La pretesa di neutralizzare il conflitto

“L’irresistibile pulsione a discriminare, a creare capri espiatori – riemersa ferocemente nel seno di ordinamenti sulla carta costituzionali – è il segno di una crisi antropologica radicale, che è al contempo la vera origine e la posta in gioco dei governi dei sepolcri imbiancati che imperversano in molti paesi occidentali. Liberarsene, di tali sinedri farisaici, comprenderne e superarne le cause, è dunque una questione, oltre che politica, spirituale e antropologica.  Per venirne a capo, occorre un lavoro di fondo.  

La libertà costituisce, insieme al principio repubblicano, a quello democratico e all’eguaglianza (formale e sostanziale) dei cittadini, uno dei cardini dell’orizzonte simbolico nel quale vale ancora la pena riconoscersi, sebbene sia stato rimosso da chi doveva custodirlo. Come il lavoro è il fondamento sociale della Repubblica, così si potrebbe dire che la libertà ne costituisca il fondamento etico. Il rispetto e la tutela della persona umana ispirano e permeano di sé l’intera trama assiologica della nostra Carta costituzionale. Del resto, quale valore aveva conculcato prioritariamente il fascismo? La libertà, nelle sue plurime configurazioni: personale, spirituale, associativa, politica. A quale modello si contrappone la Costituzione, rovesciandone la logica? All’autoritarismo fascista.  La valorizzazione del concetto di “persona”, sulla quale hanno trovato una preziosa convergenza le forze del cattolicesimo sociale (da cui la nozione originariamente proviene) e quelle di ispirazione socialista, ha consentito di assumere l’eredità più significativa della tradizione liberale (il suo nucleo umanistico, non economicistico, che ha un valore generale), e di corroborarlo di una visione concreta, incarnata e relazionale del soggetto di diritti.

Siamo qui in presenza di un principio fondamentale del costituzionalismo: l’intangibilità fisica e morale della persona, la cui antica origine è l’Habeas corpus: concepito come scudo rispetto agli arbitri coercitivi del potere che dispone della forza pubblica, si estende oggi al rispetto della dignità della persona nel suo complesso, della sua integrità psico-fisica.  Nessuno può coartare senza limiti, manipolare indiscriminatamente il corpo e la mente di un altro, neppure il potere legittimo, neppure a fini (veri o presunti) di pubblica utilità. La libertà può conoscere delle restrizioni, ma solo entro precisi binari e sulla base di inderogabili garanzie.  Certo non in virtù di una condizione di gruppo, e in assenza di precisi obblighi, divieti, sanzioni. In ogni caso, le restrizioni della libertà (la più pesante delle quali è il carcere) non possono mai oltrepassare il limite del rispetto della persona umana e della sua dignità.  Pur su un altro piano, emerge qui la logica costitutiva dell’età dei diritti, che ispira ad esempio il divieto di torturare e schiavizzare: il presupposto dei diritti è il soggetto libero. Esso non è un’astrazione formale, che può occultare discriminazioni ed esclusioni di fatto, ma l’individuo in carne e ossa, concretamente considerato nella rete delle sue relazioni sociali. Il diritto a non essere torturato e quello a non essere reso schiavo debbono essere considerati “assoluti” o “privilegiati” (Bobbio), e pertanto non bilanciabili con altri diritti o interessi, perché la loro violazione significherebbe transitare dalla sfera della libertà a quella della manipolabilità, della strumentalizzazione del soggetto. Pertanto tortura e schiavitù non sono mai ammissibili, neppure in parte e a buon fine (ammesso che possa mai esistere un “buon fine” nel torturare, magari per estorcere una confessione coatta). Ora, indurre surrettiziamente a scelte non dovute che incidono in modo pesante sulla dignità, la vita sociale e il lavoro, come accade con il green pass più che saudita adottato in Italia, rientra nell’ambito della manipolazione arbitraria della soggettività, significa trattare la persona (anzi, peggio, un’intera “classe” di persone, individuate come categoria da sottoporre a un regime speciale) come un mezzo e non come un fine. Con il mega, super, ultra green pass, il cittadino non vaccinato viene considerato dalle istituzioni un soggetto di diritti perlomeno dimezzato, da espellere ai margini della comunità degli auto-investitesi Eletti. Facile che divenga oggetto di stigmatizzazione e campagne d’odio, peraltro fondate sulla menzogna.

Secondo la logica ferrea che lega tutti i diritti fondamentali l’uno all’altro, se si attaccano le libertà civili, in particolar modo in un regime politico di massa che ambisca a definirsi costituzionale e democratico e non plebiscitario (magari di un nuovo plebiscitarismo tecnocratico), è facile che anche la libertà politica sia a rischio: nel “trentennio inglorioso” del neoliberismo e del globalismo si è cominciato con l’attacco ai diritti sociali, al Welfare e al lavoro, si è proseguito con la messa fra parentesi della sovranità democratica in nome delle emergenze (prima finanziaria, oggi sanitaria), per arrivare alla messa in questione dei diritti di libertà. Tra cui, oltre a quelli civili, tradizionalmente liberali, figurano anche quelli di partecipazione politica, associazione ed espressione del dissenso.

(..)  La pretesa di neutralizzare definitivamente il conflitto – pretesa che è la vera ratio dell’emergenzialismo e della tecnopolitica – , è in sé eversiva e antidemocratica. Il primo pericolo per la democrazia proviene oggi dall’alto, dai poteri costituiti. Un capitolo estremo di quello che Gramsci chiamava il sovversivismo dall’alto delle classi dirigenti: le attuali élites neoliberali, alle strette per la crisi del paradigma antipopolare e antisociale che hanno perseguito pervicacemente da almeno un trentennio e perciò incattivite, sembrano pronte a tutto. Gli apprendisti stregoni dell’emergenza permanente e della prevenzione assoluta rischiano di evocare, con l’uso disinvolto dello stato di necessità come eccezione giustificata, potenze incontrollabili, alimentando il caos, producendo anomia. Che forze le quali dicono di ispirarsi a un ormai vago “progressismo” si rendano disponibili per tali operazioni, e anzi ne siano le mosche cocchiere, è triste ma del tutto coerente con le scelte e l’impostazione culturale della ex-sinistra nell’ultimo trentennio.”

Da Fuga dalla libertà, di Geminello Preterossi.

Epidemie e controllo sociale

Con la crisi pandemica è nato un nuovo dispositivo di controllo sociale e bio-politico che si può definire la colpevolizzazione del cittadino. Un epilogo che certo non dispiace alla classe dirigente del Paese, che avrà la possibilità di nascondere, dietro lo stereotipo dell’italiano indisciplinato – peraltro falsificato, una volta tanto, da ogni statistica – quella catena di errori, ritardi, leggerezze, mancanze e forzature della Costituzione, che prima hanno mandato la situazione fuori controllo nelle regioni del Nord, e poi costretto decine di milioni di persone agli arresti domiciliari. Una narrazione che ha fatto comodo ai media e agli organi di informazione, che da un lato hanno costruito la favola del modello italiano, e dall’altro hanno aperto la stagione della caccia all’uomo, con una retorica di colpevolizzazione dei comportamenti più innocui, che ha distolto l’attenzione da cose ben più serie.

Quello che il ciclo epidemico rischia di lasciarci in eredità, insieme al costo umano e al danno economico, è la rottura del contratto sociale su cui si fonda la convivenza: e le conseguenze della crisi sulla vita civile del Paese, se non si riconducono gli eventi alle proporzioni corrette, potrebbero essere perfino più gravi della spaventosa recessione economica in corso.

La communitas è incompatibile con l’immunitas


“Come abbiamo scritto poc’anzi, in certi momenti, è necessario, per il sovrano, ostacolare o impedire tutte le forme nelle quali l’uomo può manifestarsi nella sua veste di zoon politikon, perché queste potrebbero mettere in pericolo la sopravvivenza del “regno” e, in particolare, della ratio status che ne è il fondamento.
Nella fattispecie odierna, visto che il contenuto esclusivo dell’opera di governo (almeno formalmente), è quello della protezione della vita (zoè) della popolazione/gregge, è necessario (almeno secondo la motivazione “fattoidale”), impedire la vita comunitaria delle persone (bios), nella quale si manifestano, non solo, tutte le forme di attività politica, ma anche l’asseverazione della realtà secondo sensus communis, che viene generata dall’incontro e dall’interazione coi propri simili, nel mondo comune.
Ovvero, per dirla con Artaserse, bisogna impedire il formarsi conventicole, anche fatte di sparuti aggregati di persone, che possano mettere in dubbio, non solo, la legittimità e l’azione del sovrano, ma anche l’immagine della realtà che risponde ai suoi desiderata, quella confezionata quotidianamente dalle solerti fabbriche di fattoidi al suo servizio.
A maggior ragione, questo è indispensabile se vi è l’ulteriore pericolo che queste conventicole possano assumere una forma e una “consistenza” politica tale da manifestare i dubbi a gran voce. Per limitare questo rischio, non vi è nulla di più efficace che impedire, di fatto, la vita comunitaria, “distanziando socialmente” gli individui, rendendoli impauriti e diffidenti nei confronti dei propri simili, in modo che non abbiano contatti tra loro se non quelli “funzionali”, necessari alla sopravvivenza.
Un tempo, le “contestazioni” prendevano origine nei luoghi che, per definizione implicano una collettività: le fabbriche (e i luoghi di lavoro in senso lato), le università, le scuole. Ora, la “necessità” profilattica di distanziamento fisico ottiene l’effetto di rendere impossibili questi tipi di aggregazione collettiva divenendo appieno un “distanziamento sociale”, che è il reale obiettivo del Sovrano.
Le norme che impediscono gli assembramenti hanno soppresso, di fatto, qualsiasi di forma associativa e comunitaria e, quindi, politica in senso lato. Il contatto tra le persone è stato sostituito e monopolizzato da una comunicazione mediata dai dispositivi elettronici, come nel caso del lavoro e della didattica “a distanza”.
A questo punto non appare così peregrino il pensare che, dal punto di vista del Sovrano, quest’epidemia sia stata provvidenziale, poiché tutte le misure profilattiche impediscono il manifestarsi della comunità, della polis, per lasciare in essere solo il rapporto verticale tra sudditi e Sovrano, dato che, la scomparsa di qualunque tipo di azione politica “intermedia”, così come si manifesta e si è sempre manifestata nell’essere sociale, è resa possibile dall’eliminazione di «ogni rapporto sociale estraneo allo scambio individuale tra protezione e obbedienza».
La sfera politica tutta si è condensata nella mera azione di governo (il Sovrano) e questa ha, come unico oggetto, la protezione della vita biologica della popolazione, di fronte ad una minaccia esibita sotto forma di fattoide. Ciò che costituisce un rischio, di fronte all’epidemia, è la communitas, in quanto tale, e, pertanto, è la communitas, il nemico da combattere, che va eliminato e sostituito da una forma politica nella quale vi possa essere soltanto una relazione tra individui isolati e il potere sovrano, che deve regnare incontrastato, senza limitazione alcuna da parte dei “contrappesi” previsti dalle democrazie liberali, allo scopo di proteggere la popolazione dalla minaccia incombente.
Data la natura della minaccia, non è più possibile, quindi, l’esistenza di una comunità politica che si manifesti nelle modalità di vita comune dell’“essere sociale”, ma può esservi solamente una popolazione di monadi isolate, in balia della realtà fantasma confezionata dall’arbitrio del potere sovrano, nella quale la desocializzazione allontana il pericolo che questo potere venga messo in discussione.
(…) di fatto, tutto ciò che esuli dalla sfera della mera conservazione della vita è, oggi, negato.
La liturgia biopolitica è fatta di simboli che danno una forma e un indirizzo alla società, e determinano l’inclusione e l’esclusione in una sublime, quanto assurda, antinomia: si può essere inclusi nell’essere sociale, determinato dal Sovrano, solo escludendosi dalla vita comune, perché la communitas è incompatibile con l’immunitas.”

Da L’annichilimento dell’essere sociale e l’ontologia fantasma, di Pier Paolo Dal Monte.

Le tensioni sociali secondo Klaus Schwab ed il Forum Economico Mondiale

Da Covid-19: the Great Reset, di Klaus Schwab e Thierry Malleret, Forum Publishing, pp. 65-68.

Uno dei pericoli più profondi a cui si va incontro nell’era post-pandemia è l’agitazione sociale. In alcuni casi estremi, potrebbe condurre alla disintegrazione della società e al collasso politico. Innumerevoli studi, articoli e avvertimenti contengono l’evidenziazione di questo particolare rischio, basato sull’ovvia osservazione che quando la gente non ha lavoro, non ha reddito e non ha prospettive per una vita migliore, spesso ricorre alla violenza. La citazione a seguire cattura l’essenza di questo problema. Si applica agli USA, ma le sue conclusioni sono valide per la maggior parte dei Paesi in giro per il mondo:
“Quelli che sono lasciati senza speranza, senza lavoro, e senza beni potrebbero facilmente rivoltarsi contro quelli che stanno meglio. Già qualcosa come il 30% di Americani ha una ricchezza pari a zero o negativa. Se più gente emergerà dalla crisi corrente con né soldi, né posti di lavoro, né accesso alle cure sanitarie, e se questa gente diventa disperata e arrabbiata, scene tali come la recente fuga di prigionieri in Italia o i saccheggi che seguirono dopo l’uragano Katrina a New Orleans nel 2005 potrebbero diventare accadimenti abituali. Se i governi dovranno ricorrere all’uso di forze paramilitari e militari per sedare, ad esempio, rivolte o attacchi alle proprietà, le società potrebbero cominciare a disintegrarsi.”
Ben prima che la pandemia avesse travolto il mondo, le agitazioni sociali erano state in aumento a livello globale, quindi il rischio non è nuovo ma è stato amplificato dal Covid-19. Ci sono differenti modi di definire cosa costituisce tensione sociale ma nel corso dei due anni passati più di 100 significative proteste antigovernative sono avvenute in giro per il mondo, dalle rivolte dei gilet gialli in Francia alle dimostrazioni contro gli uomini forti in Paesi come Bolivia, lran e Sudan. La maggior parte di queste proteste furono soppresse da brutali repressioni e molte sono andate in letargo (come l’economia globale) quando i governi hanno costretto le loro popolazioni a stare in isolamento per contenere la pandemia. Ma dopo che il blocco di riunirsi in gruppi e manifestare in strada sarà revocato, è difficile immaginare che le vecchie rimostranze e il malcontento sociale temporaneamente soppressi non esploderanno di nuovo, possibilmente con forza rinnovata. In questa era post-pandemia, i numeri dei disoccupati, preoccupati, tristi, risentiti, malati ed arrabbiati aumenteranno drammaticamente. Si accumuleranno tragedie personali, fomentando rabbia, risentimento ed esasperazione in diversi gruppi sociali, compresi i disoccupati, i poveri, gli immigrati, i detenuti, i senza tetto, tutti quelli lasciati fuori… Come potrebbe tutto questo non finire in un’esplosione? I fenomeni sociali spesso mostrano le stesse caratteristiche come le pandemie e, come osservato nelle pagine precedenti, i punti critici si applicano in entrambi i casi allo stesso modo. Quando la povertà, la sensazione di essere emarginati ed impotenti raggiungono certi punti critici, l’azione sociale dirompente spesso diventa l’opzione di ultima istanza.
Nei primi giorni della crisi, persone importanti hanno fatto eco a tali preoccupazioni e messo in allerta il mondo sul crescente rischio di agitazioni sociali. Jacob Wallenberg, l’industriale svedese, è uno di loro. Nel marzo del 2020, scrisse: “Se la crisi continuerà per lungo tempo, la disoccupazione potrebbe raggiungere il 20-30 per cento mentre le economie potrebbero contrarsi del 20-30 per cento… Non ci sarà ripresa. Ci saranno agitazioni sociali. Ci sarà violenza. Ci saranno conseguenze socioeconomiche: disoccupazione a livelli drammatici. I cittadini soffriranno drammaticamente: alcuni moriranno, altri si sentiranno malissimo.” Siamo ora oltre la soglia di ciò che Wallenberg considerava essere “preoccupante”, con un tasso di disoccupazione superiore del 20% fino ad arrivare oltre il 30% in molti Paesi del mondo e con la maggior parte delle economie che si sono contratte nel secondo trimestre del 2020 oltre a un livello che precedentemente era considerato un livello di preoccupazione. Come questo andrà a finire e dove i disordini sociali avverranno più probabilmente e in che misura?
(…)
È importante enfatizzare che nessuna situazione è scolpita nella pietra e che non ci sono cause scatenanti “meccaniche” per i disordini sociali – essi rimangono un’espressione di una dinamica umana di carattere collettivo e di uno stato d’animo che è dipendente da una moltitudine di fattori. Fedeli alle nozioni di interconnessione e complessità, le esplosioni di tensioni sociali sono tipici eventi non lineari che possono essere scatenati da un’ampia varietà di fattori politici, economici, sociali, tecnologici e ambientali. Variano da cose così diverse come gli shock economici, avversità causate da eventi atmosferici estremi, tensioni razziali, scarsità di cibo e persino sentimenti di ingiustizia. Tutti questi inneschi, e altri ancora, quasi sempre interagiscono l’uno con l’altro e creano effetti a cascata. Quindi, specifiche situazioni di tumulto non possono essere previste, ma possono, comunque, essere anticipate. Quali Paesi sono più suscettibili? A prima vista, i Paesi più poveri con nessuna rete di sicurezza e Paesi ricchi con deboli reti di sicurezza sono più a rischio perché non hanno nessuna o pochissime misure politiche come benefici per la disoccupazione per attenuare la perdita di reddito lavorativo. Per questa ragione, società fortemente individualistiche come gli USA potrebbero essere più a rischio rispetto a Paesi europei o asiatici che o hanno un grande senso di solidarietà (come nell’Europa meridionale) oppure hanno un migliore sistema sociale per assistere gli svantaggiati (come nell’Europa settentrionale). Alcune volte, le due cose avvengono assieme. Paesi come l’Italia, per esempio, posseggono sia una forte rete di sicurezza che un forte senso di solidarietà (particolarmente in termini intergenerazionali). In modo simile, il Confucianesimo prevalente in così tanti Paesi asiatici mette un senso del dovere e di solidarietà intergenerazionale prima dei diritti individuali; esso da anche grande valore alle misure e alle regole che beneficiano la comunità nel suo insieme, Naturalmente, tutto questo non vuol dire che i Paesi europei ed asiatici sono immuni dalle agitazioni sociali. Tutt’altro! Come il movimento dei gilet gialli ha dimostrato in Francia, forme violente e continue di tensioni sociali possono esplodere in Paesi dotati di una robusta rete di sicurezza sociale ma dove le aspettative sociali sono lasciate insoddisfatte.
L’agitazione sociale influenza negativamente il benessere sia da un punto di vista economico che da un punto di vista sociale, ma è essenziale enfatizzare che non siamo impotenti di fronte a potenziali agitazioni sociali, per la semplice ragione che i governi e in minore misura le aziende od altre organizzazioni possono prepararsi per mitigare il rischio tramite l’attuazione di giuste politiche. La più grande causa sottostante delle agitazioni sociali è la disuguaglianza. Gli strumenti politici per combattere inaccettabili livelli di disuguaglianza esistono ed essi spesso risiedono nelle mani dei governi.

Traduzione a cura della redazione

 

Lode alla crisi

“Occorre impedire che l’umanità imbocchi questa strada, bisogna combattere l’ideologia dell’élite mondialista. Occorre farlo con ogni mezzo, occorre farlo sin da ora. Anzitutto smascherando il grande inganno della “pandemia”, contrastando l’uso biopolitico autoritario che ne viene fatto, quindi opponendo un’opposta visione della società e del mondo. Perderemmo la partita se spingessimo il nostro tecno-pessimismo fino ad abbracciare un’idea di società arcadica e agreste — equivarrebbe ad auto-esiliarci nella riserva indiana che lorsignori hanno già immaginato per quelli come noi. Non si può opporre un’utopia ad una distopia, nostalgie passatiste alla progressistica furia del dileguare.
Accettare davvero la sfida significa concepire un’idea opposta di progresso, in cui la scienza sia spodestata dal suo piedistallo e considerata una delle forme del sapere nient’affatto quella suprema, in cui la tecnica sia un mezzo per l’uomo e non viceversa, in cui le forze economiche siano sottoposte a controllo sociale. Infine, contro ogni irenismo, dobbiamo ribadire che il conflitto e la lotta sono la vera forza motrice della storia, che l’umano spirito di libertà, in ultima istanza, sempre prevarrà rispetto a quello della sottomissione e della servile obbedienza.
Occorre darsi una mossa poiché siamo molto indietro per quanto attiene ad un progetto fattibile di un’alternativa di società. Per questo occorre fare come Pollicino: dobbiamo rubare gli stivali all’orco per procedere spediti in una diversa direzione.
Occorre farlo ora che l’umanità è posta innanzi ad un bivio. Siamo appena entrati uno di quei passaggi storici in cui la bonaccia lascia il posto alla tempesta, alle porte di una rottura e di un brusco salto che deciderà del futuro della civiltà. L’élite ha drammatizzato la “pandemia” ed è riuscita così a trasformarla nell’evento scioccante per giustificare il salto sistemico. Invece di cadere preda dello sconforto, occorre avere l’audacia di utilizzare lo shock per utilizzarne la forza di spinta.
Lode dunque alle crisi! come sostenne Jakob Burckhardt:
«La crisi deve essere considerata come un nuovo nodo dello sviluppo […] Energie insospettate si risvegliano negli individui, nelle masse, e perfino il cielo ha un altro colore. Chi è qualcosa può farsi valere, perché le barriere sono state o vengono infrante».
Le vecchie barriere stanno in effetti cadendo. Sta a noi mostrare se siamo qualcosa, pensare e agire per farci valere.”

Da La sfida dell’avvenire, di Moreno Pasquinelli.