Siria e terrorismo

Se l’Occidente persevera nei suoi errori, il nostro futuro è tragico…

Mentre scriviamo, nel sud della Siria, presso Al Zagif (tra Al Tanf e il fiume Eufrate), forze speciali USA e britanniche mettono a punto un campo di addestramento avanzato per le cosiddette Guardie Rivoluzionarie, un gruppo islamista nato sulle ceneri del disciolto New Syrian Army, ex perla della CIA. I due gruppi, nati ufficialmente per combattere l’ISIS, in realtà sono stati istituiti con l’obiettivo di sottrarre ad Assad i confini tra Siria e Iraq, di cui il valico di Al Tanf è uno dei perni principali.
In queste ore, i ribelli, equipaggiati dagli USA con gli stessi materiali forniti agli arabo-curdi delle Syrian Democratic Forces, contrastano l’avanzata dell’esercito siriano che con l’aiuto di Russi e filoiraniani cerca di riprendere il controllo delle frontiere meridionali. I recenti raid aerei della Coalizione anti-ISIS, parlano chiaro (leggi articolo 1 e articolo 2).
Sempre mentre scriviamo, persiste l’abominevole campagna mediatica mainstream che davanti agli attentati di Londra e a decine di morti innocenti, continua a mascherare l’unica scomoda realtà: la jihad sunnita che alimenta il terrorismo internazionale è stata creata dall’Occidente (USA e UE con l’occhiolino di Israele), a cui è poi sfuggita di mano. Anziché colpire i responsabili e arginare il flusso che li foraggia, si continua a contrastare gli unici che combattono lo Stato Islamico, cioè il governo siriano e i suoi alleati. L’obiettivo principale è assecondare l’Arabia Saudita, proprietaria di molti assets finanziari in USA ed Europa, nel suo gioco di opposizione all’Iran sciita, unica potenza regionale “fuori controllo”.
Chiariamo alcuni aspetti.
Piuttosto che dibattere sulle ragioni di Assad, pedina di un gioco evidentemente più grande, o quelle di un Iran comunque non immune da responsabilità politiche e storiche, sembra più opportuno non perdere il lume della ragione, ormai sfuggito a molti.
Andiamo per passi.
Su queste pagine, da anni ricordiamo che lo Stato Islamico è nato dalle macerie del regime sunnita iracheno di Saddam Hussein. La geniale mossa americana del 2003 di sciogliere gli apparati politici e militari di un Paese a maggioranza sciita ma governato da un clan sunnita, è stato il primo passo; il secondo è stato approfittare del caos post-bellico per favorire una struttura parastatale (lo Stato Islamico appunto), che arginasse la crescita dell’Iran, unico vero incubo di Israele e dei suoi partner arabi (Arabia Saudita e Paesi del Golfo). La principale conseguenza dell’anarchia seguita a Iraqi Freedom è stata proprio il ritorno in cattedra degli sciiti arabi, maggioranza in Iraq ma abbastanza forti anche in Arabia Saudita, Bahrein e Yemen.
Ecco quindi il punto. Se comprendiamo che dietro lo sciismo incombe l’ombra della Persia, spauracchio di tutti i seguaci della Sunna, allora ne deriviamo una realtà incontrovertibile: la Seconda guerra del Golfo si è dimostrata un errore di calcolo di portata secolare dell’amministrazione Bush.
A quanto pare però, gli errori sono come le ciliegie: l’uno chiama l’altro. La violenza incontrollata della jihad sunnita, sfociata in atti di terrorismo inaccettabili per l’opinione pubblica globale, ha costretto l’Occidente a prendere le armi contro l’ISIS nel 2014. Inherent Resolve, l’armata dei buoni arrivata a togliere le castagne dal fuoco in Iraq, è nata però come un salto nel buio che ha indotto generali e politici in un inevitabile cul de sac: la crociata internazionale contro il terrorismo islamico in Iraq e Siria, prima o poi si sarebbe rivelato un boomerang.
Per capire meglio il perché, offriamo ai lettori uno spunto di riflessione: perché non si parla più della liberazione di Mosul in Iraq da parte della Coalizione anti-ISIS? La grande copertura mediatica e il rullo di tamburi scattati a ottobre 2016 sono improvvisamente cessati… Facendo una rassegna stampa di quei giorni, sembrava che il giudizio universale fosse prossimo e che il mondo libero avesse ormai in pugno i cattivi tagliagole di turno; passati sei mesi, le notizie di Mosul ormai liberata arrivano col contagocce.
Un caso? Niente affatto. La ragione è evidente.
Il grosso dello sforzo militare nell’Iraq nordoccidentale non lo fanno più le truppe irachene a guida americana, ma le PMU, le milizie sciite equipaggiate e controllate direttamente dall’Iran, con l’appoggio ambiguo del governo iracheno, il cui premier Al Abadi è sciita. Le milizie sciite hanno già raggiunto il confine tra Iraq e Siria all’altezza del territorio controllato dai curdi del Rojava (Kurdistan siriano). L’intenzione di scacciare l’ISIS per controllare i valichi fra i due Paesi con l’aiuto diretto iraniano, non è più un tabù. La presenza di alti ufficiali di Teheran al fronte per ispezionare le linee dei miliziani, è stata segnalata più volte nelle ultime settimane.
I nodi a quanto pare, sono arrivati al pettine. Non si potrà sfuggire per molto tempo ancora alla domanda cardine: per l’Occidente è più importante distruggere l’ISIS e il terrorismo islamista o arginare l’Iran e i suoi alleati?
La risposta nemmeno troppo maliziosa è semplice: se noi occidentali avessimo voluto chiudere la partita con lo Stato Islamico, lo avremmo fatto in due settimane al massimo.
Chiudiamo l’articolo mentre da Deir Ezzor, in Siria, arrivano notizie di una controffensiva jhadista contro le forze di Assad. La guerra non si fa solo con miliziani drogati e fucili: ci vogliono mezzi, equipaggiamenti, intelligence, esperienza, infrastrutture e soprattutto tanti, tantissimi soldi. Gli aiuti al Califfato continuano a piovere dal Governatorato iracheno di Anbar che arriva fino ai confini dell’Arabia Saudita. Lo sappiamo tutti, ma fingiamo che non sia così. Nel festival dell’ipocrisia non poteva mancare la notizia bomba dell’ultim’ora: Riad accusa il Qatar di finanziare Al Qaeda, l’ISIS e la jihad in genere. Si parla addirittura di rottura diplomatica con Doha. La corsa al capro espitario evidentemente è iniziata…
Il punto di non ritorno sembra dunque arrivato. Mentre a Londra si piange per gli attentati, una politica estera suicida continua in silenzio nella stessa direzione di sempre. Il fronte atlantista, pur nelle sfumature e nelle diversità che lo caratterizzano, insiste a trafficare con i Paesi che finanziano nemmeno troppo in sordina l’estremismo islamico. Per pura etica umana, sarebbe il caso di raccontarlo, cercando di spiegarlo magari alle famiglie di decine di innocenti che in Europa continuano a morire secondo un rituale macabro ormai passivamente accettato da tutti. Rinnoviamo le sanzioni alla Russia e bombardiamo Assad; seguiamo come un gregge intontito delle linee che ci portano verso non si sa quali interessi.
La nostra ipocrisia è più colpevole di mille bombe; i tramonti di morte della nostra civiltà hanno sempre più il colore rosso della vergogna.
Giampiero Venturi

Fonte

Kerry non si tocca più nemmeno con un cartello

A TRIPOLI, A TRIPOLI !

Perché un’azione è fallita

“DAESH, figlio delle vostre guerre, del vostro denaro e delle vostre armi”
“Siria, Libia, Iraq, Yemen: le vostre vittime”
“Arabia Saudita, Stati Uniti, Turchia: Stati sponsor del terrorismo”.

Dicevano tutto questo i cartelli gialli bifronte in inglese che avremmo voluto mostrare, azione diretta ai media del mondo, al segretario di Stato USA, John Kerry e al suo omologo italiano Paolo Gentiloni, alla conferenza stampa affollatissima che concludeva i “lavori” dello “Small Group”ossia la Coalizione antiDAESH. Lo “Small Group” contiene tutti i compagni di merende che negli anni hanno fatto crescere il Nuovo Califfato: Arabia Saudita, USA, Turchia, Qatar, la NATO e il Golfo nel suo complesso. Certo non sarebbe stato epico come la scarpa del giornalista iracheno a Bush, ma sarebbe servito.
Questa conferenza stampa rappresentava una grossa occasione per dire la verità in faccia al sovrano e davanti a moltissimi media, altrimenti irraggiungibili.
Giorni prima era stato proposto a vari mediattivisti di entrare per un’azione di gruppo, ma così non è stato. Senza entrare nel merito, è un fatto che se in conferenza stampa dieci, o anche cinque persone sparse in sala avessero per lo meno provato ad estrarre ed esporre cartelli, vi sarebbe stato un grande impatto, quindi l’azione sarebbe comunque un successo. Un’occasione mancata.
Finalmente la conferenza stampa del sovrano con il seguito ha inizio. Dopo il racconto di Kerry sulle magnifiche gesta antiDAESH e le non-domande pre-concordate (seguirà un resoconto) di giornalisti USA e italiani (Washington Post, Corsera e Ansa), malgrado la mano ripetutamente alzata per chiedere di fare una domanda capiamo che non c’è spazio per altro: tutto sta finendo con i saluti e baci. Arriva dunque il momento di agire.
In altre due occasioni (pre attentati di Parigi) le azioni erano tecnicamente riuscite, con domande ed esibizione di cartello: Roma, 28 febbraio 2013 conferenza stampa degli “Amici della Siria” con Kerry, Terzi (l’allora ministro degli Esteri) e l’oppositore siriano Khatib; conferenza stampa di Trident Juncture NATO, a Trapani, il 19 ottobre scorso.
Dagli attentati di Parigi però tutto è cambiato. Non appena mettiamo mano ai cartelli già pronti per essere aperti, carabinieri e Digos in divisa e in borghese ci saltano addosso e ce li scippano.
Nemmeno il tempo di tirarli su per un secondo. Una rapidità ed efficienza inusitate.
Strappano i cartelli per evitare che chiunque li possa leggere e ci portano via. Per lo stupore, solo sulla soglia mi viene in mente infine di urlare, e riesco a dire: “You created DAESH”, quando ormai Kerry stava purtroppo uscendo indenne e mentre la gran parte dei giornalisti non capisce nulla di quel che sta accadendo.
Marinella Correggia – Stefania Russo

Propaganda e tensione

Quale migliore finzione di quella in cui il perpetratore si presenta come protettore delle sue vittime e custode della loro sicurezza?

“Se facciamo astrazione per un momento dalla canea mediatica che subito ha accompagnato, in diretta persino, i più recenti avvenimenti di Parigi, è possibile delineare delle caratteristiche comuni tra quanto è successo sabato [14 novembre u.s. – n.d.r.] nella capitale francese e tutti gli altri eventi di consimile natura. Gli stessi fatti parigini dello scorso gennaio rientrano in questo quadro.
D’altro canto, la pronta mobilitazione della macchina della propaganda occidentale, col suo monopolio dell’informazione e della comunicazione, si è rivelata per l’ennesima volta una parte integrante indispensabile della nuova operazione ai danni della popolazione civile e della opinione pubblica internazionale. Vomitando su tutti noi il loro letame mediatico, i Network dell’Occidente si sono comportati come un rullo compressore che ha diffuso un’unica versione di comodo dei fatti, additando nell’Islam radicale il responsabile degli accadimenti. E lo hanno fatto con un preciso scopo in mente e con l’intenzione di raggiungere una pluralità di fini determinati. Fra poco li vedremo.
D’altra parte, se una volta il personale dei servizi che a frotte lavorava in queste agenzie (TV, giornali, carta stampata in genere, Atenei, ecc.) si meritava l’appellativo di “prostituta intellettuale” (testuale John Swinton), oggi il suo status si è addirittura inasprito e questi soggetti sono ormai diventati dei veri e propri agenti in doppiopetto propensi a delinquere e facilitatori del terrorismo di Stato. Non solo. La macchina della propaganda che servono e di cui sono esponenti è divenuta ormai parte attiva in causa nella fabbricazione delle guerre e svolge un ruolo di primo piano nella loro promozione. In una ipotetica società governata dalla giustizia, i suoi funzionari dovrebbero essere trascinati in tribunale per rendere conto delle loro attività. La realtà, diceva Borges, è sempre anacronistica, e possiamo dunque di sicuro aspettarci un’escalation di simili eventi anche in altre parti del Vecchio Continente, del resto già preannunciati e debitamente amplificati poi dai cosiddetti social media e dai Megamedia tradizionali. D’altro canto, è anche logico che conoscano in anticipo le cose, visto che i perpetratori si trovano all’interno dei loro ranghi e loro stessi ne sono il braccio propagandistico.”

La natura occidentale del terrorismo. La realtà dietro gli schermi di fumo dei media, di Franco Soldani continua qui.

La missione dell’ISIS

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“Nel breve termine – come dichiarato all’indomani dell’eccidio di Charlie Hebdo, dall’organo officiale di ISIS, la rivista online Dabiq, “i musulmani in Occidente si troveranno presto di fronte ad un bivio” visto che l’effetto dell’attacco è stato quello di polarizzare le reazioni della società, eliminando la “zona grigia” rappresentata da coloro che professano la pacifica coesistenza di culture e religioni diverse.
In sostanza l’organizzazione ha inteso dichiaratamente estremizzare le posizioni dei fedeli, mirando a far sì che la reazione della popolazione cristiana faccia sentire i musulmani non più benvenuti nei Paesi che li ospitano. Insomma il califfato vuole spingere i musulmani che vivono nei Paesi occidentali o a rinnegare l’Islam o “a emigrare verso lo Stato Islamico per sfuggire alla persecuzione dei governi crociati e dei propri concittadini”. Con il secondo attacco di Parigi – peraltro già anticipato da Dabiq – si è in sostanza inteso manifestamente suscitare una sempre crescente ostilità tra i musulmani e le popolazioni di altre confessioni religiose all’interno dei Paesi occidentali in cui vivono.
Nulla di nuovo in questo, è una strategia che già aveva usato Al-Qaeda nell’Iraq post-invasione, favorendo lo scoppio della guerra civile.
In una lettera a Osama Bin Laden, Abu Musa’b al Zarqawi espressamente propose di provocare tale conflittualità, con un attacco alla maggioranza scita da parte della minoranza sunnita. “Se riusciremo a trascinarli – scriveva Zarkawi – nell’arena della guerra di sette sarà possibile risvegliare i sunniti visto che si sentiranno in pericolo imminente di annientamento e morte.”
La strategia sembra in parte funzionare, viste le reazioni di parte della cosiddetta società civile che ha iniziato a inneggiare all’espulsione o al non accoglimento dei profughi o alla demonizzazione dei musulmani in generale, nonostante la maggior parte di questi ultimi non nutra simpatia alcuna per le posizioni del Califfato.
Appare pertanto evidente come il cosiddetto ‘scontro di civiltà’ venga attivamente perseguito non soltanto dalle élite occidentali ma anche dalla strategia dello Stato Islamico.
Ciò conferma l’ipotesi di una convergenza d’interessi di coloro che stanno pianificando lo scontro tra l’Occidente materialista e l’Oriente dell’idealismo capovolto.
(…)
L’unico possibile intervento efficace – come alcuni sagaci commentatori politici sostengono – sarebbe quello di realizzare un efficace embargo intorno alle aree occupate dal califfato, privando i militanti di approvvigionamenti, armi ed energia.
Ma un tale embargo, come sappiamo, sarà di difficile realizzazione per un motivo ben preciso.
Vale a dire per il fatto che l’ISIS è in realtà una creatura dell’Occidente, creata, organizzata e finanziata con lo scopo di mantenere alto il livello di paura e di insicurezza di interi popoli, pronti a rinunciare a porzioni sempre maggiori di libertà ed autonomia.
Attraverso la manipolazione mediatica si vuole palesemente ottenere determinati effetti, si vuole alimentare l’odio e la paura e, al tempo stesso, far ingrassare sempre più le corporation delle armi che oggi dispongono di budget stratosferici, che altrimenti, senza un nemico da combattere, sarebbero palesemente ingiustificabili di fronte all’opinione pubblica mondiale.
(…)
Gli USA sono il vero e proprio ‘cervello’ di tutta questa operazione. Dopo aver causato, con l’invasione dell’Iraq del 2003, ma soprattutto con l’eliminazione – dalla sera alla mattina – di tutti i quadri dell’esercito iracheno, che sono passati armi e bagagli alle schiere dei ribelli, ha consentito l’uso delle proprie basi militari in Turchia, Giordania, Qatar, Iraq e Arabia Saudita. Arma i cosiddetti ‘ribelli siriani’ che poi passano all’ISIS. Senza parlare di testimonianze di ufficiali iracheni che sostengono che l’aeronautica USA rifornisca l’ISIS con lanci di materiali ed armi dal cielo.
Le azioni di questi Paesi, affiancati dalla manipolazione mediatica e dai servizi segreti collusi ha reso possibile ai cittadini dell’Occidente la percezione di una nuova contrapposizione tra due blocchi avversari, procedendo nel percorso verso un Nuovo Ordine Mondiale nel quale una sempre maggiore egemonia dei superstati sostituirà le autonomie delle nazioni e i margini di libertà dei popoli.
E l’ISIS è un prezioso alleato in questo percorso.
Perché dovrebbero privarsene?”

Da Nel nome dell’ISIS, di Piero Cammerinesi.

Siria: contro i complici dell’ISIS, l’Italia si dissoci dalla NATO

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La decisione del governo turco di abbattere un aereo militare russo che transitava sui cieli siriani per colpire i terroristi, nel quale uno dei piloti sarebbe morto come hanno riferito i miliziani di un gruppo di ribelli siriani anti-Assad, imprimono una nuova drammatica spinta all’escalation della lotta per il potere e il controllo delle risorse petrolifere in corso in Medio Oriente. Dopo aver finto di colpire l’ISIS, represso brutalmente il popolo curdo e avere ottenuto una parziale vittoria alle recenti elezioni politiche, Erdogan ribadisce il carattere criminalmente spregiudicato delle sue azioni, rischiando di precipitare la regione e l’intero pianeta in una crisi suscettibile di conseguenze esiziali, con lo scatenamento di un conflitto mondiale.
Ovviamente l’aspirante Sultano ha deciso di colpire i Russi con il beneplacito dell’alleanza militare di cui fa parte e del suo capofila, gli Stati Uniti d’America, anche se si può ipotizzare che le sue decisioni rispondano in buona misura a una logica di forzatura e di ricatto che non gli è mai stata estranea. E’ del resto noto come in seno all’amministrazione statunitense sia in corso una battaglia di posizioni strenua ed accanita. Abbattendo l’aereo militare russo Erdogan ha voluto dare il suo contributo al prevalere delle posizioni peggiori e guerrafondaie.
Si tratta altresì di una risposta, di contenuto inequivocabile, alle offerte di Putin di intraprendere, in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, una politica coordinata di repressione militare dell’ISIS e di isolamento dei suoi principali complici: Arabia Saudita, Qatar e per l’appunto Turchia. Ciò dimostra come non vi sia, da parte di buona parte dell‘establishment occidentale che si riconosce oggi nelle posizioni avventuriste di Erdogan, nessuna seria volontà di combattere l’ISIS, che si conferma per questi signori un efficace strumento, nonostante i numerosi crimini compiuti dai terroristi, da ultimo la spaventosa strage di civili a Parigi. Strage del resto avvenuta non a caso nella capitale francese, come monito preciso nei confronti di Hollande a non intraprendere iniziative autonome nella lotta al terrorismo. Che non vi sia alcuna volontà di colpire l’ISIS è dimostrato dalla circostanza che le potenze occidentali non attaccano, come denunciato da Prodi, i pozzi petroliferi in mano ai terroristi, arrecando loro un grave danno limitando al massimo le perdite fra le popolazioni civili tuttora sottoposte alla dominazione del Califfo.
NATO e USA, dopo un iniziale silenzio, hanno avallato il rischiosissimo gioco di Erdogan, tirando in ballo, del tutto a sproposito, la difesa del territorio turco.
L’Italia deve dissociarsi apertamente dalle posizioni omertose della NATO e intraprendere ogni procedura necessaria per la denuncia di questa alleanza militare, che da tempo ha perduto ogni ragione d’essere e si sta trasformando, specie alla luce della drammatica evoluzione della crisi siriana, in un potente fattore di destabilizzazione internazionale, trascinando il mondo verso una guerra mondiale dalla quale il nostro Paese e l’Europa intera devono restare fuori a tutti i costi.
Uscire dalla NATO costituisce del resto oggi un’esigenza urgente anche per conferire efficacia alla battaglia per sradicare il terrorismo e dare una soluzione pacifica alla crisi siriana. E’ infatti impensabile che una risposta efficace all’ISIS possa essere data in compagnia di coloro che, come il governo turco, ne sono oggi i principali complici. Lotta al terrorismo e soluzione pacifica del conflitto civile in Siria, fortemente voluto dagli Stati sponsor dell’ISIS e da buona parte del governo statunitense, vanno di pari passo. Ma per raggiungere questi due obiettivi occorre buttare a mare le fallimentari strategie di dominio perseguite dall’Occidente, che alimentano al tempo stesso guerra e terrorismo, con gravi sofferenze per tutte le popolazioni coinvolte.
Il Movimento Cinque Stelle e tutte le opposizioni, a partire dalle forze di sinistra che si stanno riorganizzando in seno al Parlamento e al Paese, devono quindi imporre al governo Renzi di assumere al più presto chiare scelte di condanne della Turchia e di dissociazione dall’atteggiamento della NATO, lanciando al tempo stesso una campagna di più lungo periodo per l’uscita del nostro Paese da questa perniciosa alleanza.
Fabio Marcelli

Fonte

La fitna che oggi divampa nel mondo musulmano

beheadings-300x229“Ora, mentre la maggior parte degli Arabi, dei Turchi, dei Pakistani è sunnita, come sunnita è pure l’Indonesia, che è il più popoloso dei paesi musulmani, il nucleo più compatto e numericamente consistente dell’Islam sciita è rappresentato dal popolo iraniano. Questa stretta relazione dell’Iran con la Scia viene oggi utilizzata in un quadro strategico ispirato alla teoria dello “scontro di civiltà”: i regimi del mondo musulmano alleati degli Stati Uniti e di Israele fanno un ricorso strumentale al dualismo “Sunna-Scia” al fine di eccitare lo spirito settario e dirigere le passioni delle masse contro la Repubblica Islamica dell’Iran, dipinta come irriducibile nemica dei sunniti e presentata come nucleo statuale dell’egemonia regionale “neosafavide” (fu sotto la dinastia safavide che nella Persia del XVI secolo la Scia diventò religione di Stato).
L’alimento ideologico del settarismo antisciita è costituito soprattutto, anche se non unicamente, dalle correnti wahhabite e salafite, le quali fin dal loro apparire sono state oggetto di riprovazione e di condanna da parte dell’ortodossia sunnita. Circa lo storico rapporto di solidarietà che collega tali manifestazioni di eterodossia all’imperialismo britannico e statunitense, ci siamo già dilungati altrove. Qui sarà opportuno osservare che il più recente e virulento prodotto delle suddette correnti, ossia il sedicente “Stato Islamico” (Daesh, Isis, Isil ecc.), palesemente sostenuto da Arabia Saudita, Qatar e Turchia, è lo strumento di una strategia americana finalizzata ad assicurare al regime sionista l’egemonia sul Vicino Oriente e quindi ad impedire il formarsi di un blocco regionale che dall’Iran si estenda fino al Mediterraneo.
Occorre inoltre notare la significativa somiglianza che intercorre tra il caricaturale e parodistico “Califfato” di al-Baghdadi e la petromonarchia saudita. Gli efferati e bestiali atti di sadismo compiuti dagli scherani del cosiddetto “Stato Islamico”, la devastazione sacrilega dei luoghi di culto tradizionali e la vandalica distruzione dei siti della memoria storica in Siria e in Irak, infatti, costituiscono altrettante repliche di analoghi atti di barbarie commessi dai wahhabiti nella penisola arabica. Il cosiddetto “Stato Islamico”, come è stato ampiamente mostrato sulle pagine di questa rivista, non è se non una forma radicale e parossistica di quella particolare eterodossia che ha il proprio eponimo in Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab. D’altronde, sia l’entità saudiana sia la sua replica denominata “Stato Islamico” devono entrambe la loro nascita e il loro sviluppo agl’interessi angloamericani ed alle scelte operative della geopolitica atlantica.
La “guerra civile” islamica, la fitna che oggi divampa nel mondo musulmano, trae dunque origine dall’azione combinata di un’ideologia settaria e di una strategia che i suoi stessi ideatori hanno chiamata “strategia del caos”.”

Da La guerra civile islamica, di Claudio Mutti, editoriale di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, n. 3/2015.

L’Islam buono e quello cattivo

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La memoria genetica dei musulmani.
Sessanta anni di stermini e di milioni di morti dimenticati dalla lotta al terrorismo. La decima crociata di Papa Bergoglio.

“Il passato e il suo ricordo possono intralciare gli indirizzi politici dei governi. Vengono pertanto revisionati, ristrutturati o sepolti.
A distanza di anni e di decenni hanno comunque la pessima abitudine di riemergere, di riprodursi con sembianze a volte deformate ed effetti tali da seminare sgomento e provocare reazioni anomale e controproducenti in Occidente. Il mondo musulmano vive ancora la nostra recente esperienza in Algeria e nel Medio Oriente, ma conserva una memoria genetica di un passato non troppo lontano, di persecuzioni e del sangue versato dopo la Seconda Guerra Mondiale. E prima o poi quella memoria tornerà a tormentare la coscienza del mondo occidentale.”

Trascriviamo queste note su quanto ci disse Ben Bella nel 1998. Ci aveva presentato all’eroe dell’Armata Popolare di Liberazione Luciana Castellina a Ginevra durante la marcia con cui veniva celebrato il 50° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Non volle parlarci del suo ruolo ad Algeri, della sua prigionia, dell’esilio dopo il colpo di Stato di Boumedienne, ma insistette a lungo sulle sue apprensioni per quanto ci teneva in serbo un futuro incerto, non solo di guerre ma anche di ingiustizia sociale. Parole accorate e profetiche di un personaggio famoso che non si considerava certo un vinto, ma neanche un vincitore trionfante della storia.
A rintracciare quelle note ci ha indotto un eccellente articolo di Tommaso Di Francesco su il Manifesto del 5 aprile scorso. C’è una distrazione generale, scrive, sull’ecatombe dei combattimenti e dei bombardamenti scatenati in Irak, Pakistan e Afghanistan dall’11 settembre 2001 al primo semestre del 2014: più di un milione e trecentomila morti, quasi tutti civili, senza contare le altre centinaia di migliaia di vittime in Siria e a Gaza. Morti che non hanno nome, che non contano niente. Stati Uniti e alleati europei, continuano a sganciare bombe accompagnati dal ritornello dei leader occidentali “Siamo in guerra contro il terrorismo, non contro l’Islam”. Il terrorismo di turno, almeno da otto mesi a questa parte, è quello dei tagliagole dello Stato Islamico, degli sciiti contro i sunniti e viceversa, armati e finanziati in alternanza o contemporaneamente dalla NATO, dagli Emirati, dall’Arabia Saudita e in misura decrescente dall’Iran mentre lo Stato israeliano di Netanyahu se ne sta a guardare più o meno compiaciuto.
Abbiamo poi l’Islam buono e quello cattivo, il primo che cerca invano l’integrazione nelle periferie desolate del mondo occidentale, il secondo minoritario, impermeabile alla cultura occidentale che fa strage di infedeli, cristiani e musulmani pacifici, in Medio Oriente, nel Nord Africa e in misura limitata anche in Europa. Tutti d’accordo perché come ha osservato a febbraio persino Time, il settimanale dedicato al primato di civiltà e allo “eccezionalismo” del popolo statunitense, questo vive in “un presente eterno in cui ogni riflessione è limitata a Facebook e la narrazione storica è delegata a Hollywood”.
Rischiamo ben volentieri di farci assegnare il ruolo di improbabili sostenitori dei tagliagole e ricordiamo per sommi capi alcuni eventi del dopoguerra che nelle parole di Ben Bella sono entrati nella “memoria genetica” del mondo musulmano, un mondo in quegli anni aperto, pacifico e generalmente incline ad abbracciare i valori della giustizia sociale.
In Indonesia, dopo l’indipendenza, è vero, era presente un partito comunista: bastò a Londra e Washington per abbattere con un colpo di stato il governo progressista del Presidente Sukarno per sostituirlo con la dittatura di Suharto e con l’invio di truppe scelte e l’impiego di fazioni dissidenti islamiche e cristiane per scatenare una guerra di sterminio in tutto il paese che provocò da un milione e mezzo a tre milioni di morti musulmani tra il 1965 e il 1966. Le ingenti risorse minerarie e petrolifere dell’Indonesia vennero così assicurate agli USA e alla Gran Bretagna. Per il Grande Impero d’Occidente i movimenti indipendentisti, postcoloniali e progressisti, nel Medio Oriente islamico ed arabo erano diventati inaccettabili e da abbattere con qualsiasi mezzo: venne rafforzato con armamenti e finanziamenti diretti il Wahabismo, una setta islamica ultraconservatrice nell’Arabia Saudita e fiumi di sangue precedettero e accompagnarono l’installazione dello Shah in Iran. Dopo la sua caduta, Saddam Hussein, allora nei favori di Washington fu finanziato ed armato nella guerra di otto anni contro l’Iran di Khomeini (un milione di morti). Un milione e mezzo poi le vittime – tra caduti e per fame da sanzioni – della prima guerra contro l’Irak del 1992, di cui nessuno oggi parla. E poi gli attacchi e le guerre di Israele contro la Palestina, l’Egitto, la Giordania e la Siria, sempre nella memoria della Shoah e in nome del diritto alla sopravvivenza con i quattro miliardi di dollari USA all’anno che hanno fatto di questo Stato la nuova Prussia atomica del Medio Oriente.
E’ questo l’humus del risentimento del mondo musulmano in cui germinano i semi del fanatismo estremo dell’IS. E’ stato detto e ribadito da osservatori di noi ben più autorevoli che ignorare le cause del terrorismo vuol dire perpetuarlo.
Come combattere il Califfato? Suggerimenti razionali e ridimensionamenti del fenomeno abnorme nei suoi aspetti più efferati, vengono offerti da Lucio Caracciolo nell’ultimo numero di Limes “Chi ha paura del Califfo”. Non è comunque un mistero per chi sa far di conto che il primo passo dovrebbe essere quello del taglio dei finanziamenti indiretti e del riciclaggio dei petrodollari dell’IS di cui sono responsabili gli Emirati Arabi (il Dubai si è aggiudicato il titolo di Bancomat del Califfato). Qualche pressione su questi regimi “criminogeni” sono state esercitate negli ultimi mesi dall’Amministrazione Obama, ma “pecunia non olet”, gli affari sono affari e “the business of America is business”.
Facile comprendere invece le ragioni dell’appello ad una Decima Crociata di chi ha sempre parlato del denaro come “sterco del diavolo”, di pace universale, di Dio che tutto e tutti perdona, di misericordia, di amore per i poveri, di cristiana pietas verso i diseredati colpevoli e meno, e cioè di papa Bergoglio. Giusto che il non più sontuoso erede del pescatore di Tiberiade condanni la persecuzione dei cristiani quale pastore del gregge, ma da qualche giorno a questa parte la denunzia del silenzio complice dell’inerzia occidentale suona come un esplicito invito a sterminare i lupi, tutti i lupi.
Se ha assunti i toni di Urbano II e di Pietro l’Eremita – Deus le volt – un altro motivo è più che opinabile: l’alta missione dei Gesuiti, dettata dal fondatore Francesco di Sales (non di Assisi), quella del proselitismo e delle conversioni di massa, la stessa che lo ha portato sul soglio pontificio in piena crisi di vocazioni e di chiese semi vuote aveva trovato in Bergoglio un predicatore popolare e di gran successo. I lupi del Califfato hanno spaventato il gregge e bloccato la missione. Vanno quindi ammazzati in gloria in excelsis Deo.
Lucio Manisco

Fonte

Al-Kowa…, piccola NATO cresce

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Nella foto, il presidente yemenita Abdrabbuh Mansour Hadi in fuga dal proprio Paese viene accolto a Riad, capitale dell’Arabia Saudita, dalle autorità locali.

La Lega Araba ci riprova: forze armate in comune per “contrastare le minacce alla sicurezza regionale e combattere i gruppi terroristici”. Non, si badi bene, come al primo tentativo del 1964 quando (comprensibilmente) identificò il “pericolo” negli Ebrei che avevano imposto in Palestina (con totale appoggio di USA, Regno Unito e Francia) lo Stato di Israele.
Ma, cambiando i tempi ed avendole buscate sonoramente nel 1967 dalle truppe israeliane, oggi identifica il pericolo negli sciiti Houti dello Yemen e nel Califfato cattivissimo dell’ISIS… per ora!!
Possibilmente i pazienti lettori pensano: ma che ce ne frega?? Errore…, ce ne deve fregare per forza : questi sono “tutti” nostri alleati, in via diretta o meno… è a conoscenza di tutti?
Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrein e pure Qatar fanno parte della grande “coalizione” anti ISIS guidata da Obama e di cui l’Italia fa parte assieme a tanti Stati pure musulmani.
Quindi,a rigor di logica e vista la “benedizione” politica, economica e militare impartita dal già Nobel per la Pace (???) a nome della intera NATO, saremo coinvolti in qualunque iniziativa guerresca che i signori Al Sisi, Abdullah, Salman (e come caspita si chiamano tutti gli altri partecipanti) hanno già intrapreso o metteranno in atto.
Cosa, fino ad oggi, tollerabile perché Obama ha mandato gli aerei sauditi dell’ancora non ufficializzata al-Kowa ad ammazzare sciiti ad Aden e Sanaa (che siano miliziani o donne e bambini poco importa). Mentre le forze di terra egiziane son pronte all’invasione con carri armati e truppe scelte.
Ci sarebbe pure (in Yemen) il “dettaglio” dell’ISIS ma questo non può costituire problema perché almeno mezzo mondo vuole morto (a parole) il Califfo, pertanto tutti d’accordo.
Infatti è in quello che non c’è scritto a chiare lettere il pericolo della formazione di questa piccola NATO panamericana e pure sunnita: “contrastare le minacce alla sicurezza regionale”.
Tradotto per i distratti: l’Iran ed i suoi alleati e protetti… Siria e sciiti iracheni, libanesi e yemeniti in primis.
È la Repubblica Islamica di Teheran il vero bersaglio di Egitto, Giordania ed Arabia Saudita che, approfittando della lotta mondiale all’ISIS, cercano di mettere nel calderone infernale gli ayatollah con tutte le loro truppe militari e religiose.
E proprio qui ritengo caschi l’asino. Se è vero che Emirati, Arabia Saudita, Giordania e Qatar sono satelliti americani, e dagli USS dipendono a cominciare dagli armamenti, è pur vero che non è possibile immaginare il buon BombObama trascinare l’Occidente in un conflitto contro Teheran… neppure per favorire Israele (che con gli Stati arabi ex nemici è pappa e ciccia).
Anche perché la Russia di Putin, tanto per non sbagliare, ha già ammonito tutti dal muover guerra alla Siria di Assad.
Quanto sopra è sintesi ristrettissima del complicatissimo scenario medio-orientale che investe pure Africa del Nord ed altre zone strategiche.
Spero possa servire almeno a far conoscere maggiormente la formazione di questa piccola NATO musulmana (sunnita) chiamata al-Kowa da parte della Lega Araba (non tutta).
Già la creatura madre, la mitica OTAN, ha creato e crea (vedi Ucraina) tanti gravissimi problemi per la pace e la sicurezza… speriamo che quella in crescita non sia una filiazione pure peggiore.
Vincenzo Mannello

La Primavera Siriana: dai prodromi al Califfato

nazzaro

Relazione di Mons. Giuseppe Nazzaro, ex Visitatore Apostolico di Aleppo ed ex Custode di Terrasanta, al convegno “Siria, ascoltiamo la gente”, organizzato dall’associazione Impegno Civico lo scorso 30 Ottobre presso l’Istituto Veritatis Splendor di Bologna.
Si tratta di una lettura impegnativa per la lunghezza ma… “dulcis in fundo” (o “in cauda venenum”, direbbero gli atlantisti).

Mi sia concesso iniziare questa mia presentazione affermando che, prima del 15 marzo 2011 non erano tantissime le persone al mondo che conoscevano dove trovare la Siria sulla carta geografica. Era un problema di pochi addetti ai lavori. Interessava piuttosto certi ambienti colti che si interessavano di archeologia, dei popoli legati alle antiche civiltà assiro-­babilonesi o di storia del cristianesimo.
Il mondo intero, oggi, parla della Siria e si interessa di questo Paese di circa 185.180 kmq , che si estende sulla costa del Mediterraneo Orientale per circa 80 kilometri.

I prodromi di una situazione
La data del 15 marzo 2011, ufficialmente, coincide con quella che possiamo definire: l’inizio di una rivoluzione nata quasi per gioco al confine con la Giordania, sui muri della città di Dera’a, ad opera di dodicenni che s’erano divertiti a scrivere dei graffiti del seguente tenore: “abbasso il regime”.
Ciò che all’inizio, poteva sembrare un gioco o, meglio, una ragazzata, in realtà, non era altro che l’inizio di una richiesta di maggiore apertura al Governo centrale del Paese che, per i non addetti ai lavori o per chi non aveva conosciuto la Siria prima dell’anno 2000, avrebbe potuto anche essere una richiesta legittima. Chi invece vi è vissuto ha visto e costatato con i propri occhi e con tutto il suo essere, non solo l’apertura del Governo verso le riforme sociali, ma soprattutto ha visto il benessere che le riforme avevano già portato e continuavano a portare al popolo siriano.
Ora non penso di dire un’eresia se affermo che il giovane dottore Bachar El-­Assad, dopo alcuni mesi dalla sua elezione alla Presidenza della Repubblica Araba Siriana, ha iniziato immediatamente una serie di riforme per il benessere del Paese e dei suoi compatrioti: commercio con l’estero, turismo interno ed estero, soprattutto libertà di movimento, di istruzione per uomini e donne. Le donne libere professioniste in continuo aumento, l’Università aperta a tutti senza distinzione di sesso. Un Paese dove vivevano diverse etnie 23 gruppi religiosi e tutti si rispettavano e si accettavano come facenti parte, come in realtà si ritenevano, di un’unica realtà e figli di un unico Paese che era la Siria, casa e Patria comune a tutti. Dal punto di vista religioso tutti erano liberi di esercitare e vivere il loro credo rispettati ed accettati da tutti. Continua a leggere

Le ragioni dell’altra parte

nemicoDavanti alle immagini angoscianti e ossessive della guerra senza fine al ‘terrorismo’, che l’America ha decretato all’indomani dell’11 Settembre, mi torna alla mente un pezzo che Tiziano Terzani scrisse alla vigilia dell’attacco all’Afghanistan. Raccontava le impressioni di due mezze giornate passate fra i seguaci di Osama bin Laden, in uno dei campi di addestramento al confine fra Pakistan e Afghanistan:
“Ne uscii sgomento ed impaurito. Per tutto il tempo in mezzo ai mullah, duri e sorridenti, e a tanti giovani dagli sguardi freddi e sprezzanti, mi ero sentito un appestato, il portatore di un qualche morbo da cui non mi ero mai sentito affetto. Ai loro occhi la mia malattia era semplicemente il mio essere occidentale, rappresentante di una civiltà decadente, materialista, sfruttatrice, insensibile ai valori universali dell’Islam.
Avevo provato sulla mia pelle la conferma che, con la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo, la sola ideologia ancora determinata ad opporsi al Nuovo Ordine che, con l’America in testa, prometteva pace e prosperità al mondo globalizzato era quella versione fondamentalista e militante dell’Islam.” [1]
C’erano in quelle parole una volontà di capire, di andare oltre la verità ‘ufficiale’, di vedere anche le ragioni dell’altra parte, che oggi, a tredici anni di distanza, sembrano molto lontane.
Un califfato medievale che muove all’assalto dell’Occidente, teste mozzate, donne rapite, cristiani seppelliti vivi o crocefissi, intere etnie annientate.
Terrore, sgomento, angoscia: questi i messaggi trasmessi dai media, il cui fine consiste nell’inculcare nella mente della gente semplice una fiducia totale nei confronti del potere salvifico degli Stati Uniti e dei suoi alleati, unici depositari dei ‘valori’ umani minacciati.
Quale dialogo ci può essere con un ‘Califfato del Terrore’? Nessuno, non serve dirlo. Nessuno, se l’altro viene ridotto a non umano, a terrore allo stato puro.
Con queste parole non voglio giustificare nessuno. Voglio solo far sentire un’altra voce, cercare di andare oltre l’apparenza ci ciò che ci viene mostrato. Come è possibile far finta di non sapere che in questo momento in Irak migliaia di persone stanno vivendo nel terrore o morendo sotto i bombardamenti americani? Come è possibile considerare giusto attaccare con i droni un popolo o anche un esercito di guerriglieri, senza scendere sul campo di battaglia, cioè da vigliacchi, e pensare o pretendere che non ci sia alcuna reazione? Come è possibile credere che lo Stato Islamico abbia conquistato i suoi territori in un mese e sia pronto a conquistare il mondo intero se la sua fondazione fu annunciata già dal 2006? E se lo Stato Islamico voleva attuare il genocidio delle minoranze, perché dopo otto anni tali minoranze occupano ancora i loro territori? E se persecuzioni in passato ci sono state, perché il democratico e umanitario Occidente non ha battuto ciglio?
Stranamente, tutti gli eccidi, tutte le atrocità, ancora una volta, compaiono quando gli Stati Uniti si apprestano a scatenare l’ennesima guerra. E per convincere, la minaccia si fa sempre più grande. E non penso sia un caso che il premio Nobel per la pace Obama abbia impedito di pubblicare le foto di Abu Ghraib: sono così orrende, così indecenti, così vergognose, come ha detto il generale che ha condotto l’inchiesta, che metterebbero a rischio non solo le truppe americane, ma la stessa politica estera statunitense.
In Occidente, la gente, così plagiata dai mezzi d’informazione da far apparire più libera la Corea del Nord, può essere ancora convinta, ma siamo sicuri che il mondo islamico, soprattutto quei Paesi che tanto hanno sofferto per le invasioni americane, siano ancora disposti a continuare a subire ogni sorta di sopruso? E perché dovrebbero crederci?
Dell’Occidente, finora, hanno visto solo il volto rapace e assassino.
Marcella Guidoni

[1] Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, Milano 2002, p. 24