pezzo di Kosovo per la Serbia o di ottenervi una zona di occupazione russa. Ma con la NATO politicamente determinata, il tentativo non portò a nulla. La politica di allargare e rafforzare la Comunità atlantica si dimostrò valida, e la fase terminale della crisi iugoslava si risolse a metà del 1999 nei termini occidentali e sotto la leadership americana. La Serbia fu costretta a lasciare il Kosovo.
La decisione di Clinton di inviare le truppe in Bosnia, compiuta a dispetto della risoluzione del Congresso a maggioranza repubblicana, e poi di usare la forza per costringere la Serbia a ritirarsi, fu un elemento critico per la stabilizzazione della ex Iugoslavia. E inoltre incoraggiò la cooperazione tra America ed Europa in materia di sicurezza internazionale. Nel 2004, dopo che Clinton aveva lasciato la presidenza, il comando delle forze NATO in Bosnia passò dagli Stati Uniti all’Europa, a riprova della solidità dei legami transatlantici.
La politica di Clinton nei confronti della stessa Russia, già danneggiata dall’espansione della NATO, venne tuttavia gravemente complicata dalla crisi iugoslava.
(…)
Intorno al 1990 l’America, sola, aveva raggiunto la cima del totem globale. Nel 1995 la considerazione di cui il paese godeva nel mondo aveva con tutta probabilità raggiunto il suo apice. L’intero pianeta aveva accettato quella nuova realtà e la gran parte dell’umanità la gradiva persino. Il potere americano non solo era considerato indiscutibile, ma anche legittimo, e la voce dell’America era credibile. Il merito di ciò deve essere ascritto a Clinton. Se la supremazia americana nel 1990 prese il volo, il prestigio globale raggiunse l’apogeo storico nella seconda metà del decennio.
(…)
Il presidente in persona era ammirato e quasi universalmente apprezzato, con un fascino personale paragonabile a quello di Franklin Roosevelt o John Kennedy. Ma non approfittò dei suoi otto anni alla Casa Bianca per impegnare la leadership globale americana a tracciare una via definita che le altre nazioni potessero seguire.
(…)
Senza alcun dubbio quando Clinton lasciò la carica, l’America era ancora un paese dominante, sicuro e rispettato, le relazioni con gli alleati erano sostanzialmente positive, e una notevole enfasi era stata posta sugli sforzi internazionali per portare rimedio alle smaccate ingiustizie della condizione umana. Ma alla fine dell’ultimo decennio del XX secolo la crescente ondata di ostilità nei confronti dell’America non si limitava piú al Medio Oriente. Persino alcuni degli alleati cominciavano a provare risentimento per lo strapotere americano. La proliferazione nucleare si diffondeva dopo otto anni di negoziati inconcludenti e di futili proteste. Le buone intenzioni riuscivano sempre meno a compensare la mancanza di una strategia chiara e determinata
(…)
L’eredità che nel 2001 Clinton lasciò al suo successore, antitetico dal punto di vista dottrinale, si dimostrò senza costrutto e vulnerabile.”
[pp. 79-81, 88-89, 97-99]

Le colpe di George
“George W. Bush ha frainteso il momento storico, e in pochi anni ha pericolosamente minato la posizione geopolitica dell’America. Nel perseguire una politica basata sulla convinzione che «ora noi siamo un impero, e quando agiamo creiamo la nostra realtà», Bush ha messo in pericolo l’America. L’Europa risulta sempre piú alienata. La Russia e la Cina appaiono entrambe decise e in crescita. L’Asia volta le spalle e si riorganizza, mentre il Giappone riflette su come rendersi piú sicuro. Le democrazie latino-americane divengono populiste e antistatunitensi. Il Medio Oriente è frammentato e sull’orlo di un’esplosione. Il mondo islamico è infiammato da crescenti passioni religiose e nazionalismi antimperialisti. In tutto il mondo, i sondaggi mostrano che la politica statunitense è ampiamente temuta e persino disprezzata.
La conseguenza è che il prossimo presidente degli Stati Uniti dovrà impiegare uno sforzo monumentale per restituire legittimità all’America nel suo ruolo di principale garante della sicurezza globale e ridefinire gli Stati Uniti con una risposta comune ai dilemmi sociali in espansione in un mondo che ormai si è risvegliato dal punto di vista politico e non è disponibile al dominio imperialista.”
[pp. 126-127]

I compiti di Barack
“Dato il crescente indebitamento globale americano (al momento gli Stati Uniti detengono l’80% delle riserve mondiali) e l’enorme deficit commerciale, un’importante crisi finanziaria, soprattutto in un’atmosfera di antiamericanismo carico di emotività e diffuso a livello planetario, potrebbe avere conseguenze terribili per il benessere e la sicurezza del paese. L’euro sta divenendo un serio rivale del dollaro e si parla di un concorrente asiatico per entrambi. Un’Asia ostile e un’Europa concentrata su di sé a un certo punto potrebbero essere meno disposte a finanziare il debito statunitense.
Per gli Stati Uniti da ciò derivano diverse conclusioni geopolitiche. E’ essenziale che l’America preservi e fortifichi i particolari legami transatlantici.
(…)
Comunque, siccome le nuove realtà politiche globali vanno nella direzione di un declino del tradizionale dominio dell’Occidente, la Comunità atlantica deve mostrarsi aperta a una maggior partecipazione da parte dei paesi non europei. Ciò implica, in primo luogo e soprattutto, uno sforzo serio per coinvolgere il Giappone (e per estensione la Corea del Sud) nelle consultazioni chiave. Si dovrebbe prevedere anche un ruolo particolare per il Giappone nei piani di sicurezza della NATO allargata, oltre a qualche partecipazione volontaria in alcune missioni della NATO. In breve, coinvolgendo in maniera selettiva i paesi non europei piú avanzati e democratici in piani di stretta collaborazione sulle questioni globali, un centro moderato, ricco e democratico potrebbe continuare a proiettare in tutto il mondo la propria influenza positiva.
(…)
I cinesi sono pazienti e calcolatori. Questo offre all’America e al Giappone, oltre che alla Comunità atlantica in espansione, il tempo di coinvolgere Pechino in responsabilità condivise per la leadership globale. Negli anni a venire la Cina diventerà o un giocatore chiave in un sistema globale piú giusto o la principale minaccia alla stabilità di quel sistema, che ciò avvenga a causa di crisi interne o per qualche sfida esterna. Pertanto, gli Stati Uniti dovrebbero incoraggiare un ruolo sempre maggiore per la Cina nelle istituzioni e nelle imprese internazionali.
E’ giunta l’ora di affrontare il fatto che il summit del G8 dei “leader mondiali” è divenuto un anacronismo.
(…)
Un corpo piú rappresentativo – anche se ancora informale ed esterno al sistema dell’ONU – potrebbe affrontare, piú in sintonia con lo spirito dei tempi, questioni basilari come l’equità in materia di non proliferazione nucleare, la divisione adeguata del peso della lotta alla povertà globale o i bisogni comuni dei paesi ricchi e di quelli poveri per combattere le conseguenze del riscaldamento globale. Le discussioni del G8 su questi argomenti sono oggi condotte entro confini storici anacronistici.
Persino con queste nuove istituzioni sarà sempre conveniente per l’America infondere un senso di comune direzione in un mondo inquieto. L’America è, e rimarrà per un certo tempo, l’unica potenza in grado di far muovere la comunità globale nella direzione necessaria. Ma per fare ciò potrebbe essere indispensabile un’epifania nazionale riassunta al meglio (anche se con qualche rischio di esagerazione) da due note espressioni: rivoluzione culturale e cambio di regime. Il fatto è che sia l’America sia la politica americana hanno bisogno di un rinnovamento derivato dalla comprensione da parte del popolo dell’impatto rivoluzionario di un’umanità piú risoluta dal punto di vista politico.
(…)
Pertanto all’inizio dell’era globale una forza dominante non ha altra scelta che perseguire una politica estera che sia realmente mondialista nello spirito, nei contenuti e negli obiettivi. La cosa peggiore per l’America, e per il mondo intero, sarebbe che la politica statunitense fosse considerata arrogante e imperialista in un’epoca postimperiale, mirata alla ricostruzione del colonialismo in un’era postcoloniale, indifferente ed egoista di fronte a un’interdipendenza globale senza precedenti e moralistica dal punto di vista culturale in un mondo caratterizzato dalle diversità religiose. La crisi della superpotenza americana sarebbe in tal caso estrema.
E’ essenziale che la seconda chance americana dopo il 2008 ottenga un maggior successo della prima, perché non ce ne sarà una terza. L’America deve urgentemente modellare una politica estera post-guerra fredda veramente mondialista. Può ancora farlo, sempre che il prossimo presidente, consapevole che «la forza di una grande potenza diminuisce quando cessa di servire un’idea», scelga di collegare in maniera tangibile la potenza americana alle aspirazioni di un’umanità risvegliata dal punto di vista politico.”
[pp. 149-152]