Perché Substack?

Il messaggio per voi, lettori, su di me e su “Substack”
Di Seymour M. Hersh, autore della recentissima inchiesta su quanto successo ai gasdotti North Stream 1 e 2

Sono stato un freelance per gran parte della mia carriera. Nel 1969 raccontai la storia di un’unità di soldati americani in Vietnam che aveva commesso un orribile crimine di guerra. Avevano ricevuto l’ordine di attaccare un normale villaggio di contadini dove, come sapevano alcuni ufficiali, non avrebbero trovato alcuna opposizione, e gli fu detto di uccidere a vista. I ragazzi uccisero, violentarono e mutilarono per ore, senza trovare alcun nemico. Il crimine fu insabbiato ai vertici della catena di comando militare per diciotto mesi, finché non lo scoprii.
Per quel lavoro vinsi un premio Pulitzer per il giornalismo internazionale, ma farlo conoscere al pubblico americano non fu un compito facile. Non ero un giornalista di lunga data che lavorava per un gruppo mediatico affermato. La mia prima storia, pubblicata da un’agenzia di stampa a malapena esistente gestita da un mio amico, fu inizialmente rifiutata dai direttori delle riviste Life e Look. Quando finalmente il Washington Post la pubblicò, la disseminò di smentite del Pentagono e dello scetticismo sconsiderato dell’addetto alla revisione.
Per quanto possa ricordare mi è stato detto che le mie storie erano sbagliate, inventate, oltraggiose, ma non mi sono mai fermato. Nel 2004, dopo aver pubblicato le prime storie sulla tortura dei prigionieri iracheni ad Abu Ghraib, un portavoce del Pentagono rispose definendo il mio giornalismo “un insieme di sciocchezze”. (Disse anche che ero uno che “tira fuori strambe teorie” e che “si aspetta che qualcuno rimuova ciò che è reale”. Per quel lavoro vinsi il mio quinto premio “George Polk”.)
Ho fatto il mio dovere presso le maggiori testate, ma lì non mi sono mai trovato a mio agio. In tempi più recenti, non sarei stato comunque il benvenuto. Il denaro, come sempre, era parte del problema. Il Washington Post e il mio vecchio giornale, il New York Times (per citarne solo alcuni), si sono ritrovati in un ciclo di diminuzione delle consegne a domicilio, delle vendite in edicola e di visualizzazioni pubblicitarie. La CNN e i suoi derivati, come MSNBC e Fox News, si battono per i titoli sensazionalistici piuttosto che per il giornalismo d’inchiesta. Ci sono ancora molti giornalisti brillanti al lavoro, ma gran parte del giornalismo deve rientrare in linee guida e in vincoli che non esistevano negli anni in cui scrivevo storie quotidiane per il Times.
È qui che entra in gioco Substack. Qui ho il tipo di libertà per cui ho sempre lottato. Su questa piattaforma ho visto come tanti scrittori si sono liberati dagli interessi economici dei loro editori, hanno approfondito le storie senza temere il numero di parole o i millimetri della colonna e, cosa più importante, hanno parlato direttamente ai loro lettori. E quest’ultimo punto, per me, è il fattore decisivo. Non sono mai stato interessato a socializzare con i politici o ingraziarmi i tipi danarosi ai boriosi cocktail – le fottute feste delle star, come mi è sempre piaciuto chiamarle. Do il meglio di me quando sorseggio bourbon a buon mercato con i militari, lavoro con i novellini degli studi legali per ottenere informazioni o scambio storie con il neoministro di un Paese che la maggior parte delle persone non sa nominare. Questo è sempre stato il mio stile. E a quanto pare, è anche l’ethos di questa comunità telematica.
Quello che troverete qui è, spero, un riflesso di questa libertà. La storia che leggerete oggi è la verità per trovare la quale ho lavorato tre mesi, senza alcuna pressione da parte di editori, direttori o colleghi per renderla conforme a certe linee di pensiero o ridimensionarla per alleviare le loro paure. Substack significa semplicemente che l’inchiesta giornalistica è tornata… senza filtri e programmi – proprio come piace a me.

[Fonte – i collegamenti inseriti sono a cura della redazione]


Questa canzone è dedicata a tutte le persone amanti della pace che stanno assumendo una coraggiosa posizione contro l’imperialismo USA e l’espansione della NATO, alleanza militare aggressiva e bellicista.

NewsGuard e la censura dell’informazione politicamente scorretta


“Un’agenzia creata negli Stati Uniti da uno dei personaggi più potenti della Borsa di Wall Street, come espressione diretta dei gangli del potere USA e con riferimenti diretti a NSA, CIA e Council of Foreign Relations, ha il potere di dare bollini di “verità” a chi fa informazione in Italia. Questa agenzia, NewsGuard, lavora a stretto contatto con la Commissione europea, con il gruppo mediatico Gedi della Famiglia Agnelli-Elkann, con browser, motori di ricerca e social che filtrano l’informazione, può indirizzare i proventi della pubblicità online e riceve “autopremi” da un Consolato USA.
Non si tratta di presunti hacker russi da San Pietroburgo o fantasmagoriche interferenze cinesi secondo fonti che vogliono restare anonime del Dipartimento di Stato USA. Stiamo parlando di un’agenzia statunitense reale alla quale, nei fatti, è stato impunemente dato il potere di bloccare chi porta avanti una visione di mondo diversa da quella decisa a Washington. Il suo operato è chiaramente inconciliabile con i dettami della nostra Costituzione.
Vi abbiamo scritto come uno dei campioni della propaganda atlantista, Open, ha il potere di censurare direttamente (non passando per gli algoritmi) le pagine Facebook di giornali regolarmente registrati come quella de l’AntiDiplomatico. Pensate – e noi abbiamo dovuto rileggerlo varie volte per crederci – che nonostante questo record in materia di fake news, per il Caronte (USA) delle notizie il giornale di Mentana non solo è da “bollino verde”, è il “sito più attendibile in Italia”. Ci sarebbe da ridere per ore se non fosse tutto così tragico.
Nell’assordante, religioso e coloniale silenzio di tutti i partiti del Parlamento italiano, anche questo articolo subirà la censura di browser, motori di ricerca e social, grazie al “filtro” di un’agenzia che lavora da e per conto di Washington.”

Alessandro Bianchi, presidente della “L.A.D. Gruppo Editoriale ETS” e direttore editoriale de l’AntiDiplomatico, descrive le modalità della censura esercitata ai danni della sua testata.
Qui l’articolo completo.

A proposito di censura…

“Il mio contratto rescisso con la Rai”, di Michelangelo Severgnini

Il professore Alessandro Orsini si vede sfumare un contratto con la RAI per le partecipazioni al programma televisivo “Carta Bianca”, in seguito alle pressioni esercitate dal Partito Democratico.
Durante il programma avrebbe offerto al pubblico italiano le sue oneste analisi geopolitiche da fedele atlantista e convinto europeista.
E’ comunque uno scandalo.
Il servizio pubblico. La mancanza di pluralità. La censura anche nei confronti di chi ha visioni simili.
Sconcertante. Proteste (sempre più sparute) e indignazione (sempre più inconcludente).
Bene.
Voglio fare anch’io “outing”, come dicono gli anglosassoni: voglio confessare.
Nell’aprile 2019, come da foto, avevo firmato un pre-contratto per la RAI (certamente non il lauto contratto offerto al professor Orsini, ma vuoi mettere per le mie finanze?).
Il feldmaresciallo Khalifa Haftar aveva appena lanciato la campagna militare “Operazione Diluvio di Dignità” e aveva mosso le sue truppe verso Tripoli
Nella morsa si erano trovati decine di migliaia di migranti-schiavi ostaggio delle milizie in Tripolitania.
A me denunciavano di essere usati come scudi umani dalle milizie, non da Haftar. E la quasi totalità di coloro con cui parlavo in quelle settimane (diverse decine di loro) chiedeva di essere rimpatriata. Chiedeva di essere tirata fuori da una zona di guerra ed essere riportata a casa. Non c’era un minuto da perdere: rischiavano la vita in ogni momento, ancora più di quanto normalmente non sia per loro.
Il programma della RAI (di cui per riservatezza non faccio il nome) mi aveva chiesto l’acquisto di un’ora di messaggi vocali ricevuti via internet da migranti-schiavi in Libia. In quest’ora c’erano moltissimi messaggi che chiedevano, imploravano, il rimpatrio immediato, così come la denuncia delle milizie di Tripoli responsabili delle stragi poi attribuite ad Haftar.
Dopo alcune settimane di contatti di circostanza con gli autori del programma, spesi da parte loro a giustificare inspiegabili ritardi, scomparvero e non se ne fece più nulla.
Gli autori del programma sono di area piddina, altre volte avevano lavorato a stretto contatto con le ONG.
Se ci sono state pressioni, e ci sono state, io non lo saprò mai. O meglio: lo so che ci sono state ma non avrò mai il piacere di vederle confessate.
Né nessun parlamentare farà un’interrogazione sul mio caso.
Né nessun cittadino-spettatore si indignerà per ciò che il servizio pubblico gli ha negato.
Per me “L’Urlo” significa questo.
Quando nel tuo Paese, nel tuo continente, nella tua società, l’informazione è diventata narrazione al punto da trasformare i carnefici in salvatori umanitari di fronte a fenomeni disumani come la schiavitù, la tortura e la tratta di esseri umani, allora è finita.
Allora la sola libertà che mi resta è quella di urlare al cielo.
Perché non ho altro potere. Non tanto di fronte alla menzogna, di fronte alla menzogna posso usare la Parrhesia. Quanto di fronte allo stato di ipnosi collettiva in cui è caduta la mia gente.
Quella in Libia era una guerra nostra, combattuta con le nostre armi, vendute alle milizie libiche in cambio del petrolio saccheggiato allo Stato libico e inviato sotto banco all’Europa. Ma l’errore prospettico mostrava la campagna militare di Haftar come un’aggressione, non come una liberazione, così come invece la definivano i Libici di Tripoli.
Anni di soldi inviati alla Libia per fermare i migranti, dicevano. No signori, quei soldi servivano per armare le milizie libiche e difendere Tripoli dalla legittima richiesta di sovranità libica, dando mano libera alle bande armate che trafugavano il petrolio per conto nostro, dopo aver ridotto in schiavitù decine di migliaia di Africani.
Ancora oggi ti raccontano che i Libici non riescono a mettersi d’accordo, ora ci sono persino 2 premier! Come il compianto Edward Said ci aveva insegnato, il mito del mediorientale litigioso è da sempre stato uno strumento retorico per giustificare il colonialismo occidentale.
Infatti ora ci sono 2 premier perché uno è il premier legittimo votato dal parlamento (Fathi Bashagha) e l’altro è il Guaidò della Libia (Abdelhamid Dabaiba), quello riconosciuto solo dalla NATO.
Non sono i Libici a litigare. E’ la NATO a umiliare la sovranità libica e a coltivare il caos, per poterne saccheggiare le risorse.
Ma forse il paradigma in Libia sta cambiando. I cavalli della NATO sono zoppi. Se i Libici chiudono i rubinetti all’Europa ci sarà un’altra guerra. Diranno che il processo democratico è in pericolo e la dittatura sta tornando in Libia.
Haftar, definito oggi come allora “signore della guerra” dalla NATO, era ed è niente meno che la figura militare più legittima che si potesse trovare in Libia, a capo dell’Esercito Nazionale Libico istituito con voto del Parlamento nel marzo del 2015.
Gli esperti europei hanno studiato sui libri delle fiabe, non sul libro della realtà.
La realtà era che i migranti-schiavi nell’aprile del 2019 (come in qualsiasi altro momento) volevano tornare a casa. Quella era informazione, quella che volevo fare io.
Queste voci e molte altre stanno nel film “L’Urlo” che nessuno vuole trasmettere o distribuire. Questo è il trailer.
Ma in RAI gli elementi piddini si potevano permettere di fare informazione. Dovevano puntellare la narrazione della NATO.
Come fanno oggi: Putin ha sostituito Haftar nello schema e ciò che davvero succede sul campo è lavoro di fantasia, è prodotto di narrazione fiabesca, oggi in Ucraina come allora in Libia.
Giù la saracinesca. Niente contratto. Per altro io non fornivo analisi politiche, io fornivo fonti dirette sul campo che parlavano liberamente in forma anonima con la loro voce.
Tu da che parte stai? Io sto dalla parte della verità. La verità è rivoluzionaria. “Quasi tutte le guerre iniziate negli ultimi 50 anni sono state il risultato di bugie dei media” ci dice Julian Assange.
Non c’è altro interesse da difendere. Le notizie vanno date.
La censura di guerra è partita da molto lontano ed è da più di un decennio, dalla sbornia colorata del 2011, che siamo abbondantemente sotta la linea di galleggiamento. Dirottare l’opinione pubblica di un intero continente in queste forme significa una sola cosa: preparare la guerra.
La menzogna ha intaccato in profondità ogni nostro ragionamento sull’esistente.
Quando chiudi entrambi gli occhi puoi solo andare a sbattere.
Io ho urlato più che ho potuto.
Ora teniamoci forte prima dello schianto.

Michelangelo Severgnini è un regista indipendente, esperto di Medioriente e Nord Africa, musicista. Ha vissuto per un decennio a Istanbul. Ora dalle sponde siciliane anima il progetto “Exodus” in contatto con centinaia di persone in Libia. Di prossima uscita il film “L’Urlo”.

(Fonte)

Al mondo serve verità, non menzogne a stelle e strisce

“Tutti i fatti riportati escludono, in modo sicuro e categorico, che l’epidemia di coronavirus si sia sviluppata a partire dalla Cina e da Wuhan, dalla fine di ottobre del 2019; essa invece era virulenta e attiva in Virginia e negli Stati Uniti fin dal luglio del 2019, quindi almeno tre mesi prima dell’inizio della pandemia in Cina.

Come andarono realmente le cose, per la genesi della tragedia del Covid?

Fase uno: verso la fine di giugno del 2019 e a Fort Detrick, si verifica una contaminazione di personale militare statunitense attraverso il coronavirus contenuto nei laboratori della base.

Fase due: una parte del personale infettato viene portato all’ospedale militare di Fort Belvoir, in Virginia.

Fase tre: attorno al 4 luglio 2019, festa nazionale degli USA, involontariamente alcuni marines di Fort Belvoir contagiati dal Covid-19 portano e distribuiscono a piene mani la malattia nella casa di riposo di Green Spring, oltre che in giro per il Maryland e la Virginia.

Fase quattro: dopo un’incubazione di una settimana, scoppia purtroppo una prima epidemia nella casa di riposo di Green Spring con i suoi 263 residenti: due muoiono, i primi caduti dei futuri tre milioni di morti per la pandemia di coronavirus, mentre il Covid-19 raggiunge con la sua marcia mortale un’altra casa di riposo vicino a Green Spring.

Fase cinque: dopo alcuni giorni il Pentagono inizia a preoccuparsi, ordinando la chiusura di tutte le attività di ricerca batteriologica a Fort Detrick, a metà luglio.

Fase sei: dalla metà di luglio all’inizio di ottobre del 2019 l’epidemia via via si espande sia negli Stati Uniti che all’estero, arrivando sicuramente a Milano e in Lombardia all’inizio di settembre del 2019, come provato dall’Istituto dei Tumori di Milano.

Fase sette: le olimpiadi militari mondiali di Wuhan. A tal proposito l’insospettabile e anticomunista sito intitolato Le Iene ha riportato che «le autorità cinesi hanno più volte sostenuto che l’epidemia sarebbe arrivata a Wuhan con i militari dell’esercito americano che partecipavano alle gare del “World Military Games 2019”, in programma dal 12 al 28 ottobre. Noi ovviamente non lo sappiamo, ma dal periodico delle forze armate americane scopriamo che alcuni militari di Fort Belvoir hanno partecipato a quei Giochi. Tra questi il sergente di prima classe Maatje Benassi e il capitano dell’esercito Justine Stremick, che serve come medico di medicina di emergenza dell’esercito a Fort Belvoir in Virginia. Quindi almeno due atleti dell’ospedale militare situato vicino alle case di riposo dove c’è stata l’epidemia sospetta di luglio sarebbero andati a Wuhan per le olimpiadi di ottobre 2019».

La “fase otto”, che seguì l’inizio di novembre del 2019 e che arriva fino a oggi, risulta purtroppo fin troppo ben conosciuta a livello mondiale…

Le conseguenze della tesi in oggetto dimostrata da numerosi fatti testardi sono fin troppo chiare. Chiediamo innanzitutto all’Organizzazione Mondiale della Sanità, ente dell’ONU che del resto ha già effettuato un’ispezione accurata a Wuhan in Cina verso l’inizio del 2021, di compiere celermente un’analoga e altrettanto approfondita inchiesta anche rispetto a Fort Detrick, all’ospedale militare di Fort Belvoir e alla casa di riposo di Green Spring in Virginia, al fine di far luce finalmente sulla reale origine dell’epidemia di coronavirus a partire dall’estate del 2019. Al mondo serve verità, non menzogne a stelle e strisce.

Può sembrare strano ma anche la precedente e famigerata epidemia di “spagnola”, una gravissima forma di influenza che uccise come minimo cinquanta milioni di persone tra il 1918 e il 1920, non nacque e non si sviluppò certo in Spagna, ma viceversa negli Stati Uniti e in Kansas all’inizio del 1918. Non solo: la cosiddetta epidemia “spagnola” inizialmente venne alla luce e si propagò da una base militare statunitense, anche se quella volta non si trattò di Fort Detrick bensì di Fort Reiley, collocato per l’appunto nel Kansas. Anche in quel caso le menzogne furono molte.

È stato notato, in modo lucido e veritiero, che «ogni epidemia ha la sua infodemia, un alone tossico di panzane e disinformazione. Sentite cosa scriveva il quotidiano americano The Washington Times il 6 ottobre 1918: “Anzitutto bisogna dire che il termine ‘influenza spagnola’ è chiaramente un errore, e che il nome dovrebbe essere ‘influenza tedesca’, perché l’indagine prova che la malattia ha avuto inizio nelle trincee germaniche. Dopodiché ha compiuto un giro dell’intero mondo civilizzato, nel corso del quale è esplosa con particolare virulenza in Spagna, a causa di certe condizioni locali”. Sono i giorni di picco dell’infezione che farà 50, forse 100 milioni di morti in tutto il mondo, un numero cinque o dieci volte superiore alle vittime della Grande Guerra che sta per finire, e l’anonimo articolista ha ragione a dire che la Spagna non c’entra. Ma è altrettanto ingiusto buttare la croce addosso agli odiati crucchi. I primi casi, in primavera, non si sono registrati nelle trincee del Kaiser, ma proprio in America, per l’esattezza a Fort Riley nel Kansas, in un campo militare di quasi centomila metri quadri, dove più di mille reclute sono rimaste contagiate. Da quando, nell’aprile del 1917, gli Stati Uniti sono scesi in guerra, il loro esercito è salito di colpo da 190 mila uomini a più di due milioni. E in maggioranza sono ragazzi alle prime armi, come il soldatino Charlot di Shoulder Arms. Molti di loro vengono da zone rurali dove vivevano in stretto contatto con polli o maiali: niente di più facile che il virus sia arrivato da lì, e che abbia fatto il salto dagli animali all’uomo proprio in qualche fattoria del Kansas. Non influenza spagnola, dunque, e nemmeno tedesca: semmai americana. Ma non contento di dare in pasto al pubblico questa fake news, il Washington Times ne lancia anche un’altra, e ben più colossale: “Che i germi dell’influenza siano stati segretamente disseminati in questo Paese da sommergibili tedeschi è un’accusa difficile da provare, ma i loro attacchi coi gas contro gli equipaggi dei nostri fari e navi-faro sono validi indizi contro di loro”. L’epidemia, insomma, non ha nulla di naturale. All’origine di tutto ci sarebbe un complotto criminale, la guerra biologica ordita dai servizi segreti di Guglielmo II ai danni degli Stati Uniti e dei loro alleati europei. È curioso che a propagare questa bufala sia una testata con lo stesso nome (The Washington Times) di quella che un secolo dopo, allo scoppio del coronavirus Covid-19, ha messo in giro la leggenda del microrganismo ingegnerizzato uscito da un laboratorio militare di Wuhan. Ieri gli elmetti chiodati, oggi gli untori cinesi. Nel 1918 non c’erano Facebook e Whatsapp, e neppure il TgCom24 di Paolo Liguori, pronto a dare per certa la notizia, “confermata da fonte attendibilissima”. In compenso c’era un conflitto mondiale, quel mostruoso mattatoio che abbiamo visto nel film di Sam Mendes, una corsa forsennata all’annientamento reciproco dove tutto sembra ammesso, compreso il cloro per gasare le trincee opposte, ma anche una macchina dell’odio che fabbrica a ciclo continuo le dicerie più assurde, ingigantite dalla cappa di censura sui mezzi di informazione. Un mese prima dell’articolo sul Washington Times era stata un’autorità come il colonnello Philip Doane, responsabile della sezione sanitaria della marina mercantile USA, ad accreditare le tesi cospirazioniste: “Sarebbe molto facile per uno di questi agenti del Kaiser rilasciare germi dell’influenza in un teatro o in qualche altro posto dove si radunano grandi assembramenti di persone. I Tedeschi hanno iniziato le epidemie in Europa, e non c’è motivo per cui debbano essere particolarmente gentili con l’America”». 

A volte la storia si ripete e a una vecchia tragedia se ne aggiunge una nuova, anche se accompagnata da menzogne abbastanza simili a quelle di un secolo fa.”

Da Trump, Fort Detrick e il Covid-19. Il colpevole silenzio degli Stati Uniti sulla vera origine del coronavirus, di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli.

L’opinione pubblica sul Covid-19 viene formata dai fatti o è “terrorizzata” dalla propaganda?

Di Piers Robinson, ricercatore e scrittore su tematiche riguardanti la propaganda e i sistemi di comunicazione, autore di The CNN Effect: The Myth of News, Foreign Policy and Intervention, 2002, e Pockets of resistance: British news media, war and theory in the 2003 invasion of Iraq, 2010.

La censura degli scienziati, i messaggi allarmistici e le calunnie sulla teoria del complotto sono stati usati per rinforzare la narrativa ufficiale sul coronavirus? Possono mai essere giustificate distorsioni come queste?

Uno dei problemi riguardanti la ricerca e la scrittura su tematiche relative alla propaganda è che molta gente crede che sia un qualcosa del tutto estraneo agli Stati democratici.
Ciò che Edward Bernays, considerato da molti come una figura chiave nello sviluppo delle tecniche per la propaganda del ventesimo secolo, disse era che “la manipolazione intelligente e consapevole delle abitudini organizzate e delle opinioni delle masse popolari è un elemento importante nelle società democratiche”
Sebbene attualmente siamo soliti dare a queste tecniche nomi diversi, utilizzando eufemismi come “pubbliche relazioni” o “comunicazione strategica”, è un fatto che le tecniche di manipolazione sono parte integrante delle democrazie liberali contemporanee.
Benché tali attività di persuasione possano comprendere tecniche consensuali, esse pure frequentemente includono modalità meno consensuali, tra cui forme di inganno, incentivazione e coercizione. In quale misura tali metodi di persuasione non consensuali – che è come dire, la propaganda – sono stati usati nel caso del Covid-19? Continua a leggere

Cambiare strategia, subito!

La drammaticità della situazione italiana richiede un cambio di rotta drastico nella strategia di contrasto del coronavirus

In questa drammatica evenienza non c’è stato praticamente modo di esprimere opinioni diverse da quelle espresse a suon di decreti dal Governo e dagli interventi dei virologi che hanno invaso tutto quel che era possibile invadere manifestando una unanimità di pareri tale da risultare inquietante. In questa unanimità ha operato sia una autocensura a livello individuale, per cui chi aveva un’opinione diversa ha tutto sommato preferito tenersela per sé per paura di essere attaccato e isolato dalla comunità scientifica, sia una censura a livello di giornali e televisione che non hanno lasciato alcuno spazio a posizioni di dissenso.
Paradossale situazione sia perché posizioni di dissenso mai come in questo frangente erano e sono lecite, e perfino ovvie, sia perché l’espressione di esso avrebbe fornito indicazioni che sarebbero potute tornare utili. Perché, c’è poco da girarci attorno, la linea che è stata sin qui seguita dal Governo, in accordo con le autorità di sanitarie e pressoché al gran completo la comunità degli “esperti” (virologi, biologi, medici e via e via), ha portato ai risultati che sono di gran lunga i peggiori del mondo e che metteranno capo a non meno di 60 mila morti a epidemia conclusa.
Il punto di fondo che viene regolarmente ignorato da tutti, autorità ed esperti, è il rapporto tra guariti e deceduti. Al 27 marzo di 86.498 contagiati i guariti erano solo 10.950, i morti 9.134: pochissimi i guariti e moltissimi i morti. Infatti di quanti sono fin ora usciti dallo stato di contagiosità il 45,5 per cento è deceduto, mentre il 54,5 per cento è guarito; con queste proporzioni, che non mostrano di modificarsi nel tempo, dei 66.414 contagiati in essere al 27 marzo ne moriranno altri 30 mila che, aggiunti ai già deceduti, porteranno il totale a quasi 40 mila. Ma l’epidemia continua a un ritmo ch’è perfino aumentato e che del tutto verosimilmente porterà ad almeno altri 50.000 contagiati e, dunque, ad altri 23.000 morti che faranno salire il totale, a fine epidemia, ben oltre i 60.000. (calcolo fatto considerando che resti invariata al 45,5 per cento la percentuale dei morti,)
Ecco dove sta la drammaticità della situazione italiana.
Ma cosa ci dice, questa drammaticità? forse che il problema sta in qualche ciclista che scivola di soppiatto, qualche podista improprio, qualche passeggiatore clandestino? Siamo seri! Ci dice che il sistema che abbiamo messo in piedi per contrastare l’epidemia non funziona!
Non funziona nei due punti decisivi:
(1) perché dopo ben oltre due settimane di zona rossa totale i contagi non mostrano di scendere
(2) perché non sa prendersi cura dei contagiati con una efficacia appena accettabile.
Che di due contagiati uno guarisca e l’altro muoia – e si è visto a un dipresso che è così – è qualcosa che non è degno di un Paese avanzato come l’Italia. Qualcosa che davvero richiama i tempi della grande peste, ma qui siamo di fronte a un coronavirus, non al bacillo della peste. Se poi si pensa che si infettano e muoiono medici e infermieri coraggiosi in proporzioni abnormi non possiamo esimerci dal chiederci come sia stato possibile tutto questo, come siamo finiti in questo drammatico, letale, vicolo cieco.
Abbiamo fatto due errori decisivi, che invece di correggere continuiamo imperterriti a perseguire:
1. inseguire nella strategia di contenimento del virus la Cina senza esserlo; senza essere uno Stato di polizia (ma una qualche attenzione al riguardo non guasterebbe perché stiamo pericolosamente scivolando in quella direzione), senza essere confuciani, senza avere uno stile di vita – e un ambiente di vita – essenziale come quello cinese, senza essere una popolazione relativamente giovane come quella cinese.
2. seguire un modello di cura pressoché totalmente ospedaliero – e qui la spinta l’ha data la Lombardia, anche per questo motivo la più tragicamente colpita dal virus – che ha del tutto isolato gli ammalati rendendoli più deboli ed esposti; ha ingolfato i nodi nevralgici dell’organizzazione ospedaliera, dai Pronto Soccorso ai reparti di Terapia Intensiva; ha infettato il personale sanitario in proporzioni mai viste, creato gli ambienti favorevoli alla proliferazione di un virus che lo stesso Istituto Superiore di Sanità definisce “un patogeno dall’elevato potere di trasmissione in ambito assistenziale”.
Il virus poteva essere controllato isolando la fascia a rischio degli anziani problematici e lasciandolo libero di circolare in situazione controllata (vietando, ad esempio, i ritrovi a più intenso e prolungato addensamento). Il fatto che si manifesti a un’età media letteralmente impossibile per un nuovo virus (63 anni) significa che alle età minori colpisce senza dar luogo ad alcun sintomo, cosicché una immunità di gregge si sarebbe potuta ottenere senza conseguenze davvero importanti. Ma i virologi, troppo presi dai virus, ignorano gli umani cosicché non considerano a sufficienza la formidabile resistenza organica di popolazioni, come quella attuale italiana, capace di smorzare e attutire l’impatto dei virus. Più alta è questa resistenza più alta è la proporzione dei positivi asintomatici prodotti da una epidemia ed anche il coronavirus, se lasciato circolare nei modi che si è detto, avrebbe agito dando tantissimi asintomatici e risparmiando i vecchi, nel frattempo protetti.
Cambiare dunque, ecco ciò che si deve fare e bisogna farlo alla svelta.
Coloro che prendono assai meno pedissequamente il modello cinese e distribuiscono più consapevolmente i contagiati tra domicilio, strutture territoriali intermedie e ospedali ottengono risultati assai migliori.
Si può discutere più approfonditamente delle misure più specifiche da prendere ma intanto è doveroso e urgente cambiare rotta e correggere con decisione e coraggio gli errori fatti. Lo dobbiamo agli Italiani che, sprangati in casa e ligi a regole che si sforzano di seguire, aspettano di vedere, è proprio il caso di dirlo, una luce in fondo al tunnel dell’epidemia.
Roberto Volpi

(Fonte)

La camicia di forza della UE sulla Rete

L’establishment globalista è in serie difficoltà. Il voto popolare, quindi il normale processo democratico, sta mettendo in ginocchio il progetto neoliberale di superamento degli Stati nazionali. Per questo i “globalisti” corrono ai ripari. Un tempo, quando era la politica ad avere un ruolo di supremazia sull’economia, i partiti cercavano di farsi carico delle istanze popolari espresse nelle urne. Oggi la sovranità popolare ha lasciato il posto alla dittatura della finanza e i gruppi di potere sovranazionali sono invece propensi a soffocare il dissenso.
Per questo il Comitato Affari Legali del Parlamento europeo, cioè la commissione giustizia dell’Europarlamento (JURI), ha approvato il testo di una Direttiva che prevede la tutela del diritto d’autore. Dietro la maschera della salvaguardia del copyright si cela in realtà un atto sconcertante, un passaggio fondamentale per la distruzione della democrazia in Europa.
In particolare vi sono due articoli molto controversi. L’articolo 11 che introduce una tassa sui link, con l’obbligo per tutte le piattaforme on-line (Facebook, Google, Twitter etc. ) di acquistare licenze da società di media prima di poter postare link con qualsiasi tipo di contenuto, e l’articolo 13 sul cosiddetto “filtro di caricamento“, cioè un controllo sull’eventuale violazione del copyright su tutto quanto venga caricato sul web all’interno della UE.
Insomma una camicia di forza per la rete. Nessuno potrà più condividere direttamente post, video e articoli sui social. Le grandi piattaforme – come ad esempio Facebook e Twitter – dovranno prima verificare il rispetto del copyright. Una follia che impedirà alle informazioni di circolare liberamente. E nulla c’entra la pur condivisibile tutela del diritto d’autore, infatti chi oggi scrive sui giornali o pubblica libri vede il suo diritto tutelato dalla vigente normativa, che lascia all’editore la facoltà di pretenderne il rispetto da parte dell’autore (e di chi diffonde l’opera), o viceversa.
Non tutto è ancora perduto. E bene ha fatto Claudio Messora, il primo in Italia ad aver richiamato l’attenzione sulla gravità di questa direttiva [ved. video allegato – n.d.c], a iniziare una raccolta di firme per constrastarla. Il testo della direttiva dovrà essere approvato dal Parlamento europeo, cioè dall’Aula, dove all’interno dei due partiti di maggioranza (PPE e PSE) vi sono parecchi mugugni. L’appuntamento è per il 4 luglio, ma non è escluso un rinvio a fine anno.
Poi c’è un altro aspetto. La nuova normativa sarà adottata tramite una Direttiva, cioè un atto giuridico della UE che, per poter produrre i suoi effetti, necessita di un atto di recepimento da parte degli Stati membri. In Italia attraverso una legge ordinaria. Fino a quando ci sarà questa maggioranza giallo-verde possiamo almeno ragionevolmente pensare che una tale direttiva non verrà mai recepita.
Ma il nostro dissenso deve farsi sentire anche in Europa.
Paolo Becchi e Giuseppe Palma

Fonte

“Kosovo rubato”

La Televisione di Stato della Repubblica Ceca, che in un primo momento aveva partecipato al finanziamento del documentario realizzato da Vaclav Dvorak ed intitolato “Kosovo rubato”, relativo alle sofferenze inflitte ai Serbi abitanti la provincia di Kosovo e Metohija, ora, dopo il riconoscimento del Ministro degli Esteri della proclamazione unilaterale di indipendenza da parte albanese, si rifiuta di trasmetterlo.
I rappresentanti della Televisione di Stato giustificano il loro rifiuto sostenendo che il documentario è “sbilanciato” e caratterizzato da un “orientamento filoserbo”, tale che “il suo tono potrebbe causare emozioni negative”. Gli autori del documentario, non nascondendo il proprio disappunto di fronte alla plateale censura, replicano che effettivamente – nella produzione dell’opera – sono stati utilizzati alcuni spezzoni provenienti dagli archivi della Televisione serba, ma nessun tipo di sostegno economico è stato ricevuto dalla Serbia o dai Serbi in generale. Allo stesso tempo, hanno sfidato i censori ad indicare una singola affermazione, immagine o passaggio del documentario che sia falso o scorretto. Un invito che a tutt’oggi rimane senza risposta.
La trasmissione del documentario, programmata per la data del 17 marzo u.s., in coincidenza con l’anniversario dell’ultimo pogrom contro i Serbi del Kosovo e Metohija nel 2004, è stata dapprima posticipata ad aprile, successivamente – dopo il riconoscimento dell’indipendenza da parte del governo ceco lo scorso 21 maggio – è stata eliminata dal palinsesto in maniera definitiva.
Presa coscienza della censura subita, gli autori hanno deciso di far circolare il documentario – in lingua ceca – attraverso Internet. Ora la Televisione di Stato sta usando questo fatto come pretesto ulteriore per la messa al bando del documentario ed afferma che gli autori hanno violato il diritto di esclusiva.

Qui ne proponiamo una versione con sottotitoli in inglese, divisa in dieci parti per una durata complessiva di circa un’ora.
Buona visione.

 

 

2ª parte,                                          3ª parte,                                     4ª parte,

5ª parte,                                          6ª parte,                                     7ª parte,

8ª parte,                                          9ª parte,                                     10ª parte.