Colonizzatori e colonizzati


“Noi, come Italiani, o Mediterranei, dopo essere stati colonizzati dagli Angloamericani, ne abbiamo adottato lo sguardo fino ad immaginare che “noi” fossimo come loro, che fossimo noi ad avere sulla coscienza secoli di tratta degli schiavi e di sfruttamento coloniale imperialistico con cui fare i conti (innalzando un paio di patetici e fallimentari episodi in Libia e nel corno d’Africa come se giocassero nella stessa lega con i professionisti).
Nell’ultimo mezzo secolo, abbiamo adottato pienamente e senza remore tutte le dinamiche dei popoli assoggettati, fantasticando che la “vita vera” fosse quella che ci arrivava come immaginario d’oltre oceano, dimenticando tutto ciò che avevamo ed eravamo, per proiettarci nell’esistenza superiore dei colonialisti, pronti ad assumerne i peccati nella speranza che ciò ci assimilasse, almeno da quel punto di vista, al modello irraggiungibile.
Questa condizione di esistenza a metà, tremebonda e felice di essere assoggettata, ma frustrata dal nostro essere ancor sempre distanti dal modello, ha creato ondate di autorazzismo inestinguibile e ha bruciato tutte le possibilità di rinascita.
In sempre maggior misura tutta la nostra cultura, da quella popolare a quella accademica ha iniziato questo processo di mimesi, immaginando che se farfugliavamo qualche neologismo in Inglese o se ne infarcivamo i documenti ufficiali (dai programmi scolastici alle direttive ministeriali) avremmo magicamente acquisito la potenza del nostro santo oppressore.
Come Paese sotto occupazione ci siamo inventati di essere “alleati” degli occupanti, e mentre eravamo orgogliosi del nostro acume nel denunciare “governi fantoccio” in giro per il mondo non vedevamo quelli che si succedevano (e succedono) in casa nostra.
In tutta questa storia di falsa coscienza conclamata, di cui si dovrebbero narrare le vicende in un libro apposito, siamo sempre rimasti un passo al di sotto della consapevolezza di ciò che siamo e possiamo.
Oggi che gli interessi della potenza occupante danno segni di progressivo disinteresse per noi – salvo che come ponte di volo per cacciabombardieri – oggi forse si presenta per la prima volta dopo tre quarti di secolo la possibilità di uscire da questa condizione di falsa coscienza.
Tra non molto saremo forse in grado di applicare lo sguardo dell’emancipazione coloniale anche a noi stessi. Sarà una presa di coscienza dolorosa e vi si opporranno forze enormi, ma il processo è avviato e con il fatale deterioramento della situazione interna esso emergerà sempre di più.”

Da La falsa coscienza di un Paese colonizzato, di Andrea Zhok.

L’ideologia yankee applicata al resto del mondo


“Vi è una coincidenza sorprendente tra la promozione della democrazia occidentale e il massacro di massa che ne è la sua applicazione pratica. Lo scenario è sempre lo stesso: si inizia con la dichiarazione dei diritti umani per finire con i B52. Ora questo trofeo della politica estera degli Stati Uniti – e dei loro alleati – è una diretta conseguenza del loro liberalismo. Questo aspetto della storia delle idee è poco conosciuto, ma la dottrina liberale ha perfettamente assimilato l’idea che per garantire la libertà di alcuni, sia necessario garantire la sottomissione di altri. Il padre fondatore degli Stati Uniti, un liberale come Benjamin Franklin, ad esempio, si oppose all’installazione di reti fognarie nei quartieri poveri, perché rischiava, migliorandone le condizioni di vita, di rendere i lavoratori meno cooperativi. In breve, dobbiamo affamare i poveri se vogliamo sottoporli e dobbiamo sottometterli, se vogliamo farli lavorare per i ricchi. A livello internazionale il potere economico dominante applica esattamente la stessa politica: l’embargo che elimina i deboli costringe i sopravvissuti, in un modo o nell’altro, a servire i loro nuovi padroni. Altrimenti, ci sono ancora i B52 e i missili da crociera.
Non è un caso che la democrazia americana, il modello che la Coca-Cola ha diffuso a tutte le famiglie del villaggio globale, sia stata fondata da schiavi e genocidi. C’erano 9 milioni di amerindi nel Nord America nel 1800. Un secolo dopo, erano 300.000. Come disse Alexis de Tocqueville “La Democrazia in America” è arrivata con le sue coperte avvelenate e le mitragliatrici Gatling. I selvaggi piumati del Nuovo Mondo prefiguravano i bambini iracheni nel ruolo di questa umanità in soprannumero di cui si sarebbero liberati, senza rimorsi, se le circostanze lo avessero richiesto. Così, da un secolo all’altro, gli Americani hanno trasposto il loro modello endogeno su scala mondiale. Nel 1946, il teorico e apostolo della Guerra Fredda del contenimento anticomunista George Kennan, scrisse ai dirigenti del suo Paese che il loro compito secolare sarebbe stato quello di perpetuare l’enorme privilegio concesso dalle fortune della storia negli Stati Uniti d’America: possedere il 50% della ricchezza per solo il 6% della popolazione mondiale. Le altre nazioni saranno gelose, vorranno una fetta più grande della torta e bisognerà impedire che ciò accada. In breve, la “nazione eccezionale” non intende condividere i benefici.
Una caratteristica importante dello spirito americano ha favorito questa trasposizione della “democrazia americana” in tutto il mondo. È la convinzione dell’elezione divina, l’identificazione con il Nuovo Israele, in breve il mito del “destino manifesto”. Tutto ciò che viene dalla nazione scelta da Dio appartiene di nuovo al campo del Bene, incluse le bombe incendiarie. Questa mitologia è la potente forza della buona coscienza yankee, quella che vetrifica intere popolazioni senza il minimo problema di coscienza, come il generale Curtis Le May, capo dell’aviazione americana, che vanta di aver fatto alla griglia col napalm il 20% della popolazione nordcoreana. Gli Stati Uniti hanno realizzato una congiunzione inedita tra una potenza materiale senza precedenti e una religione etnica ispirata al Vecchio Testamento. Ma questo potere è stato surclassato nel 2014 quando il PIL cinese, in parità di potere d’acquisto, ha superato quello degli Stati Uniti. E non è sicuro che l’Antico Testamento sia sufficiente a perpetuare un dominio che si sgretola inesorabilmente.”

Da Democrazia genocida, di Bruno Guigue.

Il fondamentalismo hollywoodista di Roberto Quaglia

“Ho appena terminato di scrivere. Il fondamentalismo hollywoodista.
Cos’è il fondamentalismo hollywoodista? Per capirlo, dobbiamo innanzitutto renderci conto che non è vero che tutte le ideologie siano morte, come si usa dire. Anche il mondo delle ideologia è probabilmente soggetto alla selezione naturale di Darwin, alcune ideologie agonizzano, altre si estinguono, ma le nicchie ecologiche che si liberano vengono subito occupate da qualche nuovo arrivato. La natura aborrisce il vuoto. In molti casi assistiamo all’insorgere di piccoli culti più o meno strampalati, culti pseudoreligiosi o pseudoscientifici. Di solito rimangono confinati a quattro gatti e durano poco. Ma in altri casi compare un nuovo grande predatore, una super ideologia che in quattro e quattr’otto si pappa tutto e tutti in vastissime porzioni del mondo. Il paradosso è che più questa ideologia è vasta, più chiunque ne venga assorbito non la riconosce più in quanto ideologia. Quando ci si è dentro, l’ideologia assume la forma della realtà, e tutto ciò che si trova al di fuori dell’ideologia diventa un’eresia. Quando la Chiesa perseguiva gli eretici, era proprio perché per lei essi si collocavano al di fuori della realtà, e così facendo mettevano in crisi, per la Chiesa, il concetto stesso di realtà. Per quanto possa suonare strano alle nostre orecchie, un fenomeno analogo è in atto proprio ora, ed il “Vaticano” di questa nuova ideologia-religione – i due concetti in parte si sovrappongono – è situato a Hollywood.
L’Occidente oggi non si rende conto di essere ideologico, profondamente ideologico, così ideologico da fare impallidire le altre grandi ideologie del passato. No, non sto parlando del capitalismo, del liberismo, e nemmeno della democrazia – queste sono tutte cosucce nel confronto dell’ideologia di cui sto parlando, ed in una certa misura ne sono parte. La grande ideologia della quale non siamo bene consapevoli di essere succubi in Occidente è l’Hollywoodismo, un vero e proprio sistema completo di valori, di modelli di comportamento e di pensiero, di come ci si debba abbigliare e cosa si debba mangiare, eccetera eccetera. Insomma, un intero modello di realtà, a cui in varia misura finiamo per credere. Ed è proprio chi non è consapevole della natura fideistica della fede che lo attanaglia che in men che non si dica si ritrova essere un fondamentalista, cioè qualcuno che crede ciecamente ai propri modelli di riferimento senza rendersi conto in nessuna misura della loro relatività. Ci piaccia o no siamo quindi tutti fondamentalisti hollywoodisti – in vita nostra abbiamo guardato troppo cinema e televisione americani per non esserlo. Alcuni lo saranno più di altri, ma nessuno sfugge.”

Fonte

La quintessenza della donna perfetta (per il sistema)

“Molte volte, anche se si medita poco su simili dati di fatto, vale più un Sex and the City qualsiasi del migliore manifesto, o discorso politico. Le masse cercano divertissement di ogni tipo, prova ne sono i vari programmi di cucina. Se si vuole veicolare un pensiero e far sì che diventi virale tra la gente, niente è più funzionale alla causa dell’inserirlo come messaggio subliminale all’interno di uno spettacolo che induca rilassatezza e serenità nella popolazione lavoratrice, in cerca di svago a fine giornata. Lo stesso Renzi, che pure – bisogna dargliene atto – ha avuto l’ardire di esporre il suo pensiero (?) in qualche libro, quando ha voluto meglio reclamizzare le sue idee (?), ha indossato un giubbino in stile Happy Days e si è recato in un qualche programma della De Filippi per recitare la parte dell’amico ganzo.
Insomma, Sex and the City è a tutti gli effetti uno dei più grandi manifesti politici a cavallo tra i due millenni. Ho detto manifesto politico, ma si tratta di un’imprecisione. Un manifesto, per logica, palesa una certa serie di intenzioni. Il più noto, quello di Marx per intendersi, non lascia dubbi, anche nei meno preparati, su quali debbano essere i veri obiettivi di un partito comunista. Dimostrando in questo senso di essere molto più accorti di qualsiasi pensatore passato, o in circolazione, i creatori della serie in questione non propongono alcuna intenzione evidente. Anzi, somministrano il prodotto come qualcosa di scherzoso e inoffensivo, un sano passatempo ideale prima di andare a dormire. Tutto appare estremamente semplice: quattro donne, quasi tutte intorno ai trentacinque, alle prese con simpatiche vicende amorose mai troppo tormentate – non un suicidio d’amore, o una disperazione esasperata. Solo dubbi amletici su quali scarpe acquistare, tra quelle che ammiccano dalle scintillanti vetrine della Fifth Avenue, e su oziose questioni da signore infoiate che si recano in comunella dalla parrucchiera. Attenzione alla sottigliezza: quel genere di vita fatta di notti brave, cataste di relazioni da una botta e via, e acquisti compulsivi, non viene posta come fine, o modello verso il quale tendere. Il mondo di Sex and the City non è un’irraggiungibile idea platonica di società ideale, ma lo specchio di un ben preciso stato di cose presentato come dato e inemendabile.
Come in quella poesia di Trilussa, ma senza alcuna amarezza, ogni puntata sembra dire “così va il mondo”. Cioè, come? Come deve andare una società neoliberista lanciata senza freno verso il tracollo e l’annichilimento
Ed eccovi servite quattro donne single e in carriera – loro, sia chiaro, certo non voi! – che lavorano – poco, ma guadagnano enormemente – e passano di festa in festa e di amore facile in amore facile. Com’è ovvio che sia, sono egoiste – ma loro si definiscono “autonome” –, non si interessano di alcun problema rilevante – alle discussioni sul welfare state preferiscono sicuramente una dissertazione sul vibratore. Non stupisce minimamente insomma che questa serie abbia ricevuto tanti apprezzamenti. In particolare, non stupisce sia stata tanto diffusa e pubblicizzata dal sistema e dai suoi organi di distrazione di massa. Sex and the City compendia nelle sue quattro eroine la quintessenza della donna perfetta per il sistema consumista e neoliberale. Encomiabile operazione senza pari poi, a opera del pensiero dominante, è quella di riuscire a far figurare tali personaggi come pregevoli esempi di trasgressione.
Lo squallore dei loro discorsi, in cui gli uomini vengono trattati con la stessa sensibilità che un macellaio al mattatoio userebbe nella scelta dei tagli di carne, è appena offuscato dallo sfavillante luccichio dei loro abiti carichi di lustrini. Eppure è squallido, squallido e intollerabilmente disumano. È appena il caso di precisarlo che simili chiacchiere non potranno mai avere alcunché di trasgressivo, ma rientrano semmai (e come non mai) nell’ordine di una visione del mondo da capitalismo del terzo millennio. Infatti, come previsto dalle logiche di mercato, le quattro tardo adolescenti appena un po’ troppo cresciute sono donne che passano da un animale da monta all’altro di giorno in giorno, o quando va bene di mese in mese. Solitamente lo scelgono all’interno del cotè della Manhattan bene. Si tratta sovente di manager, investitori finanziari, costruttori e via dicendo. Quando non trovano qualcuno con il quale sfogare gli eccessi ormonali, la loro libido le guida verso il più vicino negozio di Manolo Blahnik, o griffe analoghe. Insomma, la loro vita si svolge tutta sull’onda del consumo sessuale, o dell’acquisto di beni superflui. Che si tratti di scarpe, o di uomini, la cosa è del tutto incidentale nell’ottica di una compulsività ossessiva per l’accumulo fine a se stesso. Non si capisce quindi dove starebbe la disubbidienza nelle loro azioni. La risposta è semplice: da nessuna parte. Il popolo dei telespettatori se l’è semplicemente bevuta, senza alcuna consapevolezza della tossicità del liquido ingerito.”

Da Sex and the City: manifesto per la donna neoliberista, di Matteo Fais.

La lingua dell’imperialismo statunitense

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“In tutta la prima metà del Novecento, la lingua straniera più conosciuta nell’Europa continentale era il francese. Per quanto riguarda in particolare l’Italia, “solo nel 1918 vennero istituite cattedre universitarie di inglese ed alla stessa data risale la fondazione dell’Istituto britannico di Firenze, che, con la sua biblioteca e i suoi corsi linguistici, divenne ben presto il centro più importante di diffusione appunto della lingua inglese a livello universitario”. Alla Conferenza di pace dell’anno successivo gli Stati Uniti, che si erano ormai introdotti nello spazio europeo, imposero per la prima volta l’inglese – accanto al francese – quale lingua diplomatica. Ma a determinare il decisivo sorpasso del francese da parte dell’inglese fu l’esito della seconda guerra mondiale, che comportò la penetrazione della “cultura” angloamericana in tutta l’Europa occidentale. Dell’importanza rivestita dal fattore linguistico in una strategia di dominio politico non era d’altronde inconsapevole lo stesso Sir Winston Churchill, che il 6 settembre 1943 dichiarò esplicitamente: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gl’imperi del futuro sono quelli della mente”. Con la caduta dell’Unione Sovietica, nell’Europa centro-orientale “liberata” l’inglese non solo ha scalzato il russo, ma ha anche soppiantato in larga misura il tedesco, il francese e l’italiano, che prima vi avevano un’ampia circolazione. D’altronde, l’egemonia dell’inglese nella comunicazione internazionale si è ulteriormente consolidata nella fase più intensa della globalizzazione.
Così i teorici angloamericani del mondo globalizzato hanno potuto elaborare, basandosi sul peso geopolitico esercitato dalla lingua inglese, il concetto di “Anglosfera”, definito dal giornalista Andrew Sullivan come “l’idea di un gruppo di paesi in espansione che condividono principi fondamentali: l’individualismo, la supremazia della legge, il rispetto dei contratti e degli accordi e il riconoscimento della libertà come valore politico e culturale primario”.
(…)
È vero che l’importanza di una lingua dipende – spesso ma non sempre – dalla potenza politica, militare ed economica del paese che la parla; è vero che sono le sconfitte geopolitiche a comportare quelle linguistiche; è vero che “l’inglese avanza a detrimento del francese perché gli Stati Uniti attualmente restano più potenti di quanto non lo siano i paesi europei, i quali accettano che sia consacrata come lingua internazionale una lingua che non appartiene a nessun paese dell’Europa continentale”. Tuttavia esiste anche una verità complementare: la diffusione internazionale di una lingua, contribuendo ad aumentare il prestigio del paese corrispondente, ne aumenta l’influenza culturale ed eventualmente quella politica (un concetto, questo, che pochi riescono ad esprimere senza fare ricorso all’anglicismo soft power); a maggior ragione, il predominio di una lingua nella comunicazione internazionale conferisce un potere egemone al più potente fra i paesi che la parlano come lingua madre.
Per quanto concerne l’attuale diffusione dell’inglese, “lingua della rete, della diplomazia, della guerra, delle transazioni finanziarie e dell’innovazione tecnologica, non vi è dubbio: questo stato di cose regala ai popoli di lingua inglese un incomparabile vantaggio e a tutti gli altri un considerevole svantaggio”. Come spiega meno diplomaticamente il generale von Lohausen, il vantaggio che gli Stati Uniti hanno ricavato dall’anglofonia “è stato uguale per i loro commercianti e per i loro tecnici, per i loro scienziati e i loro scrittori, i loro uomini politici e i loro diplomatici. Più l’inglese è parlato nel mondo, più l’America può avvantaggiarsi della forza creativa straniera, attirando a sé, senza incontrare ostacoli, le idee, gli scritti, le invenzioni altrui. Coloro la cui lingua materna è universale, posseggono un’evidente superiorità. Il finanziamento accordato all’espansione di questa lingua ritorna centuplicato alla sua fonte”.”

Da La geopolitica delle lingue, di Claudio Mutti, editoriale di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, n. XXXI (3-2013).