Al centro dell’esperimento statunitense

“Gli Stati Uniti non fanno eccezione per la quantità di violenza o spargimenti di sangue rispetto alle conquiste coloniali in Africa, Asia, Caraibi e Sud America. L’eliminazione della popolazione nativa è implicita nel colonialismo dei colonizzatori e nei progetti coloniali in cui vengono ricercati vasti territori e forza lavoro per lo sfruttamento commerciale. La violenza estrema contro chi rifiuta la lotta era una caratteristica distintiva di tutto il colonialismo europeo, spesso con risultati genocidi.
Piuttosto, ciò che distingue gli Stati Uniti è la mitologia trionfalista legata a quella violenza e ai suoi usi politici, fino ad oggi. La guerra post 11 settembre degli Stati Uniti esterna e interna contro i musulmani – in quanto “barbari” – trova la sua prefigurazione nelle “guerre selvagge” delle colonie americane e dei primi Stati americani contro i nativi americani. E quando, alla fine, non restò nessun nativo americano da combattere, rimase la pratica delle “guerre selvagge”. Nel ventesimo secolo, ben prima della Guerra al Terrore, gli Stati Uniti portarono avanti guerre su larga scala nelle Filippine, in Europa, in Corea e in Vietnam; invasioni e occupazioni prolungate a Cuba, in Nicaragua, ad Haiti e nella Repubblica Dominicana; e contro-insurrezioni in Colombia e nell’Africa del sud. In tutti i casi, gli Stati Uniti si sono resi conto di essere in guerra contro le forze selvagge.
Quella sottrazione della terra ai loro amministratori fu una guerra razziale dal primo insediamento britannico di Jamestown, marcando la separazione tra “civiltà” e “barbarie”. Attraverso questo perseguimento, l’esercito statunitense ha acquisito il suo carattere unico come forza militare con abilità nella guerra “irregolare”. Nonostante ciò, la maggior parte degli storici militari prestano poca attenzione alle cosiddette guerre indiane dal 1607 al 1890, così come all’invasione e all’occupazione del Messico nel 1846-48. Eppure fu durante i quasi due secoli di colonizzazione britannica del Nord America che generazioni di coloni acquisirono esperienza come “combattenti contro gli indiani” al di fuori di qualsiasi istituzione militare organizzata. Mentre grandi eserciti “regolari” combattevano obiettivi geopolitici in Europa, i coloni nel Nord America intrapresero una guerra mortale e irregolare contro le nazioni indigene del continente per impossessarsi delle loro terre, risorse e strade, spingendole verso ovest e alla fine costringendole a trasferirsi con la forza a ovest del Mississippi. Anche dopo la fondazione dell’esercito professionista americano degli Stati Uniti negli anni 1810, la guerra irregolare fu il metodo di conquista americana delle regioni della Valle dell’Ohio, dei Grandi Laghi, del Sud-est e del Mississippi, poi a ovest del Mississippi fino al Pacifico, compresa la metà di Messico. Da quel momento, i metodi irregolari sono stati usati in abbinamento alle operazioni delle forze armate regolari e sono, forse, ciò che maggiormente caratterizza la specificità delle forze armate degli Stati Uniti rispetto gli altri eserciti delle potenze mondiali.”

Da Le origini degli USA e il suprematismo bianco, di Roxanne Dunbar-Ortiz.

Venezuela: un bilancio

venezuela

Lo sapevo da almeno sei anni che sarebbe finita così, eppure la maggioranza ottenuta dalla destra alle elezioni legislative in Venezuela mi ha sorpresa per le sue dimensioni. Ho frequentato la rivoluzione bolivariana per quasi dieci anni, anno dopo anno, l’ho vista crescere in tutta la sua straordinaria potenza e poi declinare rapidamente, mangiata dall’interno anche dagli stessi uomini che avevano contribuito a realizzarla. Come ha fatto il tumore con il presidente. Ho avuto l’ardire di dire a Chávez che sarebbe andato tutto a rotoli, e non sono stata la sola. Ma lo sapeva anche lui evidentemente. Non so perché non abbia potuto fare nulla. Forse erano troppo eterogenee le forze che l’hanno appoggiato. Forse la contraddizione insita nell’arma a doppio taglio del petrolio (il cui maggior compratore erano gli stessi USA) era insanabile fin dall’inizio. Da allora, da sei anni, ho perso interesse alle questioni venezuelane. Oggi per gli amici che con me hanno frequentato il processo bolivariano in Italia, in Venezuela e in tutto il mondo, e per me naturalmente, ho sentito la necessità di fare il punto su quello che ha funzionato e quel che no, per provare a trarne, se possibile insieme, qualche insegnamento. È solo uno scarno elenco di questioni che possiamo approfondire con chi lo vorrà. E in coda qualche osservazione.

PRINCIPALI CONQUISTE
E’ stato quasi totalmente sradicato l’analfabetismo che affliggeva la maggior parte della popolazione. Ciò grazie all’iniziale aiuto di Cuba, poiché al principio nessun venezuelano in grado di farlo voleva insegnare a “delle bestie”, così qualificavano la stragrande maggioranza della popolazione analfabeta, e Fidel mandò ingenti quantità di insegnanti cubani.
Milioni di cittadini hanno avuto accesso alla sanità pubblica, anche qui grazie all’iniziale aiuto dei medici cubani, per le stesse ragioni anzidette.
E’ stata definitivamente seppellita l’ALCA, concepita per ricolonizzare l’America indiolatina.
Le elezioni di Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador non sarebbero state possibili se Chávez non avesse dato l’impulso a svincolarsi dal ruolo, di fatto coloniale, nel quale si trovava al suo avvento l’America indiolatina.

PRINCIPALI SCONFITTE
Il PSUV, il partito di Chávez, che avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare il “socialismo del XXI secolo”, si è rivelato un fallimento per inadeguatezza e alto grado di corruzione.
La riforma agraria non ha funzionato.
L’industrializzazione del Paese non ha prodotto risultati significativi.

OSSERVAZIONI
Il Venezuela non ha mai smesso di essere un Paese fondamentalmente capitalista con una becerissima borghesia -acerrima nemica del processo bolivariano- che ha continuato a detenere il potere economico e controllare il commercio con l’estero.
Di fatto non si è mai riusciti a controllare la Banca Centrale e la caduta del prezzo del petrolio ha privato il governo dei mezzi per eseguire il progetto bolivariano.
E l’annosa domanda si affaccia: è possibile cambiare il sistema dal di dentro? Per il momento non risulta che qualcuno ci sia riuscito.
E adesso qualcosa che mi ha sempre procurato strali, ma che sono convinta essere “il problema” numero uno. Chávez era certamente un leader straordinariamente empatico e generoso, difficilmente sostituibile, ma designare Maduro -che ha come principale qualità la fedeltà- come continuatore del processo bolivariano, ha mostrato in tutta la sua crudezza quanto vuoto Chávez abbia lasciato dietro di sé (si potrebbe dire lo stesso di Fidel e la nomina del fratello a successore). I buoni maestri lasciano buoni alunni che non raramente li superano. Chi pensa in termini di leader (Chávez, Fidel, Evo… per restare solo in America indiolatina), si sbaglia di grosso. Nella migliore delle ipotesi, morto il leader morta la rivoluzione. Nella peggiore, il leader si trasforma in despota. Gli esempi non ci mancano.
Con Chávez le premesse erano altre, c’erano i circoli bolivariani che all’inizio funzionavano eccome, e la vera partecipazione cittadina, capillare, rione per rione, strada per strada, famiglia per famiglia. Quasi nessuno dei sostenitori di Chávez può dire di non avere materialmente fatto qualcosa per il processo bolivariano. Questo all’inizio. Cos’è accaduto poi?

COSA ACCADRA’ ADESSO?
La strada adesso si presenta molto ripida. Il maggior problema che vedo è quello delle Forze Armate che pure in Venezuela hanno appoggiato dall’inizio il processo bolivariano. Chávez stesso diceva che le Forze Armate venezuelane erano un po’ speciali perché avevano fatto -come lui- l’accademia Andrés Bello dove si studiavano Mao, Marx…
Fu grazie alle Forze Armate che durò solo 24 ore il golpe del 2002 (consiglio a chi non l’avesse visto il documentario del golpe girato in diretta dal palazzo presidenziale, da una troupe, credo belga, che casualmente si trovava all’interno di Palazzo Miraflores per intervistare il Presidente). In quell’occasione, Chávez fu portato in una base militare (dalla quale era previsto che lo trasferissero fuori dal Paese) da un aereo con matricola statunitense, che risultò essere di proprietà del gruppo venezuelano Cisneros, allora proprietario dell’emittente televisiva Venevisión e di Ediciones América.
Ora è da scommettere che gli USA e la vicina Colombia faranno di tutto per cambiare i rapporti di forza all’interno delle Forze Armate e potrebbero questa volta riuscire laddove fino ad ora hanno fallito.
Il Pentagono e il Dipartimento di Stato non hanno mai smesso di tessere trame in tutta l’America indiolatina per creare le condizioni che giustifichino un colpo di Stato, da attuarsi qualora gli oligarchi loro complici nei vari Paesi perdano le elezioni. Così come accadde in Venezuela per le consultazioni e i referendum realizzati nel 1998, 1999, 2000, 2004, 2005, 2006, 2008 e 2009. L’unica consultazione persa dal presidente venezuelano fu quella per la riforma costituzionale, nel 2008. E possiamo simbolicamente situare lì l’inizio del declino del processo bolivariano, e della salute del presidente.
Lo sconfortante risultato delle ultime elezioni, tra l’altro, si inserisce in un contesto latinoamericano fortemente compromesso, dove le forze conservatrici stanno riprendendo il potere dappertutto e, dove ancora resistono le forze progressiste, come in Bolivia, possiamo dire che non stanno molto bene. O meglio, che non stanno facendo molto bene.
Marina Minicuci

Gli esperti del narcotraffico e la questione afghana

Da un’intervista a Sandro Donati, già consulente del Ministero della Solidarietà Sociale, direttore scientifico del progetto Narcoleaks, che raccoglie un gruppo di ricercatori volontari italiani impegnati nel monitoraggio dei dati relativi alla produzione e al commercio di droga a livello globale.
La recente diffusione di un documento redatto dal gruppo, eloquentemente intitolato Le bugie di Obama sul traffico internazionale di cocaina, ha suscitato una certa apprensione presso la Casa Bianca

“La questione afghana è una cartina di tornasole, un qualcosa che consente di comprendere tutto ed è sconcertante come osservatori ed esperti di narcotraffico facciano finta di non vedere. Ci sono infatti una serie di elementi eclatanti che parlano con estrema chiarezza.
Anzitutto, fino a prima che iniziasse il conflitto afghano – mi riferisco al periodo precedente finanche all’invasione sovietica in Afghanistan – la produzione nel Paese era una percentuale minima di quella mondiale. Diciamo che la quasi totalità della produzione mondiale era tutta quanta concentrata nel Triangolo d’oro. La produzione afghana cominciò a muoversi durante l’invasione sovietica e ci sono molti riferimenti che indicano come gli Stati Uniti finanziassero i mujahidin all’epoca, proprio facilitando il traffico dell’oppio. Fatto è che l’Afghanistan cominciò a produrre una parte un po’ più consistente della produzione mondiale, portandosi intorno ad un 15-20% del totale, ma il Triangolo d’oro continuava sempre ad essere dominante nel settore. Quando i sovietici si ritirarono, la produzione era ormai consolidata, e rimase tale sino a che nel 2000 intervenne un primo editto dei talebani. Questo editto provocò una prima diminuzione che mi pare si attestò attorno ad un 20-30% della produzione. L’anno successivo i talebani fecero sul serio, perché emisero un altro editto molto più duro che evidentemente spaventò i contadini; fatto sta che la produzione venne pressoché azzerata e si ridusse a circa un 7-8% di quello che era prima. Ora, nell’ottobre del 2001 arrivano gli americani e i loro alleati. Quello che è eclatante è seguire la curva con la quale da quel momento in poi aumenta annualmente la produzione di oppio. La pendenza della curva dimostra un aumento di produzione spaventosamente più elevato rispetto alla lenta crescita avuta durante il periodo dell’occupazione sovietica. La produzione arriva infatti a raddoppiare o triplicare anno per anno e si arriva ad una situazione limite intorno al 2007, anno in cui l’Afghanistan diventa pressoché il monopolista nella produzione mondiale. E quindi qui intervengono diversi fatti clamorosi che vanno osservati con attenzione: non soltanto l’Afghanistan vede esplodere la sua produzione, ma al tempo stesso crolla quella del Sud-Est asiatico. E qualcuno mi deve spiegare chi è che manovra quello che io definisco una sorta di simbolico semaforo internazionale che diventa rosso da una parte e verde dall’altra. Sul versante del Triangolo d’oro, d’improvviso cominciano a funzionare tutte quelle politiche di sviluppo dell’agricoltura alternativa e la produzione di oppio si abbatte fortemente.
In Afghanistan invece assistiamo all’esplosione della produzione in uno dei Paesi più controllati al mondo da satelliti, ricognizioni aeree e movimenti di truppe terrestri. Ammettiamo per un attimo di credere alla favoletta che l’oppio si produce soltanto nelle zone controllate dai talebani; dovremmo anzitutto superare la contraddizione che gli stessi talebani in precedenza avevano emesso degli editti contro la produzione. Ma anche volendo ammettere che i talebani a loro volta, accecati dal bisogno di armarsi dettato dalla guerra, abbiano cercato finanziamenti nel narcotraffico: è evidente che gli Stati Uniti hanno una capacità aerea di totale controllo del Paese e che i talebani non sono certo in grado di contrastarli dal punto di vista aereo, soprattutto nei voli ad alta quota. Potendosi tutto ricostruire minuziosamente dai satelliti, vi sarebbe la possibilità di distruggere le coltivazioni come per esempio gli stessi statunitensi hanno insegnato a fare ai colombiani con le fumigazioni, cioè gettando sostanze chimiche che cadono sulle piantagioni e le distruggono. Come mai tutto questo non è stato mai attuato in Afghanistan?
Ma poi c’è una seconda domanda più stringente, che supera pure il pretesto che le coltivazioni siano solo nei territori controllati dai talebani: l’oppio coltivato deve poi essere lavorato e trasformato. Dei vari passaggi necessari il primo è la trasformazione in oppio dei fiori. Che già significa movimentare delle quantità notevoli di materia prima, che dal punto di vista di volume e peso è in rapporto di 5 a 1 rispetto all’oppio che ne verrà ricavato. La merce si sposta con camion e poi arriva nei laboratori nei quali deve essere trasformata in oppio e da oppio in eroina. Qualcuno dovrebbe spiegare alla comunità internazionale per quale motivo dai report dell’ONU emerge un numero bassissimo di laboratori di trasformazione dell’oppio in eroina in Afghanistan. Ed anche come esce questa quantità immensa di oppio ed eroina dall’Afghanistan, visto che gli americani in teoria controllerebbero tutto. Le questioni per la verità sono tante e l’esplosione di produzione in Afghanistan comporta un’altra considerazione di estrema importanza: per la prima volta in maniera eclatante si dimostra che, decidendo a migliaia di km dai mercati di consumo che si deve aumentare la produzione, si è comunque sicuri che quella produzione avrà buon fine, avrà – in sostanza – sbocco nel mercato. E questo dimostra in maniera inequivocabile che è l’offerta che determina la domanda, e quindi è almeno in parte fallace tutta quella serie di argomenti addotti soprattutto in America Latina per spiegare che la produzione è colpa dei Paesi che consumano.”

Nel mirino di Washington

Di Maurice Lemoine, da Le Monde Diplomatique Brasil, anno 3 numero 31 Febbraio 2010, pp. 6-7.

Tendenza del dopo-Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono passati da una strategia di contenimento del rivale sovietico alla ricerca dell’egemonia planetaria. Le nuove tecnologie militari non esigono più basi gigantesche, ma una densa rete di punti di appoggio previamente posizionati. Ed è qui che entrano in gioco i colombiani

“I problemi della Colombia si estendono ben oltre le sue frontiere e hanno implicazioni per la sicurezza e la stabilità regionali”, dichiarò, nell’Agosto 1999, l’allora Segretario di Stato USA Madeleine Albright. Il 13 Luglio dell’anno seguente, il presidente Bill Clinton ed il suo collega colombiano Andrés Pastrana si accordarono per firmare il Piano Colombia, destinato a farla finita con il narcotraffico e le guerriglie. Senza molta partecipazione, il Congresso Nazionale di Bogotà ebbe diritto soltanto a consultarne un testo parziale ed in inglese!
Un decennio più tardi, la Colombia ha già ricevuto più di 5 miliardi di dollari di aiuto statunitense, essenzialmente di carattere militare. E, dall’arrivo al potere di Alvaro Uribe, nel 2002, già molto sangue è scorso sotto i ponti. Il presidente promise una “vittoria rapida” sui ribelli dell’Esercito di Liberazione Nazionale
(ELN) e principalmente sulle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC). Ed a credere ai bilanci divulgati dall’Esercito Colombiano, il presidente ha vinto ampiamente. A titolo di esempio, nel 2007 egli affermava di aver catturato più di 6.500 guerriglieri e di averne uccisi più di tremila ? cifre che, anno dopo anno, continuano similmente. Oltre a ciò, diceva che il programma di smobilitazione, tra il 2002 e Maggio 2008, abbia colpito circa 15mila persone, tra cui 9mila membri delle FARC. Dunque: sapendo che le FARC sono state sempre stimate in 15mila combattenti, secondo la contabilità di Uribe, esse avrebbero dovuto necessariamente sparire dalla circolazione! O no? Continua a leggere

Il “Grande Gioco” del XXI° secolo

Ripasso di inzio anno: i fronti dell’assalto USA/NATO al mondo, nelle parole di M. D. Nazemroaya.

L’invasione dell’Afghanistan
“L’invasione del 2001 dell’Afghanistan controllato dai talibani, è stata avviata con l’obiettivo di stabilire un punto d’appoggio in Asia centrale e una base di operazioni per isolare l’Iran, dividere gli eurasiatici uno dall’altro, per impedire la costruzione di gasdotti in corso attraverso l’Iran, per allontanare i Paesi dell’Asia centrale da Mosca, per prendere il controllo del flusso di energia dell’Asia Centrale e per soffocare strategicamente i cinesi.
Ma soprattutto, il controllo dell’Asia centrale sconvolgerebbe la “Nuova Via della Seta” in corso di formazione dall’Est asiatico al Medio Oriente ed Europa dell’Est. E’ questa “Nuova Via della Seta” che fa della Cina la prossima superpotenza globale. Così, la strategia degli Stati Uniti in Asia centrale è destinata a impedire, in definitiva, l’emergere della Cina come superpotenza globale, impedendo ai cinesi di avere l’accesso alle risorse energetiche vitali di cui hanno bisogno. La rivalità tra Stati Uniti e Unione europea con la Russia, per le vie di transito dell’energia, deve essere giudicata assieme al tentativo d’impedire la costruzione di un corridoio energetico trans-eurasiatico che congiunga la Cina al Mar Caspio e al Golfo Persico.”

L’instabilità in Pakistan
“L’instabilità in Pakistan è un risultato diretto dell’obiettivo di impedire la creazione di un percorso energetico sicuro della Cina. Gli Stati Uniti e la NATO non vogliono un forte, stabile e indipendente Pakistan. Preferirebbero vedere un Pakistan diviso e debole che possa essere facilmente controllato e che non prenda ordini da Pechino o si allei al campo eurasiatico. L’instabilità in Pakistan e gli attentati terroristici contro l’Iran, che sono originati dal confine con il Pakistan, hanno lo scopo di impedire la creazione di un percorso energetico sicuro per la Cina.”

La Somalia e la pirateria
“Guardando alla Somalia, le condizioni che hanno portato al problema della pirateria, sono state nutrite per dare agli Stati Uniti e alla NATO un pretesto per militarizzare le vie navigabili strategiche della regione. Gli Stati Uniti e la NATO non hanno voluto nulla, tranne che la stabilità nel Corno d’Africa. Nel dicembre 2006, l’esercito etiope invase la Somalia e rovesciò il governo della Somalia dell’Unione delle Corti Islamiche (ICU). L’invasione etiope della Somalia, ha avuto luogo in un momento in cui il governo ICU stava stabilizzando relativamente la Somalia ed era vicino a portare uno stato di pace e ordine duraturi all’intero Paese africano.
L’US Central Command (CENTCOM) aveva coordinato nel 2006 l’invasione della Somalia. L’invasione etiope fu sincronizzata con i militari USA, e vide l’intervento congiunto delle forze armate degli Stati Uniti a fianco degli etiopi, attraverso le Forze Speciali e gli attacchi aerei degli Stati Uniti. Il generale John Abizaid, comandante del CENTCOM, andò in Etiopia e tenne un incontro di profilo basso con il Primo Ministro Meles Zenawi, il 4 dicembre 2006, per pianificare l’attacco alla Somalia. Circa tre settimane dopo, gli Stati Uniti e l’Etiopia attaccarono e invasero la Somalia.
Il governo somalo dell’ICU fu sconfitto e rimosso dal potere, e al suo posto si pose il governo di transizione somalo (STG), un governo impopolare asservito ai diktat di Stati Uniti e UE fu portato al potere con l’intervento militare degli Stati Uniti e dell’Etiopia.”

I problemi interni del Sudan
“Il petrolio sudanese sbarca in Cina e le relazioni commerciali di Khartoum sono legate a Pechino. Questo è il motivo per cui Russia e Cina si oppongono a statunitensi, britannici, francesi e agli sforzi per internazionalizzare i problemi interni del Sudan presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Inoltre, è dovuto ai legami affaristici del Sudan con la Cina, che i leader sudanesi sono stati presi di mira dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea come violatori dei diritti umani, mentre i crimini contro i diritti umani compiuti dai dittatori loro clienti e alleati, vengono ignorati.
Sebbene la Repubblica del Sudan non è tradizionalmente considerata parte del Medio Oriente, Khartoum si è impegnato come membro del Blocco della Resistenza. Iran, Siria e Sudan hanno rafforzato i loro legami e la cooperazione dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003. La guerra israeliana contro il Libano e il dispiegamento successivo delle forze militari internazionali, prevalentemente dei Paesi della NATO, sul suolo e acque libanesi, non è passata inosservata neanche in Sudan. È in tale contesto di resistenza che il Sudan sta anche approfondendo i suoi legami militari con Teheran e Damasco.”

La militarizzazione dell’Africa Orientale
“Gli eventi in Sudan e in Somalia sono legati alla sete e la rivalità internazionali per il petrolio e l’energia, ma sono anche parte dell’allineamento della scacchiera geo-strategica, che ruota attorno al controllo dell’Eurasia. La militarizzazione dell’Africa Orientale fa parte dei preparativi per un confronto con la Cina e i suoi alleati. L’Africa orientale è un fronte importante che si riscalderà nei prossimi anni.”

Xinjiang e Tibet
“Nel Turkestan cinese, dove si trova la regione autonoma di Xinjiang, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno sostenuto il separatismo uiguro, basato sul nazionalismo uiguro, sul panturchismo e l’Islam, per indebolire la Cina. In Tibet, gli obiettivi sono gli stessi che in Xinjiang, ma lì gli Stati Uniti e i loro alleati sono stati coinvolti in operazioni di intelligence molto più intensa.
Separare Xinjiang e Tibet dalla Cina, ostacolerebbe pesantemente la sua ascesa come superpotenza. La separazione di Xinjiang e Tibet sottrarrebbe le ampie risorse di questi territori alla Cina e all’economia cinese. Negherebbe anche l’accesso diretto della Cina alle Repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale. Questo potrebbe effettivamente distruggere le vie terrestri in Eurasia e complicherebbe la creazione di un corridoio energetico verso la Cina.”
Qualsiasi governo futuro in uno Xinjiang o un Tibet indipendenti, potrebbe agire come l’Ucraina sotto gli arancioni, interrompendo le forniture di gas russo verso l’Unione Europea per le differenze politiche e i dazi di transito. Pechino come consumatore di energia, può essere tenuto in ostaggio, come i Paesi europei lo sono stati nel corso delle dispute ucraino-russe sul gas. Questo è precisamente uno degli obiettivi degli Stati Uniti, allo scopo di arrestare la crescita cinese.”

Il controllo delle Americhe
“Gli Stati Uniti stanno militarizzando i Caraibi e l’America Latina per riguadagnare il controllo delle Americhe. Il Pentagono sta armando e approfondisce i suoi legami militari con la Colombia, per contrastare il Venezuela e i suoi alleati. Il 30 ottobre 2009 i governi colombiano e statunitense firmarono anche un accordo che consentirà agli USA di usare le basi militari colombiane.
Haiti, occupata dagli statunitensi, serve anche al più vasto programma emisferico degli USA di sfida al blocco bolivariano, utilizzando la parte occidentale dell’isola di Hispaniola. Haiti si trova a sud di Cuba. Geograficamente è situata nella posizione migliore per un assalto simultaneo a Cuba, Venezuela e Stati del Centro America, come il Nicaragua. Il catastrofico terremoto del 2010, e l’instabilità che gli Stati Uniti hanno creato in Haiti, attraverso invasioni multiple, rendono molto meno evidente il progetto di sovvertire i Caraibi e l’America Latina. Guardando la cartina e la militarizzazione di Haiti, è inequivocabile che gli Stati Uniti prevedano di utilizzare Haiti, Colombia e Curaçao, come un hub per le operazioni militari e di intelligence. Haiti potrebbe anche rivelarsi una base preziosa, nello scenario di un conflitto più ampio, condotto dagli Stati Uniti e dai loro alleati contro Caracas e i suoi alleati regionali.
E’ chiaro che Stati Uniti stanno perdendo la loro presa in America. Non solo il Governo degli Stati Uniti vuole impedire tutto questo, ma vuole anche far sì che non perda le riserve energetiche di Paesi come Venezuela, Ecuador e Bolivia, a vantaggio dei cinesi affamati di energia. Con una leale concorrenza globale, non c’è modo che gli Stati Uniti siano in grado di corrispondere ciò che Pechino è disposta ad offrire alle nazioni dell’America Latina e dei Caraibi, nelle loro esportazioni di energia e risorse.”

Il fronte dell’Artico
“L’ordine del giorno della NATO, nella regione artica, inizia già nel 2006, quando la Norvegia ha invitato tutta la NATO ed i suoi collaboratori alle esercitazioni ‘Cold Response’. Anche il Canada ha costantemente tenuto nell’Artico esercitazioni, per dimostrare la sua sovranità nella regione artica, ma a partire dal 2010, soldati statunitensi e danesi sono stati coinvolti nell’Operation Nanook 10. Questo è un segno della cooperazione NATO contro la Russia. Secondo un comunicato militare canadese le esercitazioni militari sono destinate “a rafforzare la preparazione, l’interoperabilità e aumentare la capacità di una risposta collettiva alle sfide emergenti nella regione artica.” A parte la richiesta russa sulla Cresta Lomonosov, non c’è altra situazione che potrebbe essere vista come una sfida emergente che giustifica una reazione militare collettiva da parte del Canada, degli Stati Uniti e della Danimarca.
La battaglia per l’Artico è ben avviata.”

[Dello stesso autore:
La globalizzazione del potere militare: l’espansione della NATO]

CIA = Cocaine Import Agency

Il quotidiano Mercury News di San José, California, ha rivelato che durante gli anni del confllitto in Nicaragua agenti della CIA, per finanziare i Contras, avrebbero venduto negli USA almeno cento tonnellate di cocaina.
L’operazione sarebbe stata concertata a tavolino da un agente CIA e alcuni capi dei Contras.
La droga, trasportata con aerei militari fino agli aereoporti del Texas, venne prima distribuita nei ghetti neri di Los Angeles, e da lì, negli anni ’80 si diffuse in tutto il Paese. Il crack e la cocaina distrussero i cervelli, e la volontà di protestare e lottare. E da allora la CIA è diventata “agenzia di importazione di cocaina”.
(…)
Fino agli anni ’80, per via dei costi elevati, la cocaina era consumata soltanto da artisti e i privilegiati del jet set, ma giusto un anno dopo, Reagan autorizzò la costituzione di un esercito per destabilizzare il governo di Daniel Ortega in Nicaragua, divenuto poi noto come fronte democratico nicaraguense (FDN) o Contras. Era agli ordini del colonnello Bermudez, vecchio ufficiale della guardia nazionale.
I finanziamenti, però non erano sufficienti. Fu così che nel marzo del 1982, due esiliati nicaraguensi, Danilo Blandon e Juan Meneses, volarono in Honduras per riunirsi con il colonnello Bermudez, dovevano trattare il finanziamento dei Contras. Meneses era un narcotrafficante noto come “il re della droga”. Presero accordi; Meneses andò a San Francisco a curare limportazione di tonnellate di cocaina, mentre Blandon la distribuiva ai trafficanti. La CIA e il Pentagono, con il colonnello Oliver North, erano già implicati.
(…)
Il giornalista Gary Webb del Mercury News, nel 2002 denunciò il ruolo chiave della CIA nel traffico di armi e cocaina per finanziare la guerra sporca degli USA contro il Nicaragua, operazione resa possibile da una rete di trasporto creata proprio dalla CIA, in Costa Rica, Honduras e El Salvador. Gli aerei partivano da lì e portavano la cocaina agli aereoporti del Texas e della Florida eludendo i controlli della DEA e della dogana, poi tornavano carichi d’armi per i Contras.
La CIA autorizzò tutta l’operazione. All’inizio degli anni ’80 la cocaina negli USA era carissima, perchè non c’era modo di trasportarla in grandi quantità e in modo sicuro ma quando la rete pro Contras si collegò ai cartelli colombiani, Meneses riuscì a far entrare quasi 200 tonellate di cocaina all’anno, facendone abbassare il costo da 50 a 20 mila dollari al chilogrammo, fino ai 10 mila dollari per la grande distribuzione. Ma la cosa peggiore era che nei quartieri poveri era più diffusa sotto forma di crack, con un’impatto devastante, dovuto all’effetto 20 volte più forte di quello della cocaina unito al basso costo.
Mentre il governo statunitense a metà degli anni ’80 lanciava una grossa campagna per salvare la gioventù dai pericoli della droga, la DEA, la Dogana, il dipartimento degli Sceriffi e l’Ufficio Narcotici della California si lamentavano del fatto che le investigazioni sul traffico di droga erano sistematicamente intralciate dalla CIA, motivando le interferenze con interessi di “sicurezza nazionale”.
(…)

Da CIA: Agenzia di Importazione di Cocaina, di Raul Crespo.

Manuel faccia d’ananas

Non aver obbedito agli USA gli è costato una condanna a quaranta anni di carcere, dopo essere stato deposto dal governo di Washington con un’invasione militare. Lo afferma, da un’aula di Tribunale a Parigi, dove è stato estradato per reati minori, l’ex Generale e Presidente panamense, Manuel Noriega, che degli USA è stato agente fedele prima e nemico giurato poi. L’ex uomo forte di Panama, che a Parigi ha subìto una nuova condanna a sette anni per riciclaggio di narcodollari, riapre così, a venticinque anni di distanza, una delle pagine più nere della storia dell’intelligence e della politica statunitense.
Va anche detto che Noriega non è stato l’unico – e non sarà probabilmente l’ultimo – a passare dalle stelle alle stalle nella considerazione statunitense: basti pensare sia a Saddam Hussein che, soprattutto, a Osama bin Ladin, oggi il numero uno dei ricercati USA, ma ieri collaboratore fedele della CIA e del Pentagono (che diede, tra l’altro, alla famiglia bin Ladin, una delle più importanti commesse militari).
Dall’organizzazione dei Mujaheddin afgani contro i sovietici, fino all’invio dei combattenti islamici in Bosnia contro i serbi, Osama bin Ladin ebbe un ruolo anche nello scandalo Iran-contras, lo scambio di armi, droga e denaro tra l’Amministrazione Reagan e l’Iran di Khomeini, attraverso il quale la CIA finanziò la guerra contro il legittimo governo sandinista in Nicaragua, costata 50.000 morti al piccolo Paese centroamericano.
Ma se lo sceicco ha preferito tacere sugli ambigui rapporti con l’intelligence militare statunitense, Manuel Noriega ha invece scelto di raccontare come divenne un nemico giurato degli USA dopo esserne stato un alleato.
Ma chi era Manuel Noriega? In patria lo soprannominavano cara de pina (faccia d’ananas). Per via del volto butterato, certo, ma anche a causa di una buona dose di cinismo e ipocrisia, doti che lo aiutarono non poco ad arrivare al vertice del Paese.
(…)
Arruolato dalla CIA nei primi anni ’70, come ammesso dall’ex direttore generale di Langley, l’Ammiraglio Stanfield Turner, Noriega – stipendiato con 100.000 dollari all’anno – rimase vincolato all’agenzia fino al febbraio del 1988, quando la DEA spiccò un mandato di cattura internazionale per traffico di droga.
E’ utile ricordare che nel 1981, l’allora Presidente panamense, Omar Torrijos, venne fatto saltare in aria mentre si trovava a bordo di un elicottero: la United Fruit Company non aveva certo gradito la riforma agraria del generale divenuto presidente. E che gli Stati Uniti abbiano avuto molto a che fare con l’attentato, é stato rivelato ampiamente da documenti declassificati.
E Noriega? Beh, guarda caso, subito dopo la morte di Torrijos, divenne Capo di Stato Maggiore delle Forze armate panamensi. Non più, quindi, un affiliato alla CIA tra i tanti, ma un interlocutore privilegiato importante per Langley. Ma che Noriega fosse implicato nel traffico di droga non vi sono dubbi, come non ve ne sono sul fatto che lo realizzasse in nome e per conto suo personale e della CIA.
Noriega divenne un uomo fondamentale per gli USA, perché straordinariamente importante era l’istmo di Panama, il cui omonimo canale era – ed è – l’unica via marittima di collegamento tra Oceano Pacifico e Oceano Atlantico ed è passaggio obbligato nel collegamento tra nord e sud del continente americano. Se si pensa a cosa questo significhi sotto il profilo del controllo commerciale e militare, si capisce come mai gli USA abbiano avuto nel controllo di Panama una delle loro (tante) ossessioni dominanti. E il generale panamense divenne l’uomo giusto al momento giusto.
Noriega diede un notevole aiuto alle operazioni più sporche dell’Amministrazione Reagan, ma “la madre di tutte le operazioni” era certamente quella che la Casa Bianca mise in piedi per finanziare i contras nicaraguensi, impegnati nell’aggressione al governo sandinista in Nicaragua.
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Il denaro arrivava dal traffico di droga organizzato con i narcos colombiani e le armi venivano acquistate con i proventi della droga. Venne alla luce il ruolo dell’aviazione militare salvadoregna, vera e propria agenzia di viaggi della coca proveniente dalla Colombia.
Dalla base aerea di Ilopango, in El Salvador, fino in Texas, la coca viaggiava ben custodita e non sorvegliata. Destinazione Los Angeles, dove operava Freeway Rick, spacciatore nicaraguense che diffuse crack in tutti gli States. La Commissione Kerry del Senato americano, appurò poi che anche l’aereoporto militare della Florida era una delle destinazioni previste di questi viaggi a basso rischio ed alto profitto.
E che il traffico di droga, dentro e fuori gli States, servì per finanziare i contras, venne dimostrato dalle inchieste giornalistiche realizzate da Gary Webb, pubblicate dal San Jose Mercury News e successivamente raccolte nel libro “The dark alliance”. Gli articoli gli valsero per due volte il Premio Pulitzer di giornalismo, ma non gli salvarono la vita. Gary Webb venne “suicidato” nel 2005. Dissero che si era ucciso, ma i colpi sul volto erano due: strano modo, per non dire impossibile, di suicidarsi…
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Succede perciò che le pressioni della CIA verso cara de pina aumentano. Non chiedono più solo un ruolo di logistica e di sostegno diplomatico, ma vogliono che Panama divenga la base fondamentale per la guerra contro il Nicaragua e contro l’FMLN in El Salvador. Ma Noriega non ci sta, non vuole coinvolgere Panama in un ruolo attivo contro il Nicaragua e Cuba.
Dapprima respinge le richieste dell’esponente della destra salvadoregna, Roberto D’Abuisson, capo degli squadroni della morte e mandante dell’assassinio di Monsignor Romero, di limitare i movimenti dei capi del FMLN a Panama; successivamente, cosa molto più determinante per la sua fine, respinge le richieste del tenente colonnello statunitense Oliver North, che chiede di fornire assistenza militare ai contras del Nicaragua.
Noriega insiste oggi – ma non da oggi – nel dire che il suo rifiuto di andare incontro alle richieste di North sta alla base della campagna statunitense per estrometterlo. E sostiene che siano proprio gli USA ad averlo incastrato. Il rifiuto di prestare Panama alla pianificazione dell’aggressione militare al Nicaragua divenne motivo di scontro aperto con i suoi vecchi capi. Noriega non era più né fedele, né fidato. Era di nuovo, soltanto, cara de pina.
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Il rifiuto del generale darà così il via all’operazione mediatica, politica e infine militare destinata a destituirlo. Il 20 Dicembre del 1989, Washington invade l’isola con 27.000 marines e rangers. Dopo cinque giorni di combattimenti contro i “battaglioni della dignità nazionale”, gli USA prendono il controllo dell’istmo e Noriega, che si era rifugiato nella Nunziatura apostolica, si arrende il 3 Gennaio del 1990. Washington mette al suo posto Guillermo Endara, che presta giuramento – simbolicamente, si potrebbe dire – nella base militare USA a Panama.
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Da CIA e droga: parla Noriega, di Fabrizio Casari.

Il Rogozin pensiero

Nell’ultimo numero (1/2010) di “Eurasia”, dedicato a La Russia e il sistema multipolare, compare un’intervista a Dmitrij O. Rogozin, ambasciatore della Federazione Russa presso la NATO.
Rogozin, discutendo con gli intervistatori del futuro della NATO («lacerata da problemi nazionali, finanziari ed ideologici») e della cooperazione con la Russia, critica il «NATO-centrismo» e rilancia la proposta del presidente russo Medvedev per un accordo di sicurezza europeo che «rivolga verso l’esterno tutti i cannoni del continente», impedendo l’insorgere d’un nuovo conflitto in Europa.
In tema di Afghanistan, area in cui esiste una convergenza d’interessi tra Mosca e l’Alleanza Atlantica, Rogozin non risparmia diverse frecciate alla NATO. L’Ambasciatore infatti afferma che non si può «valutare positivamente il bilancio delle attività dell’ISAF», e che se oggi le truppe atlantiche lasciassero il Paese il regime di Karzai durerebbe meno di quello del comunista Najibullah dopo il ritiro dei soldati sovietici. Una frettolosa uscita della NATO dall’Afghanistan destabilizzerebbe l’Asia Centrale e porrebbe «nuove sfide» alla Russia, ma Rogozin precisa che l’appoggio di Mosca all’Allanza Atlantica non è incondizionato: l’Ambasciatore si dice «estremamente indignato» per la riluttanza della NATO a distruggere le coltivazioni di papavero da oppio, da cui deriva l’eroina che invade la Russia; riluttanza che stona coi regolari bombardamenti delle basi dei narcotrafficanti in Colombia. «Non è perché la cocaina è diretta negli USA e invece l’eroina in Russia?» si chiede retoricamente Rogozin, precisando che la pazienza dei Russi «ha raggiunto il limite».
Infine Rogozin mostra inquietudine per «la politica di accerchiamento della Russia con basi militari a sud e a ovest» da parte degli USA, auspicando il rafforzamento del Trattato di Sicurezza Collettiva che lega la Russia a molti altri Paesi ex sovietici, e critica l’ingerenza della NATO nelle questioni relative all’Artico.

James & Douglas

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James Stavridis, il nuovo comandante militare della NATO, entrato in carica lo scorso luglio in coincidenza con l’inizio dell’offensiva statunitense in Afghanistan, precedentemente ha ricoperto l’incarico di capo del Comando Meridionale del Pentagono (SOUTHCOM).
In questo ruolo, Stavridis aveva la responsabilità delle operazioni militari USA nei Caraibi e nell’America centrale e meridionale, inclusa l’attività di controguerriglia in corso in Colombia. In un’intervista rilasciata ad un quotidiano statunitense, egli diceva fra l’altro: “Le operazioni sulle quali mi sono maggiormente impegnato in Sud America sono state quelle contro la guerriglia in Colombia. La mia esperienza sul campo si trasferirà bene al mio ruolo di comandante della NATO in Afghanistan… Le mie esperienze nel capire ed apprendere la controguerriglia credo saranno utili per il nuovo compito.
Sono molto contento per la nomina del generale Stanley McChrystal quale comandante di ISAF… il comando NATO nel Paese. Penso che egli rappresenti una scelta perfetta”.
Un profilo di James Stavridis pubblicato nell’edizione dello scorso 29 giugno del New York Times – in realtà una tirata celebrativa intitolata “Per un posto in Europa, un Ammiraglio della Rinascita” recitava: “Nella sua nuova posizione alla NATO, egli collaborerà con il generale Stanley McChrystal, che recentemente è diventato il nuovo comandante delle forze americane e NATO in Afghanistan, dove deve portare avanti una nuova strategia che è la prima iniziativa di sicurezza nazionale dell’amministrazione Obama.
Riflettendo sulla sua esperienza quale ufficiale capo del Comando Meridionale, l’ammiraglio Stavridis ha detto di essere orgoglioso per l’assistenza fornita alla Colombia in tema di controguerriglia e lotta al narcotraffico…”.
Il suo predecessore come Supremo Comandante Alleato della NATO e capo del Comando Europeo del Pentagono (EUCOM) – i due incarichi sono sempre contestuali – è stato il generale John Bantz Craddock, anch’egli all’epoca trasferito ai due comandi da quello di capo di SOUTHCOM e responsabile del Piano Colombia, teoricamente un’operazione contro la coltivazione ed il traffico di droga ma nei fatti diretta a combattere la guerriglia.

Il sostituto di Stavridis nel ruolo di comandante di SOUTHCOM è il generale Douglas Fraser, il quale alla fine dello scorso giugno non ha esitato ad identificare il futuro casus belli affermando che “la crescente influenza dell’Iran in America Latina rappresenta un potenziale rischio per la regione” e che “sono preoccupato per il concentramento di truppe in Venezuela perché non capisco quale minaccia essi percepiscano”.
Fraser ha anche aggiunto: “SOUTHCOM dovrebbe continuare ad aiutare la Colombia nel combattere i guerriglieri di sinistra come le FARC” perché “le FARC non sono sconfitte e noi abbiamo bisogno di mantenere quell’impegno…”.
Dopo pochi giorni, il presidente venezuelano Hugo Chavez ha replicato che “il governo [del Venezuela] sta rafforzando il suo apparato militare perché gli Stati Uniti rappresentano una minaccia per Caracas” ed ha consigliato a Fraser di procurarsi uno specchio sul quale sia scritto “Guardati, generale, la minaccia sei tu!”.
Un mese più tardi, dopo l’annuncio da parte statunitense di stare insediando altre cinque basi militari in Colombia, Chavez ha rinnovato la sua preoccupazione, affermando che la Colombia sta agendo da base per “quelli che ci attaccano costantemente e si stanno già preparando per nuovi attacchi contro di noi”.

Come dice Eduardo Galeano, pare proprio che il Pentagono si sia messo all’opera per insultare la dignità e l’intelligenza dell’America Latina per molto tempo a venire.

[SOUTHCOM, EUCOM e le altre “aree di responsabilità” del Pentagono]

L’agente Sion

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Riceviamo il seguente comunicato del Comité comprendre et agir contre la guerre di Marsiglia e volentieri pubblichiamo.

Nel confermare a Gaza, nella maniera più bieca, di aver sempre perseguito una politica volta all’eliminazione totale della presenza palestinese nella terra di Palestina, lo Stato sionista rivela al mondo intero la sua natura di stato guerresco, razzista e reazionario. Le sofferenze che esso infligge al popolo palestinese mostrano l’orribile realtà di questa Stato che, fondato dall’ONU, continuamente insulta l’ONU.

Stato guerrafondaio
In guerra permanente, Israele – 6 milioni di abitanti, pari cioè ad un millesimo della popolazione mondiale – è un attore importante del mercato mondiale delle armi: 6° importatore e 12° esportatore. Queste cifre sono da prendere con cautela, perché inficiate dalla profonda interconnessione tra il complesso militar-industriale statunitense ed il suo fratello minore israeliano (interconnessione voluta ed organizzata dal potere statunitense).
Per esempio: General Dynamics, uno dei grandi produttori di armi degli USA, è proprietario al 25% di Elbit, che è il secondo produttore di armi israeliane. Bisogna dunque imputare il 25% delle vendite di armi del primo allo Stato del secondo?
Armi di distruzione di massa: Israele possiede tante armi nucleari quanto quelle dell’India e del Pakistan messe insieme. Dispone, inoltre, di armi chimiche e batteriologiche. Israele consacra il 9% del suo prodotto interno lordo alla guerra: una delle cifre più elevate in tutto il mondo.

Stato reazionario su scala mondiale
Da più di 60 anni in guerra con i Palestinesi e gli Stati vicini, che di volta in volta hanno tentano di sostenerli, Israele ha sviluppato tecnologie ed industrie di guerra che vende al mondo intero. Questa attività permanente e costitutiva dello Stato sionista assume forme diverse:
– vendita di materiali di guerra o di sorveglianza poliziesca o di spionaggio;
– addestramento di personale alla lotta antiguerriglia;
– inquadramento di milizie paramilitari nei Paesi dove il regime al potere è minacciato da rivolte popolari.

Ecco qualche esempio tra i numerosi :
– Colombia: le competenze sioniste sono state messe al servizio del narco-presidente Uribe per aiutarlo a distruggere la guerriglia delle FARC;
– Georgia: i consiglieri militari israeliani hanno addestrato l’esercito georgiano per l’attacco dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia ed hanno installato sul suolo georgiano basi missilistiche che possono attentare la sicurezza dell’Iran;
– Azerbaigian: addestramento di ufficiali in Israele;
– India: Israele è il secondo fornitore di armi dell’India ed i gruppi induisti «fondamentalisti» sono addestrati da agenti israeliani per organizzare azioni di terrorismo contro la popolazione musulmana;
– Pakistan: nell’attuale operazione di destabilizzazione del Paese che ha come obiettivo la distruzione dell’armamento nucleare pakistano, battezzato dai sionisti come «la bomba atomica musulmana», i servizi segreti sionisti giocano un ruolo molto attivo;
– Sri Lanka: consiglieri israeliani aiutano il governo di Colombo nella lotta di sterminio dei ribelli Tamil;
– Sudan: consiglieri israeliani hanno formato i ribelli del Sud del paese per aiutarli a far cadere il regime di Khartum che ha sempre sostenuto i Palestinesi;
– Stati Uniti: la sorveglianza del muro di 3.500 km che separa gli USA dal Messico è assicurata da materiale israeliano.

Spesso accade che Israele, dietro le quinte, faccia il lavoro sporco di vendere le armi a contro-rivoluzionari quando gli USA vogliono «mantenersi le mani pulite». Ci ricordiamo, ad esempio, che nell’operazione segreta «Irangate» alcuni intermediari israeliani fornirono armi statunitensi all’Iran per evitare che l’Irak vincesse la guerra e che con il ricavato della vendita questi intermediari, su richiesta degli USA, consegnarono armi alla controguerriglia nicaraguense.

Questo commercio della morte è tanto più fiorente, quanto questi strumenti e queste tecnologie vengono sperimentate su bersagli palestinesi vivi.
Solo la disfatta dello Stato sionista può mettere fine a questo mercato insanguinato.
Lo Stato sionista non è soltanto il boia del popolo palestinese, esso è anche un ingranaggio importante della contro-rivoluzione mondiale orchestrata dagli USA.
La lotta accanita del popolo palestinese con lo Stato sionista, che essa inizia a far vacillare, è un punto chiave della lotta mondiale contro la catastrofe capitalista in corso.