Giancarlo Paciello, con il libro edito da Petite Plaisance No alla globalizzazione dell’indifferenza, offre al lettore un testo singolare, per struttura e per respiro, coinvolgendolo in un percorso impegnativo e stimolante che spazia dalla storia all’economia, alla filosofia, al diritto, all’ecologia. Un invito a leggere il mondo contemporaneo, nelle sue diverse articolazioni e nella sua unità di fondo, con la lente critica di un pensiero forte che continua ad interrogarsi sulla storia e sulla condizione dell’uomo, un’ agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche che, oggi più che mai, offuscano la realtà brutale dei rapporti di produzione capitalistici e che non rinuncia ad indicare possibili vie d’uscita a chi non crede che questo sia “il migliore dei mondi possibili”.
Il libro è costruito attorno ad una ricchissima, per quantità e qualità, rete di riferimenti testuali che fanno di questo saggio non solo uno strumento prezioso per chiunque aspiri ad una comprensione profonda, attenta ai fondamenti storici e filosofici, della società attuale, ma anche una via maestra di accesso alle ricerche e alle teorie di tanti, significativi studiosi. Non solo: la varietà degli ambiti conoscitivi in cui si dispiegano la curiosità intellettuale e la visione universalistica dell’autore permettono al lettore di costruirsi un suo proprio percorso, approfondendo certe tematiche e scoprendo relazioni non scontate tra fenomeni apparentemente distanti. Operazione legittima , a patto di non rinunciare a scoprire l’unità dell’insieme che può sfuggire ad una lettura frettolosa. E’ l’autore stesso, nella pagina iniziale, a fornirci la bussola da utilizzare in questo viaggio: con materiale di grande valore, cucito con il filo rosso della storia e della filosofia, ha messo a punto una “coperta dell’umanità”.
Afflato universalistico, dunque: e proprio qui, nell’appassionata rivendicazione di un “universalismo universale” fondato su una comune natura umana, pur nel riconoscimento delle diversità culturali, si esercita la critica dissolvente di Giancarlo Paciello che prende le distanze dall’ideologia dominante dei “diritti umani”, ricondotti alla loro precisa matrice storica (la Rivoluzione americana e quella francese) e demistificati in quanto espressione di una fasulla ed ipocrita universalità dietro la quale si celano interessi molto, troppo particolari – politici, militari, economici – che coincidono con quelli dell’Occidente liberista.
La visione universalistica si sviluppa, invece, in tutta la sua grandezza, e urgenza, nell’attenzione posta nella necessità di un ritrovato, armonioso equilibrio tra l’uomo e la natura: l’ecologia occupa un posto centrale nella riflessione di Paciello, fa da collante tra le diverse parti del suo lavoro, tesse richiami tra ambiti differenti dell’attività umana, istituisce uno sguardo alternativo sull’economia e disegna una prospettiva di uscita dalle secche dall’attuale sistema socio-economico.
Una “ecologia integrale” non può che scontrarsi con la voracità onnivora del “capitalismo assoluto” dei nostri tempi: sostenuto dalle argomentazioni di pensatori di grande rilievo (basti qui citare Aristotele, Marx, Preve) e dalle ricerche di storici, economisti e sociologi (Hobsbawm, Bontempelli, Bevilacqua, Polanyi, Wallerstein, Michéa, Nebbia, Livi Bacci e tanti altri) l’autore fa tabula rasa di una “mitologia” capitalistica contrabbandata come incontrovertibile verità scientifica, stabilmente installata nell’immaginario contemporaneo: l’economia neoclassica, riportata alla sua natura di crematistica, accumulazione di denaro fine a se stessa, la costruzione dell’individuo “razionale”, calcolatore della teoria liberale, l’idea di un progresso infinito che disconosce il limite, l’ imbroglio ecologico” che ha occultato le radici capitalistiche della violenza contro una natura rimossa dalla sua dimensione storica, l’universalismo “farlocco” a stelle e strisce delle guerre “umanitarie”.
Sfatare il mito del progresso, cui siamo tutti devoti da almeno duecento anni, è operazione che richiede una buona dose di coraggio intellettuale, anche perché implica fare i conti, in modo maturo e talora doloroso, con la tradizione ideale e l’esperienza politica della sinistra. La riflessione di Paciello, alimentata dalle tesi di Larsch, Michéa e Orwell, apre, qui, un terreno ancora in gran parte, almeno nel nostro Paese, da dissodare e che potrebbe essere foriero sia di un’ adeguata interpretazione in sede storica, nonché politica di diversi fenomeni, sottraendoli innanzitutto alla categoria inconsistente e fuorviante del “tradimento”, sia di una progettualità alternativa che sappia prendere le distanze da quanto in quella tradizione conteneva le premesse per la sua resa al modello economico e culturale dominante.
E’, questo, un libro che ha il pregio di rispondere a molte domande essenziali del nostro tempo, ma, contemporaneamente, di suscitarne sempre di nuove, di fare il punto in modo rigoroso ed appassionato su numerosi temi e di dischiuderne altri. Il ruolo della dottrina sociale della Chiesa, cui l’attuale Pontefice è particolarmente attento, è sicuramente, per chi scrive, uno di questi. Pur non disconoscendo l’elemento di rottura rispetto ai suoi predecessori rappresentatato da papa Bergoglio, né la bellezza e la grande umanità dell’Enciclica Laudato si’ (ampi stralci della quale sono proposti nella parte seconda) e pur comprendendo il carattere universale, come sottolinea Giancarlo Paciello, di un messaggio rivolto alle “persone di buona volontà”, interessate alla “cura della casa comune”, due sono le questioni aperte dalla scelta di dare una tale centralità all’Enciclica. La prima è piuttosto scontata, ma non perciò da accantonare: il divario tra l’accorata denuncia papale dello strapotere del denaro e la decisa presa in carico della sofferenza dei poveri stridono drammaticamente con l’effettiva potenza economica dello Stato del Vaticano e dell’istituzione religiosa, sì da prestarsi a confermare, nelle nuove circostanze, la giustezza del famoso detto di Marx sull’oppio dei popoli. La seconda, pur nella consapevolezza del debito storico e culturale verso l’universalismo cristiano, si interroga sul rischio, davanti allo sfacelo culturale, politico, sociale ed antropologico della tarda modernità, di un ritorno all’indietro, nell’alveo rassicurante di una comunità che trova nelle forme della religione uno dei suoi fondamenti, nonché un baluardo da opporre allo sradicamento devastante del capitalismo assoluto. Rischio di cui è ben consapevole Giancarlo Paciello il quale, pur auspicando un dialogo tra scienza, religione e filosofia in merito alle sorti dell’umanità e alla necessità di una comune battaglia contro una “Divinità….falsa e bugiarda, l’Economia”, rivendica, nel solco di Preve, la centralità della filosofia, distanziandosi ancora una volta dal conformismo culturale-accademico che riconosce solo l’alternativa tra scienza e religione, dopo avere delegittimato la filosofia, per sua natura poco disposta a piegarsi davanti alla nuova divinità economica che non teme la scienza di cui, anzi, si serve in funzione tecnologica, né la religione che supplisce all’insensatezza sociale creata dalla produzione illimitata di merci. Un’insensatezza che si alimenta della stessa indifferenza – al saccheggio dell’ambiente, a diseguaglianze sociali insostenibili, alla mercificazione di ogni ambito dell’esistenza – che produce e contro la quale questo libro costituisce un sicuro antidoto.
Fernanda Mazzoli
chiesa cattolica
Come Napoleone 200 anni fa
“Ho osservato la storia e ho concluso che tutta questa russofobia è iniziata quando Carlo Magno ha creato l’Impero occidentale 1.200 anni fa, ponendo le basi per il grande scisma religioso del 1054. Carlo Magno creò il suo impero in opposizione alla situazione esistente, quando il centro del mondo civilizzato era Bisanzio.
La cosa più sconvolgente di cui mi sono reso conto era che tutto quello che ci hanno insegnato a scuola era sbagliato. Sostenevano che i dissidenti appartenevano alla Chiesa d’Oriente, che si era divisa da Roma. Ora so che quello che è successo è proprio il contrario: è stata la Chiesa cattolica occidentale a dissentire dalla Chiesa universale, mentre la Chiesa d’Oriente è rimasta ed è ancora ortodossa.
Al fine di spostare la colpa da se stessi, i teologi occidentali di quel tempo lanciarono una campagna giustificatoria per dare la colpa alla Chiesa d’Oriente. Hanno usato argomentazioni che sono ritornate ancora e ancora come parte del confronto tra l’Occidente e la Russia. Allora, nel Medioevo, hanno cominciato a riferirsi al mondo greco, o bizantino, come un “territorio di tirannia e barbarie”, al fine di sconfessare la responsabilità dello scisma.
Dopo la caduta di Costantinopoli, quando la civiltà bizantina si è conclusa, e la Russia ne ha preso il posto come Terza Roma, tutte quelle superstizioni, tutte quelle bugie circa la desacralizzazione del mondo ellenico, sono state trasferite automaticamente alla Russia.
È strano vedere le note di viaggiatori occidentali in Russa a partire dal XV secolo: tutti descrivono la Russia negli stessi termini che avevano usato per descrivere Bisanzio. Questa critica artefatta è considerevolmente aumentata dopo le riforme di Pietro il Grande e Caterina la Grande, quando la Russia è diventata potente sulla scena politica europea. Ed entro la fine del XVIII secolo, la critica è diventata russofobia.
Nata in Francia sotto Luigi XV, è stata utilizzata per un po’ da Napoleone per giustificare un’animosità verso la Russia, che era un ostacolo alla politica espansionistica della Francia. Il “Testamento di Pietro il Grande” [un documento politico contraffatto, NdT] fu utilizzato da Napoleone come giustificazione per la sua campagna di Russia.
Possiamo confrontare questo caso con i tempi moderni, in cui, al fine di raggiungere i loro obiettivi, gli Americani hanno inventato la menzogna che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa. La russofobia è rimasta in Francia come ideologia politica fino al XIX secolo, quando dopo aver perso la guerra franco-prussiana, la Francia si rese conto che il suo principale nemico non era più la Russia, ma la Germania, diventando alleata della Russia.
Per quanto riguarda l’Inghilterra, la russofobia vi apparve intorno al 1815, quando la Gran Bretagna, alleata con la Russia, sconfisse Napoleone. Una volta che il nemico comune fu sconfitto, l’Inghilterra invertì la rotta e fece della Russia il suo nemico, alimentando la russofobia. Dal 1820, Londra utilizzò un’ideologia anti-russa per mascherare le sue politiche espansionistiche, sia nel Mediterraneo sia in altre regioni – Egitto, India e Cina.
In Germania, la situazione non cambiò fino alla fine del XIX secolo, quando fu creato l’impero tedesco. Non aveva colonie, e non c’era posto per ottenerne, poiché Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo avevano avuto un vantaggio iniziale. Poiché tutte le colonie erano state assegnate senza la Russia, apparve in Germania un movimento politico che cercava una “espansione verso l’Oriente”, vale a dire, le moderne Ucraina e Russia. Questo tentativo fallì durante la Prima Guerra Mondiale, e più tardi, Hitler usò la stessa ideologia.
Non è un caso che gli storici tedeschi siano stati all’origine di quello che è conosciuto come “revisionismo”, la tendenza a sottovalutare il contributo dell’URSS alla vittoria sul Terzo Reich, sopravvalutando il contributo degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.
Il terzo tipo di russofobia è americano, ed è iniziato nel 1945. Non appena hanno sconfitto la Germania attraverso iniziative comuni con l’URSS, a costo di milioni di vite sovietiche, hanno disseminato la stessa storia creata dopo la vittoria su Napoleone nel 1815. Gli Stati Uniti hanno invertito la rotta e l’alleato del giorno prima è diventato il loro principale nemico. Così è iniziata la Guerra Fredda.
Gli Americani hanno usato gli stessi argomenti degli Inglesi nel 1815, sostenendo che essi “combattevano contro il comunismo, la tirannia, l’espansionismo”, e i loro argomenti erano ben poco diversi, fatta eccezione per la cosiddetta lotta contro il comunismo. Questa si è rivelata un trucco, perché al crollo dell’Unione Sovietica il confronto tra l’Occidente e la Russia non è terminato.
La storia del XIX secolo si ripete: gli Stati Uniti continua a parlare di una “minaccia” presumibilmente proveniente dalla Russia, al fine di raggiungere i propri obiettivi, promuovere i propri interessi, e perseguire la propria espansione. Oggi si demonizza la Russia in modo da mettere i missili della NATO in Polonia, usando le stesse parole e gli stessi argomenti che usava Napoleone 200 anni fa.”
Da Guy Mettan: le radici della russofobia, intervista all’autore di Russofobia. Mille anni di diffidenza.
Papa Francesco attore della Nuova Guerra Fredda
“Il pontefice cattolico diffonde nel mondo non soltanto le parole del Vaticano, ma anche il “vangelo” del nazionalismo e vittimismo ucraini. Francesco va in prima pagina quando afferma che le uccisioni di massa di gente di etnia armena avvenute negli ultimi giorni dell’Impero Ottomano, fu “il primo genocidio del 20° secolo”. In gran parte persa nel putiferio è la sua successiva affermazione che “i restanti due (genocidi) furono compiuti dal Nazismo e dallo Stalinismo”, la quale è una forte allusione alla decennale campagna dei nazionalisti ucraini per far riconoscere il Golodomor [NdT: in italiano] come genocidio, di cui il Vaticano ed in particolare Francesco stesso sono fervidi proponenti. Il Presidente Putin ha rimarcato nella sua annuale sessione di Domande & Risposte che “i tentativi di metterli [Nazismo e Stalinismo] nello stesso cesto sono del tutto privi di fondamento… Pur brutto come fu il regime stalinista, con tutte le sue repressioni e deportazioni etniche, non provò mai a estirpare [un gruppo etnico] completamente”, e sebbene le sue parole fossero in risposta alla recente legge ucraina che assimila i due regimi, i suoi commenti sono pertinenti al Papa così come lo sono a Poroshenko.
La parte I di questo articolo inizia con una rassegna sull’antagonismo storico e geopolitico del Vaticano contro la Russia ortodossa, incluso il ruolo giocato dal Cattolicesimo e dal suo delegato, il Commonwealth Polacco-Lituano, nella costruzione dall’esterno dello Stato ucraino. L’articolo poi esplora come e perché l’Ucraina è ancora un campo di battaglia in questa epica saga, e illustra i dettagli del disegno geopolitico statunitense per il Paese, nel tentativo di trasformarlo in una base avanzata contro la Russia. La parte II sfata il mito del “genocidio” che circonda il Golodomor e mostra come una manciata di stati estremisti hanno preso il controllo dell’argomento per portare avanti i loro obiettivi russofobici. Poi la serie raggiunge l’apice con un profondo esame della pretesa di Papa Francesco che il Golodomor è “genocidio” e le sue affermazioni di ipotetico sostegno all’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, entrambe funzionali ai fini del revisionismo storico anti-russo e rafforzanti l’ipotesi di un Papa Francesco destinato a diventare uno dei più noti attori della Nuova Guerra Fredda.”
Papa Francesco è l’agente del nazionalismo ucraino più influente al mondo continua qui.
La fondamentale analisi di Andrew Korybko sull’operato delle gerarchie vaticane, volto al contenimento geopolitico della Russia e alla frammentazione del continente eurasiatico.
Pio XII “Coca Cola Pope”
Scrive Andrea Turi (Docete Omnes Gentes. La geopolitica del Vaticano, in “Eurasia” n. 3/2014, pp. 164-165):
“La tradizione ecclesiastica era di non prendere iniziative volte a cambiare lo status delle relazioni esistenti tra potenze, ma in un discorso pronunciato nel settembre del 1944 da Pio XII – che sanciva il diritto inviolabile alla proprietà privata – si intravede un cambiamento di atteggiamento che porterà alla scomunica dei comunisti nel 1949. Con questo atto, la Santa Sede entra nella logica della Guerra Fredda: preoccupato dalle prospettive delineate dal riassetto delle forze sulla scacchiera internazionale, Papa Pacelli abbandona qualsiasi tentazione di avventura ‘terzaforzista’ e inserisce la Chiesa nella disputa bipolare compiendo una precisa e decisa scelta di campo, con la quale il Vaticano si adatta ai nuovi equilibri e stringe una sorta di alleanza tacita con il blocco occidentale contro il nemico comune bolscevico. Pio XII chiede agli Stati Uniti di rinunciare ad un ritorno all’isolazionismo e di accollarsi il ruolo di baluardo del mondo libero contro il fantasma del Comunismo che si sta aggirando per l’Europa Orientale e minaccia l’altra metà del continente. La Chiesa Cattolica diviene il miglior alleato del mondo capitalistico in forza della sua struttura centralizzata basata sul dogma dell’infallibilità del Papa, con una propria forza economica e ideologica e con una tradizione universalistica che interessa milioni di fedeli sparsi nel mondo.”
Sarà un caso che la scomunica di cui sopra giunse neanche tre mesi dopo la firma del Trattato di Washington (4 Aprile 1949), che sanciva il Patto Atlantico e la nascita della NATO?
Antonio Mattiazzo, monsignore non atlantico
Padova, 27 gennaio – Non vanno strumentalizzate, in senso retorico, le vittime della guerra, neppure i caduti italiani in Afghanistan. Lo ribadisce il vescovo di Padova, mons. Antonio Mattiazzo, precisando il suo pensiero in un’intervista al settimanale diocesano ”La Vita del Popolo”.
”Mi pare un’enfatizzazione retorica, affermare che ogni vita onesta o ogni comportamento coraggioso sia di per sé stesso eroico, salvo poi celebrare tanto eroismo solo quando a morire è un ragazzo in divisa. Altrimenti non capisco perché non ci si senta in dovere di pronunciare le stesse parole e di organizzare funerali solenni per le migliaia di nostri cittadini che dopo un’intera vita ‘eroica’ lasciano nella loro comunità un ricordo di onestà, senso del dovere, abnegazione – sottolinea Mattiazzo -. Aggiungo di più: ma lo Stato ha solo eroi in divisa da commemorare solennemente? Maria Bonino, la nostra pediatra del Cuamm morta nel 2005 a Luanda, in Angola, di febbre emorragica, non era forse un’eroina? E i suoi colleghi che scelsero di non scappare dall’area dell’epidemia, anche a rischio della vita? La salma del vescovo Padovese assassinato lo scorso giugno in Turchia, dopo aver offerto una splendida testimonianza di coraggio e di amore, è tornata su un anonimo aereo da trasporto merci. A questo punto, di fronte a tante vicende esemplari rimaste sepolte nel silenzio, non le pare che abbia ragione, quantomeno a denunciare il rischio di una possibile esaltazione retorica? Questo non toglie nulla al valore personale davanti a Dio”.
Spiegando che cosa pensa delle missioni di pace, Mattiazzo aggiunge: ”La parola ‘missione’ mi è particolarmente cara; per me è fondata sul vangelo. Il missionario del vangelo è uno disarmato. Nella nostra Costituzione abbiamo ben scritto che la Repubblica ripudia la guerra. C’è uno spazio di azione profetica nel voler far avanzare quella intuizione, nel darle concretezza, ben conoscendo la complessità delle situazioni. In tutta coscienza penso che di fronte a noi abbiamo uno scenario in cui tante guerre sono il frutto avvelenato del caparbio rifiuto di riformare un sistema di governo internazionale ormai inadeguato”.
(ASCA)
C’era una volta la Chiesa cattolica
Roma, 9 ottobre 2010 – ”La tragica scomparsa di quattro giovani militari italiani mentre compivano con dedizione e professionalità il loro quotidiano lavoro a servizio della pace in Afghanistan suscita profondo dolore e ci invita alla preghiera”. Lo afferma la presidenza della CEI in un comunicato.
”Mentre partecipiamo alla sofferenza dei familiari e al lutto del nostro Paese – conclude il testo – invochiamo da Dio il dono della riconciliazione e della concordia per tutti i popoli della terra”.
(ASCA)
Monsignore atlantico atto terzo
Roma, 11 ottobre 2010 – ”Gianmarco, Francesco, Marco, Sebastiano restano profeti del bene comune, perchè decisi a pagare di persona ciò in cui hanno creduto e per cui hanno vissuto: intorno a loro fiorisca più la riflessione e la condivisione, che le semplici risonanze emotive”. Lo ha affermato l’arcivescovo mons. Vincenzo Pelvi, ordinario militare per l’Italia, che questa mattina, all’aeroporto militare di Ciampino, ha accolto le salme dei quattro alpini uccisi in Afghanistan.
Pur auspicando ”una seria riflessione” da parte dei Governi dopo quanto sta avvenendo nal paese afghano, mons. Pelvi, nella sua dichiarazione rilanciata dall’Agenzia Sir, ha sottolineato che ”la società civile deve sostenere in maniera più concreta ed esplicita i nostri militari e le loro famiglie. Non si può essere neutrali dinanzi all’impegno internazionale di sicurezza, – ha poi detto – né possiamo affidarci a giochi di sensibilità variabili, che indeboliscono la tenuta di un impegno così delicato per la riappacificazione dei popoli”.
(ASCA – grassetto nostro)
Primo atto.
Secondo atto.
Lo stratega
Roma, 12 ottobre 2010 – ”I nostri militari si nutrono anche della forza delle nostre convinzioni e della consapevolezza di una strategia chiara e armonica, che le nazioni mettono in campo per un progetto di convivenza mondiale ordinata”. Lo ha detto l’ordinario militare, monsignor Vincenzo Pelvi, nel corso dell’omelia durante i funerali dei quattro alpini uccisi in Afghanistan.
”Dinanzi a tale responsabilità – ha aggiunto facendo riferimento all’impegno dei militari italiani – nessuno può restare neutrale o affidarsi a giochi di sensibilità variabili, che indeboliscono la tenuta di un impegno così delicato per la sicurezza dei popoli”.
(ANSA)
Blasfemia?
Due brevi estratti dall’omelia di Monsignor Pelvi in occasione dei funerali di Matteo Miotto, ripresi dalle agenzie di stampa del 3 Gennaio 2011:
”Molti chiedono perché ci ostiniamo ad esporci in terre così pericolose, ma allora non si potrebbe rimproverare anche a Gesù di aver cercato la morte affrontando deliberatamente coloro che avevano il potere di condannarlo? Perchè non fuggire? Gesù non ha cercato la morte, non ha però neppure voluto sfuggirla: ha preferito andare fino all’estremo limite della logica della sua vita e della sua missione piuttosto che tradire ciò che era, ciò che diceva, ciò che aveva fatto”.
”Non possiamo aspettarci che una società mondiale pacifica emerga da sola dal tumulto di una spietata lotta di potere: dobbiamo lavorare, fare sacrifici e cooperare per gettare le fondamenta su cui le generazioni future potranno costruire una comunità internazionale stabile e pacifica”.
Una spietata lotta di potere…
“Un eroismo più grande della violenza”
Roma, 21 Gennaio 2011 – ”Il dovere di costruire la pace non deve essere confuso con una specie di inerzia”. E’ l’esortazione di mons. Vincenzo Pelvi, l’ordinario militare, durante i funerali solenni di Luca Sanna.
L’inerzia, ha sottolineato Pelvi, ”accetta ogni tipo di disordine, scende a compromessi con l’errore e con il male”, mentre come ”sa bene il cristiano” la pace ”non è possibile in termini simili”. Esige piuttosto ”il lavoro più eroico e il sacrificio più difficile. Un eroismo più grande della violenza, una maggiore fedeltà alla verità”.
(ANSA)
“Far giungere le onde della fraternità in ogni parte del mondo”
Roma, 3 marzo 2011 – ”Le missioni internazionali di sicurezza ci aiutano a capire che siamo famiglia umana, nella circolarità del dono”. Lo ha sottolineato l’arcivescovo militare, Vincenzo Pelvi, durante l’omelia per i funerali del capitano Massimo Ranzani.
”Troppo spesso, invece, ci nascondiamo – ha aggiunto Pelvi – dietro affermazioni del tipo ‘non è compito mio, ne vale la pena?, non ne sono capace’. Forse non abbastanza ci brucia nel cuore l’amore, assoluta gratuità, con il quale far giungere le onde della fraternità in ogni parte del mondo”. ”Le condizioni morali, sociali e politiche, nelle quali gli uomini sono ora coinvolti in diversi punti del mondo”, ha osservato l’arcivescovo, sembrano ”contraddire l’ottimismo, la fiducia e spegnere subito le speranza”. Ma il sacrificio dei nostri militari ”ci impegna nel riaffermare con una nuova consapevolezza, quell’amore sociale, norma suprema e vitale della persona umana”.
(ANSA)
Un sussulto di dignità?
Roma, 4 marzo 2011 – ”Chissà se le celebrazioni per il 150.esimo anniversario dell’unità nazionale saranno anche occasione per un dibattito ampio e condiviso su una questione di non poco conto della nostra storia nazionale recente: e cioè sul fatto che l’Italia è, da 9 anni, un Paese in guerra. Un conflitto, quello in Afghanistan, di cui si prende consapevolezza solo periodicamente, quando muoiono i nostri soldati”. Se lo chiede, nel suo editoriale, il mensile dei gesuiti Popoli.
Eppure, osserva la rivista, ”questa eclissi della guerra dalla coscienza nazionale e dal dibattito pubblico è tanto più grave nel momento in cui restano drammaticamente nebulosi il senso e gli obiettivi del conflitto”. Per Popoli, è necessario ”reagire, da cittadini e da credenti”. Poichè sono ”sempre meno” le occasioni in cui si può invocare la tradizionale categoria cattolica della ‘guerra giusta’, ”ci si aspetterebbe qualche parola più profetica da parte dei pastori, ma anche una mobilitazione ben più massiccia della cosiddetta ‘base’ cattolica”. ”Davvero – conclude l’editoriale – viene da chiedersi se una nazione dalle profonde radici cristiane – come viene descritta l’Italia – possa accettare di annoverare tra le numerose ‘guerre dimenticate’ anche un conflitto che essa stessa sta combattendo, oltretutto senza sapere bene perché”.
(ASCA)
Che poi, a dirla tutta, “restano drammaticamente nebulosi il senso e gli obiettivi del conflitto” solo a chi non voglia intenderli…
Mille forme… di rispetto
Assisi, 10 ottobre 2011 – “Kosovo, Libano, Afghanistan, Haiti, Libia, Lampedusa sono la testimonianza delle mille forme di accoglienza e non di respingimenti, di rispetto e non di esclusione, di costruttivo dialogo e non di superficiale discriminazione. L’Italia, con i suoi soldati, continua a fare la sua parte per promuovere stabilita’, disarmo, sviluppo e sostenere ovunque la causa dei diritti umani. Percio’ e’ giusto intensificare le iniziative di cooperazione internazionale e partecipare alle missioni delle Nazioni Unite in aree di crisi”. Lo afferma l’ordinario militare, monsignor Vincenzo Pelvi.
“Dinanzi a chi invoca lo scioglimento degli eserciti, l’abolizione di organismi internazionali per la pace, l’istituzione militare paga il prezzo piu’ alto”, sottolinea l’arcivescovo con le stellette salutando il generale Biagio Abrate, capo di Stato Maggiore della Difesa, che ha testimoniato ad Assisi la stima delle Forze Armate per i cappellani militari riuniti nella citta’ di San Francesco per un convegno.
“Il mondo militare – ha aggiunto Pelvi – contribuisce a edificare una cultura di responsabilita’ globale, che ha la radice nella legge naturale e trova il suo ultimo fondamento nell’unita’ del genere umano. Di qui l’esigenza di una rinnovata attenzione a quella ‘responsabilita’ di proteggere un principio divenuto ragione delle missioni internazionali”.
(AGI)
Il rutto di Giuda
Roma, 24 ottobre 2011 – Di Gheddafi ”ci sono tante cose che non sapevo, non avevo mai sentito parlare di fosse comuni. Ho sempre cercato di essere positivo, di vedere gli aspetti buoni”.
Con queste parole il vescovo di Tripoli, mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, in un’intervista a ‘La Repubblica’, ricorda la figura del rais sottolineando, pero’, che ”questa gente ha avuto un leader che meritava la forca, era schiavo del potere, del petrolio, ma anche dell’Occidente. Italia, Francia, tutti lo hanno accolto e osannato. E lui e’ andato su di giri. E’ anche colpa nostra. Era un tiranno, ma nessuno in Occidente se ne accorgeva”.
”Fin dall’inizio della rivoluzione – ha aggiunto mons. Martinelli – c’era rabbia verso Gheddafi, dopo quarant’anni in cui mancava la liberta’. Poi la rabbia e’ esplosa in forme poco dignitose, poco musulmane direi, i musulmani hanno rispetto del corpo, invece ho visto questo corpo alla merce’ di tutti. Non sono capace di spiegare la cattiveria”.
Il vescovo di Tripoli ricorda anche gli aspetti positivi di Gheddafi: ”Ci ha sempre garantito la liberta’ religiosa. Fra tante contraddizioni rispettava lo spirito religioso. Gheddafi predicava l’Islam, ma e’ arrivato alle fosse comuni. Come ha potuto?”.
(ASCA)
[segue]