La balcanizzazione della Siria può attendere

“Quando Deir Ez Zour fu costruita, non erano ancora presenti i confini dettati dai trattati di Sykes – Picot, non c’erano le entità statali siriane ed irachene, non esistevano avamposti di frontiera né di Damasco e né di Baghdad; quel territorio desertico, attraversato dall’Eufrate, era ancora frequentato soprattutto da beduini e da tribù che si dirigevano verso il fiume per usufruire delle sue acque e permettere loro di continuare a vivere seguendo millenarie tradizioni. Ma soprattutto, quel territorio era ancora parte integrante dell’Impero Ottomano: è proprio qui che i vertici militari di Istanbul nel 1860 avevano deciso di fondare un avamposto militare che poteva beneficiare sia della presenza dell’Eufrate e sia della vicinanza delle vie di comunicazione che collegavano l’occidente con Baghdad; vaste lande di terra, nei secoli rimaste periferiche alle rotte commerciali tanto dei romani quanto della via della seta che, dalla fine del diciannovesimo secolo, potevano diventare improvvisamente strategici luoghi di controllo militare per i sultani. E’ così che ha avuto inizio la storia di Deir Ez Zour, la città che martedì è stata sollevata da un assedio dell’ISIS che durava da più di tre anni; un contesto particolare all’interno della guerra siriana, un vero e proprio conflitto nel conflitto che non mancherà, al netto dell’immotivata scarsa copertura mediatica data dall’Occidente, di inserirsi prepotentemente sui libri di storia nel prossimo futuro. Per comprendere su quale base abbia poggiato una resistenza con pochi precedenti nella storia militare, è bene fare un passo indietro e tornare per un attimo alla storia che ha portato alla nascita prima ed allo sviluppo poi di Deir Ez Zour; due sono stati, in particolare, gli eventi che hanno contribuito nel corso dei decenni alla crescita demografica ed economica di questa città: in primo luogo, il 16 maggio del 1916 Inglesi e Francesi hanno stabilito una linea di confine a pochi chilometri dal suo centro urbano, con i trattati di Sykes – Picot, i quali hanno improvvisamente tracciato un lungo taglio nel cuore del deserto mesopotamico: Per mezzo di questo nuovo confine, da una parte si è dato vita ad un protettorato agganciato a Parigi, dall’altra invece si è assistito al sorgere di una zona d’influenza britannica. In secondo luogo, nella prima metà del ventesimo secolo sono state scoperte importanti riserve petrolifere nel sottosuolo desertico vicino Deir Ez Zour ed ecco quindi che, quello che era sorto come mero avamposto militare ottomano, da adesso in poi diverrà uno strategico centro economico a pochi passi dalla ‘nuova’ frontiera mediorientale voluta da Francia ed Inghilterra al termine della prima guerra mondiale.”

Deir Ez Zour, genesi di una resistenza di Mauro Indelicato continua qui.

Lettera aperta ai ciarlatani della rivoluzione siriana

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Nel momento preciso in cui un dirigente storico della resistenza araba libanese, in Siria, è appena spirato sotto i colpi dell’esercito sionista [qui l’autore si riferisce alla morte di Mustafa Badreddine, avvenuta per mano delle milizie antigovernative, inizialmente attribuita ad una incursione aerea israeliana – ndr], indirizzo questa lettera aperta agli intellettuali e militanti di “sinistra” che hanno preso partito per la ribellione siriana e credono allo stesso tempo di difendere la causa palestinese, mentre sognano tutti presi la caduta di Damasco.
Ci dicevate nella primavera del 2011, che le rivoluzioni arabe rappresentavano una speranza senza precedenti per popoli che subivano il giogo di despoti sanguinari. In un eccesso di ottimismo, noi vi abbiamo ascoltato, sensibili ai vostri argomenti su questa democrazia che nasceva miracolosamente e a tutti i vostri proclami sui diritti umani. Siete riusciti quasi a persuaderci che questa protesta popolare che si è portata via i dittatori di Tunisia ed Egitto avrebbe spazzato via la tirannia ovunque e in ogni altra parte del mondo arabo, sia in Libia che in Siria, nello Yemen come nel Bahrain, e chi sa dove altro ancora.
Ma questo bello svolazzo lirico ha lasciato apparire rapidamente qualche falla. La prima, tanto grande da rimanere a bocca aperta, è apparsa riguardo la Libia. Quando, adottata dal Consiglio di Sicurezza per soccorrere le popolazioni civili minacciate, una risoluzione ONU si trasformò in un assegno in bianco per la destituzione manu militari di un capo di Stato divenuto ingombrante per i suoi partner occidentali. Degna dei peggiori momenti dell’era neo-conservatrice, questa operazione di “regime change” compiuta per conto degli USA da due potenze europee con mire di affermazione neo-imperiale è sfociata in un disastro di cui la sfortunata Libia continua oggi a pagare il caro prezzo. Infatti il collasso di questo giovane Stato unitario portò il Paese alla mercé delle ambizioni sfrenate delle sue tribù, sapientemente incoraggiate alle ostilità dalle bramosie petroliere dei carognoni occidentali.
C’erano anche anime belle comunque, tra di voi, tanto per accordare delle circostanze attenuanti a questa operazione, così come ce n’erano, inoltre, in primo piano per esigere che un trattamento analogo fosse inflitto al regime di Damasco. Questo perché il vento della rivolta che soffiava allora in Siria sembrava convalidare la vostra interpretazione degli eventi e sembrava dare una giustificazione a posteriori al bellicismo umanitario già scatenato contro il potentato di Tripoli. Eppure, lontano dai media di “mainstream”, alcuni analisti ci fecero osservare che il popolo siriano era lontano dall’essere unanime nella protesta e che le manifestazioni anti-governative avevano luogo soprattutto in alcune città, bastioni tradizionali dell’opposizione islamista, e che quel febbricitante ambito sociale, composto dalle classi impoverite dalla crisi, non avrebbe mai portato masse di persone alla causa per contribuire alla caduta del governo siriano.
Questi ammonimenti nostri sull’utilizzare il buon senso nella comprensione, voi li avete ignorati, così come i fatti che non corrispondevano alla vostra narrazione, voi li avete filtrati come vi è sembrato meglio. Li dove degli osservatori imparziali vedevano una divisione in poli della società siriana, voi avete voluto vedere un tiranno sanguinario che assassinava il suo popolo. Li dove uno sguardo spassionato permetteva di discernere le debolezze, ma anche i punti di forza dello Stato siriano, voi avete abusato di una retorica moralizzante per istruire a carico di un governo, che era molto distante dall’essere l’unico responsabile delle violenze, un processo sommario.
Voi avete visto le numerose manifestazioni contro Bashar Al Assad, ma non avete mai guardato i giganteschi raduni di sostegno al governo e alle riforme, che riempirono le vie di Damasco, di Aleppo e Tartous. Voi avete stilato la contabilità macabra delle vittime del governo, ma avete dimenticato quella delle vittime dell’opposizione armata. Ai vostri occhi c’erano vittime buone e vittime cattive, alcune che si meritavano di essere menzionate ed altre di cui non si vuole sentire neanche parlare. Deliberatamente voi avete visto le prime, bendandovi gli occhi per rendervi ciechi di fronte alle seconde.
E allo stesso tempo, questo governo francese, del quale criticate volentieri la politica interna per mantenere l’illusione della vostra indipendenza intellettuale, vi ha dato ragione su tutta la linea. Curiosamente, la narrazione del dramma siriano che era la vostra, coincideva con la politica estera del signor Laurent Fabius, un capolavoro di servilismo che mescolava l’appoggio incondizionato alla guerra israeliana contro i Palestinesi, l’allineamento pavloviano con la leadership americana e la solita minestra riscaldata di ostilità nei confronti della resistenza araba. Ma il vostro apparente matrimonio con la Quai d’Orsay non è mai sembrato darvi troppo fastidio. Voi difendevate i Palestinesi nel cortile mentre cenavate con i loro assassini in giardino. Vi capitava anche di accompagnare i dirigenti francesi in visita di Stato a Israele. Eccovi quindi intruppati e complici, assistere allo spettacolo di un presidente che dichiara pubblicamente che a lui “piaceranno sempre i dirigenti israeliani”. Ma ci voleva molto di più per scandalizzarvi e quindi vi siete imbarcati una nuova volta con il Presidente, come tutti d’altronde.
Avete a giusto titolo condannato l’intervento militare americano in Iraq nel 2003. La virtù rigenerante dei bombardamenti per la democrazia non vi scalfiva, e dubitavate delle virtù pedagogiche delle operazioni belliche chirurgiche. Ma la vostra indignazione nei confronti di questa politica della cannoniera in versione “high tech” si dimostrò stranamente selettiva. Poiché reclamavate a tutti i costi contro Damasco, nel 2013, ciò che giudicavate intollerabile dieci anni prima contro Baghdad.
Un solo decennio è bastato per rendervi così malleabili, tanto da vedere ormai la salvezza del popolo siriano in una pioggia incrociata di missili su questo Paese che non vi ha fatto nulla di male. Rinnegando le vostre convinzioni anti-imperialiste, voi avete sposato con entusiasmo l’agenda di Washington. Mentre senza vergogna non soltanto applaudivate in anticipo i B 52, ma riprendevate la propaganda più becera e grottesca degli Stati Uniti, da cui il precedente iracheno e le sue menzogne memorabili dell’era Bush avrebbero dovuto immunizzarvi.
Mentre inondavate la stampa esagonale delle vostre assurdità, fu proprio un giornalista americano d’investigazione d’eccezione, che sbriciolò la patetica “false flag” destinata a rendere Bashar Al Assad il responsabile di un attacco chimico di cui nessun organismo internazionale l’ha accusato, ma che gli esperti del Massachusetts Institute of Technology e l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche, tuttavia, hanno attribuito alla parte avversa. Ignorando i fatti, travestendovi da qualcos’altro alla bisogna, voi avete recitato in questa occasione la vostra parte miserabile in questo melodramma cacofonico di menzogne. E quello che è ancora peggio, è che continuate a farlo. Anche quando lo stesso Obama lascia intendere che lui stesso non ci ha creduto, voi vi ostinate a reiterare queste stupidaggini, come dei cani da guardia che continuano ad abbaiare anche dopo il dileguarsi dell’intruso. E per quale motivo? Per giustificare il bombardamento, da parte del vostro governo, di un piccolo Stato sovrano, il cui torto maggiore è il suo rifiutare di sottostare all’ordine imperiale. E per cosa? Per venire in aiuto di una ribellione siriana di cui voi avete sapientemente mascherato il vero volto, accreditando il mito di un’opposizione democratica e laica che esiste soltanto nelle halls dei Grand Hotel di Doha, di Parigi o di Ankara.
Questa “rivoluzione siriana”, l’avete dunque esaltata, ma avete pudicamente voltato lo sguardo altrove quando si trattava invece di notare le sue pratiche mafiose, la sua ideologia settaria e i suoi finanziamenti dubbi e carichi di problematiche da porsi. Voi avete accuratamente occultato l’odio interconfessionale che la ispira, questa avversione morbida per gli altri credo direttamente ispirata al wahhabismo che ne è il pilastro ideologico. Voi sapevate bene che il regime baathista, in quanto laico e non settario in senso confessionale, costituiva un’assicurazione a vita per le minoranze religiose, ma non ve ne siete dati pena, arrivando addirittura a classificare come “cretini”, coloro che prendevano la difesa dei cristiani perseguitati. Ma non è tutto purtroppo. Arrivati alla resa dei conti, vi resterà appiccicata addosso anche questa ultima ignominia: voi avete fatto da garanti alla politica di un Laurent Fabius per il quale Al Nusra, ramo siriano di Al Qaida, “ fa un buon lavoro in Siria”. E chi se ne frega! Tanto peggio per i passanti sbrindellati nelle vie di Homs o per gli alauiti di Zahra assassinati dai ribelli, tanto, per i vostri occhi questi sono le ultime ruote del carro.
Tra il 2011 e il 2016 le maschere sono cadute. Fate appello al diritto internazionale mentre applaudite alla violazione dello stesso contro uno Stato sovrano. Pretendete di promuovere la democrazia per i Siriani diventando gli araldi del terrorismo che subiscono. Dite di difendere i Palestinesi, ma siete dalla stessa parte della barricata di Israele. Allora state tranquilli, perché quando un missile israeliano si abbatte sulla Siria non sarà mai che colpirà i vostri beniamini. Perché grazie a Israele e alla CIA, ma anche grazie a voi miei cari, questi coraggiosi ribelli continueranno a predisporre il futuro radioso della Siria sotto l’egida del takfirismo. Perché quel missile sionista, che si abbatterà sulla Siria, ucciderà sicuramente e solo uno dei leader di questa resistenza araba di cui cianciate, ma che voi avete tradito.
Bruno Guigue

Fonte

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“Essere chiamati terroristi dagli USA è un onore”

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Eisa Alì per rt.com

Diario irakeno 10° giorno

Il decimo e ultimo giorno in Irak, vado a parlare con il portavoce di Harakat Nujaba, Sayid Hashim Al Mousawi. Nujaba è guidato da Akram Al Kabi, che gli USA considerano un terrorista per il suo ruolo nella lotta contro le truppe statunitensi e britanniche durante otto anni di occupazione.
Vengo condotto in diversi luoghi e mi viene chiesto di cambiare automobile ogni volta, prima di raggiungere infine un complesso immobiliare a Baghdad, dopo vari posti di controllo presidiati da giovani combattenti, che non avranno più di 21 o 22 anni.
Entriamo e aspettiamo che arrivi Mousawi. Lui arriva dopo circa 10 minuti e si scusa perfino di averci fatto aspettare.
Mousawi è un giovane di circa trent’anni. I suoi occhi rivelano la sua giovinezza ed è gioviale e accogliente. Ѐ una delle persone più interessanti che ho incontrato durante il mio viaggio. Ѐ un uomo colto e istruito, che cita il primo leader sciita Imam Ali (“Le persone sono sia i tuoi fratelli in religione che i tuoi simili in umanità”), insieme a Gandhi (“Ho imparato da Hussain come raggiungere la vittoria pur essendo oppresso”) e anche, mentre si lamentava amaramente per i guai della sua squadra del cuore, il Real Madrid, José Mourinho (“Una squadra con Lionel Messi è inarrestabile”).
Mi dice anche della sua ammirazione per Che Guevara: “Mi piace perché era un ribelle. Mi piace la gente ribelle”.
Sollevo la questione degli USA che considerano il leader del suo gruppo un terrorista.
“Un onore! Se difendere il proprio Paese da un’occupazione è terrorismo, allora è un onore essere chiamati così. Non abbiamo alcun problema con il popolo americano, ma il loro governo non ha portato altro che miseria in Irak.”
Gli ho anche chiesto delle ripetute accuse secondo le quali i gruppi che combattono i militanti dello Stato Islamico (IS, ex ISIS/ISIL) sarebbero settari.
“Abu Bakr Baghdadi dice che dopo Ramadi arriverà a Baghdad e a Karbala. Avremo decine di migliaia di combattenti ad aspettare la sua banda. Abbiamo quattro divisioni di soli combattenti sunniti.”
Una di queste divisioni viene dalla tribù Albu Fahad, la cui opposizione allo Stato Islamico li ha fatti individuare come bersagli. Lo Stato Islamico si riferisce ad essi ed a tutti i sunniti che a loro si oppongono definendoli ‘murtadeen’ (apostati).
“Consegneremo la terra al popolo cui appartiene, i figli sunniti di Anbar,” conferma Mousawi.
Ѐ il mio ultimo giorno in Irak. Ho un’ultima possibilità di incontrare i combattenti Hashd Shabi che si stanno dirigendo verso Ramadi. Anche in questo caso sono giovani e desiderosi di unirsi alla lotta contro il cosiddetto Stato Islamico.
“Non stiamo facendo questo per il governo allo scopo di sedere sulle loro poltrone,” dice un giovane combattente che afferma di venire da Diyala. “Stiamo facendo questo per fermare DAESH (acronimo arabo per IS) prima che sia troppo tardi”.
Questo sentimento nei confronti del governo non è così raro. Possiamo individuare interi quartieri a Baghdad, che sono feudi dei diversi blocchi politici in parlamento e il fenomeno attraversa le divisioni etniche e settarie. Come si guida fuori della Zona Verde, dove hanno sede gli uffici del governo, si incontra una foto di Jalal Talabani (l’ex presidente curdo dell’Irak) da un lato e Ammar Al-Hakim (leader del blocco sciita ISCI) dall’altro. Ogni membro di partito possiede terreni, proprietà ed altri interessi economici.
Trattano anche i portafogli ministeriali del governo come loro proprietà personale. Questo spiega perché il governo iracheno è così diviso e incapace di funzionare in modo coerente.
Partiti diversi con programmi completamente diversi hanno il controllo di interi ministeri e danno lavoro ai loro sostenitori a discapito delle persone più capaci. Ѐ il sistema imposto all’Irak dalle autorità di occupazione con il pretesto di ‘condividere il potere’ ed è stato rafforzato ancor più lo scorso anno, quando il nuovo Primo Ministro Haidar Abadi è stato spinto ad essere più “inclusivo”.
Al mio ritorno a Londra, arriva la notizia di una bomba che ha sventrato alcuni alberghi di Baghdad. Dieci persone, che stavano solo cercando di godersi la serata con la famiglia e gli amici, con le loro speranze e i loro sogni, vengono spazzate via, le loro vite tragicamente stroncate.
Mentre lascio l’Irak, penso a tutti i personaggi che ho incontrato, a tutte le persone che lavorano per aiutare l’Irak a rimettersi in piedi e a tutte le speranze che esprimono. Alcune persone hanno rinunciato a questo bel Paese, dichiarandolo una causa persa, ma il popolo dell’Irak ha ancora una possibilità, nonostante tutti i gravi problemi che affliggono il Paese.
Chiudo con il desiderio di tornare un giorno per continuare a raccontare di questo luogo enigmatico, che viene chiamato ‘la culla della civiltà’.

Traduzione di M. Guidoni

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Calipari misteri irrisolti

“Gabriele Polo, già direttore del Manifesto ai tempi del sequestro Sgrena, racconta con la specifica visuale della sua redazione la vicenda della morte di Nicola Calipari del SISMI a Baghdad. Tra le molte opzioni Polo sceglie quella agiografica che non entra in nessuno (o quasi) dei nodi irrisolti delle varie inchieste e della ricostruzione ufficiale. Non c’è nemmeno un’adeguata sottolineatura delle ragioni che hanno spinto gli italiani (istituzioni e cittadini) a chiamare Calipari “eroe” e il Presidente della Repubblica a conferirgli la medaglia d’oro. L’eroismo dell’uomo che, in quei momenti, rappresentava lo Stato è consistito, non appena iniziata la sparatoria al posto di blocco sulla via dell’aeroporto, nell’avere protetto con il proprio corpo quello della Sgrena, perdendo per questo motivo la vita. Un gesto che non può essere stato istintivo, ma frutto della precisa consapevolezza dei rischi che entrambi e il capitano dei Carabinieri Andrea Carpani, alla guida, stavano correndo. Polo non risponde a nessuno dei perché che, da allora, rimangono sul tappeto. Vediamoli”.

L’articolo-recensione di Domenico Cacopardo continua qui.

Lo strano interesse dell’UNESCO per il patrimonio culturale iracheno

bokovaLa nuova aggressione all’Irak ha portato ancora una volta all’attenzione dei media la questione della distruzione dell’immenso patrimonio culturale di questo Paese.
Ѐ dal 2003 che la storia dell’Irak viene bombardata. Il Museo Archeologico di Baghdad, uno dei musei archeologici più importanti del mondo, custodiva reperti che risalivano alle origini della civiltà mesopotamica, a cui dobbiamo, fra l’altro, l’origine della scrittura, risalente a oltre 5000 anni fa. All’epoca dell’aggressione esisteva un Ufficio per la ricostruzione e l’assistenza umanitaria (Orha). Lo scrisse il periodico britannico “Observer” il 20 aprile 2003. Secondo un memorandum dell’Orha sottoposto al Pentagono, tra le priorità che spettavano ai soldati USA c’era quella di proteggere il Museo, al secondo posto subito dopo la Banca nazionale irachena. Ma i soldati americani non fecero nulla per proteggerlo. Difesero solo il Ministero del Petrolio, che figurava invece al sedicesimo posto nella graduatoria delle priorità da difendere. La Biblioteca di Baghdad venne incendiata, sotto lo sguardo indifferente dei soldati occupanti, mentre la ziggurat della favolosa città reale di Ur veniva deturpata dai volgari graffiti dei soldati nordamericani.
Dopo oltre dieci anni di distruzioni e saccheggi, la preoccupazione dell’UNESCO per il futuro del patrimonio culturale iracheno suona quasi beffarda.

Ecco il testo dell’appello per salvare il patrimonio culturale dell’Irak, pubblicato di recente sul sito dell’Unesco.

30.09.2014 – UNESCOPRESS
Un appello per salvare il patrimonio culturale iracheno
Il patrimonio culturale dell’Irak è in pericolo ed ha urgente bisogno di protezione. Questa è stata la conclusione dei partecipanti al convegno tenutosi il 29 Settembre presso la sede dell’UNESCO a Parigi. L’evento è stato organizzato dalle delegazioni di Francia ed Irak all’UNESCO.

L’incontro è stato aperto da Irina Bokova, Direttore Generale dell’UNESCO e dagli Ambasciatori e Delegati Permanenti di Francia e Irak all’UNESCO, rispettivamente Philippe Lalliot e Mahmoud Al-Mullakhalaf. Essi hanno esaminato lo stato del patrimonio culturale iracheno prima di aprire la discussione sul modo migliore di proteggerlo.
L’urgenza dell’azione è di primaria importanza. I siti culturali iracheni, come la Tomba di Giona a Mosul, i Palazzi Assiri, le chiese ed altri monumenti sono distrutti e saccheggiati. Cresce la preoccupazione che i beni saccheggiati possano diventare oggetto del traffico internazionale. Proteggere questo patrimonio, anche nel corso di un conflitto, è un imperativo, hanno insistito i partecipanti.
“Potremmo sentirci a disagio nel denunciare i crimini contro il patrimonio culturale quando orribili atti di violenza vengono commessi contro la gente. Ѐ giusto essere preoccupati per la distruzione culturale quando i morti vengono contati a decine di migliaia? Sì, assolutamente,” ha affermato l’Ambasciatore Lalliot. “Perché la distruzione del patrimonio culturale che porta con sé l’identità di un popolo e la storia di un Paese non può essere considerata un danno collaterale o secondario da sottovalutare. Ha la stessa importanza della distruzione della vita umana.”
Il conflitto in corso è anche un conflitto contro la cultura e, per estensione, contro l’identità di un popolo.
“Il patrimonio culturale islamico, cristiano, curdo ed ebreo, fra gli altri, viene intenzionalmente distrutto o attaccato in quella che è chiaramente una forma di pulizia culturale”, ha avvertito Irina Bokova. “Siamo seriamente preoccupati per la quantità del traffico di beni culturali, a causa del quale l’Irak ha già tanto sofferto negli ultimi dieci anni.”
Non ci sono statistiche su questo traffico. Tuttavia, si teme che molte statue ed altri oggetti possano essere già caduti nelle mani di pochi mercanti d’arte senza scrupoli.
Qais Hussein Rashied, Direttore del Museo di Baghdad, ha confermato che uno dei gruppi estremisti islamici in Irak “ha intrapreso scavi per vendere (oggetti) in Europa e in Asia attraverso intermediari in Paesi vicini.” “Queste vendite stanno finanziando il terrorismo ,” ha detto, aggiungendo che alcune opere di inestimabile valore – spesso hanno più di 2.000 anni – hanno già lasciato il Paese.
“Proteggere il patrimonio culturale iracheno deve essere parte dello sforzo per consolidare la pace,” ha detto Mahmoud Al-Mullakhalaf, che si è rivolto a tutti gli Stati membri delle Convenzioni dell’UNESCO, tra cui la Convenzione del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, la Convenzione del 1970 sul traffico illecito dei beni culturali, e la Convenzione sul Patrimonio Mondiale del 1972 “per combattere il terrorismo, per sconfiggerlo e per aiutarci a ripristinare il nostro patrimonio.”
I partecipanti hanno concordato che è necessaria una risposta concertata per affrontare le minacce. Hanno accolto con favore le iniziative intraprese nel corso degli ultimi mesi dall’UNESCO per mettere in allerta le autorità e il pubblico sulla minaccia che sta di fronte al patrimonio culturale dell’Irak e per mobilitare la comunità internazionale.
In collaborazione con le autorità irachene, l’UNESCO ha chiesto la massima vigilanza da parte dei grandi musei del mondo, del mercato dell’arte, dell’Interpol e delle altre organizzazioni partner nella lotta contro il traffico illecito ed ha condiviso rilevanti informazioni sul patrimonio culturale dell’Irak con tutte le parti coinvolte negli attacchi aerei.
L’UNESCO ha inoltre chiesto che il Consiglio di Sicurezza adotti una risoluzione che vieti ogni commercio di beni culturali iracheni e siriani.
La scorso 17 Luglio, l’UNESCO ha riunito i maggiori esperti e partner per lanciare un Piano di Azione per la Salvaguardia del patrimonio culturale dell’Irak.
Infine, lo scorso 22 Settembre, il Direttore Generale, insieme al Segretario di Stato USA John Kerry, ha partecipato a un evento tenutosi presso il Metropolitan Museum di New York dal titolo “Minacce al Patrimonio Culturale in Irak e in Siria”, dove ha messo in evidenza gli sforzi compiuti per proteggerlo.

(Traduzione e introduzione a cura di Marcella Guidoni)

Divi di (quello) Stato

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L’attore comico statunitense Stephen Colbert (al centro, fra le donne soldato) saluta le truppe presso l’Al Faw Palace di Camp Victory a Baghdad, Iraq, il 5 giugno scorso.
Qui altre foto ed un resoconto dell’Operation Iraqi Stephen: Going Commando: “In order to prepare for the trip, Colbert attended basic training at Fort Jackson…”

[Dietro le quinte di Hollywood]

Nervosismo italiano in Afghanistan

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La notizia dell’uccisione di una bambina e del ferimento dei suoi parenti, da parte di soldati italiani in Afghanistan, ci riempie di dolore e ci fa istintivamente condannare l’accaduto, attribuendo esso alla reiterazione della volontà dei governi italiani a mantenere truppe in quel teatro di guerra, pur sapendo che esse vanno incontro sempre più a rischi per se stessi oltre che al ripetersi di deprecabili incidenti come quello accaduto.
Le circostanze del fatto, così come sono state spiegate dai portavoci militari italiani, squarciano parzialmente il velo di silenzioso riserbo che ultimamente è caduto sulla nostra presenza militare in Afghanistan e sulla ulteriore decisione di rafforzare, anche su richiesta del presidente USA Obama il nostro contingente militare.
“… Più aerei, più mezzi più uomini, sperando che questo serva a dare quel colpo di grazia alla guerriglia talebana più intransigente e cercando la collaborazione dei talebani moderati, ovvero i signori dell’oppio più malleabili all’odore dei dollari.”…
Purtroppo nel frattempo la situazione sul campo è tesissima, se dobbiamo vederla analizzando quanto è successo oggi e i nervi, anche per i soldati più esperti, sono a fior di pelle.
Se a soli quattro chilometri del campo militare più importante della zona di Herat, tre mezzi militari potentemente armati e blindati vedendo arrivare, anche se a velocità sostenuta, sulla sua naturale corsia di marcia una macchina, si son sentiti tanto minacciati per porre in essere manovre quali quelle che hanno poi portato al tragico incidente, dobbiamo dire che la situazione anche per noi italiani è molto grave e dà troppo l’impressione di reazione da contingente assediato, per lo meno psicologicamente.
Le circostanze ci ricordano amaramente un altro incidente, quello in cui furono coinvolti l’agente dei servizi Calipari e l’inviata del Manifesto qualche anno fa, a Baghdad.
Anche lì si parlò di velocità sostenuta dell’auto italiana, che il marine aveva fatto i segnali luminosi atti a far segnalare l’alt alla macchina dei Servizi italiana , che il marine avesse sparato in aria e poi solo una piccola raffica e che l’autista dell’auto non si era voluto ostinatamente fermare se non dopo il fattaccio.
(…)
La cosa più grave è poi il fatto che ben tre mezzi dopo aver fatto fuoco contro un’automobile sospetta, se la siano svignata senza curarsi di sapere che cosa avevano combinato o neanche provare ad inseguire probabili terroristi che avrebbero potuto fare qualche macello contro altri colleghi e che solo in seguito hanno saputo che ben diversi erano gli occupanti dell’auto sospetti, beh… questa suona proprio come la balla raccontata dal marine Lozano sulla strada dell’aeroporto di Baghdad!
Quale sarà la naturale conclusione delle inchieste aperte sul caso?
Due sono le possibili soluzioni:
1) i soldati che hanno fatto fuoco così prontamente ed efficacemente come da disposizioni ricevute avranno un encomio;
2) il responsabile della pattuglia, i diretti superiori, generali compresi, che hanno impartito le regole d’ingaggio tali da portare a questo incidente, dovranno essere tutti processati non lasciando solo o soli coloro che hanno materialmente premuto il grilletto.
L’esperienza c’insegna che la prima soluzione sarà in pole position per il verdetto finale.

Da Il ferimento della bambina afgana e il caso Calipari, di Antonio Camuso.

Air Jordan e la Benemerita

Roma, 9 dicembre – Il capo del Comando centrale americano, il generale David Petraeus, elogia il lavoro svolto in Irak dai Carabinieri e da Anna Prouse, la 38enne italiana a capo del Prt (il Provincial Reconstruction Team) della provincia meridionale di Dhi Qar in cui si trova Nassiryah. ”I Carabinieri sono messi su un piedistallo rispetto alle forze di polizia militare di altri Paesi. Quando le forze della polizia irachena si addestrano con loro, si sentono come se giocassero con Michael Jordan”, ha affermato, citando il campione americano di basket, il capo del Comando centrale americano nella conferenza che ha tenuto questo pomeriggio a Roma al Centro studi americani.
(Adnkronos)

Casi d’intelligence – vite esemplari

Sonia Mancini, quarant’anni, livornese.
Tenente della Riserva selezionata dell’Esericito Italiano, da oltre cinque mesi a Baghdad è il capo dell’ufficio Affari Pubblici nella missione NATO di addestramento delle forze di sicurezza irakene. In tale veste, è la portavoce del generale di divisione Paolo Bosotti, vice comandante della missione.
Dopo un corso di addestramente della durata di due mesi, svolto presso la Scuola di Applicazione ed Istituti di Studi Militari a Torino, ora fa parte del gruppo degli “esperti della Comunicazione”. L’Esercito può inviarla in un teatro operativo per un periodo complesivo di ventiquattro mesi.
Oggi lavora per lo più nella blindatissima Zona Verde di Baghdad, incontrando giornalisti iracheni e stranieri, accompagnando il generale Bosotti nelle riunioni con politici e militari, impartendo lezioni di comunicazione ad ufficiali, funzionari e dirigenti locali. Di notte, dorme in un container mimetizzato, coperto da sacchi di sabbia. Compagna di stanza un’ufficiale danese. I momenti di relax – con altri militari di vari Paesi, diplomatici, funzionari internazionali e contractors – li trascorre vicino alla piscina della vecchia ambasciata statunitense.
Quando va male, ci sono i bunker, dipinti di giallo fluorescente, che dice di non perdere mai di vista. A chi le chiede se tale situazione non sia un po’ claustrofobica, risponde: “Claustrofobico stare a Baghdad e volare su un elicottero Black Hawk ogni settimana? No, lo assicuro… E’ bellissimo!”.
Difatti, ora che sta scadendo il suo primo mandato, spera che le rinnovino l’incarico.

Ah, dimenticavamo. Nella vita fa la giornalista, a La7. Assunta a tempo parziale.

Carabinieri a Baghdad

Come di consueto non sono stati forniti molti dettagli circa la nuova missione dei Carabinieri in Irak, rivelata dal settimanale Panorama nell’estate del 2007. Quel che è certo è che si tratta di una missione addestrativa messa a punto nell’ambito del programma della NATO di assistenza alle forze militari e di sicurezza irachene (NATO Training Mission – Iraq).
L’Italia ricopre un ruolo di primo piano nell’accademia istituita allo scopo nella località di Rustamyah, vicino Baghdad, dove operano una novantina di istruttori italiani ed il generale Paolo Bosotti (prima di lui, Alessandro Pompegnani) ha l’incarico di vice-comandante .
I Carabinieri selezioneranno e addestreranno in due anni 8 battaglioni, composto ognuno da 400 agenti iracheni, alle tecniche anti-sommossa, anti-guerriglia ed anti-terrorismo. Il personale iracheno a sua volta svolgerà compiti di istruttore per altre sei brigate (24 battaglioni) che rappresenteranno l’elite della Iraqi National Police.
In pratica si tratta di costituire reparti simili come struttura e formazione alle unità MSU (Multinational Specialized Unit) che l’Arma ha creato dieci anni or sono per l’impiego nei Balcani in ambito NATO e che hanno operato anche in Irak durante l’operazione Antica Babilonia.
Gli istruttori insediatisi a Camp Dublin, una base statunitense situata nei pressi dell’aeroporto di Baghdad, provengono quindi in gran parte dalla Seconda Brigata Mobile – la grande unità dei Carabinieri per le operazioni all’estero con comando a Livorno e composta dai reggimenti 13° e 7° di Laives (Bolzano) e Gorizia – e dal reggimento paracadutisti Tuscania, mentre per le specializzazioni più tecniche potrebbero essere impiegati anche istruttori del Gruppo Intervento Speciale (GIS).
Costi? Il decreto “Milleproroghe” del febbraio 2008 ha stanziato per l’anno in corso poco più di 8 milioni di euro. A marzo è iniziata la terza sessione di addestramento, agli ordini del colonnello Fabrizio Parrulli.

Basi USA in Irak

La legge di bilancio supplementare per le operazioni militari in Irak, siglata dal Presidente Bush nel maggio 2005, quantificava i fondi per la costruzione delle basi destinate ad ospitare i soldati statunitensi, descrivendole come “in alcuni casi molto limitati, insediamenti a carattere permanente”. All’epoca, le forze armate USA occupavano in Irak 106 installazioni, secondo il Washington Post che riportava inoltre l’intenzione dei responsabili militari di consolidare queste installazioni in quattro grandi basi aeree. In verità, altre fonti – riferendo della volontà statunitense di instaurare un rapporto di lunga durata con il nuovo governo iracheno – già precedentemente avevano accennato a progetti per molte più basi permanenti, esattamente nel numero di 14.
Secondo l’Iraq Study Group, alla fine del 2006 c’erano in Irak ancora 55 basi statunitensi, e le richieste finanziarie del Pentagono nel 2007, necessarie per costruire enormi sale di ristorazione, nuove piste di atterraggio e varie altre infrastrutture, difficilmente potrebbero essere interpretate come l’indicazione di un imminente ritiro. L’accordo di sicurezza fra Stati Uniti ed Irak che dovrebbe essere firmato dal nuovo governo iracheno che uscirà dallo scrutinio del prossimo ottobre, andrà molto probabilmente a legalizzare le seguenti 14 basi militari permanenti, che al termine dei lavori di approntamento saranno capaci di ospitare circa 80.000 uomini in vista di future operazione nella regione:
1. Zona Verde di Baghdad: attualmente ospita gli uffici delle maggiori società di consulenza statunitensi e l’ambasciata USA, la più estesa mai realizzata al mondo (pari a sei volte la sede dell’ONU a New York);
2. Camp Falcon – Al Sarq nei pressi di Baghdad, con una capacità di 5.000 uomini;
3. Camp Victory – Al Nasr a 5 km dall’aeroporto internazionale di Baghdad, potrà ospitare più di 14.000 soldati;
4. Camp Anaconda – Balad Air Base, la più grande infrastruttura logistica statunitense in Iraq (15 miglia quadrate e capace di ospitare fino a 20.000 uomini), è il secondo aeroporto al mondo per volume di traffico, superato soltanto da quello londinese di Heathrow;
5. Camp Taji, precedentemente sede della Guardia Repubblicana irachena, ora contrassegnato da un Burger King ed un Pizza Hut;
6. Al Taqaddum Air Base, nell’Iraq centrale ad una settantina di chilometri dalla capitale;
7. Camp Fallujah, localizzata nell’area più problematica di tutto il Paese;
8. Camp Speicher nei pressi di Tikrit, 170 chilometri circa a nord di Baghdad;
9. Camp Al Qayyara, 80 chilometri a sud-est di Mossul;
10. Camp Marez, presso l’aeroporto della stessa Mossul;
11. Camp Renegade, strategicamente insediata vicino ai giacimenti petroliferi, raffinerie ed impianti petrolchimici della città di Kirkuk;
12. una base di cui non si conosce il nome né l’esatta localizzazione, in via di costruzione nell’area fra Erbil e Kirkuk;
13. Al Talil Air Base, a pochi chilometri da Nassiriyah;
14. infine la Patrol Base Shocker, operativa dal novembre 2007, è situata a ridosso del confine con l’Iran presso la città irachena di Badrah ed ospita un centro di intelligence militare e civile che tiene sotto controllo le attività dell’ingombrante vicino.

La versione americana della colonia è la base militare

Pur in presenza di un debito estero da capogiro, oltre 8.000 miliardi di dollari nel 2007, il bilancio militare degli Stati Uniti ha superato i 625 miliardi durante lo stesso anno e raggiungerà i 640 nel 2008 (in confronto ai 47 della Russia ed ai 43 dell’intera Unione Europea…). Alla fine degli anni settanta, esso ammontava a circa 100 miliardi, era triplicato all’inizio degli anni novanta, nel 2001 era pari a 404 miliardi. Nel 2006 corrispondeva al 3,7% del Pil statunitense ed a poco meno di mille dollari procapite.
Certo, c’è da dire che gli Stati Uniti mantengono 700 e più installazioni militari (il numero non è definibile in modo certo, per motivi di segretezza) in Europa, Africa, Vicino Oriente, Golfo Persico, Asia Centrale, Oceania ed Estremo Oriente, ed in mare una forza aereonavale di 9 portaerei, 75 sommergibili ed uno stuolo di incrociatori, fregate lanciamissili, corvette e naviglio di difesa costiera, scorta ed appoggio.
Secondo il Rapporto Gelman, militari statunitensi sono presenti in 156 Paesi mentre le basi militari sono installate in 63 Stati di quattro continenti. Con quelle del territorio metropolitano e dei loro possedimenti, le basi coprono una superficie totale superiore a 2 milioni di ettari, cosa che fa del Pentagono uno dei più grandi proprietari terrieri del pianeta.
Il numero totale di personale civile e militare statunitense residente in permanenza fuori dal territorio metropolitano è stimato, anche se fluttuante, in 366.000 unità. Di questi, 116.000 sono di stanza in Europa, di cui 75.000 circa in Germania. Secondo le statistiche del Dipartimento della Difesa statunitense, riferite al 31 dicembre 2005, circa 271.000 di queste unità sono di personale militare: 96.000 operano in Paesi Nato, e l’Italia ne ospita più di 11.000. Non meno significativi i contingenti dispiegati in Giappone (35.000) e Corea del Sud (30.000).
L’operazione Iraqi Freedom è condotta da 207.000 effettivi, quella Enduring Freedom in Afghanistan da 20.400: di questi, una percentuale di circa il 10% è stata dislocata a partire dai contingenti statunitensi sparsi nel mondo (in particolare, dalla Germania).
Per la gestione del centro di detenzione di Guantanamo, dulcis in fundo, sono impiegati circa 1.000 soldati.

Le statistiche ufficiali, per quanto accurate, mancano di menzionare alcuni importanti insediamenti: ad esempio, il Base Structure Report del 2003 non nominava l’immensa base di Camp Bondsteel in Kosovo, e diversi altri insediamenti in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait,  Qatar e Kirghizistan,ed Uzbekistan. Nemmeno citava importanti infrastrutture militari e spionistiche presenti nel Regno Unito, a lungo convenientemente classificate come basi dell’aviazione britannica.
Usando onestà, probabilmente si arriverebbero a contare non meno di 1.000 installazioni militari statunitensi in Paesi stranieri, ma nessuno – allo stato attuale neanche lo stesso Pentagono – è in grado di determinare questa cifra con certezza.

Alcune curiosità, per finire:
– alla base di Camp Anaconda, vicino a Baghdad, sono in funzione nove linee di autobus interne per trasportare i soldati ed il personale civile nel suo perimetro di 25 kmq;
– negli ospedali militari delle basi all’estero è proibito, alle 100.000 donne che vivono in esse (comprese quelle che ivi lavorano, mogli e congiunte dei soldati), sottoporsi ad operazioni di aborto;
– la base di Camp Lemonier a Gibuti, storico insediamento della Legione Straniera Francese, oggi è occupata da quasi 2.000 soldati statunitensi, a presidio dell’ingresso al Mar Rosso;
– fra i numerosi progetti di nuove basi (loro lo chiamano “riposizionamento”), gli Stati Uniti pensano di mettere sotto il loro diretto controllo un’area pari a quasi un quarto dell’intera superficie del Kuwait, dove organizzare i rifornimenti del contingente impiegato in Iraq e consentire ai burocrati della cosiddetta Zona Verde di Baghdad di “ritemprarsi” (lontano dagli ormai quotidiani tiri di mortaio della resistenza irakena…).

Un tempo, era possibile tracciare la diffusione dell’imperialismo contando il numero di colonie sparse per il mondo.
La versione americana della colonia è la base militare.