La geopolitica vaccinale strumento di controllo USA sull’Europa

“La geopolitica vaccinale, con il dominio semi-monopolistico del gruppo Pfizer (amministrato da un “good friend” di Joe Biden, l’ebreo “greco” Albert Bourla) sull’Occidente, al pari del colpo di Stato atlantista in Ucraina nel 2014, si è dimostrata uno strumento assai efficace per riaffermare il controllo nordamericano sull’Europa. E lo stesso avvento al potere in Italia (tra il giubilo della quasi totalità della classe politica e del mondo dell’informazione generalista) dell’ex banchiere di Goldman Sachs Mario Draghi (già in ottimi rapporti con l’avanguardia politico-economica dell’atlantismo, il Gruppo Bilderberg creato da CIA ed MI6) deve necessariamente essere interpretato alla luce di questi fatti. Il suo ruolo è sì quello di “curatore fallimentare” di uno Stato in evidente sfacelo socioeconomico ed ormai privo di qualsiasi autonomia strategica. Tuttavia, allo stesso tempo, questo “curatore” deve fare in modo che le rimanenti risorse italiane vengano (s)vendute in modo corretto; e che tale (s)vendita avvenga in modo controllato e concentrando l’attenzione dell’opinione pubblica sull’invasività dell’evento pandemico con tutte le sue sfaccettature: dal certificato verde al corollario di scienziati (o pseudo tali) che dicono tutto ed il contrario di tutto, fino alla sterilissima polemica novax/provax che evita scientemente di rimarcare il portato geopolitico dell’affermazione di un modello di capitalismo della sorveglianza che si presenta come naturale evoluzione del modello occidentale (quello impiantato in Europa dopo il 1945) e non come instaurazione di un qualcosa ad esso estraneo.

Non sorprende che, dal momento del suo insediamento, il governo Draghi (spinto anche dal ministro ultratlantista della Lega Giancarlo Giorgetti) abbia utilizzato lo strumento del Golden Power ben tre volte per evitare l’acquisizione da parte di gruppi cinesi di aziende italiane che operano in specifici settori. L’ultimo caso è quello della Zhejiang Jingsheng Mechanical, alla quale è stato impedito di acquisire il ramo italiano di Applied Materials, azienda che opera nel settore dei semiconduttori. Nel marzo del 2021, sempre nel settore dei microchip, aveva impedito l’acquisizione del 70% di Lpe da parte del gruppo Shenzen Invenland Holding, mentre ad ottobre il Golden Power era stato esercitato per impedire gli sforzi del colosso agrochimico Syngenta per assumere la guida del gruppo agroalimentare romagnolo Verisem.

Al contempo, il governo italiano non ha palesato nessuna particolare preoccupazione di fronte al tentativo di acquisizione di TIM da parte del fondo nordamericano KKR & Co. Cofondatore del gruppo è l’ebreo statunitense Henry Kravis, ben inserito nel già citato Gruppo Bilderberg (insieme ai proprietari dell’importante gruppo editoriale italiano GEDI). Non c’è da stupirsi se al KKR fa riferimento anche l’Axel Springer Group, che possiede i giornali tedeschi (apertamente anticinesi) Die Welt e Bild. Inoltre, non è da dimenticare il ruolo che all’interno dello stesso KKR ha avuto l’ex generale e direttore della CIA David Petraeus e la partecipazione del gruppo al programma Timber Sycamore di finanziamento e assistenza logistica dei “ribelli” siriani.

Così come non vi è stato nessun particolare sussulto di orgoglio nel momento in cui Fincantieri, fermata da un patto anglo-australiano che ha fatto da apripista al più celebre (ed allargato agli USA) AUKUS, ha perso una commessa di 23 miliardi per la fornitura di fregate Fremm alla Royal Australian Navy.

Il ruolo di Draghi come agente degli interessi atlantisti in Europa è di lunga data. Quando era guida della BCE, il suo compito fu quello di contrastare la potenza della più grande banca centrale europea, la Bundesbank. L’obiettivo, neanche troppo velato, era quello di porre un freno al “problema” del surplus commerciale tedesco che costituiva un fattore indesiderato di non poco rilievo nel progetto di riaffermazione dell’egemonia nordamericana sull’Europa. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’appoggio statunitense alla creazione di una moneta unica europea venne garantito proprio dalla speranza che costringere la Germania a rinunciare al Marco potesse impedirne un eccessivo rafforzamento. Al contrario, Berlino è stata comunque capace di creare un enorme ed integrato blocco manifatturiero che include tutte le regioni industriali vicine ai confini tedeschi. Ha approfittato e tratto vantaggi notevoli dai cambi depressi rispetto all’Euro vigenti nei Paesi dell’est ed ha scaricato su di essi e sull’area mediterranea il costo della moneta unica, favorendo al contempo le esportazioni tedesche.

In questa operazione di controllo della Germania (sia in termini di eccessivo potere all’interno dell’Europa che in termini di aspirazioni alla costruzione di un rapporto privilegiato con la Russia) deve essere inserito anche il recente Trattato del Quirinale tra Francia e Italia sotto la supervisione del Segretario di Stato USA Antony Blinken. A questo proposito è bene sottolineare il fatto che il ruolo di ago della bilancia tra Germania e Francia era stato storicamente riservato alla Gran Bretagna. Nel corso dei secoli, il Regno Unito si è alleato a seconda della propria convenienza con l’una o l’altra sempre al preciso scopo di impedire una reale unificazione continentale: ciò che le potenze talassocratiche (Regno Unito prima e Stati Uniti poi) hanno sempre considerato come una minaccia esistenziale nei confronti dei rispettivi disegni egemonici.

Oggi, dopo la Brexit (nonostante la Gran Bretagna continui ad esercitare il suo nefasto ruolo in diversi teatri, dalla Polonia all’Ucraina), si è voluto attribuire questo compito all’Italia di Mario Draghi, che, assieme alla Francia, eserciterà anche un ruolo di controllo all’interno del Mediterraneo per fare in modo che l’egemone reale possa concentrare i propri sforzi nel contenimento della Cina (sempre più capace di intervenire anche nel “cortile interno” degli USA, come dimostrato dall’interruzione delle relazioni diplomatiche tra Taiwan e Nicaragua). Nell’articolo 2 del Trattato si legge: “le Parti s’impegnano a promuovere le cooperazioni e gli scambi sia tra le proprie forze armate, sia sui materiali di difesa e sulle attrezzature, e a sviluppare sinergie ambiziose sul piano delle capacità e su quello operativo ogni qual volta i loro interessi strategici coincidano. Così facendo, esse contribuiscono a salvaguardare la sicurezza comune europea e rafforzare le capacità dell’Europa della Difesa, operando in tal modo anche per il consolidamento del pilastro europeo della NATO”.

Di fatto, il Trattato del Quirinale altro non è che l’ennesima biforcazione interna alle strutture di potere dell’atlantismo.”

Da Geopolitica del draghismo, di Daniele Perra.

Il grande inganno

Povertà, disoccupazione, disuguaglianza sociale non sono frutto del destino cinico e baro ma di una precisa scelta politica che è giunto il momento di contrastare.

Per i programmi di acquisto di titoli attivati dalla BCE a partire dal 2011 sono stati spesi 3.315 miliardi di euro.
Tremilatrecentoquindicimiliardi miliardi di euro, il 185,5% del PIL Italiano. Il 20,13% del PIL dell’intera UE. Creati dal nulla.
La BCE ha però puntualmente fallito il suo già ridicolo obiettivo inflazionistico, quello del 2%.
Questo perché mentre non esiste praticamente nessun legame tra l’emissione di moneta e l’inflazione, esiste invece un legame molto forte tra occupazione, salari e inflazione.
L’Unione Europea questo lo sa bene. E infatti per rispettare il suo folle mandato della stabilità dei prezzi si è inventata la disoccupazione naturale. O NAIRU (Non-accelerating inflation rate of unemployment).
Guarda caso sono decenni che quello dell’Italia oscilla proprio intorno a quella disoccupazione che i tecnocrati UE hanno stabilito dover essere “naturale” per l’Italia. E cioè circa il 10%.
Ecco perché in Italia mancano milioni di dipendenti pubblici (almeno 2,5 rispetto a Francia e Inghilterra).
Ecco come siamo arrivati ad avere 4,5 milioni di poveri assoluti e 9 milioni di italiani in condizioni di povertà relativa, quasi 14 milioni di inattivi e più di 2 milioni di disoccupati, 12 lavoratori su 100 che vivono sulla soglia della povertà a causa dei salari troppo bassi. 4,3 milioni di lavoratori part time, di cui 2 su 3 involontari.
Ecco perché in Italia mancano quasi del tutto infrastrutture degne di un Paese civile, soprattutto nel centro-sud.
Non c’è una rete autostradale degna di questo nome, sotto Roma. Della rete ferroviaria, meglio non parlare.
Non ci sono fabbriche e industrie a sufficienza, nel Sud Italia.
Non c’è lavoro in Italia, soprattutto nel Sud. E quando c’è, i salari sono indecenti.
Ecco perché ogni anno circa 250.000 giovani sono costretti a scappare dal Sud al Nord del Paese. Questo mentre altrettanti giovani del Nord sono costretti a scappare all’estero.
A volte a fare la fortuna di un Paese straniero, a volte a fare i lavapiatti, ma con la paura e la vergogna di tornare indietro dopo aver fallito. Quando a fallire è stata la classe politica che li ha costretti a fuggire.
Una insopportabile beffa che si aggiunge al danno di spendere milioni di euro per i nostri giovani, per il futuro del Paese, e lasciare poi che vadano a fare le fortune di altri Paesi. Perdendoci doppiamente.
Avremmo da fare per le prossime 5 generazioni, almeno. Avremmo gli uomini, le competenze, le materie per costruire un novo Paese, finalmente unito. Da Nord a Sud.
Unito con le autostrade, unito con i treni, ma soprattutto unito nei salari e nel benessere.
Eppure da decenni ci dicono che tutto questo non sia possibile perché il mezzo di comunicazione finanziario per mettere in connessione due bisogni reali, che non hanno scarsità del bene da scambiare, ma della valuta che regola questo scambio.
Perché “Mancano i soldi”, insomma.
Quella della mancanza di soldi è la scusa più vecchia del mondo. È quella che usano per giustificare il nostro progressivo impoverimento mentre loro aumentano indegnamente la percentuale di ricchezza sul totale.
Non mancano mattoni, ferro, cemento, materie da lavorare, da trasformare che giustifichino tutti i poveri e i disoccupati. Che giustifichino tutta questa disperazione.
Si tratta solo di un modello economico fondato sulla scarsità, sulla privazione, dal lato della domanda. E sullo spreco dal lato dell’offerta.
La povertà, la disoccupazione, la disuguaglianza sociale, le milioni di vite distrutte, il futuro strappato alle nuove generazioni costrette a emigrare.
Tutte queste atrocità non sono frutto del destino cinico e baro. Sono una precisa scelta politica.
Dettata da tornaconto personale di pochi e dalle false credenze di alcuni.
Sulle quali ci si sta però giocando la vita, i sogni, le speranze, il futuro di intere popolazioni.
Gilberto Trombetta

(Modificato il 7/10/2020)

Redde rationem


Bene, direi che ci siamo, è il redde rationem.
La Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe ha accolto in parte, ma una parte decisiva, il ricorso che era chiamata a valutare.
I giudici tedeschi dicono essenzialmente tre cose:
1) Viene contestata come inadeguatamente motivata l’iniziativa per cui la BCE ha deviato dal principio di proporzionalità nei suoi acquisti di titoli (acquistandone di più dai paesi con maggior debito pubblico, per calmierarne gli interessi). La Corte tedesca sostiene che questo può diventare un finanziamento monetario del deficit, che non è consentito dai trattati vigenti né dalle leggi tedesche.
2) I giudici di Karlsruhe respingono la precedente sentenza della Corte di giustizia europea, affermando che in nessun caso la BCE (tramite le banche centrali nazionali) può detenere più del 33% del debito di ciascuno stato.
3) Essi infine contestano il fatto che la BCE si stia muovendo come un organo con autonomia politica, al di fuori del suo mandato, che la vincola a compiti di sorveglianza monetaria.
Se entro tre mesi la Bundesbank non darà adeguate e convincenti risposte essa sarà obbligata a ritirarsi dagli interventi della BCE, rendendoli di fatto impossibili.
In sostanza i giudici costituzionali tedeschi hanno messo nero su bianco quello che tutti sapevano, ma nessuno voleva ammettere.
L’Unione Europea e il suo apparato normativo, a partire dallo statuto della BCE, incarnano un progetto neoliberista nato negli anni ’80, che intendeva esplicitamente minimizzare i margini di intervento degli Stati in termini di politica economica, e che promuoveva (e promuove) un sistema di pura concorrenza economica, non di solidarietà, né di cooperazione.
Ciò che dicono i giudici costituzionali tedeschi è sacrosanto e irrefutabile dal punto di vista legale (anche se ha il difettuccio di venir fuori proprio in un momento in cui robuste politiche economiche statali sono tassative ed inevitabili).
Ciò che è stato fatto ripetutamente nel corso degli anni è stato di allentare o aggiustare vari meccanismi istituzionali introducendo surrettiziamente una dimensione politica che non appartiene affatto al ‘progetto europeo’.
Lo si è fatto sia per venire incontro alle aspirazioni di leadership della Germania stessa, sia per l’evidente necessità di non poter fare a meno di una politica economica in qualche modo comune, nel momento in cui sono in comune la moneta e le regole del mercato europeo.
Tutto ciò è stato fatto forzando, interpretando, distorcendo i trattati in vigore, che a seconda degli accordi e dei rapporti di forza potevano essere tagliole implacabili o cordiali suggerimenti, divieti o permessi i più variegati.
Questo gioco ha anche permesso a numerosissimi politici, in Italia ma non solo, di giocare al gioco degli Stati Uniti d’Europa, un simpatico gioco di società in cui si fa credere alla plebe che proprio lì dietro l’angolo ci sia il nuovo mondo coraggioso dove saremo tutti una grande famiglia europea, con una politica economica comune, regole comuni, salari comuni, tasse comuni, una politica estera comune.
Il problema di fondo, tuttavia, è che nessuno, mai, ha realisticamente pensato che questa prospettiva fosse davvero in tavola.
Questi spettri multicolori, queste apparizioni suggestive avevano sostanzialmente un’unica funzione, ovvero quella di permettere ai candidati (progressisti) per il Parlamento Europeo di vendersi in campagna elettorale come parte del ‘grande progetto degli Stati Uniti d’Europa’, quel progetto che – state sereni – avrebbe migliorato le sorti di tutti ed in particolare del popolo.
La sentenza della corte di Karlsruhe mette giù con apprezzabile brutalità teutonica la cruda verità: l’Unione Europea non ha, né ha mai avuto, niente a che vedere con una struttura destinata ad avere una politica economica comune (viatico per una politica comune in senso generale).
Al contrario essa è un’istituzione che serve a mettere in competizione gli Stati, creando condizioni ottimali per reprimere ogni rivendicazione da parte delle classi lavoratrici all’interno di ciascuno Stato, e per fornire garanzie ai rentiers.
Non ho nessun dubbio che continueremo a sentire i nostri politici cianciare ancora di ’70 anni di pace’, del ‘sogno europeo’, della famosa ‘solidarietà europea’, degli ‘aiuti europei’, ecc. Bisogna capirli. Se fossero chiamati davvero a prendere le redini dello Stato non saprebbero da che parte cominciare. Speravano, e sperano ancora, che essere governati in remoto da Francoforte li esentasse da assumersi responsabilità; dopo tutto bastava fare un po’ i simpatici a Bruxelles e qualche briciola spendibile sul fronte interno come grande vittoria arrivava comunque.
Ora però la sentenza tedesca minaccia di tagliare bruscamente anche l’approvvigionamento di quelle briciole.
E con un debito al 160% del PIL, senza una banca centrale che monetizzi (tacitamente o dichiaratamente) il debito, il default del debito pubblico italiano è matematicamente certo.
Possiamo girarci attorno finché vogliamo, ma quella è l’unica direzione in cui la pallina può cadere.
Non ci sono margini per avviare un ‘programma di austerity’ per ridurre il debito pubblico: era già impossibile con il debito al 120%, ma ora sarebbe una prospettiva lunare. Qualunque programma ‘lacrime e sangue’, in un Paese che era mezzo morto già prima della pandemia e che ora è con un piede nella fossa, non farebbe che avviare un avvitamento recessivo terminale.
Qualunque patrimoniale sulle liquidità che non fosse in grado di intercettare tutti i capitali detenuti all’estero e/o in paradisi fiscali sarebbe largamente insufficiente (e avrebbe ripercussioni sulla fiducia nel risparmio peggiori di qualunque haircut). Una patrimoniale sull’immobiliare distruggerebbe l’ultima base di sopravvivenza del Paese, distruggendo causa svendita i valori immobiliari (e con essi anche i collaterali di banche e assicurazioni).
Dunque direi che le opzioni teoricamente sul tavolo sono ora solo tre:
a) un magico colpo di reni europeo, che, d’un tratto riscopre un spirito di fratellanza e solidarietà, e nell’arco di qualche mese mette in comune i debiti, e cambia i trattati, imponendo alla BCE di fare espressamente politica economica di carattere anticiclico e con l’obiettivo della piena occupazione;
b) una monetizzazione del debito italiano in proprio (che significa un’uscita dall’eurozona e dai trattati vigenti);
c) un default del debito pubblico.
Come spesso accade, le probabilità delle tre opzioni sono in proporzione inversa alla loro desiderabilità.
Andrea Zhok

(Fonte)

 

Il più grande inganno


Mentre il governo giallo-fucsia ci racconta che per aumentare di poco i salari agli insegnanti dovremmo tassare merendine, bibite e biglietti aerei, mentre ci dicono che l’unico modo per affrontare il problema ambientale è concentrarsi sull’aspetto climatico, pagare nuove eco-tasse e comprare auto elettriche, la Banca Centrale Europea riprende le operazioni di QE al ritmo di 20 miliardi di euro al mese.
In Italia mancano milioni di dipendenti pubblici (almeno 2,5 rispetto a Francia e Inghilterra).
In Italia mancano quasi del tutto infrastrutture degne di un Paese civile, in tutto il centro-sud. Non c’è una rete autostradale degna di questo nome, sotto Roma. Della rete ferroviaria, meglio non parlare.
Non ci sono fabbriche e industrie a sufficienza nel Sud Italia.
Non c’è lavoro, nel Sud. E quando c’è, i salari sono indecenti.
Ecco perché ogni anno circa 250.000 giovani sono costretti a scappare dal Sud al Nord del Paese. Questo mentre altrettanti giovani del Nord sono costretti a scappare all’estero.
A volte a fare la fortuna di un Paese straniero, a volte a fare i lavapiatti, ma con la paura e la vergogna di tornare indietro dopo aver fallito. Quando a fallire è stata la classe politica che li ha costretti a fuggire.
Una insopportabile beffa che si aggiunge al danno di spendere milioni di euro per i nostri giovani, per il futuro del Paese, e lasciare poi che vadano a fare le fortune di altri Paesi. Perdendoci doppiamente.
L’aumento della produzione di energie rinnovabili, la riconversione di industrie e fabbriche, la drastica riduzione del trasporto merci via aerea e marittima (due, quelle sì, grandi cause di inquinamento atmosferico), l’aumento esponenziale, di linee e di mezzi, del trasporto pubblico nei grandi centri abitati per combattere davvero i danni dell’inquinamento atmosferico laddove necessario.
Avremmo da fare per le prossime 5 generazioni, almeno. Avremmo gli uomini, le competenze, le materie per costruire un nUovo Paese, finalmente unito. Da Nord a Sud.
Unito con le autostrade, unito con i treni, ma soprattutto unito nei salari e nel benessere.
Ci dicono, da anni, da troppi anni, che tutto questo non sia possibile per mancanza di soldi.
Perché il debito dello Stato è troppo alto. Perché, in fondo, abbiamo per decenni vissuto al di sopra delle nostre possibilità.
Hanno progressivamente cancellato ogni traccia di lotta di classe per sostituirla con una guerra generazionale fratricida. Stano aizzando i giovani contro i loro genitori e i loro nonni.
E lo stanno facendo portando avanti questa assurda narrazione della scarsità. Una scarsità, però, non reale ma auto-indotta.
E così, da 27 anni, guidato dalla peggior classe politica che si sia mai vista, lo Stato italiano ci toglie più di quanto ci dia: si chiama avanzo primario. È lo Stato che da protettore dell’uguaglianza e della popolazione si fa invece boia e strozzino.
Mentre la BCE continua a emettere, dal nulla, 20 miliardi di euro al mese. Venti miliardi di euro. Ogni maledettissimo mese. Più di un miliardo di euro ogni due giorni.
Quella della mancanza di soldi è la scusa più vecchia del mondo. È quella che usano per giustificare il nostro progressivo impoverimento mentre loro aumentano indegnamente la percentuale di ricchezza sul totale.
È una balla che non si regge più sulle gambe. Una balla che era già stata smontata decenni fa.
Gilberto Trombetta

Le Lobby a Bruxelles: il grande imbroglio del neoliberismo

Come funziona l’Unione Europea? Qual è il peso delle lobby e delle grandi multinazionali sulle decisioni che vengono prese? E chi le prende? I deputati eletti dal popolo, gli Stati che negoziano fra loro, un ristretto manipolo di tecnocrati della Commissione Europea e della Banca Centrale, o dei soggetti privati privi di qualunque controllo? Il libro di Gabriel Amard pone queste domande, sentite oggi da milioni di persone in tutto il continente, e cerca di rispondere con i fatti, analizzando il modo in cui si è costruita l’Unione Europea, l’ideologia neoliberista che la guida, il contenuto dei Trattati, gli scandali di corruzione che hanno attraversato le istituzioni europee, le figure politiche che passano senza soluzione di continuità dagli organismi pubblici ai consigli di amministrazione di imprese e banche… Ma la denuncia si accompagna alla proposta, per cui il testo di Amard si trasforma via via in un manuale di disobbedienza a livello europeo, che entra nel merito di alcune rivendicazioni concrete e lancia un appello per costruire un’Europa dei popoli, per voltare pagina sia rispetto al “federalismo neoliberista”, sia al “nazional-sovranismo”.

Le Lobby a Bruxelles: il grande imbroglio del neoliberismo,
di Gabriel Amard
The Spark Press, pp. 178, € 14

A noi Orwell ci fa un baffo

Dati alla mano, in UE si formerà un governo fotocopia del precedente, solo un po’ più magro e incattivito, un governo formato da PPE, PSE + i liberaldemocratici di ALDE.
Sarà questa maggioranza che eleggerà il prossimo presidente della BCE, e visto lo scampato pericolo sarà finalmente uno deciso a mettere in riga i Paesi che turbano il guidatore – cioè il governo della finanza.
E, sappiatelo, ne ha tutti i mezzi, perché a quel signore eletto sostanzialmente dall’azionista di maggioranza (Germania) abbiamo consegnato il potere assoluto sui nostri conti pubblici, sui nostri investimenti, sulla nostra solvibilità.
A occhio e croce direi che la propaganda europeista ha vinto nei limiti in cui poteva vincere. Nelle salde mani dei ‘competenti’ l’Europa si avvia ad altri 5 anni di agonia, in cui qualunque iniziativa che non sia ‘market-friendly’ verrà bombardata come indecoroso populismo. In Italia ci verranno ripetute le solite incredibili idiozie sul debito pubblico come debito del ‘buon padre di famiglia’, della necessità di stringere ancora un po’ la cinghia, di svendere ancora quel po’ di patrimonio pubblico rimasto, e ci verrà soprattutto innestata ancora più in profondità l’idea che “non c’è alternativa”.
A chi vuole difendersi da tutto ciò non resterà che appellarsi a gente che brandisce rosari e invoca la flat tax. E ad opporsi a questi ultimi ci saranno le quinte colonne di Bruxelles, pronte a starnazzare al ‘fascismo’.
A noi Orwell ci fa un baffo.
Andrea Zhok

Fonte

La cartina di tornasole, i conti non tornano ancora

Nulla ci vieta di fare alcune osservazioni critiche al governo in carica anche se consapevoli del fatto che l’unica alternativa sarebbe il Partito Democratico e/o Forza Italia, entrambi nemici di classe e del popolo sovrano.

Non sappiamo se la manovra economica del governo del cambiamento sarà veramente efficace, non abbiamo la certezza se questo governo sia veramente del cambiamento o avrà il tempo per tentar di cambiar le cose. Non sappiamo se riuscirà a risolvere il problema della povertà e rialzare il PIL. Non sappiamo neanche se basterà l’ottimismo o il deficit fissato al 2,4% per ridurre il coefficiente di Gini, quello che misura le disuguaglianze della ricchezza. Non sappiamo neppure se riuscirà a liberare la vita reale dallo spettro dello spread. Non sappiamo se avrà la forza morale per bandire quei tassi d’interesse da usurai che spezzano il popolo. L’economia, ed ancor meno la finanza, non sono una scienza esatta, anzi non sono neanche una scienza, anche se a questo mirano per sedersi poi sul trono dell’indiscutibilità divina.
Certo il governo definito populista e sovranista qualche grattacapo all’Europa delle banche lo ha creato, producendo un pericoloso precedente.
E’ bastato solo che qualcuno dal fondo degli ultimi banchi della classe reclamasse, anche se con aria un po’ sommessa a volte timida, che i compiti dati dai maestri erano insostenibili, e questi subito sono andati su tutte le furie, una lesa maestà, una bestemmia impensabile, ed allora giù con anatemi, richiami e strali avvelenati.
Certamente la sovranità di un nazione si raggiunge attraverso un percorso di grande difficoltà, ma con un po’ di coraggio bisognerà pur partire da qualche parte. Tutto sta però nello stabilire quale è il paradigma di riferimento e cosa noi consideriamo per sovranità. Negli ultimi decenni si è assunto come naturale un assurdo disumano che di naturale non ha nulla, un’insana perversione che ha scandito il tempo della nostra esistenza, capace di orientare ogni cosa che facciamo al fine di non irritare ed innervosire i mercati, mentre questi, i mercati, hanno potuto tranquillamente a loro piacimento, per vendetta o per capriccio, portare sul baratro una nazione sana, indipendentemente dalla sua operosità. Guardando le cose alla radice possiamo affermare sicuramente che la sovranità vera non può prescindere da quella monetaria. Il potere della moneta per l’esistenza di un nazione è così forte ed indispensabile che viene riconosciuto da chiunque sia in buona fede, indipendentemente dal suo orientamento politico o economico.
“Datemi il controllo della moneta e non mi importa chi farà le sue leggi”, scriveva Rothschild, così come il problema fu sentito nella stessa misura da Lenin, per non parlare di Ezra Pound.
Lasciamo stare questo gravoso problema della sovranità monetaria che, nel solo chiederci a chi spetta la proprietà dell’euro, produrrebbe una crisi d’astinenza ai poveri euroinomani, altro che piano B. Non chiediamoci allora a quale entità antidemocratica sono state affidate le chiavi di casa, della zecca in questo caso. Cosa rimane quindi come misura della nostra presunta sovranità se non la nostra visione in termini di geopolitica? Attraverso questa abbiamo l’opportunità, anzi l’obbligo di dichiarare al mondo chi siamo e cosa vogliamo. La politica estera è la cartina di tornasole per chi si batte per la propria e l’altrui sovranità. Chi crede in questa forma d’autogoverno, non può in questo ambito che affermare la propria multipolarità da contrapporre a chi della unipolarità ha fatto una ragione storica, il suo destino manifesto, e che dopo la caduta del muro di Berlino ha colto un segno della provvidenza per la sua realizzazione.
Dal suo insediamento con toni chiari il governo giallo-verde ha tenuto a sottolineare la sua vicinanza geostrategica agli USA, troncando ogni speranza a chi avrebbe voluto un disimpegno magari graduale dalla NATO, non solo per risparmiare quei 70 milioni di euro al giorno di spese militari, ma proprio per liberarsi da un alleato troppo ingombrante e premuroso.
E’ anche vero che si é parlato di revocare le sanzioni alla Russia, novità sul nostro piano politico, ma in questi giorni mentre gli USA hanno deciso di riprendere unilateralmente le sanzioni contro l’Iran (colpevole di esistere come la Siria o la Palestina) e tutti i suoi alleati saranno allora costretti a non acquistare più petrolio iraniano per non incorrere nelle medesimi sanzioni, nessuna flebile voce s’è levata contro un’altra guerra commerciale alla quale ossequiosamente ci accoderemo ancora una volta.
Si ha l’impressione che se riusciamo a parole (finalmente) ad alzar la voce contro la Troika, il senso di riconoscimento nei confronti degli Americani a stelle e strisce é ancora così grande che non ci permette neanche di dubitare mai del loro altruismo e della loro bontà. Riusciamo solo ad annuire, o quando pronunciamo parola é solo per promettere fedeltà eterna, foss’anche quella del premier Conte a Trump per sfavorire la Russia a vantaggio del gasdotto TAP.
Per non parlare di Bolsonaro, dove si chiude il cerchio in cui “di notte tutte le vacche sono nere” e sovraniste. Certamente gli entusiasmi e le congratulazioni sono state fatte a titolo privato da uno dei due vice premier. Comunque si è dimostrato soltanto o la propria malafede sovranista o peggio ancora di non rendersi conto della storia dei fatti per ignoranza o superficialità. Quale è la presunta sovranità che spinge a stare con chi ha nostalgia della più classica delle dittature sudamericane? Pur ammettendo che anche le dittature possono essere sovraniste, pensiamo a Cuba, è da sottolineare che molto peggio sono quelle che lavorano per la spoliazione del Paese per conto terzi. A quel tipo di dittatura, sempre incoraggiata sul piano militare e logistico dagli USA, è sempre seguito il più sfacciato programma di privatizzazioni sul modello dettato dai Chicago boys. Chi svende la propria Patria non sarà mai libero ne starà mai dalla parte del popolo, non basta vincere le elezioni.
I sovranisti in Sud America hanno avuto la tempra di una Evita Duarte Peron, di un Hugo Chavez, di un Ernesto Guevara, di un Salvador Allende, hanno nazionalizzato nell’interesse della propria terra per difendersi dal quel maledetto vicino. Bolsonaro è evidentemente dall’altra parte, vicino a Pinochet, a Faccia d’Ananas Noriega ed a Milton Friedman, questo un vicepremier sovranista lo dovrebbe sapere perché altrimenti i conti, non quelli della manovra ma quelli che valgono veramente per il bene del popolo, perché autentici valori, non tornano.
Lorenzo Chialastri

Per un’Europa della libertà e della capacità sovrana dei popoli di autogovernarsi

Fulvio Grimaldi intervista alcuni esponenti dell’opposizione al governo Tsipras in Grecia.

F.G. Cos’è il Plan B?
Alekos Alavanos (economista, psicoterapeuta, già presidente di Synaspismos e poi capogruppo di Syriza, oggi segretario della formazione “Plan B”, staccatasi da Syriza dopo il referendum consultivo del luglio 2015) E’ un’idea alternativa per una politica totalmente diversa rispetto a quelle dettateci da Bruxelles, Francoforte e Berlino e che hanno distrutto la società e l’economia della Grecia. Non siamo io e altri compagni che abbiamo cambiato idea, è stata Syriza a cambiare totalmente. La rottura avviene nel 2011 quando Syriza sostiene che non era possibile avere una linea autonoma nel quadro dell’eurozona e dell’UE.

F.G. Che Grecia sarebbe quella del Piano B?
A.A. Nessuno può pensare che ogni cosa possa essere fatta senza correre rischi, trappole, difficoltà. Proponiamo una cosa molto semplice: le politiche che la maggioranza dei Paesi evoluti ha attuato dopo una prolungata recessione. Significa liquidità, domanda, salari e pensioni in grado di far girare la ruota. Significa un ruolo diverso dello Stato, creativo e dinamico, una politica di bilancio opposta a quella dell’UE.

F.G. Pensi che ci possa essere vita fuori dall’UE?
A.A. Certamente c’è vita fuori dall’Europa. Ma non c’è alcuna Europa, non è Europa. Per oltre vent’anni sono stato un membro del Parlamento europeo, amo l’Europa, tengo al confronto con gli altri Paesi, le altre forze politiche. Abbiamo bisogno di cooperazione in Europa. Ma deve essere una cooperazione basata sulla solidarietà, sul mutuo beneficio, sul rispetto. Se vuoi essere filo-Europa devi essere contro l’UE e la sua valuta. Siamo all’ennesimo memorandum: ancora tagli, riduzione delle pensioni, più tasse, meno esenzioni. Tutto questo mentre già stiamo in una gravissima depressione.

F.G. Il popolo greco aveva deciso diversamente…
A.A. Il venerdì, prima del referendum della domenica in cui vinse il no alla Troika, vidi la Merkel in tv che diceva che se i Greci avessero votato no, il lunedì non sarebbero più stati membri dell’UE e dell’euro. Ci minacciò. Usano campagne terroristiche, ora anche in Italia, di fronte alla rivolta della gente. I Greci non si fecero intimidire: oltre il 60% votarono no. Poi furono traditi, ingannati. Se io voto no e il governo il giorno dopo dice sì, ciò che si perde sono l’autostima, la fiducia, la prospettiva, la dignità morale.

F.G. E adesso?
A.A. Credo che ci siano dei buoni segni, che non ci vorrà molto prima che il popolo greco si svegli e riprenda in mano il fucile, il fucile della politica.

F.G. Anche noi abbiamo vinto un referendum contro i desideri della Troika. Credi che l’UE abbia per l’Italia un progetto come quello imposto a voi?
A.A. Spero che i poteri sistemici in Italia non si comportino come i nostri e le sinistre come le nostre sinistre. In effetti l’Italia è un boccone grosso. Ma potrebbe anche essere la leva per cambiare l’intera Unione. Le recenti elezioni, chiunque governi ora, hanno espresso una chiara volontà della maggioranza contro quanto all’Italia viene imposto. L’Europa non può sopravvivere nella forma e con i contenuti di adesso. Brexit è la soluzione. Spero che i popoli italiano e greco ritrovino la propria autostima e lottino, insieme ai Francesi, ai Tedeschi, a tutti, per un’Europa diversa, senza la BCE, senza questa valuta tossica. Un’Europa della libertà, creatività e della capacità sovrana dei popoli di autogovernarsi.

F.G. Vedi un filo che corre dalla vostra guerra contro i nazifascisti, alla guerra civile, a quella partigiana contro i britannici, alla dittatura NATO di Papadopulos, fino alla Troika?
A.A. C’è un filo, un filo assai pericoloso. E’ il filo della dipendenza, della subordinazione, militare, politica, anche psichica. La Grecia, inizio e simbolo della nazione che resiste, fin dall’800, è un simbolo increscioso, intollerabile. Dobbiamo farla finita. Non siamo agli inizi dell’800, quando qui comandavano i sultani. Sai, non c’è più sovranità nazionale. Una sovranità che non sarebbe in contraddizione con la collaborazione internazionale. Anzi. C’è sovranità nazionale quando il popolo si autogoverna e quando la cooperazione internazionale rispetta e favorisce una sovranità nazionale democratica. Il frutto è sull’albero. Lasciamolo maturare. Arriverà sulle nostre tavole.

F.G. Sembra che in Grecia rinasca una resistenza.
Panagiotis Lafazanis (segretario di “Unità Popolare”, già dirigente del partito comunista greco KKE e ministro nel primo governo Tsipras) Per la prima volta dopo molto tempo si sono viste manifestazioni popolari di massa davanti al parlamento e in molte città contro la Troika, l’alleanza con Israele di un paese da sempre vicino ai palestinesi, la cessione del nome Macedonia (“Macedonia del Nord”), nome greco di terra greca, al vicino slavo. E si è vista la brutalità della repressione di un governo che si dice di sinistra, per quanto alleato all’estrema destra. Pensiamo che il movimento risponderà e si rafforzerà, in vista anche di una data molto importante, quella del referendum vittorioso contro l’austerità e la Troika, il 5 luglio.

F.G. Come siete messi, dopo l’ennesimo memorandum?
P.L. La condizione della società greca è catastrofica, una situazione in cui non ci si vuol far vedere nessun futuro. Il 34,6% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, 3.796.000 persone su 10 milioni. E il debito che dovremmo pagare con questo strangolamento continua a crescere. E’ ancora forte la sensazione che tutto è perduto. Ma c’è anche l’altra faccia della luna: resta un potenziale sociale in grado di riprendere in mano la situazione e reagire. Insomma, c’è un corpo sociale che si convince di essere fottuto e un altro che è deciso a uscire dal vicolo cieco impostoci da Tsipras.

F.G. Basteranno le sole forze greche, o ci vorrà il concorso di altri Paesi?
P.L. In effetti, perché il popolo greco possa liberarsi, gli occorre il concorso di altri popoli europei, in prima linea di quello italiano. Però a noi tocca l’impegno di non aspettare che si muova un popolo vicino. Dovremo comunque essere i primi a rompere le sbarre del carcere tedesco. Forse saremmo l’ispirazione per altri, fino all’affondamento di tutta l’eurozona, come di questa Unione Europea.

F.G. Qual è il progetto strategico dei vostri nemici?
P.L. Per la Grecia è la distruzione del Paese, non c’è dubbio. Per l’Europa si tratta di una nuova feudalizzazione che elimini i soggetti nazionali in modo da riunire sotto il controllo dell’oligarchia tutte le ricchezze dei singoli Paesi. Per noi del Sud si tratta dell’applicazione di classici criteri colonialisti. Sono questi i caposaldi del progetto europeo. Sono caposaldi razzisti, ma a dispetto del suo razzismo, l’Europa sta conoscendo l’inserimento massiccio nel suo seno di altre popolazioni spodestate e sradicate e chi nutre dubbi sull’onestà del fenomeno, che non nasconda qualcosa di letale, viene accusato di xenofobia.

F.G. Potrebbe trattarsi di una strategia dei globalisti finalizzata a svuotare delle proprie generazioni giovani il Sud del mondo, ricco di risorse appetite dall’imperialismo?
P.L. Evidentemente. Ma si noti che i Paesi costretti a ricevere queste masse di migranti sono la Grecia e l’Italia. Non è un caso. E si prevede che queste masse aumenteranno man mano che l’Africa viene impoverita e si diffondono altre guerre. Non per nulla gli USA e la NATO hanno intensificato in questi giorni i bombardamenti su Iraq e Siria, mentre si accentua la militarizzazione dell’Africa. Di questi sviluppi Grecia e Italia sono le grandi vittime.

F.G. Siamo tutti figli della civiltà greca. E’ per questo che la Grecia deve essere punita?
P.L. E’ da qualche secolo che ci si vendica della nostra civiltà. Poi, per le élite euro-atlantiche punire la Grecia alla vista di tutti gli altri ha lo scopo di fornire un esempio. Se voi non accettate incondizionatamente l’impero, sarete puniti come i Greci. Ma potrebbe anche succedere che la Grecia si riveli il tallone d’Achille di questo progetto.

F.G. Anche qui per certe finte sinistre del neoliberismo globalista la parola sovranità è diventata reazionaria e sovranismo sinonimo di destra?
Grigoriou Panagiotis (antropologo, sociologo, economista, giornalista, autore di Asimmetrie sulla vicenda UE-Grecia) Posso solo dirti che il governo Tsipras ha ceduto controllo e sovranità del Paese, compresi i beni pubblici, ai creditori, titolari di un debito sistematicamente creato da dominanti esterni e complici interni. E questo per 99 anni. Si è perso il 40% dell’industria, il 40% del commercio, il 30% del turismo, tutti i porti, tutti gli aeroporti. Il 30% dei greci sono esclusi dalla sanità pubblica e al 30% è anche la disoccupazione reale. Per un po’ si è ricevuta un’indennità di 450 euro, poi più niente. Tutto questo si chiama effetto Europa, effetto euro. L’ingresso della Grecia nell’UE e nell’euro ha comportato il progressivo smantellamento della nostra economia produttrice. Importiamo addirittura gran parte dei nostri viveri. E’ una condizione di totale dipendenza. Non c’è patria, non c’è autodeterminazione e, ora con il vicino slavo titolato “Macedonia del Nord”, non ci sono più neppure gli spazi e confini della nazione greca. Un processo che interessava a UE e NATO che ora possono incorporare anche Skopje.

F.G. Come e più dell’Italia questo massacro sociale ed economico è stata aggravato dall’afflusso di decine di migliaia di migranti da Siria e altri Paesi.
G.P. Un gravame terribile, insostenibile e sicuramente non innocente da parte della Turchia e di coloro che hanno messo queste persone in condizione di dover fuggire. E’ sconcertante come a questi profughi sia garantita, giustamente, un minimo di copertura sociale, mentre a milioni di Greci è stata tolta. Le ONG straniere sollecitano l’immigrazione, per esempio affittando abitazioni a basso prezzo e riempiendole di migranti, cui pagano anche elettricità, gas e acqua. Migliaia di Greci rimangono senza casa e senza niente.

F.G. Stavo filmando un gruppo di persone dell’OIM (Organizzazione Internazionale Migranti), un organismo a metà tra ONU e privati. Non gradivano essere ripresi. Poi mi è piombato addosso un arcigno poliziotto che mi ha intimato di cancellare quelle riprese, se no mi avrebbe addirittura arrestato. Cosa significa tutto questo?
G.P. Non appena si affrontano queste cose si viene accusati di razzismo. Qui abbiamo una strategia contro certi Paesi del Sud. Da un lato la gente viene indotta a lasciare casa sua dalla violenza o dalla miseria importate a forza; dall’altro, chi li riceve non deve sentirsi più padrone a casa sua. Tanto meno, in quanto forze ed enti esterni assumono il controllo della tua economia nazionale. E qui, a difenderla, sei tacciato di nazionalismo. I Greci pensano a ragione di aver perduto la loro sovranità. E’ come essere sotto occupazione. Di nuovo un’occupazione tedesca. Pensa che in tutti i settori dello Stato ci sono dei controllori della Troika! Ricevono i ministri all’Hotel Hilton. Della Costituzione non c’è più traccia e neppure i diritti fondamentali del lavoro sanciti dall’UE sono rispettati.

F.G. Perché si impedisce di filmare migranti e chi se ne occupa? Cosa si vuole nascondere?
G.P. Il fatto è che altri decidono sulle sorti del tuo Paese e che devi fare o non fare quello che vogliono loro. Sempre di più la vicenda dei migranti, come in Italia, diventa un segreto. Un segreto delle ONG e dei loro finanziamenti occulti o, comunque, finalizzati a fargli assumere un ruolo che non è il loro e che sottrae prerogative allo Stato nazionale, uno Stato che non è più padrone delle proprie frontiere, del proprio territorio, delle persone che vuole o può accogliere. Tutte queste decisioni sono prese altrove, con le ONG che gestiscono un fenomeno, in effetti nella piena illegalità, dato che non esiste un quadro giuridico entro il quale farle agire. A cosa ti fa pensare un Paese mandato in default dall’Europa e a cui l’Europa, Dublino, impongono di ricevere e tenersi decine di migliaia di migranti che ne sono la rovina definitiva? Dobbiamo integrare chi non lo vorrebbe quando dalla nostra comunità nazionale, costituzionale, espelliamo tre quarti dei Greci? A cosa ti fa pensare un Paese mandato in default dall’Europa e a cui l’Europa, Dublino, impongono di ricevere e tenersi decine di migliaia di migranti che ne sono la rovina definitiva?

F.G. All’Italia.

Fonte

La politica economica è la più politica delle politiche

“L’accentramento politico-decisionale nelle mani del Super Ministro comporta che l’intera politica economica del Paese sia convogliata nella figura di colui che siede sulla scrivania lignea che fu di Quintino Sella. Questa semplice caratteristica istituzionale implica dunque che la filosofia politica di una singola persona, senza tuttavia sottovalutare l’entourage dei dirigenti ministeriali, finisce per ricoprire un’importanza maggiore di qualunque proposta economica contenuta nei programmi elettorali dei partiti rappresentati nel Parlamento sovrano. La recente genealogia dei Ministri del Tesoro (fino al 2001) e del MEF è piuttosto eloquente in questo senso. Fin dai tempi del primo Ministro del Tesoro dell’Italia repubblicana, l’incarico di dirigere il più importante dicastero economico spettò ad un esponente politico eletto in Parlamento.
(…) Tornando al caso italiano, occorre ricordare che l’ultimo vero ministro “politico”, prima della cesura del 1992, fu proprio il “tecnico” per eccellenza della Prima Repubblica: Guido Carli, ministro del Tesoro dal 1989 al 1992, ma già alla seconda legislatura al Senato tra le file della Democrazia Cristiana. Piero Barucci diventò quindi il primo “tecnico” a ricoprire l’incarico di ministro del Tesoro nel contesto del governo “semi-tecnico” di Giuliano Amato (1992-1993), quello della svalutazione della lira, del prelievo forzoso sui conti correnti e della trasformazione degli enti pubblici in S.p.A.. Barucci rimase in quel ruolo anche nel Governo Ciampi e cedette il posto a Lamberto Dini, Direttore Generale della Banca d’Italia per quindici anni (1979-1994), con l’avvento del primo Governo Berlusconi. Il vaso di Pandora dei “tecnici economici” era stato aperto: Carlo Azeglio Ciampi (ex Governatore della Banca d’Italia), Domenico Siniscalco (ex Direttore Generale del Tesoro), Tommaso Padoa Schioppa (ex Vicedirettore Generale della Banca d’Italia e Banca Centrale Europea), Mario Monti (ex Commissario europeo), Vittorio Grilli (ex Direttore Generale del Tesoro e Ragioniere Generale dello Stato), Fabrizio Saccomanni (ex Direttore Generale della Banca d’Italia), Pier Carlo Padoan (ex Vicesegretario Generale dell’OCSE). Fanno eccezione Vincenzo Visco (ministro del Governo Amato dal 2000 al 2001) e Giulio Tremonti, entrambi esperti di economia attivi in politica ed eletti in Parlamento nel corso del loro incarico.
Come ci si può spiegare questa progressiva tecnicizzazione antropologica della figura del principale ministro dell’economia? La motivazione di tale necessità si accompagna alla conclamata de-politicizzazione della politica economica in Italia. Con essa, si sancisce un sostanziale commissariamento delle scelte politiche in ambito economico, imposto da sacrali ed universali leggi economiche custodite da imperscrutabili istituzioni nazionali e sovranazionali. Le alternative si riducono a poche indistinguibili e ininfluenti opzioni. Ma la politica economica è quella che regola lo sviluppo e la distribuzione del reddito di una nazione, il tasso di disoccupazione, l’inflazione, la concessione di prestazioni sociali e previdenziali. La politica economica è la più politica delle politiche, è un’area di massimo conflitto tra interessi contrapposti. L’aver stabilito, come se fosse un cardine della nuova Costituzione materiale del Paese, che essa debba essere affidata ad un “tecnico responsabile”, apprezzato dai “mercati finanziari”, “affidabile nel contesto delle istituzioni dell’Unione Europea”, non è altro che la cruda affermazione di un principio fondamentalmente anti-democratico che implica la prevaricazione di un’unica radicale opzione politica: i saldi primari eterni, le privatizzazioni scriteriate, la precarizzazione del lavoro e l’abbattimento delle tutele, la regressività delle imposte, la progressiva riduzione dello Stato sociale.
(…) Contro il nefasto Super MEF occorrerebbe meno falso tecnicismo e più democrazia. Il paradosso di questo lungo governo tecnocratico di venticinque anni, in tutta la sua proclamata rispettabilità, si trova nel drammatico fallimento dello stesso assetto economico incarnato dal dicastero di Via Venti Settembre. Se l’Italia è tornata ad essere una periferia industriale sulla via del declino, incapace di garantire un benessere diffuso ai suoi cittadini, la responsabilità è da attribuirsi esclusivamente alle scelte adottate dai Super ministri del MEF, cavalieri della politica empiricamente fallimentare e politicamente anti-democratica incarnata nei trattati UE. Per questo motivo, la finta tecnocrazia conservatrice che ha dominato il panorama politico in questi ultimi decenni dovrebbe essere bandita da ogni incarico di potere. Al suo posto, il governo della nostra martoriata economia necessiterebbe di un maggiore controllo democratico, con un dibattito pubblico accessibile a tutti i cittadini, scevro di anglofoni tecnicismi e dichiarazioni apodittiche. Bisognerebbe instaurare la logica dei ministri politici responsabili di fronte all’opinione pubblica e alle rappresentanze politiche, parlamentari e sociali. Non si negano certo gli aspetti tecnici della politica economica: quello di cui le strutture economiche italiane avrebbero bisogno è una vera tecnocrazia democratica, imbevuta di un patriottismo progressista che ambisca a rendere l’economia Italiana più dinamica, prospera, giusta e libera per tutti, o quanto meno per i molti che hanno inutilmente sofferto a causa del trentennio tecnocratico.
C’è solo da augurarsi che questa incombente nomina del Super ministro sia l’ultima di una lunga e tormentata serie. (…)”

Da Contro il “Super MEF”. Come imparai ad amare i tecnici e a svuotare la democrazia, di Simone Gasperin.

Un tribunale sarebbe stato meglio

“Tutto fila liscio fino al 2004, quando il settimanale Famiglia Cristiana pubblica un documento che fino a quel momento era rimasto riservato: l’assetto societario di Bankitalia. Si scopre così che questo organismo “di diritto pubblico”, il cui statuto prevede in ogni caso la partecipazione maggioritaria al capitale da parte di enti pubblici, per effetto delle privatizzazioni bancarie di dieci anni prima è finito per il 95% in mani private. Oltretutto, quelle stesse mani su cui Bankitalia è chiamata a vigilare.
Un cittadino fa causa e la vince.
La sentenza 2978/2005 Tribunale di Lecce, dice: “Bankitalia è un ente privato … cui è affidato in regime di monopolio la funzione statale di emissione della carta moneta, senza controlli da parte dello Stato e tuttavia controllata da quegli istituti che dovrebbe controllare. Rileva inoltre la violazione dell’articolo 3 dello statuto, che prevede che la maggioranza del capitale dev’essere tenuto da mano pubblica”.
Per tamponare la manifesta situazione di illegalità, il governo Berlusconi – con legge 262 del dicembre 2005 – stabilisce che entro tre anni le quote detenute da soggetti diversi da Stato o enti pubblici devono essere da questi dismesse e ritornare allo Stato.
Quindi, nazionalizzazione?
Non scherziamo, nell’Italia neoliberista questa parola è bestemmia.
Quella che il governo Berlusconi ha escogitato è solo una soluzione provvisoria: la soluzione definitiva arriva l’anno dopo, quando, con Decreto del Presidente della Repubblica (i.e. Giorgio Napolitano) del 12/12/2006, l’articolo 3 dello statuto viene riscritto abolendo la previsione che impone la maggioranza pubblica nella partecipazione azionaria di Bankitalia. Per la cronaca: il governo di Romano Prodi è insediato da otto mesi; Ministro economico finanziario è un Padoa-Schioppa che arriva fresco fresco da una “esaltante esperienza” nel comitato esecutivo della BCE; al Ministero dello sviluppo economico Pierluigi Bersani.
La legalità è salva. Un po’ meno la legittimità.
L’ultimo capitolo viene scritto qualche anno dopo, allorché il Governo di Enrico Letta (2013-2014), procede alla ricapitalizzazione di Bankitalia mediante utilizzo di parte delle riserve: la ratio ufficiale è la possibilità di tassare la plusvalenza degli azionisti (la banche) e ridurre il deficit. Il capitale passa da 156 milioni a 7,5 miliardi: la situazione patrimoniale di Bankitalia non cambia di un centesimo, in compenso un’eventuale nazionalizzazione è diventata estremamente onerosa.
La strategia è sempre la stessa: bruciarsi i ponti alle spalle e poi dire che non ci sono alternative all’andare avanti. Noi, felici cittadini eurocomunitari, ce lo sentiamo raccontare ogni giorno.
Come ripeto spesso, è certo che sarà la Storia a giudicare gli attori di questa vicenda, insiemi agli altri loro sodali che in diversa misura hanno avuto un ruolo nel disastro generale in cui ci hanno precipitati. Però continuo a pensare che un tribunale sarebbe stato meglio.”

Da Bankitalia, breve storia di uno scippo di Mauro Poggi.

Per l’Italia si avvicina il momento della verità

“Il nostro Paese si colloca quindi ad uno stadio successivo dell’eurocrisi rispetto alla Francia e si trova ora, svanito lo scenario di una dissoluzione “politica” dell’Unione Europea, all’avanguardia di quella “economica”.
Sul versante del debito pubblico, è sufficiente ricordare come l’ultima “A” assegnata ai nostri titoli di Stato sia stata tolta dall’agenzia canadese Dbrs lo scorso gennaio. Il versante bancario è persino più preoccupante: pesano i 205 €mld di sofferenze bancarie ed il misterioso stallo nel salvataggio pubblico di Monte dei Paschi di Siena, ormai fermo dallo scorso dicembre. È forte il sospetto, come già anticipammo mesi fa, che il braccio di ferro tra Germania ed Italia sull’istituto senese sia tutt’altro che risolto, lasciando aperta la strada del “bail in” o a perdite particolarmente severe per gli obbligazionisti. Sia la salute delle finanze pubbliche che quella gli istituti privati è aggravata dall’assenza di crescita economica (stimata dalla Commissione Europea al +0,9% per il 2017 ed al 1,1% nel 2018): è un’attività economica così debole da poter scivolare facilmente nella recessione qualora il governo dovesse attuare le ulteriori misure d’austerità imposte dall’Europa, il quadro globale dovesse deteriorarsi o la BCE riducesse la politica monetaria ultra-espansiva, rafforzando l’euro e facendo lievitare gli interessi sul debito pubblico.
Già, molti collocano nel biennio 2018-2019, con la dell’allentamento quantitativo e la scadenza del mandato di Mario Draghi, il termine ultimo dell’Italia per “rimettersi in carreggiata”. In realtà, il precipitare della situazione italiana potrebbe essere questione di sei-nove mese, in coincidenza delle (ineludibili) elezioni legislative: se esistono pochi dubbi sulla vera natura del Movimento 5 Stelle, classico esempio di partito populista “addomesticato”, sono alte però le probabilità che dalle prossime urne esca un parlamento “impiccato”, incapace di esprimere una chiara maggioranza a causa della tripartizione quasi perfetta dello schieramento politico. È quanto sta sperimentando dallo scorso ottobre la Spagna, dove Mariano Rajoy si è visto costretto a formare un governo di minoranza che presto sarà sottoposto al battesimo di fuoco della legge finanziaria. Se il governo Gentiloni dovesse cadere entro l’autunno, l’attuale parlamento fosse incapace di esprimere una legge elettorale od il prossimo di formare un saldo esecutivo, bisogna attendersi che la speculazione sul debito pubblico riesploda, come nell’estate del 2011.
Gli squali della City e di Wall Street agirebbero, proprio come allora, coordinandosi con i tre principali alfieri dell’establishment euro-atlantico in Europa: la Banca Centrale di Mario Draghi. la Germania di Angela Merkel e la Francia di Emmanuel Macron (che ricopre il ruolo che Nicolas Sarkozy ebbe nel 2011). Andrebbe in onda una leggera variante di quanto sperimento sei anni fa dall’esecutivo Berlusconi: Francoforte invierebbe “una lettera” suggerendo le riforme strutturali inderogabili per continuare ad acquistare i titoli di Stato (lettera che “filtrerebbe” al Corriere della Sera in pochi giorni), Berlino chiederebbe all’Italia di accettare un prestito dal Fondo Monetario Internazionale e/o dall’ESM così da mettere al riparo le finanze pubbliche, Parigi si adagerebbe alla linea tedesca, conscia che è l’unico modo per continuare ad avvalersi dello scudo politico offerto dal “motore franco-tedesco”.
L’Italia, svuotata di qualsiasi sovranità, sarebbe così rimessa alla mercé della Troika sulla falsariga di quanto sperimento dalla Grecia. Con una significativa differenza, però: il piatto è molto più appetitoso, grazie al tessuto produttivo più diversificato, imprese pubbliche più floride, un patrimonio immobiliare dello Stato più ricco e risparmi privati più cospicui. Sarebbe così portato a compimento il grande saccheggio dell’economia italiana iniziato nel biennio 1992-1993 e consumato, prima, per agganciarci all’euro e, poi, per scongiurare la nostra uscita: da quinta economia del mondo che era nei primi anni ‘90, l’Italia scivolerebbe verso il rango di Stato semi-fallito, depauperata della sua industria, dei suoi giovani, dei suoi capitali.
Diversi elementi indicano che sia questo il prossimo futuro dell’Italia: il governatore della BCE, l’ex-Goldman Sachs Mario Draghi, ha più volte sottolineato che l’uscita dalla moneta unica non è contemplata dai trattati ed ha ammonito che, in ogni caso, tutti i debiti contratti da Bankitalia con la BCE (si parla di 350-400 €mld sul sistema Target2) devono essere saldati. È chiaro che Draghi farà di tutto per impedire l’Italexit, usando la liquidità della banca centrale come arma di ricatto (lo stesso schema applicato nel 2015 in Grecia). I consiglieri economici di Angela Merkel hanno già “suggerito” all’Italia, in occasione del salvataggio di MPS, di chiedere soccorso al Fondo salva-Stati (ESM) ed al FMI: al coro si è aggiunto anche il ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, che ha recentemente ribadito la necessità di potenziare l’ESM per aggirare i Parlamenti nazionali ed evitare che “l’Europa si disgreghi” al riesplodere della speculazione. Da ultimo, il neo-presidente Emmanuel Macron non ha alcun interesse a sposare la causa dell’Italia o dell’Europea mediterranea e preferisce venderci alla Troika così da guadagnare altro tempo per la Francia: la “modernizzazione” dell’economia transalpina, a colpi di austerità e liberismo, deve ancora iniziare e si preannuncia drammatica.
Non c’è alcun dubbio che l’attuale od il prossimo parlamento, se lasciati liberi da qualsiasi vincolo esterno, voterebbero per il commissariamento dell’Italia da parte della Troika: la soluzione sarebbe in continuità con la linea “europeista” della Seconda Repubblica e diversi centri di potere (il presidente Sergio Mattarella, la Bankitalia di Ignazio Visco, la Confindustria di Vincenzo Boccia, i sindacati, il salotto di RCS, etc. etc.) premerebbero per mantenere lo status quo anche a costo di vedere il FMI e l’ESM installarsi stabilmente a Roma, svuotando di qualsiasi significato le nostre istituzioni. Il parlamento italiano dovrà però tenere conto degli umori di una società che, sfibrata dalla peggiore depressione economica dai tempi dell’Unità, è tanto esausta quanto insofferente: qualsiasi opportunità di ribellione (che si tratti del referendum costituzionale o del referendum sul salvataggio di Alitalia) è ormai prontamente sfruttata per gridare un “No!” in faccia all’establishment. C’è da chiedersi quale sarebbe la reazione della società italiana di fronte a nuova austerità, nuove umiliazioni, nuovi saccheggi.
È pronto il parlamento italiano ad affrontare uno scenario simile, o probabilmente peggiore, a quello greco? È pronta la nostra fallimentare classe dirigente a mantenere l’ordine con la violenza, dopo aver trascinato nel baratro il Paese? È pronto il nostro establishment a giocare fino in fondo la partita, col rischio di spezzarsi l’osso del collo?
Sono interrogativi che troveranno una risposta nei prossimi mesi. Nel frattempo il deflusso di capitali, ben visibile su Target 2, continua mese dopo mese. L’eurozona è sempre più polarizzata tra area marco (con la Francia in posizione ancillare) e area mediterranea: le tensioni finanziarie, nonostante la morfina della BCE, sono molto più gravi del 2011-2012. Il momento della verità si avvicina e l’Italia è (contro la sua volontà) in prima linea.”

Da Euro-crack: l’Italia è ora in prima linea, di Federico Dezzani.

La moneta-debito

Periodicamente, qualche liberale dal cuore buono ci rammenta che l’aumento del debito generato da una maggiore spesa pubblica andrà a pesare sulle giovani generazioni.
Ieri, ad esempio, è stato il turno di Tito Boeri, presidente dell’INPS, l’ente sempre più traballante da quando ha dovuto farsi carico delle posizioni pensionistiche dei lavoratori pubblici, i cui contributi vengono pagati dallo Stato soltanto in maniera figurativa, cioé con un tratto di penna sui registri contabili.
A costoro andrebbe dunque ricordato che “L’unico modo per arrestare il declino dell’Italia è decidere di non far pagare solo i cittadini, ma anche i creditori. Il popolo italiano ha l’obbligo di restituire solo quella parte di debito che è stata utilizzata per il bene comune. Tutto il resto -dovuto a tassi eccessivi, indebitamento per interessi, ruberie, sprechi, corruzione, etc.- può (e deve!) essere ripudiato perché illegittimo.
La prima cosa da fare è quindi aggredire gli interessi, che ci salassano e alimentano la crescita del debito. Tre le iniziative possibili: vietare qualsiasi forma di speculazione sui titoli del debito pubblico, l’autoriduzione dei tassi di interesse, la sospensione dei pagamenti delle quote impossibili da coprire.
Risolta finalmente l’emergenza, bisognerà poi mettere ordine nei conti pubblici per liberarci definitivamente del debito e non ricadere mai più nella sua mortifera spirale.
Rammentando che il debito pubblico italiano non avrebbe avuto un epilogo così drammatico se avessimo conservato la sovranità monetaria di cui godevamo prima del 1981, quando si verificò il cosiddetto “divorzio” fra la Banca d’Italia e il ministero del Tesoro.” [Fonte]

Con sottotitoli

Con doppiaggio

Referendum costituzionale SI’ o NO

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“La revisione della Costituzione ha un obiettivo politico ben preciso: è il tentativo di portare a compimento in modo legale quel colpo di Stato architettato nell’estate del 2011 dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con il sostegno della Banca Centrale Europea (BCE). Non bisogna infatti dimenticare che la mente della riforma in corso non è certo Renzi, che è un mero esecutore, ma Napolitano, che sino alla sua peraltro meramente formale uscita di scena è stato il vero Capo del Governo, rispetto al quale prima Monti, poi Letta e infine Renzi sono stati solo dei docili strumenti.
La stagione dei “Governi del Presidente”, cominciata nell’autunno del 2011, con le dimissioni forzate di Berlusconi, ha segnato una svolta fondamentale nel nostro ordinamento. Nel nostro Paese si è, di fatto, instaurato un sistema di potere che ha colpito materialmente la nostra Costituzione rispettandone solo formalmente le regole. Potere che quindi potrà sempre dire di aver agito legalmente. Potremmo parlare di “colpo di Stato”. Ma questa espressione non indica forse una tecnica politica necessariamente illegale? E che fa un uso illegale della violenza? Non dobbiamo cadere nell’errore nel confondere la rivoluzione con il colpo di Stato. Il colpo di Stato molto spesso è una reazione posta in atto dal potere che si sente minacciato e non è affatto detto che debba avvenire con l’uso della violenza. È questo che chiaramente è successo in Italia, prima facendo cadere il governo Berlusconi e poi, dopo le elezioni politiche del febbraio 2013, tentando di bloccare quell’aria di rinnovamento che si cominciava a respirare con l’entrata nel Parlamento del M5s. Il potere si è chiuso a riccio rieleggendo sull’aprile del 2013 Giorgio Napolitano come Presidente della Repubblica. Beninteso – ripetiamolo – tutto ciò è avvenuto nel rispetto formale delle regole, e dunque senza violenza, e nondimeno proprio per bloccare l’ascesa di un giovane Movimento politico si è forzata la legalità costituzionale sino a rovesciare di fatto i princìpi di legittimità alla base dell’ordinamento repubblicano, trasformatasi in una Terza Repubblica di cui non riusciamo ancora a capire l’effettiva natura e funzionamento. Da qui nasce la necessità di una revisione della Costituzione che porti a compimento il colpo di Stato.”

Da Referendum costituzionale SI o NO, di Paolo Becchi, Arianna Editrice, € 7,90 (pubblicato anche in versione ebook).

Paolo Becchi è professore ordinario di Filosofia del Diritto presso l’ Università di Genova, città dove è nato.  È opinionista de Il Fatto Quotidiano online e collabora con Libero e Mondoperaio.

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Euro vostro

Preghiera euroscettica.
Da recitare più volte al giorno ponendosi in direzione di Francoforte.

Euro vostro che sei in Banca Centrale, sia maledetto il tuo nome, crolli il tuo regno e sia incrinata la tua volontà come in città così in campagna. Dacci oggi il nostro precariato quotidiano e aumenta i nostri debiti come noi li nascondiamo ai nostri creditori e non ci indurre in rivoluzione ma liberaci da quel Tale.
Amen.

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La finanza fuori controllo diventa devastante

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La realtà non è mai quella che si vuol far rappresentare ma è molto più complessa perché sono gli uomini che muovono i mercati e lo fanno perseguendo interessi ben precisi.

“L’inadeguatezza del solo approccio culturale, quantitativo e razionale ai mercati finanziari dimostra l’infondatezza delle ipotesi su cui sono stati costruiti e poi legittimati da Premi Nobel più legati agli interessi da supportare che alla scienza vera. I mercati divengono su aspettative e non su conoscenze certe, sembrano prevedere con esattezza gli eventi futuri ma sono le aspettative di questi che servono a manipolare i mercati. I mercati, pertanto, divengono molto diversamente da quanto sarebbe se fossero basati su conoscenze certe.
Da qui bisogna partire per portare avanti una riflessione sulla realtà di una finanza totalmente slegata dalla realtà a cui si contrappone logicamente. Il sistema della moneta e della finanza non essendo più dal 1971, l’anno della fine della convertibilità del dollaro, ha potuto assumere una dimensione sempre più slegata dalla realtà e poi costruire un sistema di aspettative in grado di condizionare le scelte dei mercati in funzione degli interessi dominanti. Il prezzo dell’oro da allora è stato frutto di sistematiche manipolazioni.
Il sistema monetario si è svincolato dalla dimensione reale e dalle quantità fisiche, non essendo più agganciato ad una dimensione del reale misurabile è diventato infinito, immateriale e come tale non misurabile; in questo modo è illogico che un sistema valoriale infinito ed immateriale possa essere usato come misura del sistema finito, materiale e misurabile in cui noi viviamo.
(…)
L’evidenza della contraddizione tra economia reale finita e la finanza infinita rende insostenibile che i due sistemi possano stare insieme, in questo modo fittizio i prezzi dei beni reali non sono più legati alla loro quantità fisica ma alle infinite scommesse su quantità scambiate ma inesistenti. Per ogni barile di petrolio vero ne vengono scambiati oltre 100 inesistenti o possiamo meglio dire di carta, i certificati di proprietà di oro sono un multiplo della quantità reale, i “futures” sul grano sono scommesse su quantità inesistenti ed in ogni caso non si chiudono mai. Sono le quantità virtuali a determinare i prezzi ma non le quantità reali; una volta il prezzo era in funzione di quantità reali di beni domandati ed offerti ed il prezzo manteneva una maggiore stabilità nel tempo perché le quantità reali non si possono magicamente moltiplicare con la bacchetta del Mago Merlino come, invece, sembra avvenga oggi.
La manipolazione dei prezzi e dei mercati pertanto non risponde ad una razionalità inesistente ma a giochi speculativi che nascondono sempre la verità ma se la “roulette” è truccata per capire il suo funzionamento bisogna osservare le mosse del croupier ed allora il modello previsionale più vicino alla realtà consente di provare a capire il gioco del domino che usa la finanza. Che i mercati siano oggetto di sistematica speculazione lo dimostra la condanna inflitta dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti alle banche d’affari di Wall Street ed all’agenzia di rating “Standard & Poor’s”; persino il governatore della BCE ha denunciato la cospirazione di forze globali contro le manovre della stessa BCE. Senza entrare nel merito del dibattito tra UE ed i conti pubblici dell’Italia che ha fatto di tutto per mettersi nei guai vanno, però, evidenziate le responsabilità sia della UE che della BCE indirettamente. Dal momento in cui i prodotti tossici – sub-prime, derivati e otc – sono stati deregolamentati aprendo la strada alla pura speculazione era necessario prendere atto delle possibili conseguenze sui conti dei singoli Stati il cui debito – generato dalla cicala politica – diventava ostaggio della speculazione. L’attacco all’euro nella “campagna d’Europa” partito nel febbraio del 2010 doveva indurre a scelte difensive della comunità europea che si è ben guardata dal farle, anzi la Deutsche Bank ha partecipato all’assalto dei btp italiani. Quando i buoi sono scappati dalla stalla ha introdotto un’austerity nei conti pubblici sicuramente doverosa ma si è ben guardata dal porre vincoli a quei prodotti tossici che avevano contribuito a generare il dissesto che abbiamo visto. L’esempio più evidente della politica fatta su misura è lo stato di insolvenza della Deutsche Bank che è esposta per 75mila miliardi di derivati, pari a 20 volte il Pil della Germania ma nessuno ha mai detto niente; la Deutsche Bank dov’era? Ora è facile dare la colpa alla politica cicala e dissennata ma, come dice il Manzoni, la ragione ed il torto non possono essere divisi con un taglio netto in modo che il tutto sia da una parte o dall’altra.
La finanza fuori controllo e totalmente deregolamentata diventa devastante, un arma di scontro egemonico, così come Warren Buffett aveva definito questi strumenti tossici – “armi finanziarie di distruzioni di massa” – la finanza finisce per assumere una dimensione di contrasto ai diritti universali dell’uomo che, dichiarati nel 1948, oggi si vedono progressivamente negati. Forse è giunta l’ora di capire da che parte sta la verità dei fatti e quanto dipendano dalla natura immutabile dell’uomo e dai suoi interessi piuttosto che dalla razionalità ormai mitologica dei mercati.”

Da Finanza e realtà: due mondi separati, di Fabrizio Pezzani.

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“Cani ammessi, banchieri interdetti”: la scritta campeggia sulla lavagna dei piatti del giorno davanti al ristorante di Alexandre Callet, imprenditore parigino cui le banche hanno negato ripetutamente la concessione di un prestito per l’ampliamento del proprio locale.

Chi pensa semplice ha già perso

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Lezioni di metodo

“Chi pensa semplice ha già perso: se agisce in buona fede, altrimenti è soltanto strumento di coloro che organizzano, in centri di necessità segreti, le diverse strategie. Alle volte si fanno i nomi di alcuni strateghi, più o meno grandi. Basti pensare a Kissinger, tuttavia conosciuto come singolo individuo (che, a suo tempo, consigliò Nixon), più o meno messo alla pari del finanziere Soros o di altri personaggi similari. Perché chi pensa – o vuol far pensare gli altri – semplice, formula sempre nomi di singoli individui. Kissinger sarebbe ben poco se non fosse la punta di diamante, ma pure il nome rappresentativo, di dati centri strategici, i cui componenti non sono conosciuti; ma nemmeno si conosce la loro esistenza. Quando si mettono nomi, allora salta fuori, ad es., il gruppo Bilderberg o il Club di Roma, che non sono centri strategici e hanno altre finalità.
Gruppi del genere possono certo intrecciarsi con i centri, ma soprattutto quali loro strumenti, solo dotati di maggiore rappresentatività “pubblica”, appunto quella più superficiale e solo necessaria a nascondere ciò che deve restare nei “segreti meandri” delle più autentiche autorità strategiche. Certamente tali gruppi si riuniscono abbastanza spesso, e a queste riunioni partecipano uomini di potere, ma a volte solo rappresentativi per nome e fama più che dotati di poteri propri. Insomma, il loro potere dipende da altri poteri assai più discreti e nascosti. Servono da “specchietto per le allodole”, dove queste sono rappresentate sia da superficiali individui in buona fede, affascinati dalle sembianze (e i paramenti) del potere, sia da altri invece lautamente pagati (non in solo denaro) dai centri strategici (e gruppi di governo e di potere che ne seguono le indicazioni) per distogliere l’attenzione dalle loro effettive mene e indirizzarla verso le “rappresentanze più ufficiali”; le quali, per assolvere tale funzione, devono spesso dare comunque l’impressione di essere “massonerie” attive in gran segreto. Solo che poi, guarda caso, il segreto viene in parte svelato (con distorsioni varie), ma sempre ammantato di misteriosità per affascinare e deviare l’attenzione del “gran pubblico”.
E’ inutile chiedere: allora chi sono questi centri strategici? Se avessero nome e cognome, sarebbero centri del piffero. Nemmeno si può sapere con sicurezza come agiscano a meno di non avere a disposizione dei servizi di intelligence, ben preparati e con buoni addentellati presso gli avversari. Noi, persone comuni, non possiamo sapere, possiamo solo usare il cervello evitando d’essere dei “sempliciotti”. Per capire le strategie è indispensabile prendere atto che i centri ci sono, non sono noti (e nominativi), agiscono dietro le quinte e con manovre tendenti a finalità in genere opposte o comunque assai differenti da quelle realmente perseguite; a meno che, in qualche caso, compiere le mosse più ovvie non sia proprio il modo migliore per trarre in inganno. Bisogna procedere, nell’interpretazione della politica, secondo i principi del sapere indiziario; inoltre formulare ipotesi, perfino quelle che sembrano più strampalate. S’incorrerà in errori, ma precisamente da questi il sapere indiziario trarrà informazioni utili per correzioni molteplici e che consentono – non sempre ma nemmeno raramente – di giungere a conclusioni molto vicine alla realtà. Con aggiustamenti successivi si può arrivare a cogliere il “segreto” o comunque sospettare e prevedere quanto poi verrà in luce.
A questo punto bisogna diffidare dei semplicisti e dei mentitori spudorati e consapevoli che ingannano sulle vere finalità strategiche di questo o quel Paese, di questo o quel gruppo politico o economico, ecc. Oggi, ad es., per quel che riguarda la politica internazionale, si sono andati consolidando due precisi indici dell’imbroglio a cui – per faciloneria o per consapevole menzogna – si va incontro da un bel po’ di tempo in qua. Il primo e principale di questi indici è appunto l’enfasi posta sul settore finanziario che tutto fa, tutto può. Chi comanderebbe sarebbe anzi, più precisamente, il “grande finanziere”; perché nominare esplicitamente il “potente”, colui che sarebbe all’origine di ogni misfatto, è la mania dei semplici o di quei mentitori assoldati per mascherare i reali centri del potere e finanziati per organizzare convegni, manipolare stampa, girare mezzo mondo a fare conferenze, apparire in TV, ecc. E spesso con l’abito del più accanito critico del sistema capitalistico.
L’altro indice è l’attacco alla Germania come il vero cattivo all’opera, come la principale causa di ogni nostra difficoltà. Dimenticando bellamente, o comunque mettendo in sordina, il ruolo degli Stati Uniti. Una variante può essere quella di attaccare, per quanto riguarda il lato statunitense del potere, la presidenza Obama, sostenendo inoltre che ha fallito tutto, e che continua a provocare danni alla “nostra” causa. Indizi secondari sono quelli del can can per l’uscita dall’euro e dalla UE. Intendiamoci bene, l’attacco a Obama o la polemica accesa contro UE ed euro non sono negativi al 100%. L’importante è però l’obiettivo “ultimo”, il quale deve essere l’appoggio a tutto ciò che indebolisce sul serio il prepotere statunitense e favorisce il multipolarismo. Altrimenti, simili critiche destano sospetti. Anche una certa simpatia verso la Russia, sempre con distinguo di vario genere, può essere manifestazione di ambiguità, di retropensieri nebulosi; lascia dubbi perfino il mettere in luce che essa ha adesso l’iniziativa e ha messo in difficoltà gli USA di Obama in Siria.
Il vero punto cruciale è che la UE è puro strumento degli USA (e non soltanto di quelli dell’attuale presidenza, lo è da sempre e lo sarà in futuro); per questo va attaccata. Non ci si deve battere per la semplice uscita da essa; e nemmeno però per una sua “riforma”. Decisiva è invece la ripresa di certe autonomie nazionali, sulla base di una indipendenza dagli USA e di un diverso sistema di contatti internazionali (senza dubbio pure con la Russia) onde mettere in crisi ogni possibile ritorno verso un monocentrismo americano. E nemmeno l’uscita dall’euro è questione centrale; va soprattutto denunciata la BCE come ulteriore organo del predominio statunitense. Vi sembra fondamentale che ogni Paese riconquisti il suo potere di controllo monetario? E l’autonomia politica concreta, l’affrancamento dagli USA (e non solo da quelli di Obama) – implicanti lo scontro assai duro con il Paese più potente al mondo senza semplici rivalse contro la Germania, ecc. – dove vanno a finire per favore? E mi dite come intendete procedere politicamente, non monetariamente, per ottenere un tale risultato di autentica indipendenza e sovranità?
Su problemi del genere balbettate perché in effetti nessuno ha al momento idee chiare in proposito. Allora smettetela di blaterare su misure che semplicemente aggirano il compito primario: affrontare in condizioni assai difficili lo scontro politico con gli USA, avendo la NATO sempre tra i piedi, una miriade di loro basi militari in Europa, i Servizi di tutti i Paesi europei largamente influenzati e controllati da quelli statunitensi. Dibattete questi problemi e non svicolate. Altrimenti, sapremo che siete o del tutto superficiali al limite dell’incoscienza o al servizio di chi ancora comanda oggi nel mondo: i centri strategici americani.”

Da Non dimentichiamo né aggiriamo le questioni centrali, di Gianfranco La Grassa.

Alexis Tsipras: eroe, traditore, eroe, traditore, eroe

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Ci scusiamo con i marxisti di tutto il mondo se la Grecia si rifiuta di commettere il suicidio rituale per promuovere la causa. Ne soffrirete sui vostri divani.

Si scopre sul panorama politico europeo, anzi, mondiale, che i sogni socialisti di ognuno sembravano poggiare sulle spalle del giovane primo ministro di un piccolo Paese. Sembrava che ci fosse una fervente irrazionale credenza, quasi evangelica, che un piccolo Paese, affogato dal debito, in cerca di liquidità, avrebbe in qualche modo (mai specificato) sconfitto il capitalismo globale armato solo di bastoni e pietre. Quando sembra che ciò non accade, gli voltano le spalle. “Tsipras ha capitolato”. “E’ un traditore”. La complessità della politica internazionale è ridotta a un hashtag rapidamente passato da #prayfortsipras a #tsiprasresign. Il mondo chiede il clou, l’X-factor finale, l’epilogo hollywoodiano. Qualcosa di diverso dalla lotta fino alla morte è la viltà inaccettabile. Come è facile essere ideologicamente puri quando non si rischia nulla, non si affrontano carenze, crollo della coesione sociale, conflitto civile, vita e morte. Come è facile invocare un accordo inaccettabile per qualsiasi altro Stato membro della zona euro. Quanto è facile prendere decisioni coraggiose quando non si ha la pelle in gioco, quando non si contano, come faccio io, le ultime 24 pillole del farmaco che impedisce a vostra madre di avere crisi epilettiche.
20 pillole. 14.
È una caratteristica peculiare della negatività patologica concentrarsi solo su ciò che si perde invece che su ciò che si acquisita. E’ lo stesso atteggiamento che dirige frazioni della popolazione di ogni Paese, sempre per la loro perfetta utopia socialista e contemporaneamente evadendo le tasse in ogni modo possibile. L’idea di Tsipras “traditore” si basa pesantemente su un’errata interpretazione cinica del referendum della scorsa settimana. “OXI”, i critici vorrebbero far credere fosse “no” a qualsiasi accordo; l’autorizzazione a una Grexit disordinata. Non era niente del genere. Nel discorso seguente Tsipras ha detto ancora una volta che aveva bisogno di un forte “OXI” come arma per negoziare un accordo migliore. Non l’avete capito? Ora, si potrebbe pensare che non ha raggiunto l’accordo migliore, forse è vero, ma suggerire che avesse autorizzato la Grexit è profondamente falso, e riguardo al 38% che ha votato “NAI”? Tsipras non rappresenta anche loro? Niente paura. L’accordo potrebbe rivelarsi impraticabile comunque, non sarebbe approvato dal Parlamento greco. Syriza potrebbe spaccarsi e la Grexit verrebbe imposta da coloro che la cercano da anni. Poi si valuterà ciò che si è ottenuto.
12 pillole. 10.
L’accordo raggiunto da Tsipras (per quel che ne sappiamo) dopo aver negoziato per 17 ore è molto peggiore di quanto si potesse immaginare. Ma è anche molto migliore di quanto si potesse sperare. Dipende semplicemente dal fatto se ci si concentra su ciò che è stato perso o ciò che è stato guadagnato. La perdita è un orribile pacchetto di austerità. Un pacchetto che, chiunque dalla minima comprensione politica sa, sarebbe arrivato comunque. L’unica differenza è che, attraverso un governo conforme ai precedenti, non sarebbe stato accompagnato da alcuna compensazione. Ciò che è stato acquisito in cambio è molto più denaro di quanto immaginato per finanziarsi adeguatamente a medio termine e permettere al governo di attuare il programma, un significativo pacchetto di stimolo, emissione di denaro EFSF finora negato (“grazie” al governo Samaras), e un accordo per ristrutturare il debito con trasferimento di obbligazioni di FMI e BCE all’ESM. Ciò è niente, i disturbatori disturbano. L’analista di ERT Michael Gelantalis stima che solo questa ultima parte comporterebbe tra 8 e 10 miliardi in meno di rimborsi d’interesse in un anno. Sono un sacco di piatti di souvlaki. Nelle ultime ore mi è stato detto che la Grecia “dovrebbe solo #Grexit ADESSO”; che abbiamo “un ottimo clima e potrebbe facilmente essere autosufficiente”; che ”dovremmo adottare il Bitcoin e il crowdfunding per aggirare il monetarismo”; che “gli Stati Uniti ci invierebbero le medicine”. Nessuno di costoro suggerisce che ciò avvenga nel proprio Paese, si capisce. Solo in Grecia, in modo da poter vedere cosa succede. La maggior parte di loro vive in Stati con governi centristi che sposano l’austerità ma garantiscono continuo flusso di ultimi iPad nei negozi. Tutti loro, senza eccezione, avrebbero potuto negoziare un accordo assai migliore con un coltello alla gola; sarebbero stati più coraggiosi. La mia domanda ai critici è: che battaglia combatti nel tuo Paese, città, villaggio in questo momento? E con quale rischio? Non sei, infatti, malvagio come gli ideologi dell’austerità dura che vogliono sperimentare su un “Paese cavia”, sulla vita delle persone, e vedere come finisce?
8 dosi. 5.
Visto come sorta di Fossa di Helm, questa sconfitta per i Greci è monumentale, irredimibile. E’ il momento del “tutto è perduto”. Visto come battaglia di avvio di una guerra molto più grande, è estremamente preziosa. Ha messo il nemico in primo piano indicandone punti di forza e di debolezza. Ha fornito dati agli altri, Spagna, Portogallo e Italia che si premureranno di essere meglio preparati. E’ stata combattuta coraggiosamente ed elegantemente, perché la Grecia vivrà per combattere un altro giorno. Abbiamo eletto un uomo buono, onesto e coraggioso che ha lottato come un leone contro insondabilmente grandi interessi. Il risultato non sarà quel martirio che speravate. Ma un giorno ci sarà.
Alex Andreou

Fonte

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Atti di sovranità unilaterale

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“Le strategie politiche dei creditori giocano un ruolo determinante nella scelta dei Paesi ai quali una ristrutturazione del debito viene concessa e nei termini in cui avviene”, sostiene Eric Toussaint…

La ristrutturazione del debito greca è al cuore della battaglia che contrappone Atene alla Troika. Lo scontro non è nuovo. Nel 2012, una prima ristrutturazione del debito greco era stata adottata. Con quali risultati?
All’inizio del 2010, la Grecia è stata vittima di attacchi speculativi dei mercati finanziari atti ad imporre tassi di interesse assolutamente spropositati in cambio di finanziamenti per ripagare il debito greco. La Grecia era sul punto di interrompere i pagamenti perché incapace di rifinanziare il debito a tassi ragionevoli. La Troika è intervenuta con un piano di aggiustamento strutturale sotto forma di «Memorandum». Si trattava di concedere nuovi crediti alla Grecia a condizione che saldasse i conti con i propri creditori. Ora, questi creditori erano soprattutto banche private europee, in ordine di importanza francesi, tedesche, italiane, belghe… Questi crediti erano ovviamente accompagnati da misure di austerità che hanno avuto effetti catastrofici sulla vita dei Greci e sulle attività economiche del Paese.
Nel 2012, la Troika ha organizzato una ristrutturazione del debito greco soltanto sulla parte contratta con creditori privati, e cioè da un lato banche private degli Stati dell’Unione Europea che si erano fortemente disimpegnate rispetto alla Grecia ma che conservavano ancora crediti nei confronti del Paese, e dall’altro altri tipi di creditori come i fondi pensione dei lavoratori greci. Questa ristrutturazione comportava una riduzione del debito greco di circa 50-60% nei confronti dei creditori privati. La stessa Troika aveva concesso prestiti alla Grecia dal 2010 e si era rifiutata di ridurre i crediti di cui era in possesso. L’operazione è stata presentata come un grande successo dai principali media, dai governi occidentali, dallo stesso governo greco, dalla Commissione Europea e dal FMI. Si è voluto far credere all’opinione pubblica internazionale, e ai Greci, che i creditori privati avevano compiuto sforzi immensi tenendo conto della situazione drammatica in cui la Grecia si era ritrovata. Ma la verità è un’altra. Questa operazione non è andata in nessun modo a beneficio del Paese in generale, e ancora meno della sua popolazione. Dopo un calo momentaneo del debito nel corso del 2012 e all’inizio del 2013, il debito greco è di nuovo aumentato, sorpassando il livello raggiunto nel 2010-2011. Le condizioni imposte dalla Troika hanno provocato un crollo drammatico delle attività economiche in Grecia e il PIL è sceso del 25% tra il 2010 e il 2014. Inoltre, le condizioni di vita della popolazione hanno subito un impatto fortemente negativo. Si sono registrate violazioni crescenti dei diritti economici e sociali e dei diritti collettivi, precarietà del sistema pensionistico, una drastica riduzione dei servizi nella sanità pubblica e nel sistema educativo, un crollo del potere di acquisto… Va poi sottolineato che una delle condizioni dell’alleggerimento del debito imposte alla Grecia riguardava la giurisdizione competente in caso di controversia. Contrariamente all’accordo raggiunto con la Germania nel 1953 sul debito tedesco, le controversie non sarebbero stati tratttate da un tribunale competente greco.
(…)

Dunque, se la ristrutturazione del debito non è la soluzione, quale via ipotizza affinché gli Stati possano risolvere tale problema?
Per gli Stati si tratta di compiere atti di sovranità unilaterale: 1- realizzando una valutazione integrale del debito, con una partecipazione cittadina attiva; 2- sospendendone il pagamento 3- rifiutandosi di pagarne la parte illegittima; 4-imponendo una riduzione della restante parte. La riduzione della parte restante, dopo l’annullamento della parte illegittima, può avere le caratteristiche di una ristrutturazione ma in ogni caso non potrà essere una risposta sufficiente.

Cosa succede quando un governo intavola negoziazioni con i creditori in vista di una ristrutturazione, senza sospendere il pagamento del debito?
Senza sospensioni dei pagamenti anticipati e senza una verifica pubblica, i creditori si trovano in una posizione di dominio. Non bisogna sottovalutare la loro capacità di manipolazione, che può portare i governi a compromessi inaccettabili. E’ la sospensione del pagamento del debito come atto sovrano unilaterale che crea un rapporto di forza con i creditori. Inoltre, la sospensione obbliga i creditori a farsi avanti: quando si tratta di affrontare i detentori dei titoli, se non c’è sospensione del debito, essi agiscono in maniera opaca, poiché i titoli non sono nominativi. Ed è soltanto rovesciando tale rapporto di forza che gli Stati creano le condizioni per poter imporre misure la cui legittimità si fonda sul diritto internazionale e interno.”

Da Eric Toussaint: “La Grecia ha il diritto di sospendere il pagamento di debiti illegittimi”, di Joshua Massarenti.
Eric Toussaint è il portavoce del Comitato per la cancellazione del debito del Terzo Mondo, di cui è stato fondatore nel 1990.

Grecia: ieri, oggi e domani

Due commenti sull’esito del referendum greco e i possibili sviluppi futuri.

FALLITO IL TENTATIVO DI ROVESCIARE IL GOVERNO TSIPRAS
Da Gabriel a Schultz, da Dijsselbloem a Hollande: “Wer hat uns Veraten? Sozial Demokraten!”. Tutti d’accordo: il debito ellenico non è sostenibile. Tutti d’accordo: continuiamo a trarne profitti fino al “Grexit”.

Fonte

Il No greco in sintesi: è fallito il tentativo di rovesciare il governo Tsipras. Le concause: la austerity, il contagio di Syriza, Podemos, l’anti-europeismo delle destre estreme e, prevaricante su ogni altro sviluppo passato, presente e futuro, il ruolo di dominatrix di Frau Merkel. Il corollario scontato: il tradimento dei socialdemocratici.
Potremmo chiudere qui le nostre conclusioni sulla tragedia del popolo greco (posto oggi davanti a due alternative il Grexit o un’emorragia terminale), se l’informazione USA ed Europea non avesse ignorato e travisato i fatti.
Primo tra tutti: Syriza delenda est.
L’avvento di un governo socialista nel cosiddetto concerto d’Europa è stato immediatamente giudicato incompatibile con gli orientamenti e le direttive dell’Unione non solo dai suoi governi conservatori, ma anche e soprattutto da quelli del centro-sinistra. Il 2 febbraio, a poche settimane dall’esito elettorale in Grecia, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble dichiarava che le proposte di Tsipras e Varoufakis erano “incomprensibili”, dieci giorni dopo rincarava la dose: erano “inesistenti”. Comprensibile la presa di posizioni del ministro laureato in legge e non in economia: non si era mai seduto ad un tavolo con degli economisti che volevano introdurre il sociale nell’economia capitalista, neo-liberista, del libero mercato e del sistema bancario. Non ne comprendeva il linguaggio, la filosofia, l’etica della difesa degli interessi primari dei popoli. Tra aprile e giugno il bersaglio principale non solo della Germania, ma di quasi tutti i paesi “virtuosi” o costretti a diventare tali, era uno solo, Yanis Varoufakis, professore di economia nelle università europee, americane ed australiane, autore, prima ancora di diventare ministro delle finanze, della più brillante, convincente ed aggiornata revisione della critica dell’economia di Karl Marx. Incompetente, ignorante, velleitario, offensivo, intrattabile erano gli epiteti a lui rivolti da questo o quell’esponente dell’Eurogruppo e facevano loro eco i mass media americani ed europei (eccelleva tra tutti la rete televisiva tedesca “Die Erste”: è un fanatico, porta la camicia di fuori, ha una moglie bella e ricca, ha un appartamento sontuoso con vista sull’Acropoli). L’odio sconfinava nell’orrore per tutti i componenti del governo di Atene. Richiamava alla memoria la Tosca di Magni con Monica Vitti, il commento in Vaticano sulla vittoria di Marengo: “Mamma, li giacobini”.
Buon ultima, ma non meno vetriolica Christine “le foulard” Lagarde del FMI che definiva “irricevibile” la proposta greca di rinviare di 30 giorni il pagamento di una rata di circa un miliardo e mezzo di dollari del debito e proclamava con un anticipo statuario di 25 giorni il default “automatico” di Atene. E tutti i mass media naturalmente uniti nell’ignorare il ruolo dell’Amministrazione Obama che disponendo della più alta quota del Fondo ne controlla ogni passo o iniziativa (il predecessore della Lagarde, Dominique Strauss-Kahn, da buon socialista, aveva provato a liberarsi del giogo di Washington ed era stato fatto fuori con gli scandali bene orchestrati da Sarkozy e dallo FBI). L’ostilità malcelata di Obama era scattata con il veto posto dal governo Tsipras alle nuove sanzioni contro la Federazione Russa per la crisi ucraina ed aveva fatto uso ed abuso del Fondo Monetario Internazionale dopo i contatti di Atene con Mosca e gli accordi sul nuovo gasdotto. Solo Walter Veltroni in un articolo sulla nuova Unità attribuisce il compito di mediatore al Presidente e lo invita a telefonare a tal fine al presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, che non ha bisogno di telefonate in quanto anticipa i diktat di Barack e di Angela, ad esempio interferendo con le prassi democratiche e sovrane di un popolo ingiungendo ad esso di votare per il sì.
Desolante, ma non sorprendente il comportamento dei socialdemocratici tedeschi ed europei in genere: da Gabriel a Schultz, da Dijasselbloem a Hollande – non parliamo di casi pietosi come quello di Matteo Renzi – che allineati e coperti hanno prestato man forte ad Angela Merkel. Il richiamo storico al voto socialista tedesco favorevole al finanziamento della Prima Guerra Mondiale del Kaiser è inevitabile. Oggi come allora riecheggia l’urlo della protesta: “Wer hat uns veraten? Sozial-Demokraten!”. Chi ci ha tradito? I socialdemocratici!
E’ fallito dunque il “golpe bianco”, il colpo di stato “democratico” per rovesciare il governo di Atene e data la mobilitazione popolare sul No, appare per il momento improbabile un nuovo ricordo ai colonnelli. Crescono l’isterismo collettivo e il panico pretestuoso per la minacciata fine dell’Euro e dell’Unione Europea, presupposti di ulteriori punizioni dei reprobi greci. I “reprobi”, purtroppo, verranno ulteriormente puniti: il “debito insostenibile” da tutti riconosciuto, diventerà più insostenibile, BCE e FMI dopo qualche blanda misura di breve termine, daranno un altro giro di vite alla garrote, svolazzano già nell’aer cupo idee come la doppia valuta, o di un Grexit pilotato o addirittura come quella oscena di Schultz di aiuti umanitari dei governi dell’UE.
E naturalmente la Merkel con Hollande “bagaglio a mano” annunzia a Parigi (dopo le dimissioni di Varoufakis) che la porta del negoziato rimane aperta: sembra la stessa posizione dei Governi Likud israeliani verso i palestinesi, siamo pronti a negoziare e intanto li bombardiamo.
Non è detto che abbiano partita vinta: sacrifici sì, ma ci sono altre carte da giocare per Atene. Dagli anticipi russi sui proventi del nuovo gasdotto che assicurino pro-tempore la liquidità, alla cooperazione sui traffici marittimi con la Repubblica Popolare Cinese e poi il coraggio creativo della speranza che potrà contagiare i popoli europei e modificare l’ottusa intransigenza dei loro governi.
Lucio Manisco

COME COLPIRA’ L’IMPERO

Fonte

Va bene, adesso che abbiamo festeggiato il bellissimo “NO!” greco alla plutocrazia europea, dobbiamo tornare nuovamente con i piedi per terra e valutare le opzioni a disposizione dell’Impero. O meglio, l’opzione (singolare) dell’Impero.
L’Impero è estremamente prevedibile. E’ da libro di testo l’esempio greco di come l’Impero strangoli una nazione con il debito attraverso le banche, crei una classe dirigente “compradora”, tramuti i media nazionali in strumenti di propaganda imperiale e tenti di bloccare completamente ogni processo democratico trattando esclusivamente con la classe dirigente. Per una sorta di miracolo, quest’ultima fase nel caso della Grecia non si è verificata.
Potrei sbagliarmi, ma la mia sensazione è che l’Impero non ha mai preso troppo sul serio il fenomeno Syriza o, se lo ha fatto, lo ha fatto troppo tardi. Per quanto riguarda Tsipras e Varoufakis, essi sono rimasti sorpresi probabilmente quanto tutti noi quando sono stati improvvisamente “promossi” da capi di un partito del 5% a leaders dell’intera nazione greca. Ho anche la sensazione che nè Tsipras nè Varoufakis si aspettassero quel vero e proprio tsunami che si è scatenato con questo referendum. Qualunque sia il caso, quel che è fatto è fatto e, nonostante tutto l’orrore provato dagli Euroburocrati, il popolo greco ha fatto sentire la sua voce e così all’Impero, attualmente è rimasta un’unica opzione: cooptare o rovesciare il governo greco, quella delle due che funziona meglio.
La mia opinione strettamente personale è che sia troppo tardi per cooptare il governo. Inotre, sia Tsipras che Varoufakis sono diventati due figure talmente odiate dagli Euroburocrati che il loro rovesciamento è probabilmente l’opzione preferita.
Sembra che questo processo sia già in atto. Varoufakis, che solo ieri diceva ad un reporter “non vi libererete di me” ha già dato le dimissioni. Per quanto riguarda Tsipras, sembra che stia implorando per aprire trattative. Spero di sbagliarmi, ma sono abbastanza scettico su quanto ho visto fin’ora.
Un’altra rivoluzione colorata in vista?
L’esempio di Gheddafi mostra chiaramente come un leader nazionale possa arrendersi e sottomettersi completamente agli Anglo-Sionisti e tuttavia essere rovesciato. La mia opinione è che, per quante concessioni faccia Tsipras, queste non gli saranno sufficienti per mantenere il potere. Ha umiliato gli Euroburocrati e loro non lo perdoneranno. L’unica soluzione logica per l’Impero è quella di fare della Grecia un esempio.
Non importa come, ma per la Grecia si prospettano tempi estremamente difficili, sia politicamente che economicamente. Abbiamo visto recentemente come una nazione, in questo caso l’Armenia, possa essere facilmente “punita” per aver osato disobbedire ai diktat imperiali. Penso che attualmente la Grecia sia una nazione molto più debole e fragile dell’Armenia. Primo, tedeschi e americani mandano più o meno avanti, e anche possiedono, la baracca. Secondo, un terzo abbondante della nazione voleva accettare i termini dell’ultimatum richiesto dalla plutocrazia transnazionale. Terzo, la Grecia è circondata su tutti i lati dalla NATO e da zone di instabilità. Quarto, tutti i media della nazione sono in mano agli Anglo-Sionisti. Quinto, alla Grecia mancano risorse naturali ed un valido mercato al di fuori dell’Unione Europea.
A differenza di altri, io non temo troppo l’esercito greco. Certo, questo di solito si schiera dalla parte delle elites “compradore”, ma l’ultima cosa che l’Unione Europea vuole è un’altra giunta militare fascista al potere in una nazione europea. Inoltre, la reazione del popolo greco ad un colpo di Stato allo scoperto potrebbe essere molto imprevedibile. Penso che lo scenario più probabile che possa svilupparsi sia quello di un Maidan greco, seguito dall’accusa di brutalità da parte della polizia e da tutto quello che capita nelle tipiche rivoluzioni colorate. Alla fine della fiera, quello che succederà dipenderà in larga misura dall’atteggiamento che assumeranno Tsipras e il suo partito: se cercheranno di compiacere gli Euroburocrati, se faranno infinite concessioni e se agiranno come leali “Europatrioti”, allora saranno schiacciati. Ma se si appelleranno direttamente al popolo greco e gli spiegheranno che questa è una lotta di liberazione nazionale e che quello di cui loro hanno bisogno è sostegno popolare, aiuto e protezione, allora potrebbero anche vincere, specialmente se scegliessero di affrancarsi dall’Eurozona e chiedessero aiuto all’Unione Economica Euroasiatica o alla Cina. Spero di sbagliarmi, ma non ce lo vedo Tsipras osare qualcosa di così drammatico. Questo è perché io prevedo una rivoluzione colorata prossimamente.
Lo sapremo anche troppo presto.
The Saker

261310

“Costruendo un muro di BRICS”

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Adrian Salbuchi per rt.com

La visita del Presidente Putin in Sud America è di un’importanza trascendentale in un epoca in cui il blocco BRICS sta diventando qualcosa in più di un mero accordo commerciale e in cui la Russia sta giocando un ruolo chiave come attore geopolitico globale.
Vladimir Putin ha compiuto una vista davvero storica in America Latina, visitando Cuba, il Nicaragua, l’Argentina e poi il Brasile dove nelle città di Fortaleza e Brasilia si è tenuto il sesto vertice BRICS (con un veloce sosta domenicale nella gloriosa Rio de Janeiro dove ha assistito alla finale dei Mondiali di calcio tra Argentina e Germania).

Fermare la valanga occidentale
A partire dalla tragedia dell’11 Settembre, gli Stati Uniti, il Regno Unito e i loro alleati della NATO (più Israele) sono diventati un pericolo per il mondo. Negli ultimi 13 anni abbiamo visto il rovesciamento di regime in Iraq in base a false accuse da parte degli USA e del Regno Unito di armi di distruzione di massa poi mai trovate; la distruzione della Libia nel 2011; lo sconsiderato caos originato dalla “primavera araba” che ha riportato paesi come l’Egitto indietro di decenni; la quasi distruzione della Siria; e la decennale minaccia di una guerra preventiva contro l’Iran per il suo non esistente programma nucleare.
Le stime delle vittime in Iraq parlano di centinaia di migliaia di persone, se non di milioni e non c’è ancora stata una singola richiesta di scuse da parte degli USA, del Regno Unito o della NATO. Oggi l’Iraq insieme alla Libia è nella morsa della guerra civile, la Siria sta lentamente uscendone e, più pericolosamente, l’Egitto si è ritirato dal suo ruolo di paese stabilizzatore del Medio Oriente.
Tutto grazie alle ingerenze occidentali e del “caos sociale architettato” che è la nuova forma di guerra intrapresa dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla NATO (e da Israele). Dopo i crescenti fallimenti riportati in Medio Oriente, ultimamente si sono spostati verso altre latitudini: ad esempio in Ucraina. Continua a leggere

Ripudiare il debito-truffa!

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Debito pubblico, chi lo crea stampando moneta e chi lo paga con le tasse

Nel 2014 diventerà operativo il Fiscal Compact, per chi voglia rinfrescarsi la memoria ecco la definizione che riporta Wikipedia:
“Il Patto di bilancio europeo o Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, conosciuto anche con l’anglicismo Fiscal Compact (letteralmente riduzione fiscale), è un accordo approvato con un trattato internazionale il 2 Marzo 2012 da 25 dei 27 Stati membri dell’Unione Europea, entrato in vigore il 1º Gennaio 2013.”
L’accordo contiene le regole d’oro della gestione fiscale degli Stati membri, tra queste c’è l’impegno del nostro Paese a ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL al 60 per cento attraverso una maxi manovra finanziaria all’anno per i prossimi 20 anni, la prima avverrà quest’anno. Dato che al momento questo rapporto supera il 132 per cento (equivalente a 2.080 miliardi di euro circa) bisogna ridurlo di almeno 900 miliardi di euro, il che equivale a circa 45 miliardi l’anno per due decadi. Per chi voglia cifre aggiornate al nano secondo sul debito pubblico qui trovate dove il conteggio avviene in tempo reale.
Naturalmente nel dibattito italiano non si parla del Fiscal Compact, ma di questo non dobbiamo sorprenderci, se ne parlerà a josa quando bisognerà tirar fuori i soldi per rispettarlo, tra qualche mese. In pratica il pagamento dei 45 miliardi avverrà o attraverso l’aumento delle tasse o attraverso la contrazione della spesa pubblica, che può comprendere sia la riduzione dell’occupazione che dei salari pubblici, o in tutti e due i modi. Morale: saremo più poveri perché dobbiamo tirare la cinghia ulteriormente per ridurre il volume totale dei nostri debiti.
La prima domanda da porre ai lettori di questo giornale ed a tutti coloro che commentano quasi religiosamente i suoi articoli è la seguente: a chi dobbiamo restituire questi soldi? La risposta più semplice è la seguente: alla banche straniere che ce li hanno prestati. Ma dal 2011 in poi la percentuale delle banche straniere nostre creditrici è scesa ed oggi è inferiore al 40 per cento. Chi ha in portafoglio gran parte del nostro debito pubblico sono le banche italiane, tra le quale c’è anche il Monte dei Paschi, che deve allo Stato, e cioè a noi poveri debitori, 4 miliardi di euro.
Creditori e debitori sono le stesse persone, direte voi, perché fanno tutti parte dello Stato, della collettività. Ma questa spiegazione non è del tutto corretta perché né lo Stato dei contribuenti né le banche nazionali controllano la massa monetaria, detto in parole povere, non stampano moneta. Entrambi la ricevono dalla banca centrale attraverso il debito. Assurdo? Succede in quasi tutto il mondo a parte qualche eccezione, come la Svezia e la Cina dove la banca centrale è di proprietà dello Stato, quindi si potrebbe dire che la collettività si indebita con se stessa.
La Banca Centrale Europea è l’unico organismo che ha il diritto di stampare moneta, lo dovrebbe fare secondo parametri fissi ma data la crisi Draghi è riuscito ad aggirarli ed è lui alla fine che stabilisce quanta moneta cartacea si stampa. Da notare che nessuno di noi europei lo ha eletto. La BCE è una banca privata, di proprietà degli azionisti delle banche centrali dell’EU, tutti enti ed organii non statali, tra costoro ci sono anche alcune delle nostre banche.
Come funziona il meccanismo? La BCE crea dal nulla euro, nel gergo comune trasforma carta straccia in banconote, questi soldi vengono dati in prestito, oggi a tassi vicini allo zero, alle banche di Eurolandia. Con questi soldi le banche acquistano i buoni del Tesoro dello Stato con i quali i governi nostrani ripagano ogni anno solo gli interessi sul debito pubblico, di più infatti non si riesce a fare. Idealmente questi soldi dovrebbero alimentare l’economia e farla crescere: prestiti all’industria, per l’innovazione o per le opere pubbliche ecc. La crescita economica dovrebbe far aumentare il gettito fiscale con il quale ripagare il prestito. Ma non è così nel nostro caso, e questo lo sanno tutti ormai, l’austerità taglia le gambe alla crescita quindi il circolo virtuale appena descritto diventa un circolo vizioso di impoverimento.
Il punto cruciale su cui i lettori di questo giornale dovrebbero riflettere è il seguente: perché la BCE e non lo Stato o l’UE ha il diritto di produrre dal nulla il bene denaro? E perché i contribuenti in crisi di Eurolandia devono ripagare questo bene creato dal nulla, in un momento in cui per farlo si rischia di finire nella depressione economica, alla BCE – tutti i soldi alla fine lì infatti finiscono dato che la banca centrale, ed i suoi azionisti privati, sono il solo creditore dell’intero sistema? Dato che dietro gli euro, come dietro qualsiasi moneta cartacea non c’è nulla, ma solo la fiducia di chi queste banconote le continua ad usare indebitandosi, cioè noi, e dato che il diritto a stampare moneta dal nulla alla BCE glielo abbiamo dato noi, cittadini di sistemi democratici, attraverso la delega ai nostri governanti, perché non azzerare questo debito e ripartire da zero? In passato ciò è avvenuto con le guerre, oggi si potrebbe farlo per evitarle.
Loretta Napoleoni

Fonte

L’Italia versa 50 miliardi “per aiutare i Paesi in difficoltà”

Queste le cifre dei “salvataggi”.
Ma siamo sicuri che ad essere in difficoltà siano gli Stati indebitati e non le banche creditrici, le quali impiegano la liquidità disponibile per operazioni di natura speculativa ad alto rischio?
Viene un dubbio…

Alle urne, alle urne!

democrazia diretta

Alla vigilia delle elezioni europee gli elettori non stanno mostrando interesse per un Parlamento dalle funzioni limitate e confuse. Sovrastato da una “commissione” che funge da governo autocratico, i cui inamovibili rappresentanti sono designati dai governi. Nessun elettore ha mai scelto Solana o Barroso, ma è reale il rischio che i loro incarichi da vitalizi diventino… ereditari.
Il disinteresse è altresì rafforzato dalla tragicomica vicenda della Costituzione europea, due volte bocciata nelle urne dagli elettori, ma il responso è stato olimpicamente ignorato. Sarà approvata dai deputati nazionali, con raggiri e manovre di corridoi molto stretti. L’unica cosa chiara nell’Unione Europea (UE) alle prese con le raffiche gelide di un crollo del 5% della produzione, è l’indiscussa e totale autorità della Banca Centrale Europea: si impone ai parlamenti nazionali, a quello di Strasburgo e a tutti gli elettorati.
Questo è il veridico governo del blocco europeo, ridotto all’essenza scarnificata dell’utopia ultraliberista: mercato e moneta. Null’altro. Non ha una politica sociale, tantomeno una linea internazionale coerente perché è privo di una visione geo-politica nitida.
Senza una difesa autonoma propria perché ha scelto la subalternità agli Stati Uniti, quando rafforzò la camicia di forza della NATO, all’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica e della scomparsa del Patto di Varsavia.
L’integrazione europea, da quando è passata dalle mani dei pochi statisti di rilievo che la fondarono a quelle dei tecnocrati della finanza, si è svilita a mera applicazione di “5 macro-dogmi liberisti”, facendo un ardito salto acrobatico da 6 a 27 Paesi. Grandi quantità, statistiche, PIL, trionfalismi immotivati e zero visione strategica. Proprio nel momento in cui sta tramontando l’unipolarismo e – con esso – la supremazia “occidentale”.
(…)
L’Europa non ha materie prime e neppure l’energia. Per il petrolio dipende dai Paesi arabi e per il gas dalla Russia, ciononostante promuove una politica estera anti-araba ed agressivamente anti-russa.
La dipendenza energetica è un dato di fatto del blocco europeo, come pure la necessità della coperazione con i russi per le forniture di gas. Come si spiega allora il velleitarismo di incorporare l’Ucraina e la Georgia nella NATO? Come si giustificano le provocatorie manovre della NATO in corso nel Caucaso?
E’ una contraddizione schizofrenica tra obiettivi e strumenti per ottenerli, tra proiezione geo-politica ed iniziativa militare che – ahinoi – non è sovrana né autonoma. L’UE è ostaggio delle fobie anti-russe non solo dei polacchi e dei cechi, ma persino delle micro-repubbliche del Baltico. Per di più, la versione osé dell’atlantismo è immutata dal tempo dei Bush.
E’ come se non fosse accaduto nulla. Non hanno assimilato che lo scacco degli Stati Uniti in Iraq ha comportato la perdita definitiva del feudo sudamericano. Che perderá l’UE con la barcollante avventura atlantista in Afghanistan? Con ogni probabilitá, il ritorno della questione sociale al centro del dibattito pubblico e la ripresa della lotta di classe.
La “Commissione” di Bruxelles è ondivaga e non riesce a coniugare gli interessi concreti dell’Europa con quelli di un traballante egemonismo assoluto che gli Stati Uniti cercano di resuscitare con la NATO. Gli Stati Uniti Occidentali o “grande mercato trans-atlantico” sono una chimera da incubo.
(…)

Da Elezioni, ma per quale Europa?, di Tito Pulsinelli.