Anime belle

Una risposta data sui social a un pacifista dell’ultim’ora.

Peccato che tutte queste belle anime non l’abbia mai viste quando andavamo a protestare a Camp Darby contro le ingerenze USA e contro le atomiche stivate nella loro base, sotto i nostri piedi; peccato non aver visto queste anime belle strapparsi i capelli quando siamo andati ad Aviano a protestare contro i bombardamenti sui civili indifesi in Jugoslavia; peccato non abbia visto nessuna di queste anime pure in Iraq, quando, nel 2003, ci siamo offerti come scudi umani per difendere un Paese aggredito con false accuse (Colin Power docet) e una popolazione decimata da 15 anni di embargo.

Peccato che non abbia incontrato nessuno di queste belle anime quando, nel 2007, abbiamo cercato di entrare a Gaza da Eretz, per forzare il criminale assedio imposto ai Palestinesi. Peccato che non ho sentito nemmeno una di queste belle anime quando i francesi hanno bombardato la Libia e ucciso Gheddafi perché voleva una moneta africana, che portasse i giusti guadagni agli Africani nella vendita dei loro prodotti e che avrebbe distrutto quella francese. Peccato che non abbia sentito un gemito, provenire da tutte queste belle anime a sostegno della Siria, aggredita dai tagliagole al soldo USA.

Peccato non aver udito lo sdegno, di queste anime candide, contro i bombardamenti dello Yemen, da parte degli Emirati Arabi e dell’Arabia Saudita. Peccato che in otto anni, non abbia mai sentito dire, da queste anime innocenti, una parola sui civili del Donbass, aggrediti da nazifascisti, torturati, bruciati e vessati.

E non ho mai sentito nessuna, di queste anime belle, dire una parola a favore di Assange, imprigionato come un criminale per aver fatto seriamente il suo lavoro di giornalista ed aver scoperto le bugie statunitensi dietro alle loro aggressioni. Le sento tutte ora, questa miriade di belle anime, che si straccia le vesti, i capelli, che compete su chi è più pacifista, naturalmente facendo collette e avallando un governo che invia armi in territorio di guerra. Ma vi rendete conto, anime belle, di quanto fate vomitare con la vostra infame retorica?

Maria Grazia Da Costa

(Fonte)

Donetsk, 14 marzo 2022

Sotto il tricolore che sventola a Camp Darby


Mentre molte attività bloccate dal lockdown stentano a ripartire dopo l’allentamento delle restrizioni, ce n’è una che, non essendosi mai fermata, ora sta accelerando: quella di Camp Darby, il più grande arsenale USA nel mondo fuori dalla madrepatria, situato tra Pisa e Livorno. Completato il taglio di circa 1.000 alberi nell’area naturale «protetta» del Parco Regionale di San Rossore, è iniziata la costruzione di un tronco ferroviario che collegherà la linea Pisa-Livorno a un nuovo terminal di carico e scarico, attraversando il Canale dei Navicelli su un nuovo ponte metallico girevole.
Il terminal, alto una ventina di metri, comprenderà quattro binari capaci di accogliere ciascuno nove vagoni. Per mezzo di carrelli movimentatori di container, le armi in arrivo verranno trasferite dai carri ferroviari a grandi autocarri e quelle in partenza dagli autocarri ai carri ferroviari. Il terminal permetterà il transito di due convogli ferroviari al giorno che, trasportando carichi esplosivi, collegheranno la base al porto di Livorno attraverso zone densamente popolate. In seguito all’accresciuta movimentazione di armi, non basta più il collegamento via canale e via strada di Camp Darby col porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa. Nei 125 bunker della base, continuamente riforniti dagli Stati Uniti, è stoccato (secondo stime approssimative) oltre un milione di proiettili di artiglieria, bombe per aerei e missili, cui si aggiungono migliaia di carrarmati, veicoli e altri materiali militari.
Dal 2017 nuove grandi navi, capaci di trasportare ciascuna oltre 6.000 veicoli e carichi su ruote, fanno mensilmente scalo a Livorno, scaricando e caricando armi che vengono trasportate nei porti di Aqaba in Giordania, Gedda in Arabia Saudita e altri scali mediorientali per essere usate dalle forze statunitensi, saudite e altre nelle guerre in Siria, Iraq e Yemen. Proprio mentre è in corso il potenziamento di Camp Darby, il più grande arsenale USA all’estero, una testata toscana online titola «C’era una volta Camp Darby», spiegando che «la base è stata ridimensionata, per i tagli alla Difesa decisi dai governi USA». e il quotidiano Il Tirreno annuncia «Camp Darby, sventola solo il tricolore: ammainata dopo quasi 70 anni la bandiera USA». Il Pentagono sta chiudendo la base, restituendo all’Italia il territorio su cui è stata creata? Tutt’altro.
Lo US Army ha concesso al Ministero italiano della Difesa una porzioncina della base (34 ettari, circa il 3% dell’intera area di 1.000 ha) prima adibita ad area ricreativa, perché vi fosse trasferito il Comando delle forze speciali dell’esercito italiano (Comfose), inizialmente ospitato nella caserma Gamerra di Pisa, sede del Centro addestramento paracadutismo. Il trasferimento è avvenuto silenziosamente durante il lockdown e ora il Comfose annuncia che il suo quartier generale è situato nel «nuovo comprensorio militare», di fatto annesso a Camp Darby, base in cui si svolgono da tempo addestramenti congiunti di militari statunitensi e italiani.
Il trasferimento del Comfose in un’area annessa a Camp Darby, formalmente sotto bandiera italiana, permette di integrare a tutti gli effetti le forze speciali italiane con quelle statunitensi, impiegandole in operazioni coperte sotto comando USA. Il tutto sotto la cappa del segreto militare. Visitando il nuovo quartier generale del Comfose, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini lo ha definito «centro nevralgico» non solo delle Forze speciali ma anche delle «Unità Psyops dell’Esercito».
Compito di tali unità è «creare il consenso della popolazione locale nei confronti dei contingenti militari impiegati in missioni di pace all’estero», ossia convincerla che gli invasori sono missionari di pace. Il ministro della Difesa Guerini ha infine indicato il nuovo quartier generale quale modello del progetto «Caserme Verdi».
Un modello di «benessere ed ecosostenibilità», che poggia su un milione di testate esplosive.
Manlio Dinucci

(Fonte)

Verità e giustizia sul Moby Prince

“Sono qui (…) soprattutto per dire che accerteremo la verità senza guardare in faccia nessuno e che quindi non ci sarà nessun elemento di tutta questa vicenda che non sarà guardato con grandissima attenzione e che non sarà reso noto all’opinione pubblica”.
Così affermava l’allora ministro della Marina mercantile Carlo Vizzini, all’indomani della tragedia occorsa il 10 aprile 1991 nel tratto di mare antistante la città di Livorno.
A distanza di 29 anni, la verità su quella che è stata a buona ragione definita “l’Ustica del mare” resta avvolta dal fumo, anche se forse qualcosa ha iniziato finalmente a muoversi.

A Camp Darby le forze speciali italiane


La notizia non è ufficiale ma già se ne parla: da ottobre su Camp Darby sventolerà il tricolore. Gli Stati uniti stanno per chiudere il loro più grande arsenale nel mondo fuori dalla madrepatria, restituendo all’Italia i circa 1000 ettari di territorio che occupano tra Pisa e Livorno?
Niente affatto. Non stanno chiudendo, ma ristrutturando la base perché vi possano essere stoccate ancora più armi e per potenziare i collegamenti col porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa.
Nella ristrutturazione restava inutilizzata una porzioncina dell’area ricreativa: 34 ettari, poco più del 3% dell’intera area. È questa che lo US Army Europe ha deciso di restituire all’Italia, più precisamente al Ministero italiano della Difesa, per farne il miglior uso possibile.
È stato così stipulato un accordo che prevede il trasferimento in quest’area del Comando delle forze speciali dell’esercito italiano (Comfose) attualmente ospitato nella caserma Gamerra di Pisa, sede del Centro addestramento paracadutismo.
Sono le forze sempre più impiegate nelle operazioni coperte: si infiltrano nottetempo in territorio straniero, individuano gli obiettivi da colpire, li eliminano con un‘azione fulminea paracadutandosi dagli aerei o calandosi dagli elicotteri, quindi si ritirano senza lasciare traccia salvo i morti e le distruzioni.
L’Italia, che le aveva usate soprattutto in Afghanistan, ha fatto un decisivo passo avanti nel loro potenziamento quando, nel 2014, è divenuto operativo il Comfose che riunisce sotto comando unificato quattro reggimenti: il 9° Reggimento d’assalto Col Moschin e il 185° Reggimento acquisizione obiettivi Folgore, il 28° Reggimento comunicazioni Pavia e il 4° Reggimento alpini paracadutisti Rangers.
Nella cerimonia inaugurale nel 2014 fu annunciato che il Comfose avrebbe mantenuto un «collegamento costante con lo U.S. Army Special Operation Command», il più importante comando statunitense per le operazioni speciali formato da circa 30 mila specialisti impiegati soprattutto in Medio Oriente.
A Camp Darby – ha specificato l’anno scorso il colonnello Erik Berdy, comandante dello US Army Italy – già si svolgono addestramenti congiunti di militari statunitensi e italiani.
Il trasferimento del Comfose in un’area di Camp Darby, formalmente appartenente all’Italia, permetterà di integrare a tutti gli effetti le forze speciali italiane con quelle statunitensi, impiegandole in operazioni coperte sotto comando USA. Il tutto sotto la cappa del segreto militare.
Non può non venire a mente, a questo punto, la storia delle operazioni segrete di Camp Darby: dalle inchieste dei giudici Casson e Mastelloni è emerso che Camp Darby ha svolto sin dagli anni Sessanta la funzione di base della rete golpista costituita dalla CIA e dal Sifar nel quadro del piano segreto Gladio.
Le basi USA/NATO – scriveva Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione – hanno fornito gli esplosivi per le stragi, da Piazza Fontana a Capaci e Via d’Amelio. In queste basi «si riunivano terroristi neri, ufficiali della NATO, mafiosi, uomini politici italiani e massoni, alla vigilia di attentati».
Nessuno però, né in Parlamento né negli enti locali, si preoccupa delle implicazioni del trasferimento delle forze speciali italiane di fatto all’interno di Camp Darby sotto comando USA.
I comuni di Pisa e Livorno, passati rispettivamente dal PD alla Lega e al M5S, hanno continuato a promuovere, con la Regione Toscana, «l’integrazione tra la base militare USA di Camp Darby e la comunità circostante».
Pochi giorni fa è stato deciso di integrare i siti web delle amministrazioni locali con quelli di Camp Darby. La rete di Camp Darby si estende sempre più sul territorio.
Manlio Dinucci

Fonte

Moby Prince, la verità resta avvolta dal fumo

483413_463206637058810_820754601_nChissà che storia, Bruno e Giuseppina, dopo il viaggio di nozze. Chissà che urla, Liana, al campo di pallavolo e chissà che occhi: li aveva scelti anche il cinema, una volta. Chissà che racconti, Giovanni Battista: ingigantiti, ma solo un po’, racconti di marinai. Chissà, comandante Chessa, che orgoglio i due figli medici, dopo aver speso metà della vita a tagliare onde e appoggiare navi sui fianchi delle città. E chissà che emozione, Sara, aver compiuto trent’anni. Sara, una delle due bambine a bordo del Moby Prince. L’altra, Ilenia, era sua sorella e aveva appena cominciato a camminare. Sara e Ilenia sono rimaste bambine per sempre, quando la nave che le portava dai nonni, in Sardegna, si trasformò. Non più il luna park con il mare sotto, i corridoi di moquette e la cuccetta stretta dove dormire tutti vicini. Piuttosto un buco spaventoso, i rumori, il caldo, le lacrime, la tosse, che neanche Angelo e Alessandra – babbo e mamma – sapevano far smettere.
Dopo 25 anni il Moby Prince continua a girare in tondo come la sera che andò a fuoco portandosi via 140 vite piene di futuro, a qualche colpo di remo dal lungomare di Livorno, il 10 aprile 1991. Le sue fiamme sono diventate eterne: un processo e due inchieste non hanno dato al disastro navale più grave della storia italiana una ricostruzione e ipotesi alternative alla storia della nebbia, che qualcuno vide e altri no.
Da qualche mese una commissione d’inchiesta del Senato tenta di dare pace alla nave fantasma. L’hanno pretesa i familiari delle vittime. Stremati, hanno ricominciato a ascoltare file audio, a rivedere vecchi filmati e foto ingiallite, a raccogliere carte perse o mai cercate, a chiedere perizie. L’ultimo sforzo di un impegno civile coperto dal silenzio.
Il silenzio è l’enorme fondale sul quale sono finite molte verità sul disastro che nessuno ricorda: un traghetto Moby Livorno-Olbia con 66 membri dell’equipaggio e 75 passeggeri, appena uscito dal porto, si schianta contro la cisterna di greggio di una petroliera all’ancora, la Agip Abruzzo, armatore Snam, cioè lo Stato. Fu subito silenzio: dal flebile mayday che nessuno sentì allo shock di chi ascoltò la sentenza che assolveva tutti, nel 1997. Il silenzio del comandante della Capitaneria, Sergio Albanese, capo di soccorsi mai arrivati, che uscì in mare e non disse una parola alla radio: “Assentivo” dirà, sfidando il ridicolo. Il silenzio rimasto su navi con nome in codice o in incognito. Il silenzio dei due dipendenti della Navarma (ora Moby Lines, guidata ora come allora da Vincenzo Onorato) che non spiegarono perché manomisero il timone del relitto. Il silenzio del capitano dell’Agip, Renato Superina, che al processo non rispose alle domande. Il silenzio delle prove dimenticate o scomparse. Il silenzio della politica, infine, che ficcò la testa sotto terra. “La verità non sarà mai appagante per nessuno” disse il presidente della Repubblica Francesco Cossiga mentre ancora si contavano i morti.
La commissione del Senato ha l’occasione di riscattare gli anni in cui l’Italia del Moby Prince se n’è fregata: di sicuro ha già capito com’è fatta questa storia. Maria Sammarco e Grazia D’Onofrio, due giudici del collegio che assolse tutti, non hanno risposto. I senatori le hanno quasi pregate: vogliamo capire se potete dirci qualcosa di utile. Ma le magistrate lo hanno ripetuto sei volte: conta la sentenza. Il terzo del collegio era Germano Lamberti, poi condannato per corruzione. La commissione ha ascoltato Mauro Valli, ormeggiatore che salvò l’unico superstite del traghetto (il mozzo Alessio Bertrand). Urlò alla radio: “Il naufrago ci dice che ci sono altri naufraghi da salvare”. E’ registrato, ma Valli ha raccontato di non averlo mai detto.
Una storia ignorata, sottovalutata, da subito. La commissione ora potrà chiedere i tracciati radar agli USA: Camp Darby – la base più grande del Mediterraneo – è a due passi e Livorno quella sera era “assediata” da navi tornate dall’Iraq. Li chiese la Procura e la risposta fu che nessun satellite guardava Livorno. Il pm andò da Giulio Andreotti per chiedere aiuto: uno dello staff di Palazzo Chigi gli rispose che gli USA non potevano darli perché “spiare era vietato dalla NATO”. Ma ci sono 140 morti, ribatté il magistrato. “Fanno le guerre, figuriamoci cosa gli interessa” si sentì rispondere. L’Ustica del mare, l’hanno chiamata. Con la differenza che tutti sanno cos’è Ustica.
E’ una cicatrice che Livorno dovrebbe portare sul volto, mentre quella città sempre pronta a scaldarsi per battaglie di civiltà ha cercato di dimenticare subito una storia che gettava una luce obliqua sul porto, cioè sul proprio cuore. Nessun sindaco si è incatenato. Nessun parlamentare si è battuto. “Neanche a me – dice l’ex pm De Franco – tornava il fatto che non si riuscissero a trovare persone che potevano dirci della nebbia in una serata di aprile”. E’ una storia italiana, trattata come gli italiani sanno fare. Inquinamenti e depistaggi, sciatteria e impreparazione, sottovalutazione. I soccorsi disastrosi furono non solo il centro, ma l’icona. Una “baraonda straordinaria” li definì la Procura quando archiviò nel 2010. A quella conclusione c’era arrivato il capo delle capitanerie, l’ammiraglio Giuseppe Francese. “Un coordinamento efficace dei soccorsi si realizzò 6 ore dopo la collisione”. Ma il pm del 1991 l’ha scoperto da un’audizione in Senato. Un mese fa.
Diego Pretini

Fonte – i collegamenti inseriti sono nostri

Livorno, 10 Aprile 1991

Il 10 aprile 1991 si consuma a Livorno la tragedia del Moby Prince. Solo negli ultimi anni si è tornati a parlare del traghetto, da quando è uscito un libro-inchiesta di Enrico Fedrighini e  l’avvocato Carlo Palermo ha assunto il patrocinio di parte civile dei familiari del comandante Ugo Chessa (vittima dell’incidente). L’esposto presentato alla Procura di Livorno dall’ex giudice ha portato nell’ottobre 2006 alla riapertura dell’inchiesta, collocando la disastrosa collisione fra il traghetto e la petroliera della Snam Agip Abruzzo nel contesto di un’operazione militare americana coperta, nel corso della quale si trasbordavano centinaia di tonnellate di armi di cui non si conosce la destinazione.
Finora il disastro del Moby Prince non era mai stato collegato ai fatti che stiamo raccontando. C’è tuttavia questo dato incontrovertibile: a bordo del traghetto sono state individuate dalle perizie ordinate dalla Procura della Repubblica di Livorno tracce di miccia detonante alla pentrite e dell’esplosivo militare T4-Rdx, dello stesso tipo di quello trafficato da Monzer Al Kassar. E nello stesso porto di Livorno c’è la presenza – prima, durante e dopo il disastro – dell’ammiraglia della Shifco, la flottiglia di pescherecci partner di Al Kassar in alcuni dei suoi trasporti di armamento e di esplosivo.
(…)
Ricordiamo i fatti: l’incidente del Moby Prince, avvenuto la sera del 10 aprile 1991, è costato la vita a centoquaranta persone. Una tragedia tuttora senza una spiegazione esauriente, accaduta in una serata in cui nella rada di Livorno si trasbordavano ingenti partite di armi fra diverse navi militari (e civili-militarizzate) americane, e in cui diverse navi «fantasma» circolavano tranquillamente in mezzo al traffico nautico civile.
La perizia sul traghetto parla chiaro, a proposito di pentrite e Rdx: «I residui dei sette esplosivi trovati nel locale bow thruster potrebbero provenire sia da esplosivi puri presenti nello stesso contenitore sia da differenti composizioni prodotte per altri fini. Considerando l’elevata probabilità che cinque di essi (Ng, Egdn, An, Tnt, Dnt) provengano da un esplosivo commerciale per uso civile, mentre gli altri due (Petn e T4) o da un esplosivo plastico come il Semtex H o da un booster (T4) o da una miccia detonante (Petn), si può affermare di essere in presenza di un congegno esplosivo al quale manca, per essere completo, solo il detonatore».
Perché l’esplosione? Che c’entra con quanto avvenne subito dopo, ossia la collisione con la petroliera? Questi e moltissimi altri interrogativi sulla tragedia del Moby Prince non hanno mai trovato risposta. Ma tra i tanti misteri che circondano la vicenda ce ne sono alcuni che riguardano molto da vicino la storia che stiamo raccontando. Continua a leggere

Pizzarotti collaborazionisti d.o.c.

Non poteva che chiamarsi “Residence degli aranci” il complesso di Mineo che ospita 404 unità abitative per i militari USA di stanza nella base di Sigonella. Occupa un’area di 25 ettari nel cuore della piana di Catania, terra di agrumi, a due passi dalla statale che scorre veloce sino al mare, il Mediterraneo. Il residence a stelle e strisce è una struttura off-limits autosufficiente. Le villette, 160 mq di superficie su due livelli, giardino indipendente con prato inglese e megabarbecue, hanno una capacità ricettiva sino a 2.000 persone e sono dotate di tutti i confort. Nel residence trovano posto alcuni edifici adibiti ad uffici per il personale dell’US Navy, la sala Telecom, un supermercato, un bar, la palestra, un centro ricreativo con asilo, la sala per le funzioni religiose, la caserma dei vigili del fuoco, 12 ettari di spazi verdi con campi da tennis, baseball e football americano, aree di gioco attrezzate per bambini. L’approvvigionamento idrico, computerizzato, fornisce 20 litri d’acqua potabile al secondo, la copertura del fabbisogno di un comune di 10.000 abitanti. L’acqua giunge da un pozzo privato nel territorio di Vizzini distante 20 km, grazie ad un acquedotto realizzato nel 2006 dalla società costruttrice e proprietaria del “Residence degli aranci”, la Pizzarotti Spa di Parma.
Per conto dell’US Navy, la Pizzarotti si occupa della gestione e della manutenzione degli impianti elettrici, idrici e del depuratore, della pulizia di strade e marciapiedi, delle attività di giardinaggio, della raccolta differenziata dei rifiuti. Entro dicembre installerà nel complesso un impianto fotovoltaico da un megawatt che verrà posizionato su 105 abitazioni. Standard di vita a cui solo pochi autoctoni possono aspirare ma che lasciano tuttavia insoddisfatti gli esigentissimi militari statunitensi.
(…)
La Pizzarotti è una delle principali aziende italiane contractor delle forze armate USA. Solo nell’ultimo decennio ha fatturato per conto del Dipartimento della difesa qualcosa come 134 milioni di dollari. Già nel 1979 le era stata affidata la costruzione di una serie di infrastrutture a Sigonella quando la base era stata scelta come centro operativo avanzato della Rapid Deployment Force, la Forza d’Intervento Rapido statunitense. A metà anni ‘80 la Pizzarotti partecipò pure alla costruzione di numerose infrastrutture nella base di Comiso (Ragusa), utilizzata per l’installazione di 112 missili a testata nucleare Cruise. Quindici anni dopo la società realizzò a Belpasso (Catania) il villaggio “Marinai”, anch’esso destinato ai militari di Sigonella, con 526 unità abitative e 42 ettari di estensione. Il contratto d’affitto con il Pentagono scade nel 2015 ma non dovrebbero esserci problemi per una sua estensione. Anche a Belpasso la Pizzarotti cura per conto dell’US Navy la gestione e la manutenzione di infrastrutture e servizi.
Sempre in ambito militare, ha eseguito i lavori di ristrutturazione ed ampliamento delle banchine della (ex) base navale di Santo Stefano (arcipelago de La Maddalena), utilizzata sino alla primavera 2008 come base appoggio per i sottomarini nucleari di stanza nel Mediterraneo. Alla Maddalena, la Pizzarotti è attualmente impegnata alla costruzione di una cinquantina di alloggi per il personale della Marina militare italiana. Tra il 2004 e il 2007, la società ha operato all’interno della base US Army di Camp Darby (Livorno) per la realizzazione di una piccola tratta ferroviaria interna e di 7 nuovi edifici da adibire a depositi. Nella base aerea di Aviano (Pordenone), Pizzarotti Spa è stata chiamata invece per ampliare i locali adibiti a servizi e casermaggio. Molto più rilevanti i lavori eseguiti a Vicenza. A metà anni ’90 Pizzarotti ha realizzato a Camp Ederle un complesso di edifici residenziali per 300 marines (costo 20 milioni di euro). Recentemente, in associazione con l’azienda tedesca Bilfinger Berger, ha invece consegnato all’US Army un nuovo polo sanitario avanzato, costo 47,5 milioni di dollari. A Vicenza Pizzarotti si è però visto soffiare l’appalto più ambito, quello per la trasformazione dell’ex aeroporto Dal Molin nella mega-cittadella della 173^ Brigata Aviotrasportata USA, vinto dalle “coop rosse” di Bologna e Ravenna. Poca fortuna pure a Quinto Vicentino, dove nonostante un pre-accordo del 2006 con il Comando statunitense per la realizzazione di un villaggio di oltre 200 abitazioni (valore stimato 50 milioni di dollari), c’è stato uno stop all’iter progettuale da parte degli amministratori locali.
Pizzarotti vanta pure la realizzazione di un invidiabile elenco di opere “civili”, alcune delle quali dall’altissimo impatto socio-ambientale:
(…)

Da Grandi affari a Mineo con il villaggio dei marines di Sigonella, di Antonio Mazzeo.
[grassetto nostro]

Afghanistan: le manfrine di Frattini, La Russa & soci

Il “Freccia“ è il 5° blindato, in questo caso di produzione FIAT Iveco-Oto Melara, utilizzato dal “nostro“ contingente in Afghanistan ed il 3° progettato ed uscito dalle catene di montaggio nazionali per dotare i militari “tricolori“ di “un mezzo idoneo ad affrontare le minacce di formazioni ostili in Paesi in cui si imponga la necessità di operazioni di polizia internazionale per ristabilire l’ordine e sicurezza“ (dichiarazione di La Russa Ignazio). Insomma, peace-keeping e peace-enforcing sotto l’egida dell’ONU ed occasione utile per soddisfare al tempo stesso le esigenze dell’ Esercito Italiano (E.I.) per dotare i suoi reparti di un numero adeguato di VBL/VCM/VCE/IFV che soddisfi l’esigenza di dotazioni della Forza Armata.
Un esigenza che coincide con l’acquisto da parte del Ministero della Difesa di un numero di blindati tale da generare, in ogni caso, un lauto profitto alle società costruttrici che si accollano, bontà loro, i costi di progetto, produzione, modifica, manutenzione a tempo e le scorte ricambi all’ E.I..
La conseguenza più immediata di una tale procedura è il volatilizzarsi del rischio di impresa e l’acquisizione da parte dell’E.I. di quantità “regolarmente eccedenti di esemplari prodotti, rispetto alle necessità operative“ essendo ben noti i benefici economici che ricava il personale di alto grado della Forza Armata, Marina ed Aviazione comprese, alla quiescenza, dall’’inserimento a livello dirigenziale nell’industria militare pubblica e privata.
Lobbies che opacizzano, nel migliore dei casi, i bilanci di settore ed inquinano, ormai a partire dagli anni Settanta, le destinazioni di spesa di Via XX Settembre.
Il “Freccia“ pesa in ordine di combattimento 26+2 tonnellate, ha un cannone a tiro rapido da 25 mm KBA, una mitragliatrice MG-42 da 7,62 mm ed una trasmissione su quattro assi. L’arma più temibile nelle mani di un coraggiosissimo ed eternamente appiedato straccione pashtun è un RPG-7 che a 150 metri perde i tre quarti della sua precisione di tiro od un AK-47 che a 130 mt la dimezza.
Nella versione controcarro il “Freccia” aggiungerà, grazie al professore, una dotazione di missili antitank “made in Israel“ Spike con un raggio d’azione dai 4 ai 6 km. Continua a leggere

Musica per le orecchie dei generali a stelle e strisce

Le prime informazioni sulla costruzione all’aeroporto militare Dall’Oro di Pisa della più grande base aerea italiana sono state pubblicate dalla stampa locale in piena estate.
Il 3 agosto il portavoce della 46esima Brigata aerea, maggiore Giorgio Mattia, annuncia per maggio 2011 l’inizio dei lavori all’interno della base. L’obiettivo è di rendere operativo l’Hub entro il 2013. Le prime gare d’appalto per la logistica sono già state bandite.
A far da battistrada al progetto ed agli interessi che ruoteranno intorno ad un investimento colossale – si parte da 60 milioni di euro – non troviamo il Presidente della Confindustria locale o altri rappresentanti del mondo delle imprese, bensì il Sindaco del Comune di Pisa, il quale si è detto onorato di poter ospitare sui nostri territori il mega aeroporto militare.
Filippeschi non è nuovo a questo tipo di dichiarazioni. È del novembre 2009 una sua sollecitazione ai vertici militari della base statunitense di Camp Darby perché partecipino finanziariamente ai lavori di ampliamento del canale dei Navicelli, in sinergia con la cantieristica locale (Navicelli SpA, società al 100% pubblica), per uno sbocco condiviso verso il porto di Livorno e la zona industriale di Guasticce.
Musica per le orecchie dei generali a stelle e strisce, i quali da anni chiedono di poter raddoppiare la portata d’acqua e la profondità di un canale troppo stretto per il transito delle grandi chiatte da trasporto d’esplosivi, armi, mezzi da combattimento e vettovagliamento truppe dirette nelle zone di conflitto, dov’è impegnato da molti anni l’esercito statunitense.
Si tratterà poi di dragare lo scolmatore, ottimizzando così il sistema acqueo di comunicazione in funzione del flusso di merci, yacht di lusso ed armi di distruzione di massa.
Il nostro Comitato, insieme al movimento contro la guerra di Pisa e di Livorno, denunciò alcuni anni fa il tentativo di “raddoppio” della base USA di Camp Darby a Guasticce.
Nel 2005, anche allora in agosto, si diffuse la notizia del “raddoppio” di Camp Darby. La zona indicata era la piana di Guasticce, vicino all’interporto e allo scolmatore, dove è disponibile una superficie di un milione di metri quadri.
Si sta progressivamente avverando nei fatti quel che l’allora ambasciatore statunitense smentì a parole?
Con la creazione dell’Hub, dal quale è prevista la partenza mensile di 30 mila soldati, l’integrazione tra trasporto navale ed aereo di truppe e mezzi diverrà un dato di fatto.
Ma quali truppe partiranno dall’aeroporto Dall’Oro se l’esercito professionale italiano è composto di “soli” 72mila uomini?
Sulla base di questi numeri, una struttura delle dimensioni prospettate per il Dall’Oro diverrà sicuramente trampolino di lancio di tutta la NATO, alleanza militare notoriamente sotto stretto comando statunitense.

Ci troviamo così di fronte ad un caso d’imprenditorialità pubblica che incentiva progetti di “sviluppo duale”, nei quali civile e militare sono inscindibilmente interconnessi.
Nei progetti delle attuali amministrazioni locali dovremmo divenire un territorio attraversato da turisti, militari di professione, yacht di lusso, armi di distruzione di massa, vettovagliamento per i bombardieri e per i bombardati, in una babele allucinante senza confini tra produzione e distruzione, sofferenza e sfruttamento, divertimento e guerra.
Signor Sindaco, è questo il “modello di sviluppo” che lei pensa per i nostri territori? Tutto ciò è per lei motivo di “onore”? Noi siamo di ben altro avviso. Uno sviluppo con queste caratteristiche deve essere invece motivo di vergogna e disonore per un’intera comunità.
Per questo ci batteremo, insieme con tutto il movimento contro la guerra locale e nazionale, per fermare tali progetti di militarizzazione ed inquinamento dei territori.
Facciamo appello a tutte le realtà sociali, sindacali, associative e politiche di Pisa e Livorno perché si uniscano contro il tentativo di trasformare l’area vasta Pisa/Livorno in un’immensa base militare.

Comitato per lo smantellamento e la riconversione a scopi esclusivamente civili della base USA di Camp Darby
Per contatti telefonici: Pisa 338 4014989 – Livorno 320 0142282
[grassetto nostro]

La certezza del diritto

Roma, 28 maggio – Le basi militari USA nel nostro Paese? Sono ben viste dalla maggioranza delle popolazioni locali. Lo rileva la Cassazione nel confermare una condanna a dieci mesi di reclusione per interruzione di pubblico servizio nei confronti di Luca Casarini e di un gruppo di No Global che il 21 febbraio di sette anni fa alla stazione ferroviaria di Monselice (Padova) diedero vita ad una manifestazione per impedire il transito di un convoglio che trasportava armi ed altro materiale militare dalla base USA Setaf alla base di Camp Darby a Pisa.
Nel confermare le condanne già inflitte dalla Corte d’Appello di Venezia, piazza Cavour sente la necessità di rilevare che “sia la base militare di Vicenza sia quella a Pisa, in uso all’esercito degli Stati Uniti d’America sono state regolarmente autorizzate dallo Stato italiano e non sono viste dalla maggioranza delle popolazioni locali con ostilità e avversione data dalla tradizionale amicizia e il comune modo di sentire che ha sempre contraddistinto i rapporti tra l’Italia e gli Stati Uniti d’America”.
Inutile, dunque, la difesa di Casarini e degli altri No Global volta a dimostrare che l’intento di tutti i manifestanti “era stato solo quello di protestare contro il transito di un solo treno speciale carico di armi dell’esercito americano destinato alla futura guerra preventiva contro l’Iraq”. La prima sezione penale (sentenza 20.312) ha respinto i ricorsi e, nel ricordare che all’epoca dei fatti non era ancora stata approvata dal Parlamento la legge che ha consentito di inviare contingenti armati in Iraq, ha voluto sottolineare come le basi militari USA in Italia non siano osteggiate dalla “maggioranza” dei cittadini.
(Adnkronos)

Altolà al MUOS dal Comune di Niscemi

Alt dell’amministrazione comunale di Niscemi all’installazione del nuovo sistema di telecomunicazione satellitare MUOS della Marina militare USA all’interno della riserva naturale “Sughereta”. Con provvedimento firmato dal Capo ripartizione all’urbanistica, indirizzato all’US Naval Air Station di Sigonella, al Dipartimento dell’US Navy di Napoli-Capodichino, all’Assessorato regionale territorio ed ambiente, all’Azienda regionale foreste demaniali, all’Arpa Sicilia ed alla Sovrintendenza ai beni culturali ed ambientali di Caltanissetta, è stato disposto l’annullamento in autotutela dell’autorizzazione ambientale rilasciata il 9 settembre del 2008 per la costruzione del potente impianto a microonde in contrada Ulmo, accanto alla base dell’US Navy oggi utilizzata per la trasmissione degli ordini di guerra alle unità navali e ai sottomarini nucleari in transito nel Mediterraneo e nel Golfo Persico.
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La revoca del nulla osta al programma MUOS giunge dopo la consegna al Comune di una relazione tecnica sui possibili impatti dell’impianto sulla flora e la fauna dell’importante area protetta, a firma di tre professionisti siciliani. La relazione aveva bocciato inesorabilmente la documentazione sulla valutazione d’incidenza presentata nell’estate del 2008 dalla US Navy, definendola «discordante, insufficiente e inadeguata».
«Adesso devono intervenire la Regione e le Istituzioni Nazionali affinché venga evitato l’ennesimo attacco alla vita dei siciliani» ha dichiarato il sindaco di Niscemi, Giovanni Di Martino. «Noi continueremo la nostra protesta contro l’installazione delle antenne MUOS, insieme agli altri sindaci e associazioni che hanno a cuore la dignità dei cittadini. A breve faremo una conferenza stampa con i sindaci dei Comuni che si oppongono alla realizzazione del MUOS, per elaborare una nuova strategia d’intervento».
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Sullo stato di avanzamento dei lavori all’interno della stazione di trasmissione dell’US Navy di contrada Ulmo vige il più assoluto top secret. Sempre in ambito MUOS, tuttavia, sono state eseguite attività di scavo per posa cavo di collegamento in fibra ottica lungo le vie Terracini–Gori, di pertinenza comunale, e lungo la strada provinciale n. 10 Niscemi–Caltagirone. Nonostante il ritombamento, gli abitanti e alcune associazioni locali hanno rilevato «abbassamenti del materiale di riporto e di sigillo degli scavi e avvallamenti caratterizzati da un vero e proprio ammanco di centimetri di pavimentazione». Non è stato però il “Consorzio Team MUOS” a scavare al di fuori del perimetro militare, ma la Telecom Italia S.p.A., la più importante società italiana di telecomunicazione.
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Siede dunque pure Telecom al banchetto delle opere del terminal terrestre di quello che è stato definito l’“EcoMUOStro di Niscemi”. Si tratta in fondo di una società leader proprio nell’installazione ed uso di fibre ottiche ed è da tempi remoti una delle aziende di fiducia del Dipartimento della Difesa per la gestione di servizi specializzati all’interno delle installazioni militari USA in Italia. Nel settembre 2008, ad esempio, il Centro direzionale di Napoli di Telecom Italia ha sottoscritto tre contratti con il Fleet and Industrial Supply Center (FISC) di Sigonella per un importo complessivo di 212.982 dollari per la fornitura di «apparecchiature telefoniche» e di «servizi di manutenzione d’infrastrutture elettroniche e di comunicazione». Sempre nel 2008 è stato firmato un contratto tra la FISC Sigonella e la sede centrale romana di Telecom, nell’ambito di un pacchetto d’interventi nelle basi USA per un valore di 3.252.938 dollari. Per la cronaca, uno dei consiglieri d’amministrazione di Telecom Italia è l’ingegnere Elio Catania, siciliano, già presidente di IBM Latin America con sede a New York, odierno membro del consiglio di gestione di Banca Intesa San Paolo e vicepresidente del Consiglio per le Relazioni fra Italia e Stati Uniti (CRISU), organismo ultraconservatore sorto nel 1983 su iniziativa di Gianni Agnelli e David Rockefeller .
Della lobby nazionale pro-forze armate USA fa pure parte “The OK Design Group”, società d’ingegneria con sede centrale a Roma e filiali a Virginia Beach (Stati Uniti) e Tripoli (Libia), amministrata da Tito Vespasiani. È stata proprio “The OK Design” a firmare il progetto preliminare ed esecutivo della nuova stazione di telecomunicazione satellitare di Niscemi. Ma non esiste installazione delle forze armate statunitensi che sia rimasta indenne dai progetti e dagli studi dell’azienda romana. «Il nostro maggiore cliente è stato lo US Department of Defense con progetti eseguiti per lo US Navy, l’Army e l’Air Force in numerose installazioni militari che includono Aviano, Camp Ederle, Camp Darby, NSA Napoli, Gaeta, Capodichino, Sigonella, Niscemi in Italia, NAVSTA Rota in Spagna, Incirlik, Ankara e Sinop in Turchia, Hanau, Illesheim e varie altre basi in Germania, Mons in Belgio, Marocco, Libia, Capo Verde in Africa», si legge nel sito web del gruppo d’ingegneria. «I clienti includono inoltre la US Agency for International Development (USAID), la NATO, lo SHAPE, la FAO, il WFP, l’IFAD delle Nazioni Unite in Roma».
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Onnicomprensiva la lista degli interventi nelle altre grandi installazioni militari statunitensi. Lo scorso anno, ad esempio, l’U.S. Army Garrison di Vicenza gli ha commissionato lo studio e la progettazione dei sistemi di distribuzione dei servizi a Camp Ederle. A Camp Darby (Pisa) l’OK Design Group ha progettato la costruzione del nuovo edificio commerciale, 17 depositi-magazzini dell’US Army e 9 dell’US Air Force, più due edifici destinati al controllo munizioni e al carico e scarico di container e camion. Nella base toscana è stato infine realizzato uno studio di fattibilità per la riparazione e la ristrutturazione del sistema stradale nell’area “Casermette”. Nella grande stazione aerea dell’US Air Force di Aviano (Pordenone), l’OK Design Group ha progettato buona parte delle infrastrutture del cosiddetto “Piano Aviano 2000”, come i nuovi edifici destinati ad alloggi ed uffici del personale statunitense, l’ingresso lato sud della base «in accordo con i requisiti di antiterrorismo», un ospedale, una clinica specializzata per avieri (Flight and Bioengineering Clinic), un complesso commerciale di circa 13.000 m2 (Commissary Complex), una centrale idraulica con annesso sistema di distribuzione domestica e antincendio, i sistemi elettrici delle Aree 1 & 2, un serbatoio sopraelevato da 460 m3 interlacciato a fibra ottica, un asilo nido. Ad Aviano è stata eseguita infine l’ispezione della rete elettrica di media tensione. Complessivamente, tra il 2000 e il 2008 l’OK Design Group ha ricevuto dal Dipartimento della Difesa 7.837.674 dollari. Non male per un mero studio d’ingegneria.

Da La lobby italiana del MUOStro USA di Niscemi, di Antonio Mazzeo.
[grassetto nostro]

Pisa città per la “pace”

La Regione Toscana e i comuni di Pisa e Livorno hanno dato il via, con un accordo di programma e 108 milioni di euro, al riassetto delle vie navigabili interne per «ottimizzare gli interscambi tra i siti logistici della Toscana». Davvero ottima iniziativa. Solo che tra i siti logistici maggiormente interessati c’è la base USA di Camp Darby, che chiede l’ampliamento del Canale dei Navicelli che la collega al porto di Livorno. Il sindaco di Pisa Marco Filippeschi (PD) ha chiesto al comando USA una compartecipazione ai lavori «anche in vista di importanti prospettive dello stesso Camp Darby». Il comando ha «interesse ad allargare la darsena della base militare» così da manovrare due chiatte in contemporanea.
Soddisfatto, il sindaco conferma che «gli americani ritengono questo insediamento molto importante e vogliono continuare a investirci» e che, per tale progetto, c’è «disponibilità sia da parte del Parco che della Regione». Dimentica però lo «smemorato» sindaco del PD che lo stesso Consiglio comunale di Pisa ha approvato, il 18 gennaio 2007, una mozione per «la dismissione e la riconversione a usi esclusivamente civili di Camp Darby».
La base, che rifornisce le forze terrestri e aeree nell’area mediterranea, africana e mediorientale, sta assumendo crescente importanza nel quadro del potenziamento delle basi USA in Italia. Ha quindi necessità di velocizzare i collegamenti con il porto di Livorno e accrescere la capienza. Ciò può essere fatto creando, attraverso l’interporto livornese di Guasticce, un indotto che serva al transito e allo stoccaggio di materiali logistici, come gli «aiuti umanitari» della USAID di cui la base costituisce il maggiore centro in Europa. In tal modo si può liberare, nella base, spazio per il deposito di altri armamenti.
Camp Darby intende quindi irradiarsi nel territorio e, a tal fine, è validamente aiutata dal sindaco Filippeschi che, mentre gioisce per le «importanti prospettive» della base USA da cui partono le armi per le guerre, promuove un mese di iniziative sul tema «Pisa città per la pace e i diritti umani».

Basi USA in Italia. Camp Darby si allarga con l’aiuto del sindaco PD, di Manlio Dinucci.

Aviano Italia: la basi NATO viste da vicino

Cosa vuol dire vivere accanto a una base militare? E’ davvero un vantaggio economico per la comunità? Qual’è l’impatto su ambiente e territorio?
Nel nuovo ciclo di Radio Rai 3, Aviano Italia, Carla Fioravanti racconta la vita intorno alle basi militari statunitensi e NATO in un itinerario sonoro che percorre l’Italia da nord a sud.
Dalle basi di San Vito dei Normanni e Taranto in Puglia, a Comiso e Sigonella in Sicilia. Dai poligoni militari di Quirra e Teulada alla base de La Maddalena in Sardegna. Le basi di Gaeta e Napoli e, ancora, Camp Darby in Toscana; Ghedi e Solbiate Olona in Lombardia. Infine Vicenza e Aviano, la base più grande e più nota.
Sorte prevalentemente alla fine della seconda guerra mondiale, le basi sul territorio italiano sono numerose e di importanza strategica per l’esercito americano.
L’extraterritorialità e la riservatezza che caratterizzano queste aree sottratte alla sovranità territoriale italiana innescano una serie di rapporti particolari con la comunità che vive nelle immediate vicinanze. Cosa vuol dire vivere accanto ad una base militare? Che impatto ha sulla popolazione la prossimità ad un deposito di armi nucleari?
Nelle oltre cento testimonianze raccolte, Carla Fioravanti traccia un quadro della storia delle basi, dell’indotto economico per la popolazione, dell’impatto ambientale e culturale che la presenza di un esercito straniero inevitabilmente produce.
Alla luce dei recenti avvenimenti di Vicenza, Aviano Italia si presenta come uno spaccato sociale di stringente attualità.

Carla Fioravanti è stata già autrice per Radio Rai 3 con Li chiamavamo liberatori, Come l’America, Io di notte volo .

Per riascoltare le venti puntate, trasmesse dal 7 gennaio all’1 febbraio ultimi scorsi, cliccare qui.

Ciò detto e premesso…

Quello che segue è il resoconto stenografico della seduta n. 252 del 23/1/2003 della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana. Il Senatore Francesco Bosi, Sottosegretario di Stato per la difesa, risponde all’interpellanza n. 2-00602 presentata dall’Onorevole Mauro Bulgarelli.

“Preliminarmente, è opportuno puntualizzare che in linea generale, dal punto di vista degli accordi internazionali, la presenza di forze NATO o di forze statunitensi in Italia si inquadra nell’ambito dell’applicazione del Trattato del Nord Atlantico del 1949.
Al riguardo, per l’utilizzazione delle basi non vige alcuna condizione di extraterritorialità permanendo allo Stato italiano l’esercizio della piena sovranità. Difatti, nello specifico di Camp Darby, il comandante della base è un ufficiale italiano. In particolare, le basi intese come porzione di territorio di sostegno logistico ed operativo, dotate di uomini e mezzi, non appartengono dunque alla NATO od agli americani: esse sono solo concesse in uso alle forze militari della NATO o statunitensi senza che la sovranità nazionale sia in alcun modo limitata o messa in discussione.
Come si è detto gli accordi che regolano la materia trovano il proprio fondamento nell’articolo 3 del Trattato di Washington e nei discendenti accordi, che cito: Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 (NATO Status of Forces Agreement – SOFA), ratificato dall’Italia con la legge n. 1335 del 1955; Protocollo di Parigi del 28 agosto 1952, approvato con la legge 30 novembre 1955, n. 1338; Convenzione di Ottawa del 20 settembre 1951, approvata con la legge 10 novembre 1954, n. 1126; decreto del Presidente della Repubblica del 18 dicembre 1962, n. 2083.
In questo quadro si inseriscono gli accordi bilaterali che regolano la presenza delle forze statunitensi in Italia. Sono accordi sia generali, che prevedono forme di assistenza militare reciproca fra i due paesi, sia particolari, che disciplinano gli aspetti della presenza e delle attività dei contingenti militari statunitensi.
Il più importante accordo bilaterale, a carattere complessivo, è il Bilateral Infrastructure Agreement del 20 ottobre 1954, firmato per l’Italia dal Presidente del Consiglio pro tempore. Ad esso sono poi strettamente collegati un accordo tecnico aereo del 30 giugno 1954 ed un accordo tecnico navale del 20 ottobre 1954.
Questi accordi bilaterali hanno un’elevata classifica di segretezza e non possono essere declassificati unilateralmente poiché il regime di segretezza è stato stabilito di comune accordo dai Governi italiano e statunitense. Il segreto militare relativo alle infrastrutture, ai compiti, alla distribuzione di uomini, mezzi e materiali ed al tipo di presenza militare nelle diverse località si espande fino ad abbracciare le regole che disciplinano le funzioni di comando nelle basi ove operano forze statunitensi, nonché le disposizioni sui rapporti fra le autorità militari italiane e statunitensi. D’altra parte, è normale che tali notizie siano coperte da segreto: la diffusione indiscriminata di informazioni sugli strumenti di difesa è, a ragione, considerata da tutti gli Stati una fonte di rischio. L’Italia non fa eccezione essendo la sua difesa integrata con quella dei paesi alleati, ivi compresa la loro presenza nel nostro territorio.
Vero è che tali accordi possono essere oggetto di modifiche o di aggiornamenti, come è più volte avvenuto. Infatti, questi accordi elaborati negli anni della “guerra fredda” e costruiti su modelli che risalgono alla fase di maggior tensione tra i due blocchi, nel tempo sono stati rinegoziati ed adeguati al mutato contesto storico in un spirito che riconosce, tra l’Italia e gli Stati Uniti, una condizione di assoluta pariteticità e reciprocità.
In questo quadro, tra gli accordi più significativi vi è lo Shell Agreement o Memorandum d’Intesa tra il Ministero della Difesa della Repubblica italiana ed il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America, stipulato il 2 febbraio 1995, che è specificatamente riferito alle installazioni e alle infrastrutture concesse in uso alle forze statunitensi in Italia.
Ciò detto e premesso (…)”.

(Grassetto nostro)