USAID aumenta i finanziamenti alle ONG e ai media dei Paesi della CSI per ridurre l’influenza russa

È improbabile che Washington riesca a sganciare l’Asia centrale dalla Russia, anche se falsamente descriverà alcune iniziative commerciali come grandi successi o come qualcosa di molto innovativo.

Di Ahmed Adel, ricercatore di geopolitica ed economia politica che fa base a Il Cairo, per South Front, 5 dicembre 2022

L’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) ha finanziato nella seconda metà del 2022 il cosiddetto “sostegno alla democrazia” per un importo di 248 milioni di dollari nei Paesi della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). In confronto, i “falchi umanitari”, come l’amministratore dell’USAID Samantha Power descrive l’agenzia, investirono solo 243 milioni di dollari nell’intero 2021.
La CSI, che comprende gli ex Stati sovietici quali Russia, Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Kazakhistan, Kirghizistan, Moldavia, Tagikistan e Uzbekistan, è un blocco di Paesi per il quale gli Stati Uniti si sono a lungo sforzati per espandere al loro interno la propria influenza e il proprio soft power. Per questa ragione, l’USAID ha significativamente aumentato i suoi investimenti nella regione, con Armenia, Georgia e Moldavia, Stati periferici della CSI, che risultano essere i più grandi beneficiari delle nuove sovvenzioni, specialmente per quelle riguardanti le Ong e i media.
L’USAID ha stanziato 15 milioni di dollari a scopi educativi per la sola Georgia nella seconda metà di quest’anno, con un’enfasi particolare posta sulla necessità di abolire la presunta discriminazione di genere. Gli Americani intendono plasmare l’istruzione georgiana secondo il loro stampo, riqualificando gli insegnanti; per questo motivo fu assegnata una sovvenzione di 250.000 dollari a professori di giornalismo provenienti dalle università locali che soddisfano i loro criteri. Nel 2021, l’USAID lanciò un programma quinquennale in Georgia del costo di 330 milioni di dollari.
Nella seconda metà del 2022, l’USAID ha concesso due sostanziose sovvenzioni – rispettivamente del valore di 120 e 4 milioni di dollari – per lo “sviluppo della democrazia” e l'”indipendenza dei media” in Armenia. Questo aiuto è stato criticato perché non fornisce l’assistenza umanitaria necessaria per assistere 100.000 Armeni sfollati a causa della guerra del Nagorno-Karabakh del 2020.
Il fatto stesso che nella seconda metà del 2022 siano stati concessi 124 milioni di dollari di aiuti, un importo considerevole per un Paese che nel 2021 aveva un PIL di 13,86 miliardi di dollari, per influenzare i media e la società civile invece di assistere gli sfollati armeni, dimostra la volontà di mantenere quella situazione, o in effetti che l’amplificazione del necessario grado di retorica antirussa nei mass media locali è uno degli obiettivi principali del lavoro dell’USAID nei Paesi post-sovietici.
Comunque, in Moldavia e nei Paesi dell’Asia centrale, l’agenzia americana pone particolare enfasi sul finanziamento dell’economia. Ovvero, stanno cercando di indebolire i legami economici che questi Paesi hanno con la Russia e di riorientare i flussi di merci e i flussi finanziari. Nell’ultimo semestre, l’USAID ha stanziato 50 milioni di dollari per la Moldavia, la maggior parte dei quali si presume saranno spesi per espandere il commercio con l’Unione Europea e creare un’adeguata infrastruttura di trasporti e logistica.
A ottobre USAID annunciò che intende investire 15,2 milioni di dollari nel commercio in Kazakhistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, poiché Washington vuole “aiutare la regione ad abbandonare la dipendenza” da Mosca.
“Ridurre la dipendenza dell’Asia centrale dai mercati e dalle rotte di esportazione russe, fornendo alternative, era una priorità a lungo termine, ma ora è una necessità impellente e un’opportunità dato che cerchiamo di aiutare la regione ad allontanare la dipendenza dalla Russia”, diceva il documento di USAID
Secondo il documento dell’USAID, la guerra in Ucraina e le sanzioni anti-russe hanno un “enorme impatto” sull’economia dell’intera regione. Le sanzioni e il ritiro delle aziende occidentali dalla Russia “hanno portato a una contrazione dell’economia russa, che probabilmente continuerà a lungo termine”, ma da cui risulterà anche una diminuzione delle importazioni russe dall’Asia centrale.
“Le aziende della regione hanno urgentemente bisogno di trovare nuovi mercati per le loro esportazioni, sia di beni che di servizi”, aggiungeva il documento.
Il programma è pensato per “rispondere alle conseguenze economiche” causate dalla guerra in Ucraina, come il calo delle rimesse, il deflusso dei lavoratori immigrati dalla Russia, la svalutazione della moneta, l’inflazione e la perdita di rotte e mercati di esportazione. Si spera che ai Paesi della regione verrà fornito un “supporto tecnico” per incrementare il commercio sui mercati internazionali e per aiutare le imprese nelle questioni logistiche.
In precedenza, il vicedirettore dell’USAID, Anjali Kaur, affermava che l’obiettivo della politica statunitense dovesse essere la separazione delle economie dell’Asia centrale e della Russia. In questo modo, Washington non cerca nemmeno di nascondere le sue nefaste azioni anti-Russia in una regione che è forse una delle più lontane dal continente nordamericano, e non solo in termini geografici, ma anche per cultura, tradizioni e storia.
Incrementando i finanziamenti alle Ong e ai media in Moldavia, Georgia e Armenia, l’USAID cerca di trovare qualche successo. Tale successo sarebbe per la maggior parte da attribuire alla vicinanza di questi Paesi all’Europa occidentale e alla loro comune identità cristiana, rendendo così molto più facile la penetrazione dell’influenza liberale dell’Occidente.
Tuttavia, è estremamente improbabile che Washington riuscirà a sganciare l’Asia centrale dalla Russia, anche se rappresenterà falsamente alcune iniziative commerciali come grandi successi o come qualcosa di molto innovativo. Questo perché la Russia è una grande potenza economica e militare da cui l’Asia Centrale non ha alcun buon motivo per separarsi.

La Russia nel mirino della NATO globale

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Intervista di RT a Rick Rozoff, curatore di Stop NATO e dell’omonimo sito
(traduzione e collegamenti inseriti sono nostri)

RT: Quale è il problema se la NATO svolge più esercitazioni militari? Viviamo in un mondo pericoloso e l’esercizio rende efficienti, non è così?
Rozoff: Certo, dobbiamo contestualizzare le questioni. Se stiamo parlando delle più recenti esercitazioni militari della NATO sul Mar Baltico, le cosiddette operazioni o esercitazione Steadfast Jazz 2013. Dobbiamo considerare che si tratta della più vasta esercitazione militare congiunta svolta dalla NATO negli ultimi sette anni. Ed è stata tenuta in due Paesi che condividono i propri confini con la Russia -Lettonia e Polonia- con l’esplicito obiettivo di compattare la cosiddetta NATO Response Force, che è una forza militare globale di intervento. Si è inoltre svolta su larga scala: 6.000 soldati, con componenti aeree e navali così come di terra e fanteria in Paesi confinanti con la Russia. Non è un fatto di tutti i giorni, come i vostri commenti possono suggerire. Se qualcosa di analogo succedesse al confine americano, a dire in Messico e Canada, e soldati provenienti da 40 Paesi, tutti membri della NATO, e una serie di Paesi partner della NATO dovessero impegnarsi in esercitazioni militari congiunte sul confine americano, si sentirebbe qualcosa da Washington, ve lo assicuro. Peraltro non si tratta di un innocuo affare quotidiano di una o due nazioni che svolgono esercitazioni militari; si tratta del più grande blocco militare nella storia, onestamente parlando, con 24 Paesi membri, con oltre 70 Paesi partner nel mondo, che è oltre un terzo delle nazioni al mondo, e nell’ONU, ad esempio. Questa rappresenta un’ulteriore indicazione che il blocco militare guidato dagli USA, la NATO, ispira, prima di tutto, lo svolgimento di quelle che potrebbero essere interpretate come incaute e forse anche pericolose esercitazione militari vicino ai confini della Russia e allo stesso tempo progetta di sviluppare ulteriormente e dare una veste all’attivazione della propria forza internazionale di intervento.

RT: Queste esercitazioni non sono a buon mercato comunque – e molte nazioni europee non sono finanziariamente nella migliore forma. Ne vale davvero la pena per loro?
Rozoff: Certo che no, è un fantasma, una minaccia immaginaria che è stata contestata. Vale la pena notare che il Segretario Generale della NATO Anders Fogh Rasmussen e altri funzionari dell’Alleanza Atlantica incluso il vice Segretario Generale Alexander Vershbow, che è l’ex ambasciatore statunitense in Russia, hanno precisato che le esercitazioni militari svolte in Lettonia e Polonia erano dirette a consolidare i risultati conseguiti negli ultimi dodici anni in Afghanistan, dove la NATO, attraverso la missione ISAF, ha consolidato – sono le sue parole – l’operatività di forze militari provenienti da 50 diverse nazioni. I popoli europei, i cittadini dei rispettivi 26 Stati membri in Europa possono comprendere questo genere di stravaganza? No, certamente non possono. Così ciò che resta da credere è che gli Stati Uniti trovano il pretesto per utilizzare la NATO e sono pronti a sostenere la maggior parte dei costi derivanti dalle esercitazioni o dalla creazione delle installazioni militari, per rafforzare i propri interessi geopolitici in Europa e nel mondo.

RT: La NATO ha appena terminato le esercitazioni in Polonia e negli Stati baltici. C’è qualche ragione per la scelta di queste precise collocazioni?
Rozoff: Se vi riferite alla forza di risposta rapida, che è un dispositivo dell’Alleanza utilizzato presumibilmente per interferire quando la NATO interviene militarmente, come fa negli ultimi quattordiici anni fuori dalla sua area di responsabilità, l’autodichiarata zona di protezione dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Stiamo parlando ovviamente di una seria azione militare, seria come lo è la guerra, infatti. Quattordici anni fa nell’Europa sud-orientale, nella ex Jugoslavia, per gli ultimi dodici anni in Afghanistan, in Asia, e due anni fa in Libia e Nord Africa, poi hanno scelto un così delicato posizionamento di fronte alla Russia – gli Stati baltici, il confine nord-occidentale della Federazione Russa – a me sembra quasi come una provocazione. Ma la spiegazione ufficiale della NATO è che, essendosi ormai configurata come una forza militare internazionale per missioni che possono essere condotte in Africa, Medio Oriente, nel Golfo di Aden, nell’Oceano Indiano, in Asia Meridionale e Centrale, adesso deve ristabilire la propria capacità di difendere gli Stati membri. Chi altri se non la Russia può essere presa di mira quando gli Stati NATO, e, nel caso di Lettonia e Polonia – devono essere in grado di difendere i nuovi Stati membri dell’Alleanza come Lettonia, Estonia, Lituania a Polonia – nessuna altra nazione potrebbe essere il potenziale aggressore in quel contesto se non la Russia. Perciò questa è un’aperta provocazione nei confronti della Russia.

RT: L’anno prossimo la NATO terminerà la sua missione di combattimento in Afghanistan, che è durata oltre un decennio. Che cosa faranno tutte queste truppe dopo il ritiro del 2014?
Rozoff: Ci sarà un periodo di riposo e recupero per le attuali forze terrestri. E considerate che i comandanti NATO in Afghanistan e i comandanti militari USA hanno discusso circa il mantenimento in territorio afghano di un numero tra gli 8.000 e i 14.000 soldati statunitensi e di altri Paesi NATO per un futuro indefinito. E ciò si aggiunge certamente all’intenzione statunitense di mantenere e forse anche espandere la propria presenza e la propria capacità bellica nelle grandi basi aeree che gli Stati Uniti hanno migliorato a Shandan, Kandahar, e le basi terrestri fuori dalla capitale Kabul, e così via. Pertanto ciò che la NATO evidentemente intende fare, e gli USA in primo luogo, è la compiuta integrazione delle strutture militari di oltre 50 Paesi – un evento molto importante, non c’è nulla di anche lontanamente paragonabile che sia avvenuto prima nella storia. Bisogna essere onesti riguardo ciò. In nessuna guerra, neanche nella Seconda guerra mondiale, c’è stata la presenza di personale militare da 50 Paesi, tanto meno da una sola delle parti in conflitto, tanto meno in un solo teatro di guerra e in un sola nazione. Perciò quello che la NATO ha fatto è stato usare i dodici anni di incerto impegno bellico in Afghanistan al fine di mettere in piedi una NATO globale, nei fatti. E una volta concluso questo percorso con il vertice dell’Alleanza svoltosi a Chigago, lo scorso vertice NATO del Maggio 2012, l’Alleanza ha annunciato la nascita di un altro programma di partenariato. E questo sarà il primo che non è geograficamente connotato, diversamente da quelli che riguardano il Golfo Persico, il Mediterraneo, la regione del Medio Oriente o l’Europa Orientale, il Caucaso, l’Asia centrale. Quest’ultima iniziativa della NATO comprende inizialmente otto nazioni appartenenti alla più grande regione dell’Asia-Pacifico: Iraq, Pakistan, Afghanistan, Nuova Zelanda, Australia, Giappone, Corea del Sud e Mongolia. La Mongolia anche, come il Kazakhistan, che è un membro del programma NATO Partenariato per la Pace, confina sia con la Russia che con la Cina. Ciò cui stiamo assistendo è che a dispetto di tutti i suoi sforzi per convincere il mondo che è diventata un’aggiunta all’ONU, o che costituisce in qualche modo un apparato per il mantenimento della pace, la NATO si è in realtà trasformata in una forza militare globale. Essa può avere una limitata capacità di allargamento, almeno non fino al punto che vorrebbe. Ma le sue intenzioni sono chiare. Il nuovo quartier generale della NATO in costruzione a Bruxelles, che costerà più di un miliardo di dollari, sarà concluso a breve. Bene, la NATO non ha intenzione di accettare un’altra limitazione al bilancio e altri fattori che possano giustificare il suo ridimensionamento, le sue ambizioni al contrario sono più grandiose di quanto siano mai state prima.

RT: Che cosa riserva il futuro per l’Organizzazione in generale? Come può continuare a contare ed essere una forza importante nel mondo?
Rozoff: Lo scopriremo al prossimo vertice di Berlino l’anno a venire, nel 2014. Ciò che sappiamo è che al vertice di Chigago dell’anno scorso, una delle più importanti fra le decisioni prese riguarda il cosiddetto sistema di missili intercettori con approccio adattativo graduale -inizialmente progettato dai soli Stati Uniti sotto l’amministrazione di George W. Bush e ora pienamente integrato con la NATO sotto l’amministrazione di Barack Obama – ha raggiunto la capacità operativa iniziale, con piani per installare infine centinaia di missili intercettori a raggio intermedio e medio a terra in Paesi come Romania e Polonia, e anche su cacciatorpedinieri e altri tipi di unità navali nel Mediterraneo. Alla fine, sospetto, nel Mar Baltico e nel Mar Nero, poichè gli Stati Uniti stanno usando ancora la NATO come un cavallo di Troia, per controllare non solo militarmente ma anche politicamente l’intera Europa Orientale, dal Mar Baltico al Mar Nero. Ogni singolo membro di quello che era il Patto di Varsavia, con l’eccezione della Russia, è ora parte a pieno titolo della NATO. Metà degli Stati appartenenti alla ex Repubblica di Jugoslavia sono adesso membri a pieno titolo della NATO. Vediamo quindi che gli Stati Uniti usano la NATO per estendersi militarmente da Berlino, al termine della Guerra Fredda fin fino al confine russo. E la cosa più allarmante ultimamente è che hanno intensificato i propri sforzi per incorporare l’Ucraina, che possiede un rilevante confine con la Russia, quale importante partner della NATO. L’Ucraina sta per unirsi alla forza di risposta rapida, così come Georgia, Finlandia e Svezia. La Svezia è l’unico fra questi Paesi a non avere un confine con la Russia. Finlandia, Ucraina e Georgia possiedono confini rilevanti. Quello cui assistiamo è che la NATO in un modo o nell’altro sta continuando la spinta verso i confini della Russia e di fatto l’accerchiamento militare della Federazione Russa.

Un’amicizia molto pericolosa

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Il fondamentalismo islamico alleato tattico degli USA

““Il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’Islam in quanto tale”. Questa frase, che Samuel Huntington colloca in chiusura del lungo capitolo del suo Scontro delle civiltà intitolato “L’Islam e l’Occidente”, merita di essere letta con un’attenzione maggiore di quella che ad essa è stata riservata finora.
Secondo l’ideologo statunitense, l’Islam in quanto tale è un nemico strategico dell’Occidente, poiché è il suo antagonista in un conflitto di fondo, che non nasce tanto da controversie territoriali, quanto da un fondamentale ed esistenziale confronto tra difesa e rifiuto di “diritti umani”, “democrazia” e “valori laici”. Scrive infatti Huntington: “Fino a quando l’Islam resterà l’Islam (e tale resterà) e l’Occidente resterà l’Occidente (cosa meno sicura) il conflitto di fondo tra due grandi civiltà e stili di vita continuerà a caratterizzare in futuro i reciproci rapporti”.
Ma la frase riportata all’inizio non si limita a designare il nemico strategico; da essa è anche possibile dedurre l’indicazione di un alleato tattico: il fondamentalismo islamico. È vero che nelle pagine dello Scontro delle civiltà l’idea di utilizzare il fondamentalismo islamico contro l’Islam non si trova formulata in una forma più esplicita; tuttavia nel 1996, allorché Huntington pubblicò The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, una pratica di questo genere era già stata inaugurata.
“È un dato di fatto – scrive un ex ambasciatore arabo accreditato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – che gli Stati Uniti abbiano stipulato delle alleanze coi Fratelli Musulmani per buttar fuori i Sovietici dall’Afghanistan; e che, da allora, non abbiano cessato di far la corte alla corrente islamista, favorendone la propagazione nei paesi d’obbedienza islamica. Seguendo le orme del loro grande alleato americano, la maggior parte degli Stati occidentali ha adottato, nei confronti della nebulosa integralista, un atteggiamento che va dalla benevola neutralità alla deliberata connivenza”.
L’uso tattico del cosiddetto integralismo o fondamentalismo islamico da parte occidentale non ebbe inizio però nell’Afghanistan del 1979, quando – come ricorda in From the Shadows l’ex direttore della CIA Robert Gates – già sei mesi prima dell’intervento sovietico i servizi speciali statunitensi cominciarono ad aiutare i guerriglieri afghani.
Esso risale agli anni Cinquanta e Sessanta, allorché Gran Bretagna e Stati Uniti, individuato nell’Egitto nasseriano il principale ostacolo all’egemonia occidentale nel Mediterraneo, fornirono ai Fratelli Musulmani un sostegno discreto ma accertato. È emblematico il caso di un genero del fondatore del movimento, Sa’id Ramadan, che “prese parte alla creazione di un importante centro islamico a Monaco in Germania, intorno al quale si costituì una federazione ad ampio raggio”. Sa’id Ramadan, che ricevette finanziamenti e istruzioni dall’agente della CIA Bob Dreher, nel 1961 espose il proprio progetto d’azione ad Arthur Schlesinger Jr., consigliere del neoeletto presidente John F. Kennedy. “Quando il nemico è armato di un’ideologia totalitaria e dispone di reggimenti di fedeli devoti, – scriveva Ramadan – coloro che sono schierati su posizioni politiche opposte devono contrastarlo sul piano dell’azione popolare e l’essenza della loro tattica deve consistere in una fede contraria e in una devozione contraria. Solo delle forze popolari, genuinamente coinvolte e genuinamente reagenti per conto proprio, possono far fronte alla minaccia d’infiltrazione del comunismo”.
L’uso strumentale dei movimenti islamisti funzionali alla strategia atlantica non terminò con il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan. Il patrocinio fornito dall’Amministrazione Clinton al separatismo bosniaco ed a quello kosovaro, l’appoggio statunitense e britannico al terrorismo wahhabita nel Caucaso, il sostegno ufficiale di Brzezinski ai movimenti fondamentalisti armati in Asia centrale, gl’interventi a favore delle bande sovversive in Libia ed in Siria sono gli episodi successivi di una guerra contro l’Eurasia in cui gli USA e i loro alleati si avvalgono della collaborazione islamista.”

Da L’islamismo contro l’Islam?, di Claudio Mutti, editoriale di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”,  n. 4, anno 2012.

Il Rogozin pensiero

Nell’ultimo numero (1/2010) di “Eurasia”, dedicato a La Russia e il sistema multipolare, compare un’intervista a Dmitrij O. Rogozin, ambasciatore della Federazione Russa presso la NATO.
Rogozin, discutendo con gli intervistatori del futuro della NATO («lacerata da problemi nazionali, finanziari ed ideologici») e della cooperazione con la Russia, critica il «NATO-centrismo» e rilancia la proposta del presidente russo Medvedev per un accordo di sicurezza europeo che «rivolga verso l’esterno tutti i cannoni del continente», impedendo l’insorgere d’un nuovo conflitto in Europa.
In tema di Afghanistan, area in cui esiste una convergenza d’interessi tra Mosca e l’Alleanza Atlantica, Rogozin non risparmia diverse frecciate alla NATO. L’Ambasciatore infatti afferma che non si può «valutare positivamente il bilancio delle attività dell’ISAF», e che se oggi le truppe atlantiche lasciassero il Paese il regime di Karzai durerebbe meno di quello del comunista Najibullah dopo il ritiro dei soldati sovietici. Una frettolosa uscita della NATO dall’Afghanistan destabilizzerebbe l’Asia Centrale e porrebbe «nuove sfide» alla Russia, ma Rogozin precisa che l’appoggio di Mosca all’Allanza Atlantica non è incondizionato: l’Ambasciatore si dice «estremamente indignato» per la riluttanza della NATO a distruggere le coltivazioni di papavero da oppio, da cui deriva l’eroina che invade la Russia; riluttanza che stona coi regolari bombardamenti delle basi dei narcotrafficanti in Colombia. «Non è perché la cocaina è diretta negli USA e invece l’eroina in Russia?» si chiede retoricamente Rogozin, precisando che la pazienza dei Russi «ha raggiunto il limite».
Infine Rogozin mostra inquietudine per «la politica di accerchiamento della Russia con basi militari a sud e a ovest» da parte degli USA, auspicando il rafforzamento del Trattato di Sicurezza Collettiva che lega la Russia a molti altri Paesi ex sovietici, e critica l’ingerenza della NATO nelle questioni relative all’Artico.

L’oppio afghano invade la Russia

Secondo il rapporto dell’Ufficio sulle Droghe ed il Crimine dell’ONU, presentato lo scorso febbraio a Vienna durante i lavori della relativa Commissione, la Russia oggi è seconda solo all’Europa nell’uso di derivati dall’oppio di produzione afghana (eroina inclusa), e prima tra i singoli Stati.
Quando era ancora in Afghanistan, Osama bin Laden predisse che “essi moriranno per le nostre droghe”. Per “essi” egli intendeva la Russia, che all’epoca sosteneva attivamente il rivale storico Ahmad Shah Massud.
Bin Laden mantenne la parola: la sua dichiarazione risale al 1999, e nel successivo decennio il numero dei tossicodipendenti in Russia si è decuplicato. Ogni anno vengono consumate circa 80 tonnellate di eroina afghana, il 20% della produzione totale di tale sostanza nel Paese centro-asiatico ed il 90% di quella complessivamente consumata in Russia. Che conta per il 15% del consumo delle droga afghana, mentre ad esempio la Cina, con la sua enorme popolazione, “solo” per il 12%.
Nemmeno la riduzione significativa della superficie coltivata ad oppio, da 193.000 ettari nel 2007 a 123.000 nel 2009, modifica i termini della questione, in quanto è contemporaneamente incrementata la relativa produttività e lo scorso anno la produzione si è attestata attorno alle 7.000 tonnellate, per un valore di 65 miliardi di dollari.
Tutti questi dati di fonte ONU vengono confermati dalle autorità russe. Viktor Ivanov, responsabile del Servizio Federale per il Controllo della Droga, ha affermato che in Russia vi sono tra 2 e 2,5 milioni di tossicodipendenti, dei quali solo 500.000 ufficialmente censiti. Il numero di tossicodipendenti cresce di 80.000 all’anno, mentre vi sono fra i 30.000 e 40.000 decessi legati all’uso di droghe, annualmente.
Tre sono le rotte attraverso cui la droga esce dall’Afghanistan. La più importante, per il 35-40% del totale, passa per l’Iran e poi giunge in Europa occidentale dai Balcani. La seconda, che vale per un 25-30%, è quella che più di tutte convoglia la droga verso la Russia attraverso le ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. La terza, per un restante 25-30%, passa per il Pakistan e poi arriva fino in Europa via mare.
E’ quindi comprensibile l’indignazione che la Russia va esprimendo ultimamente nei confronti del ruolo fallimentare della NATO nel contrastare la coltivazione di oppio in Afghanistan. Ad iniziare dall’ambasciatore russo presso l’Alleanza, Dmitry Rogozin, che ha definito “l’aggressione dell’eroina” come “la principale minaccia” al proprio Paese, dicendosi sicuro che la NATO non adotterà misure aggiuntive contro i narcotrafficanti afghani per evitare ulteriori perdite di truppe. Continuando con Alexander Kozlovsky, vice presidente del comitato affari esteri del Parlamento russo, che ha duramente criticato la NATO in quanto “praticamente si è messa a guardia dei campi dove le droghe vengono coltivate”.
Il già citato Ivanov ha riferito che il numero di arresti di narcotrafficanti in Afghanistan è diminuito di 13 volte e la chiusura di laboratori per la lavorazione della materia prima di 10 volte, negli ultimi tre anni. Si è inoltre registrato un sensibile declino nel volume di oppio sequestrato, nel 2009 solo 140 tonnellate, un misero 2% del prodotto totale.
Ivanov ha quindi espresso forte preoccupazione anche per l’allarmante aumento del transito di droga verso il Daghestan, l’instabile regione nel Caucaso russo, che favorisce la criminalità e le attività terroristiche. Ha infine fatto notare come negli ultimi anni l’ONU abbia sempre più eluso le proprie responsabilità nell’attuazione dei programmi di lotta alla droga, lasciando campo libero alla NATO la quale a sua volta ha delegato le autorità locali.
Quelle medesime autorità che, dopo aver assunto il controllo della città di Marjah e dell’intero distretto di Nadali al termine della recente operazione Moshtarak condotta dalle truppe dell’ISAF congiuntamente all’esercito afghano, hanno informalmente concesso ai contadini di continuare a produrre oppio. ”L’unico vero scopo dell’operazione Moshtarak – ha spiegato a Peacereporter Safatullah Zahidi, un giornalista locale – era mettere le mani sulle piantagioni di papavero da oppio. E quelle di Marjah e del suo distretto, Nadali, sono le più grandi e produttive di tutto l’Afghanistan. Grazie all’operazione Moshatarak sono tornate sotto controllo del governo e degli americani, giusto in tempo per il raccolto di marzo. E ora faranno lo stesso con le piantagioni della seconda principale zona di produzione di oppio, quella di Kandahar”.

Aggiornamento 3/4/2010
Sempre secondo il rapporto dell’ONU citato, non più del 3-4% del ricavato dell’oppio afghano finisce a finanziare il movimento talebano, per un ammontare comunque inferiore ai 300 milioni di dollari. Tolti altri 500 milioni ai contadini ed ai proprietari terrieri, a godere dei 65 miliardi di dollari sono sostanzialmente le reti “internazionali” del narcotraffico.
In merito alla crescente produttività, secondo esperti britannici nel 2009 ogni ettaro coltivato a papavero ha reso 56 chili di oppio, il 15% in più rispetto all’anno precedente.
Fonte RIA Novosti, come tutti i dati presenti nell’articolo.

L’arco della crisi afghana si allarga a macchia d’olio

L’Afghanistan è un Paese complesso. Se è vero che Karzai era stato imposto dagli americani otto anni or sono è anche vero che in questo lasso di tempo ha lavorato per avvicinare i vari signori della guerra che avevano cercato di contenere i talebani in tempi non sospetti, né è da dimenticare che furono questi warlords ad entrare per primi a Kabul nell’autunno 2001. Così, a dispetto del suo esordio come uomo di paglia, Karzai ha finito per diventare il punto di convergenza di quelle forze (principalmente i clan tagiki, uzbeki e hazara) che in Afghanistan si oppongono ai talebani. Ed in America si fa sempre più strada l’ipotesi di una cooptazione di gruppi talebani al governo e di una parziale talebanizzazione delle strutture di potere afghane.
Il presidente afghano si stava accorgendo che forse gli USA cercavano di scaricarlo, dopo aver goffamente tentato di trasformarlo in una sorta di capro espiatorio locale dei loro fallimenti. Il rapporto con Karzai è arrivato a rasentare la vera e propria sfida. L’attuale presidente afghano è arrivato al punto di rispondere colpo su colpo a molte accuse lanciategli nell’ultimo mese dall’Occidente. Il ministro afghano che si occupa della lotta alla droga, gen. Khodaidad, si è incaricato di replicare alle accuse rivolte dalla stampa americana ai presunti traffici illeciti del fratello di Karzai chiamando in causa il ruolo delle truppe anglo-americane nel traffico della droga. Khodaidad (che ha studiato alle accademie militari indiane e sovietiche ed è piuttosto conosciuto negli ambienti di questi paesi) ha specificato che britannici e canadesi pongono addirittura una tassa sulla produzione di oppio nelle zone da loro presidiate. Con questa mossa ha aperto il vaso di Pandora, anche se sia i russi, che i cinesi, che gli indiani sapevano già da tempo quale fosse la strategia anglo-americana in merito alla spinosa questione del narco-traffico. Le pressioni esercitate da Washington su Kabul affinché l’Afghanistan fosse meno solerte a collaborare con i paesi confinanti in materia di lotta alla droga rappresentava già un messaggio piuttosto eloquente.
Probabilmente la goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza americana si è avuta quando Karzai si è spinto a chiedere lumi circa i sospetti voli di elicotteri militari britannici che stanno facendo la spola tra il sud ed il nord del paese, trasportando enigmatici personaggi barbuti. Se sotto la spinta dell’esercito pakistano le bande talebane (e affiliate) si ritirano e cercano una dislocazione per compiere i loro propositi, il sospetto affacciato da alcuni osservatori è che i britannici non disprezzino affatto un loro trasferimento verso nord, verso il fiume Amu-Dariya, verso il confine con le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale che in questi anni si sono riavvicinate a Mosca e verso il Turkestan orientale cinese.
L’arco della crisi aperto dall’intervento statunitense nella regione rischia di allargarsi a macchia d’olio, questa volta però gli antagonisti degli USA potrebbero trovarsi trascinati direttamente nel conflitto con danni incalcolabili per tutta la regione.
(…)
Per alleggerire la situazione al fronte e non perdere la partita dietro le quinte i vertici di potere statunitensi sono forse disponibili ad una riconciliazione con parte dei talebani, all’inserimento di alcuni di loro nelle strutture a Kabul e a consentire (se non a incoraggiare) una loro dislocazione nelle aree circostanti, al fine di destabilizzare gli antagonisti degli USA.
Come mostrano anche i nostri media, e come hanno già registrato vari esperti internazionali, i commenti di molti esponenti integralisti che additano la necessità di una “jihad” nello Xingijan o nella valle del Fergana sono in aumento e sembrano fare da “curioso” contrappunto al coro degli strateghi di Washington.
“La priorità di Washington è che i Talebani destabilizzino l’Asia centrale, il Caucaso settentrionale, allo stesso modo della provincia cinese del Xinjiang, e che mettano a soqquadro le regioni orientali dell’Iran”, come ha notato l’ex diplomatico indiano M.K. Bhadrakumar.
Non pare quindi un caso che le fiamme della violenza terrorista riprendano a propagarsi in Caucaso o nel Belucistan iraniano. Probabilmente non lo è nemmeno il fatto che si registri un revival (o quanto meno un rilancio) dei rapporti tra gli USA e l’integralismo islamico di matrice wahhabita nel momento in cui l’uomo che fu l’architetto dell’alleanza tra la CIA ed i mujahiddin afghani (Brzezinski) è tornato, seppur per interposta persona, alla Casa Bianca.
(…)

Da Il teatrino afghano dei burattini, di Spartaco Puttini.

Aree di responsabilità

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All’inizio del ventunesimo secolo, il Pentagono ha completato la divisione del pianeta in “aree di responsabilità” militari attribuite a Comandi Supremi. Niente chiarisce l’ambizione egemonica a stelle e strisce meglio dell’elencazione di queste cinque – poi diventate sei – zone, che coprono tutto il Pianeta e partecipano direttamente al controllo dell’Eurasia. Essendo quest’ultima la vera posta in palio, a partire dalla dottrina Brzezinski fino agli ideologi neoconservatori William Kristol e Lawrence Kaplan i quali affermano testualmente: “La nostra supremazia non può essere mantenuta a distanza. L’America deve al contrario considerarsi sia una potenza europea, sia una potenza asiatica, sia – beninteso – una potenza mediorientale”.
Ebbene, due di questi comandi supremi non sono rilevanti per il nostro discorso. Il primo, il Comando Nord (NORTHCOM), copre il continente nordamericano ed una zona fino a cinquecento miglia marine dalle coste. Il secondo, il Comando Sud (SOUTHCOM), continuazione della vecchia Dottrina Monroe, copre l’America centrale, i Caraibi e l’insieme dell’America meridionale; controlla inoltre il Golfo del Messico, le acque territoriali prospicienti alle coste ed una parte dell’Oceano Atlantico.
Gli altri comandi ci interessano più direttamente, in particolare il terzo, il Comando Europa (EUCOM), la cui area di responsabilità non si limita all’Unione Europea ma include la zona balcanica, Ucraina, Bielorussia, il Caucaso e la Russia fino a Vladivostock. L’EUCOM, rispetto agli altri Comandi, ha una peculiarità: i suoi legami con la NATO. Il comandante dell’esercito statunitense in Europa è infatti anche il comandante supremo delle forze inquadrate nella NATO. Questo doppio comando sempre attribuito ad un alto ufficiale statunitense integra la NATO nella struttura del Pentagono e quindi nella strategia egemonica globale degli USA. Un rapporto di dipendenza che viene ribadito in un documento ufficiale dell’EUCOM quando afferma che “la trasformazione dell’EUCOM sosterrà la trasformazione della NATO”.
Il quarto è il Comando di Centro (CENTCOM) che comprende l’Egitto, il Vicino e Medio Oriente sino al Pakistan e le repubbliche dell’Asia centrale. E’ il comando che conduce le operazioni attualmente in corso in Irak ed Afghanistan, in collaborazione con la NATO.
Il quinto è il Comando Pacifico (PACOM) che ingloba l’India, il Sud-est asiatico, la Cina, il Giappone e le isole del Pacifico. La sua zona marittima si estende dalla costa occidentale del continente americano alla costa orientale dell’Africa, dall’Artico all’Antartico. Può essere considerato la zona cruciale del dispiegamento, per lo spazio che copre, perché ospita il 60% della popolazione mondiale e le sei forze armate più consistenti per numero di effettivi: Cina, India, Russia, Stati Uniti e le due Coree.
Una sesta zona di comando è stata creata nel 2007 per l’Africa. L’AFRICOM dovrebbe diventare operativa entro il 2008, coprendo tutto il continente nero tranne l’Egitto. E’ l’evidente segnale che l’Africa, a causa soprattutto della penetrazione cinese, è oggi una vera posta strategica, non distinta però dall’area eurasiatica, e lo dimostra il fatto che la sede del suo comando si trova in Germania, a Stoccarda, sede anche dell’EUCOM.