La guerra non poteva essere impedita


“Chi ha seguito le vicende ucraine senza pregiudizi ideologici, e con un minimo di onestà intellettuale, sa che al momento della dissoluzione dell’URSS, l’Ucraina era una potenza economica, la terza potenza industriale dell’Unione Sovietica dopo Russia e Bielorussia, oltre che il suo granaio. Questa repubblica sovietica possedeva industrie aerospaziali, automobilistiche e di macchine utensili, i suoi settori minerario, metallurgico e agricolo erano ben sviluppati, come i suoi impianti nucleari e petrolchimici, le sue infrastrutture turistiche e commerciali. Ospitava inoltre il più grande cantiere navale dell’URSS.
A partire dal 1991, anno della sua indipendenza, il PIL dell’Ucraina è rimasto indietro rispetto al livello raggiunto in epoca sovietica, la capacità industriale si è notevolmente ridotta e la popolazione è diminuita di circa 14,5 milioni di persone in 30 anni a causa dell’emigrazione e del più basso tasso di natalità in Europa. Non solo, l’Ucraina è anche diventata il terzo debitore del FMI e il Paese più povero d’Europa. Questi record negativi non possono essere imputati solo alla corruzione sistemica e spaventosa dell’Ucraina: le reti di corruzione che hanno spremuto l’Ucraina sono transnazionali.
L’Ucraina è stata vittima di due rivoluzioni colorate finanziate dagli Stati Uniti che hanno portato a un cambio di regime e ad una guerra civile che l’hanno separata a forza dal suo principale partner economico, la Russia. La sua storia è stata cancellata e riscritta, le ricette neoliberali hanno distrutto il suo tessuto economico e sociale instaurando una forma di governo neocoloniale.
L’Ucraina è entrata a far parte del nefasto Partenariato Orientale dell’UE nel 2009 e, fin dalla sua indipendenza, è stata invasa da ONG, consulenti economici e politici occidentali. Lo stato di soggezione del Paese ostaggio degli interessi anglo-americani si è cementato dopo che l’ultimo governo ucraino che si era opposto alle dure condizioni del FMI è stato rovesciato dal colpo di Stato sponsorizzato dagli Stati Uniti nel 2014.
Il 10 dicembre 2013, il presidente ucraino Viktor Yanukovich aveva dichiarato che le condizioni poste dal FMI per l’approvazione del prestito erano inaccettabili: “Ho avuto una conversazione con il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden, mi ha detto che la questione del prestito del FMI è stata quasi risolta, ma gli ho ripetuto che se le condizioni fossero rimaste tali non avremmo avuto bisogno di tali prestiti”. Yanukovich ha quindi interrotto i negoziati con il FMI e si è rivolto alla Russia per ottenere assistenza finanziaria. Era la cosa più sensata da fare, ma gli è costata cara. Non è possibile rompere impunemente le catene del FMI: questo fondo a guida americana concede prestiti a Paesi con l’acqua alla gola in cambio della solita shock therapy fatta di austerità, deregolamentazione e privatizzazione, e prepara in questo modo il terreno per gli avvoltoi della finanza internazionale, quasi sempre angloamericani.
Se si permette a coloro che hanno distrutto un Paese di essere coinvolti nella sua ricostruzione, essa sarà inevitabilmente solo un punto sul continuum di conquista, occupazione e saccheggio, anche se viene imbellettato. La distruzione produce quella tabula rasa su cui l’occupante può scrivere le proprie regole: “Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove hanno fatto il deserto, lo chiamano pace”. Tacito conosceva bene sia la realtà che la propaganda dell’imperialismo romano. Ci si può solo chiedere se coloro che parlano di “ricostruzione”, “ripresa”, “riforma”, “ordine fondato sulle regole”, “reset” o qualsiasi altra espressione di moda al momento, siano consapevoli di questa realtà brutale o credano veramente alla propria propaganda. In ogni caso, promettono un’utopia futura per la quale vale la pena uccidere e morire.
(…) Vendere una guerra richiede un impegno a tutto campo, ed è per questo che i think tank e gli specialisti di marketing sono stati coinvolti fin dalle prime fasi. Essi generano narrazioni che contribuiscono a plasmare lo spazio discorsivo, a creare una percezione di sostegno universale per l’Ucraina, a fornire punti di discussione e versioni della verità sia ai politici che ai media. Devono motivare gli ucraini affinché continuino a combattere e i vassalli europei affinché continuino a finanziare la guerra e ad armare l’Ucraina, indipendentemente dalle devastanti perdite umane ed economiche che ciò comporta.
(…) I politici europei, mentre sono alle prese con i costi sempre più crescenti di una guerra per procura degli Americani nel loro continente, come meccanismo di compensazione sostengono l’idea assurda che una soluzione di pace in Ucraina minaccerebbe la sicurezza europea e non sarebbe nell’interesse del Vecchio Continente. La retorica della ricostruzione, intrecciata all’illusione di una vittoria dell’Ucraina, permette al partito transatlantico della guerra di presentarsi come una forza del bene e un motore di crescita futura. I promotori della ricostruzione hanno cercato aggressivamente di occupare il terreno morale estromettendo i costruttori di pace e per farlo hanno spinto la tesi che la guerra non poteva essere impedita né fermata.”

Da Promuovere la ricostruzione in Ucraina per alimentare la guerra, di Laura Ruggeri.

Le democrazie non fanno le guerre

“La principale delle vostre tesi è che le democrazie, come voi le chiamate, non fanno le guerre.

Ma, signori, per chi ci prendete? Credete veramente che non abbiamo un minimo di cultura politica e storica? Non è vero che le democrazie non facciano guerre: tutte le guerre coloniali del XIX e XX secolo sono state fatte da regimi che si qualificavano democratici. Così gli Stati Uniti fecero una guerra di aggressione contro la Spagna per stabilire il loro dominio in una parte del mondo che li interessava; fecero la guerra contro il Messico per conquistarsi determinate regioni dove vi erano sorgenti notevoli di materie prime; fecero la guerra per alcuni decenni contro le tribù indigene delle Pellirosse, per distruggerle, dando uno dei primi esempi di quel crimine di genocidio che oggi è stato giuridicamente qualificato e dovrebbe in avvenire essere perseguito legalmente. Della Inghilterra basti ricordare la guerra contro i Boeri, che venne fatta quando l’Inghilterra si diceva paese democratico ed era in effetti una democrazia parlamentare borghese.

Lascio da parte il 1914, perché riconosco che nel 1914 vi fu una responsabilità prevalente, ma non esclusiva, degli Imperi centrali, retti da regimi autoritari. Tutte le indagini storiche hanno però portato alla conclusione che una parte almeno della responsabilità di quel conflitto ricade pure sulle democrazie, in quanto anche nei paesi retti a regime democratico vi erano gruppi aggressivi, gruppi di capitalisti monopolisti, gruppi imperialisti i quali spingevano alla guerra.

Dopo il 1918 si viene al tema di oggi, cioè alla guerra contro l’Unione Sovietica. Chi ha fatto la guerra all’Unione Sovietica dopo il 1918? Chi ha lanciato la parola d’ordine dell’attacco alla giovane Repubblica Sovietica se non l’Inghilterra e la Francia democratiche, se non il Giappone – allora considerato esso pure democratico – se non gli Stati Uniti? Persino l’Italia nostra si sarebbe messa su quella strada se non ci fosse stato un uomo politico saggio e prudente, che al momento opportuno fermò la mano dei criminali che volevano trascinarci a quella guerra. La “Crociata delle 19 nazioni”, come venne chiamata allora da Churchill, chi l’ha organizzata? L’hanno organizzata dei governi democratici. Non crediate quindi di aver convinto l’opinione pubblica col vostro argomento, secondo il quale le democrazie non farebbero guerre, perché il passato ci dice esattamente il contrario. E nemmeno serve il richiamo patetico alla situazione attuale della “povera Olanda”, della “povera Inghilterra”, della “povera Francia”! Ma no: questa “povera” Olanda, il paese dei formaggi e delle regine grasse, sta facendo la guerra in Indonesia a un popolo che, con le armi alla mano, combatte per difendere la propria libertà.

La “povera” Francia sta facendo la guerra al popolo del Vietnam, per impedirgli di organizzare un proprio Stato autonomo e indipendente, anche se – come i Capi di quel popolo avevano ammesso – nell’ambito di una Unione francese.

L’Inghilterra sta facendo la guerra ai popoli della Birmania e difende con le unghie e con i denti l’ultimo brandello di territorio che le rimane attorno alla capitale di Rangoon. Tutto il resto del territorio di quella colonia è ormai governato da un popolo che ha deciso di mettersi sulla via della libertà e dell’indipendenza e che non è nemmeno diretto da comunisti, ma da democratici sinceri, i quali difendono l’indipendenza del loro paese contro lo sfruttamento degli oppressori coloniali.

Quanto agli Stati Uniti, essi hanno fatto fino a ieri la guerra in Cina, e se ne sono ritirati solo perché sono stati battuti dal popolo cinese; oggi stanno facendo la guerra contro il popolo greco e noi auguriamo che presto giunga il momento che anche di lì si ritirino perché battuti dalle valorose truppe della Libera Grecia!

Non crediate, quindi, che il vostro argomento serva. Esso non ha, alle prove dei fatti, nessuna consistenza.”

Dal discorso tenuto alla Camera dei Deputati dall’on. Palmiro Togliatti, segretario nazionale del PCI, nella seduta pomeridiana di martedì 15 marzo 1949, estratto da Il Patto Atlantico al Parlamento italiano. Le dichiarazioni del Governo e i discorsi dell’Opposizione (11-18 marzo 1949), a cura del Centro Diffusione Stampa del P.C.I., 30 giugno 1949, e ripubblicato in Eurasia. Rivista di studi geopolitici, n. 1/2022, pp. 163-4.

La NATO culturale

Di Federico Roberti

Nel pieno della Guerra Fredda, il governo degli Stati Uniti destinò grandi risorse ad un programma segreto di propaganda culturale rivolto all’Europa occidentale, messo in atto con estrema riservatezza dalla CIA. L’atto fondamentale fu l’istituzione del Congress for Cultural Freedom (Congresso per la libertà della cultura), organizzato dall’agente Michael Josselson tra il 1950 ed il 1967. Al suo culmine, il Congresso aveva uffici in trentacinque Paesi (alcuni extraeuropei) ed a libro paga decine di intellettuali, pubblicava una ventina di prestigiose riviste, organizzava esposizioni artistiche, organizzava conferenze internazionali di alto livello e ricompensava musicisti ed altri artisti con premi e riconoscimenti vari. La sua missione consisteva nel distogliere gli intellettuali europei dall’abbraccio del marxismo, a favore di posizioni più compatibili con l’american way of life, facilitando il conseguimento degli interessi strategici della politica estera statunitense.

I libri di alcuni scrittori europei furono promossi nel mercato editoriale come parte di un esplicito programma anticomunista. Fra questi, in Italia, “Pane e Vino” di Ignazio Silone, il quale registrò così la prima di molte apparizioni sotto l’ala del governo statunitense. A dire il vero, durante il suo esilio svizzero in tempo di guerra, Silone era stato un contatto di Allen Dulles, allora capo dello spionaggio statunitense in Europa e nel dopoguerra ispiratore di Radio Free Europe, altra creazione CIA sotto la maschera del National Committee for a Free Europe; nell’ottobre 1944, Serafino Romualdi, un agente dell’OSS (Office of Strategic Services, il precursore della CIA), fu inviato sul confine franco-svizero con il compito di introdurre clandestinamente Silone in Italia.
Silone, insieme ad Altiero Spinelli e Guido Piovene, rappresentò l’Italia alla conferenza fondativa del Congresso tenutasi a Berlino nel 1950, per la quale Michael Josselson era riuscito ad ottenere un finanziamento di $ 50.000 dalle risorse del Piano Marshall. Essa fu sconfessata pubblicamente da Jean-Paul Sartre ed Albert Camus che, invitati, si rifiutarono di parteciparvi.

Inizialmente, fra i presidenti onorari del Congresso, tutti filosofi rappresentanti di un nascente pensiero euro-atlantico, accanto a Bertrand Russell troviamo Benedetto Croce. Egli, ad ottant’anni di età, era riverito in Italia come padre nobile dell’antifascismo avendo sfidato apertamente Mussolini. Sicuramente, all’epoca dello sbarco alleato in Sicilia, era stato un utile contatto per William Donovan, allora il massimo responsabile dell’intelligence statunitense.

La sezione italiana del Congresso, denominata Associazione italiana per la libertà della cultura, fu istituita da Ignazio Silone alla fine del 1951 e divenne il centro propulsivo, anche e soprattutto sotto il profilo logistico ed economico, di una federazione di circa cento gruppi culturali quali l’Unione goliardica nelle università, il Movimento federalista europeo di Altiero Spinelli, i Centri di Azione democratica, il movimento Comunità di Adriano Olivetti e vari altri.
Essa pubblicò la prestigiosa rivista “Tempo Presente” diretta dallo stesso Silone e da Nicola Chiaromonte, ed altre non meno conosciute come “Il Mondo”, “Il Ponte”, “Il Mulino” e, più tardi, “Nuovi Argomenti”. Nel suo gruppo dirigente, accanto a laici come Adriano Olivetti e Mario Pannunzio, figurava anche Ferruccio Parri, il padre della sinistra indipendente. Poi, in posizione più defilata, uomini politici di estrazione azionista e liberaldemocratica come Ugo La Malfa.
Uno degli uffici del Congresso era stato aperto a Roma nel palazzo Pecci-Blunt, dove Mimì, la padrona di casa, animava uno dei salotti più esclusivi e meglio frequentati della capitale. A due passi dalla storica dimora di palazzo Caetani che, prima di divenire tragicamente celebre per avere visto, sotto le sue finestre, l’ultimo atto del rapimento Moro, vedeva regnare un’altra regina dei salotti, la mecenate statunitense legata agli ambienti del Congresso Marguerite Chapin Caetani. Ella, con la sua rivista “Botteghe oscure”, promosse non pochi grandi nomi della letteratura e poesia italiana del Novecento. Suo genero era, guarda caso, Sir Hubert Howard, ex ufficiale dei servizi segreti alleati specializzato nella guerra psicologica ed in rapporti di fraterna amicizia con il nipote del presidente Roosevelt, quel Kermit Roosevelt che dapprima nell’OSS e poi, reclutato dalla CIA, fu tra i più convinti fautori del programma di guerra psicologica.
Una delle più strette collaboratrici della Caetani era Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto, il cui marito Raimondo Craveri, agente dei servizi segreti partigiani, dopo la Liberazione indicava all’ambasciata statunitense i politici di cui fidarsi. Elena invece selezionava gli uomini di cultura con cui valeva la pena parlare. Nella loro casa si potevano intrecciare le relazioni più cosmopolite, incontrandovi Henry Kissinger così come il futuro presidente FIAT Gianni Agnelli, ma su tutti dominava il magnate della finanza laica italiana, fondatore di Mediobanca, (don) Raffaele Mattioli. Gli Americani si fidavano a tal punto del commendator Mattioli che nel 1944, a guerra evidentemente ancora in corso, avevano già discusso con lui i programmi per la ricostruzione. Oltre a finanziare abbondantemente la cultura, don Raffaele prestò le sue non disinteressate, pur se discrete, attenzioni anche al PCI, con il quale aveva canali aperti già durante il Ventennio.
Ecco, dunque, che in Italia, oltre alla P2 e Gladio, esisteva anche un anticomunismo altrettanto tenace ma illuminato, progressista e persino di sinistra. La rete del Congresso ne costituiva la facciata pubblica o, se si preferisce, presentabile.

Le risorse per la propaganda culturale euro-atlantica furono reperite in modo davvero geniale. Nei primi tempi del Piano Marshall, ciascun Paese beneficiario dei fondi doveva contribuire depositando nella propria banca centrale una somma equivalente al contributo americano. Poi un accordo bilaterale tra il Paese in questione e gli Stati Uniti permetteva che il 5% di tale somma diventasse proprietà statunitense: era proprio questa parte dei “fondi di contropartita” (circa 10 milioni di dollari all’anno su un totale di 200) che furono messi a disposizione della CIA per i suoi progetti speciali.
Così circa $ 200.000 di tali fondi, che già avevano giocato un ruolo cruciale nelle elezioni italiane del 1948, furono destinati a finanziare i costi amministrativi del Congresso nel 1951. La filiale italiana, ad esempio, riceveva mille dollari mensili che venivano versati sul conto di Tristano Codignola, dirigente della casa editrice La Nuova Italia.

La libertà culturale non venne a buon mercato. Nei diciassette anni successivi alla fondazione, la CIA avrebbe pompato nel Congresso ed in progetti collegati ben dieci milioni di dollari. Una caratteristica della strategia di propaganda culturale fu la sistematica organizzazione di una rete di gruppi privati “amici” in un consorzio ufficioso: si trattava di una coalizione di fondazioni filantropiche, imprese e privati che lavorava in stretto collegamento con la CIA per dare a quest’ultima copertura e canali finanziari al fine di sviluppare i suoi programmi segreti in territorio europeo. Nello stesso tempo, l’impressione era che questi “amici” agissero unicamente di propria iniziativa. Mantenendo il loro status di privati, essi apportavano il capitale di rischio per la Guerra Fredda, un po’ quello che fanno da un certo tempo a questa parte le ONG sostenute dall’Occidente in giro per il mondo.

L’ispiratore di questo consorzio fu Allen Dulles, che già nel maggio 1949 aveva diretto appunto la formazione del National Committee for a Free Europe, apparentemente iniziativa di un gruppo di privati cittadini americani, in realtà uno dei più ambiziosi progetti della CIA. “Il Dipartimento di Stato è molto lieto di assistere alla formazione di questo gruppo” annunciò il segretario di Stato Dean Acheson. Questa pubblica benedizione serviva ad occultare le vere origini del Comitato e che operasse sotto il controllo assoluto della CIA, che lo finanziava al 90%. Ironia della sorte, lo scopo specifico per il quale era stato creato, cioè fare propaganda politica, era categoricamente escluso da una clausola dell’atto costitutivo.
Dulles era ben cosciente che il successo del Comitato sarebbe dipeso dalla sua capacità “di apparire come indipendente dal governo e rappresentativo delle spontanee convinzioni di cittadini amanti della libertà”.

Il National Committee poteva vantare un insieme di iscritti di grandissimo rilievo pubblico, uomini d’affari ed avvocati, diplomatici ed amministratori del Piano Marshall, magnati della stampa e registi: da Henry Ford II, presidente della General Motors, alla signora Culp Hobby, direttrice del Moma; da C.D. Jackson della direzione di “Time-Life” a John Hughes, ambasciatore presso la NATO; da Cecil De Mille a Dwight Eisenhower. Tutti costoro erano “al corrente”, ossia appartenevano consapevolmente al club. Il suo organico, già al primo anno, contava più di 400 addetti, il suo bilancio ammontava a quasi due milioni di dollari.
Un bilancio separato di 10 milioni fu riservato alla sola Radio Free Europe, che nel giro di pochi anni avrebbe avuto 29 stazioni di radiodiffusione e trasmesso in 16 lingue diverse, fungendo anche da canale per l’invio di ordini alla rete di informatori presente al di là della Cortina di Ferro.

Il nome della sezione incaricata di reperire fondi per il National Committee era Crusade for Freedom e ne era portavoce un giovane attore di nome Ronald Reagan…

L’uso delle fondazioni filantropiche si rivelò il modo più efficace per far pervenire consistenti somme di denaro ai progetti della CIA, senza mettere in allarme i destinatari sulla loro origine. Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nella fondazioni: durante il periodo 1963-1966, delle 700 donazioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni durante lo stesso periodo nel campo delle attività internazionali.
Si riteneva che le fondazioni prestigiose, quali Ford, Rockfeller e Carnegie, assicurassero “la migliore e più credibile forma di finanziamento occulto. Questa tecnica risultava particolarmente opportuna per le organizzazioni gestite in modo democratico, dato che devono poter rassicurare i propri membri e collaboratori ignari, come pure i critici ostili, di essere in grado di contare su forme di finanziamento privato, autentico e rispettabile – sottolineava uno studio interno della stessa CIA risalente al 1966.
Addirittura, all’interno della Fondazione Ford venne istituita un’unità amministrativa specificamente addetta a curare i rapporti con la CIA, che avrebbe dovuto essere consultata ogni volta che l’agenzia avesse voluto usare la fondazione come copertura o canale finanziario per qualche operazione. Essa era formata da due funzionari e dal presidente della fondazione stessa, John McCloy il quale era già stato segretario alla Difesa e presidente, nell’ordine, della Banca Mondiale, della Chase Manhattan Bank di proprietà della famiglia Rockfeller e del Council on Foreign Relations, nonché legale di fiducia delle Sette Sorelle. Un bel curriculum, non c’è che dire.

Uno dei primi dirigenti della CIA ad appoggiare il Congresso per la libertà della cultura fu Frank Lindsay, veterano dell’OSS che nel 1947 aveva scritto uno dei primi rapporti interni in cui si raccomandava agli Stati Uniti di creare una forza segreta per la Guerra Fredda. Negli anni fra il 1949 ed il 1951, come vicedirettore dell’Office of Policy Coordination (OPC), dipartimento speciale creato all’interno della CIA per le operazioni segrete, Lindsay divenne responsabile dell’allestimento dei gruppi Stay Behind in Europa, meglio conosciuti in Italia come Gladio. Nel 1953 passò alla Fondazione Ford, senza per ciò perdere i suoi stretti contatti con gli ex colleghi dell’intelligence.

Quando, nel 1953, Cecil DeMille accettò di diventare consigliere speciale del governo statunitense per il cinema al Motion Picture Service (MPS), si recò all’ufficio di C.D. Douglas, il quale avrebbe poi scritto di lui: “ E’ completamente dalla nostra parte ed (…) è ben consapevole del potere che i film americani hanno all’estero. Ha una teoria, che condivido pienamente, secondo cui l’uso più efficace dei film americani si ottiene non con il progetto di un’intera pellicola che affronti un determinato problema, ma piuttosto con l’introduzione in un’opera “normale” di un certo dialogo appropriato, di una battuta, un’inflessione della voce, un movimento degli occhi. Mi ha detto che ogni volta che gli darò un tema semplice per un certo Paese o una certa regione, troverà il modo di trattarlo e di introdurlo in un film”.
Il Motion Picture Service, sommerso dai finanziamenti governativi tanto da diventare una vera e propria impresa di produzione cinematografica, dava lavoro a registi-produttori che venivano preventivamente esaminati ed assegnati al lavoro su film che promuovevano gli obiettivi degli Stati Uniti e che avrebbero dovuto raggiungere un pubblico sul quale bisognava agire attraverso il cinema. L’MPS forniva consulenze ad organismi segreti sulle pellicole appropriate per una distribuzione sul mercato internazionale; si occupava, inoltre, della partecipazione statunitense ai vari festival che si svolgevano all’estero e lavorava alacremente per escludere i produttori statunitensi ed i film che non sostenevano la politica estera del Paese.

Il principale gruppo di pressione per sostenere l’idea di un’Europa unita strettamente alleata agli Stati Uniti era il Movimento Europeo, cui facevano capo molte organizzazioni, e che copriva una serie di attività dirette all’integrazione politica, militare, economica e culturale. Guidato da Winston Churchill in Gran Bretagna, Paul Henri Spaak in Belgio ed Altiero Spinelli in Italia, il movimento era attentamente sorvegliato dall’intelligence statunitense e finanziato quasi interamente dalla CIA attraverso una copertura che si chiamava American Committee on United Europe. Braccio culturale del Movimento Europeo era il Centre Européen de la Culture, diretto dallo scrittore Denis de Rougemont. Fu attuato un vasto programma di borse di studio ad associazioni studentesche e giovanili, tra cui la European Youth Campaign, punta di diamante di una propaganda pensata per neutralizzare i movimenti politici di sinistra.
Per quanto poi riguarda quei liberali internazionalisti fautori di un’Europa unita intorno ai propri principi interni, e non conforme agli interessi strategici statunitensi, a Washington essi non erano considerati migliori dei neutralisti, anzi portatori di un’eresia da distruggere.

Nel 1962, la notorietà del Congresso per la libertà della cultura calamitò anche attenzioni tutt’altro che desiderate dai suoi ispiratori.
Durante un programma televisivo della “BBC”, That Was The Week That Was, il Congresso fu oggetto di una penetrante e brillante parodia ideata da Kenneth Tynan. Essa iniziava con la battuta: “E’ ora, le novità della Guerra Fredda nella cultura”. Poi continuava mostrando una mappa rappresentante il blocco culturale sovietico, dove ogni cerchietto indicava una postazione culturale strategica: basi teatrali, centri di produzione cinematografica, compagnie di danza per la produzione di missili “ballettistici” intercontinentali, case editrici che lanciano enormi tirature di classici a milioni di lettori schiavizzati, insomma dovunque si guardasse un massiccio indottrinamento nel suo pieno sviluppo. E si chiedeva: noi, qua in Occidente, abbiamo un’effettiva capacità di risposta?
Sì, era la risposta, c’è il buon vecchio Congresso per la libertà della cultura sostenuto dal denaro americano che ha allestito un certo numero di basi avanzate, in Europa e nel mondo, funzionanti come teste di ponte per rappresaglie culturali. Basi mascherate con nomi in codice, come “Encounter” – la più conosciuta delle riviste patrocinate dal Congresso – che è l’abbreviazione, si ironizzava, di Encounterforce Strategy.
Entrava allora in scena un portavoce del Congresso, con un mazzo di riviste che rappresentavano a suo dire una sorta di NATO culturale, il cui obiettivo era il contenimento culturale, cioè mettere un recinto intorno ai rossi. Con missione storica quella di raggiungere la leadership mondiale dei lettori, succeda quel che succeda, “noi del Congresso sentiamo come nostro dovere tenere le nostre basi in allarme rosso, ventiquattro ore su ventiquattro”.
Una satira mordace ed impeccabilmente documentata, che provocò notti insonni a Michael Josselson, organizzatore del Congresso.

Durante l’estate del 1964, sorse una questione assai preoccupante.
Nel corso di un’inchiesta parlamentare sulle esenzioni fiscali alle fondazioni private, diretta da Wright Patman, si verificò una fuga di notizie che identificava otto di queste come coperture della CIA. Esse sarebbero state nient’altro che buche per lettere cui corrispondeva solo un indirizzo, approntate dalla CIA per ricevere denaro dalla stessa, in modo apparentemente legale. Una volta che i soldi arrivavano, le fondazioni facevano una donazione ad un’altra fondazione largamente conosciuta per le sue legittime attività. Contributi, questi ultimi, che venivano debitamente registrati secondo la normativa fiscale vigente nel settore no profit, sui moduli denominati 990-A. L’operazione si concludeva infine con il versamento del denaro all’organizzazione che la CIA aveva previsto dovesse riceverlo.
Le notizie filtrate dalla commissione Patman aprirono, seppure solo per un breve momento, uno squarcio sulla sala macchine dei finanziamenti segreti. Alcuni giornalisti particolarmente curiosi, ad esempio quelli del settimanale “The Nation”, riuscirono a mettere insieme i pezzi del puzzle, chiedendosi se fosse legittimo che la CIA finanziasse, con questi metodi indiretti, vari congressi e conferenze dedicate alla “libertà culturale” o che qualche importante organo di stampa, sostenuto dall’agenzia, offrisse lauti compensi a scrittori dissidenti dell’Europa orientale.
Sorprendentemente (sorprendentemente?), non un solo giornalista pensò di indagare ulteriormente. La CIA eseguì una severa revisione delle sue tecniche di finanziamento, ma non ritenne opportuno riconsiderare l’uso delle fondazioni private come veicoli per il finanziamento delle operazioni clandestine. Anzi, secondo l’agenzia, la vera lezione da apprendere in seguito allo scandalo suscitato dalla commissione Patman era che la copertura delle fondazioni per erogare i finanziamenti doveva essere usata in maniera più estesa e professionale, innanzitutto sborsando fondi anche per i progetti realizzati sul suolo degli Stati Uniti.
Michael Josselson, dalla fine di quel anno, tentò di proteggere la sua creatura dalle rivelazioni, considerando pure di mutarne il nome, e cercò persino di recidere i legami economici con la CIA sostituendoli in toto con un finanziamento della Fondazione Ford.
Tutto ciò non valse a nulla se non a posticipare un esito ormai segnato. Il 13 maggio 1967 si tenne a Parigi l’assemblea generale del Congresso per la libertà della cultura che ne sancì la sostanziale fine, pur se le attività si trascinarono, stancamente ed in tono assai minore, fino alla fine degli anni settanta.

Era infatti successo che la rivista californiana “Ramparts”, nell’aprile 1967, aveva pubblicato un’inchiesta sulle operazioni segrete della CIA, nonostante una campagna di diffamazione lanciata a suo danno nel momento in cui l’agenzia era venuta a conoscenza del fatto che la rivista era sulle tracce delle sue organizzazioni di copertura. Le scoperte di “Ramparts” furono prontamente rilanciate dalla stampa nazionale e seguite da un’ondata di rivelazioni, facendo emergere le coperture anche al di fuori degli Stati Uniti, a cominciare dal Congresso e le sue riviste.
Già prima delle denunce di “Ramparts”, il senatore Mansfield aveva chiesto un’indagine parlamentare sui finanziamenti clandestini della CIA, alla quale il presidente Lyndon Johnson rispose istituendo una commissione di soli tre membri. La commissione Katzenbach, nella sua relazione conclusiva emessa il 29 marzo 1967, sanzionava ogni agenzia federale che avesse segretamente fornito assistenza o finanziamenti, in modo diretto od indiretto, a qualsiasi organizzazione culturale statale o privata, senza fini di lucro. Il rapporto fissava la data del 31 dicembre 1967 come limite per la conclusione di tutte le operazioni di finanziamento segreto della CIA, dandole così l’opportunità di concedere un certo numero di sostanziose assegnazioni finali (nel caso di Radio Free Europe, questo importo le avrebbe permesso di continuare a trasmettere per altri due anni).
In realtà, come si evince da una circolare interna poi emersa nel 1976, la CIA non vietava le operazioni segrete con organizzazioni commerciali statunitensi né i finanziamenti segreti di organizzazioni internazionali con sede in Paesi stranieri. Molte delle restrizioni adottate in risposta agli eventi del 1967, più che rappresentare un significativo ripensamento dei limiti alle attività segrete dell’intelligence, appaiono piuttosto misure di sicurezza volte ad impedire future rivelazioni pubbliche che potessero mettere a repentaglio delicate operazioni della stessa CIA.

Ne vogliamo riparlare?

N.B.: la fonte principale delle informazioni presentate in questo articolo è il libro “Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale” di Frances Stonor Saunders, pubblicato per la prima volta nel Regno Unito nel 1999 ed in traduzione italiana da Fazi Editore nel 2004 nella collana “Le terre” e nel 2007 in quella “Tascabili saggi”.

Continente eurasiatico

La presentazione del nuovo libro di Marco Pondrelli, con prefazione dell’ambasciatore Alberto Bradanini, sull’attualità dell’emergente multipolarismo geopolitico, le prospettive di integrazione eurasiatica ed i tentativi di “contenimento” da parte dell’Occidente americanocentrico tramite i dispositivi militari, mediatici e d’intelligence atlantici.

“Col sangue l’Italia è stata avvertita”


“Ci hanno avvertito, ci hanno mandato a dire con la strage che l’Italia deve stare al suo posto sulla scena internazionale. Un posto di comparsa, di aiutante. Ci hanno fatto sapere col sangue che il nostro Paese non può pensare di muoversi da solo nel Mediterraneo. Ci hanno ricordato che siamo e dobbiamo restare subalterni. E noi non abbiamo un sistema di sicurezza nazionale capace di opporsi a questi avvertimenti. I nostri servizi di sicurezza sono inefficienti perché così li hanno voluti gli accordi internazionali. Non difendono l’Italia perché non debbono difenderla. Sono funzionali alla nostra condizione di inferiorità. Altro che strage fascista: è accaduto qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa che pone il problema della nostra autonomia internazionale”.
Rino Formica è capogruppo dei deputati del PSI, il partito del Presidente del Consiglio. E’ stato commissario nell’indagine parlamentare sulla P2. Sa quello che il Parlamento conosce dell’ attività dei nostri servizi segreti. Sa quello che il governo davvero temeva prima della strage e soprattutto quello che il governo teme oggi. Ragiona sul macello del treno 904 e arriva a una conclusione che gli appare ferrea: “La strage è un avvertimento venuto da fuori ma questo non assolve nessuno. Anzi, evidenzia drammaticamente la debolezza del nostro Stato, la precarietà della nostra democrazia, la pigrizia mentale delle nostre forze politiche. Ci hanno avvertito e facciamo finta di non capire”.
Un momento, onorevole, chi ci ha avvertito?
“Da due anni abbiamo una presenza internazionale più autonoma. Con un atto di guerra ci hanno detto di smetterla”.
E’ solo una mezza risposta la sua. Le chiedo: anche lei parla di pista internazionale. Si riferisce alle minacce di vendetta degli estremisti islamici, a Paesi spesso tirati in ballo per atti di terrorismo come la Libia?
“Per carità, le vendette internazionali si consumano in modo mirato. Se qualcuno vuole che l’ Italia liberi i Libanesi che ha messo in carcere sequestra degli Italiani. Se qualcuno volesse punirci per fatti specifici fa presto a far fuori tecnici o diplomatici italiani. La pista internazionale di cui parlo io non è il folklore sui cattivi nel mondo. E’ purtroppo una cosa più seria”.
E allora ci dica dove porta questa pista.
“Voglio partire da quanto ho visto l’altro giorno in Parlamento, mentre si discuteva della strage: uno spettacolo desolante, un’assemblea stordita. Tutti contenti nel dire fascismo contro antifascismo, rifacciamo l’unità e stiamo a posto. Che pochezza emiliana. E allora io provo a ragionare. Abbiamo avuto due fenomeni terroristici: uno rosso che nasce dalla costola dell’ estremismo marxista e cattolico e che è stato qualcosa di carattere sostanzialmente nazionale, un terrorismo che mirava ai simboli, un terrorismo logico. L’altro crea paura di massa. Ma ci domandiamo cosa vuol dire: significa che non dobbiamo compiere passi azzardati, non dobbiamo andare oltre certi confini. Questo è il senso delle stragi. La strage è una decimazione indiscriminata. Può venire dall’interno se si è in presenza di una guerra civile. Altrimenti appartiene a una logica esterna, anche se può trovare pali, manovalanza e supporti in sede locale”.
Questa, onorevole, è la premessa di un ragionamento. Dove sta la conclusione?
“Ci arrivo, ci arrivo. Ma ancora qualche considerazione: la strage di Natale è così perfettamente copiata su quella dell’Italicus da avere dentro di sé le caratteristiche del depistaggio. Ce la prendiamo col fascista assassino così come abbiamo fatto per le altre stragi. E non a caso non abbiamo mai trovato nessun colpevole. Tranne in un caso: il 17 maggio del 1973 in via Fatebenefratelli Gianfranco Bertoli, ex informatore del SIFAR, lancia una bomba contro il presidente del Consiglio Rumor. Quattro morti, decine di feriti. Sedicente anarchico veniva da un kibbutz israeliano. Se lo sono dimenticato tutti, eppure è l’unico filo, l’ unico nome che abbiamo in materia di stragi”.
E allora?
“Allora vuol dire che non sappiamo o non vogliamo indagare e ragionare sulle stragi. Le voglio ricordare un’altra cosa: il 5 novembre del 1972 Forlani, il cauto Forlani, parlava della Rosa dei venti come del tentativo più pericoloso della destra italiana dal dopoguerra e aggiungeva: un tentativo ancora in corso. Un tentativo con collegamenti internazionali. Da allora Forlani non ne ha parlato più. Di Bertoli nessuno ha parlato più”.
E quale sarebbe la verità che nessuno in fondo vuol conoscere?
“Quella per cui le stragi servono per introdurre avvertimenti a fini interni e quella per cui il nostro Paese è troppo debole per difendersi”.
Torniamo alla domanda originaria. Difendersi da chi?
“Non puoi crescere in democrazia, non puoi accettare sfide mondiali, stare al centro di un’area di guerra come il Mediterraneo e avere dei servizi di sicurezza funzionali, nati e cresciuti per la subalternità internazionale. Non puoi essere fino in fondo autonomo all’interno delle alleanze se i nostri servizi di sicurezza nemmeno hanno la parità dei flussi d’informazione con quelli alleati”.
Insomma, qualcuno ci ha avvertito, dall’estero e col sangue, che stavamo diventando troppo autonomi. E i nostri servizi di sicurezza non sono serviti a nulla. E’ così?
“E’ così e io credo che vada rinegoziata l’integrazione dei sistemi di sicurezza con i servizi analoghi dei Paesi alleati”.
Onorevole Formica, l’avvertimento di cui lei parla, la richiesta che i nostri servizi di sicurezza siano messi su un piano di parità con quelli alleati, vogliono dire che quella bomba sul treno è stata messa per iniziativa di qualche servizio segreto straniero. Qualcosa che i nostri avrebbero potuto sapere e non hanno saputo.
“E’ plausibile che sia andata così”.
E quale servizio è plausibile che sia l’ organizzatore dell’ avvertimento?
“Forse l’ uno, forse l’ altro. A certi livelli si scambiano favori. Io questo non lo so ma so che i nostri non funzionano”.
Già, se non sanno quello che fa il KGB o la CIA o altri che ci stanno a fare?
“Le racconterò tra un attimo dei servizi. Ma prima voglio spiegare meglio perché ci mandano questi avvertimenti. A metà e alla fine degli anni Settanta ci dissero che non potevamo procedere speditamente ad un’evoluzione democratica perché questo metteva in circolo forze politiche di cui era discutibile la fedeltà internazionale”.
Si riferisce a quello che fu il tentativo di Moro?
“Anche. Quello che di Moro all’estero non potevano accettare era la sua disponibilità a stare con i comunisti. Potevano accettare dei comunisti al governo, come poi accadrà in Francia. Non potevano accettare una sorta di democrazia popolare in Occidente”.
E anche la morte di Moro fu un avvertimento?
“Questo non posso dirlo. Non posso stabilire rapporti di causa ed effetto. Posso dire che quel tentativo in parte ambiguo di autonomia nazionale fu osteggiato. Oggi però il problema è diverso”.
Oggi per che cosa ci hanno avvertiti?
“Perché stavamo diventando un Paese che cominciava a dire la sua. In campo economico, sullo scacchiere del Mediterraneo. Perché stavamo diventando nazione all’interno delle alleanze. E invece ci ricordano che al massimo possiamo mandare qualche corvetta da qualche parte. Oggi non è problema di questa o quella forza politica al governo. Chiunque comandi in Italia deve ricordarsi di stare al suo posto”.
E deve smettere di far girare ministri degli Esteri e presidenti del Consiglio nel Mediterraneo?
“Deve ricordarsi delle nostre dipendenze internazionali. Questo è l’avvertimento. In quest’area un’Italia protagonista dà fastidio sia ad Est che ad Ovest”.
Dicevamo dei nostri servizi segreti…
“Il giorno 20 dicembre viene Scalfaro in Parlamento. Dice: l’ Italia è un Paese senza frontiere, entra ed esce chi vuole, il libanese ammazzato a Roma non sappiamo come si chiama, come è venuto. Promette: metterò ordine negli stranieri all’Università di Perugia. Gli dico: bravo, ma ricordati che perfino i finti studenti di Perugia sono stati contrattati internazionalmente. Voglio dire che nei nostri servizi la devianza è certamente rilevante ma peggio è la loro inefficienza. Inefficienza voluta al loro atto di nascita sancita negli accordi. E nel buco nero dell’inefficienza nasce la devianza: Non potendo, non dovendo difendere il Paese, s’industriano a spiare i politici, a stendere dossier”.
Che vuol dire inefficienza?
“Vuol dire che quando gli Americani hanno deciso tempo fa di sospendere il flusso delle informazioni in loro possesso, siamo rimasti ad aspettare che cambiassero idea. Vuol dire che i sistemi di reclutamento sono incredibili. Poiché i servizi sono segreti, una delle garanzie di riservatezza è che ognuno tira dentro un parente. Vuol dire che riciclano le informazioni delle Questure. Vuol dire, un esempio: dieci anni fa segnalano Freda in Grecia. Si discute come andarlo a prendere. Si decide: lo rapiamo. Si appalta l’ operazione al camorrista Zaza in cambio di denaro e impunità. Zaza subappalta il rapimento. Il rapimento fallisce. Freda resta libero. Zaza vola via con i soldi. Ecco i nostri servizi”.
Ma non sono gli stessi servizi che avevano detto a Craxi che “signori con la valigia giravano per l’ Italia”?
“Ma quelle sono soffiate che arrivano a centinaia. Col senno di poi ci si ripensa. Ma se volessimo ascoltarle i treni bisognerebbe fermarli tutti ogni giorno. Quando ero ministro dei Trasporti il direttore generale mi diceva: fermiamo solo quando la telefonata arriva ai Carabinieri perché i Carabinieri si presentano in stazione, altrimenti potremmo chiudere tutte le linee per sempre”.
Craxi, perché non è andato a Bologna?
“Sbaglia chi critica la sua assenza. Non ha potuto, ma sarebbe stata una risposta vecchia. Altre sono le risposte: non smettere una politica di pace nel Mediterraneo…”.
Ignorare l’avvertimento?
“Possiamo fare solo due cose: o rientrare nei ranghi o dotare il Paese di sistemi di difesa e di sicurezza adeguati alle nostri ambizioni. Ci sarebbe una terza cosa da fare: diventare una democrazia compiuta, ma altri ci hanno messo secoli, noi ci proviamo da appena due generazioni. E purtroppo, nel dopoguerra si è scelta una democrazia del compromesso, una democrazia lenta”.
Onorevole, che vuol dire non smettere una politica di pace nel Mediterraneo?
“Vuol dire che una volta si sta con Israele e una volta no”.
E che vuol dire capire l’avvertimento senza subirlo?
“Vuol dire sofferenza per tutti i partiti. Perché significa imparare a discriminare il bene e il male sullo schieramento internazionale senza garanzie e certezze. Vuol dire diventare nazione. L’unità antifascista, purtroppo, non basta più né per capire né per fermare le stragi. E’ questo il dramma della pista internazionale, quella vera”.

Intervista di Mino Fuccillo, 29 dicembre 1984

Come abbiamo venduto l’Unione Sovietica e la Cecoslovacchia per qualche borsa di plastica

Il nostro omaggio ad Andre Vltchek, giornalista e scrittore, autore di una ventina di libri, scomparso lo scorso 22 settembre a Istanbul in circostanze che la polizia turca ha definito sospette.
Una nota biografica di Vltchek è qui.
La medesima fonte ha tradotto un suo recente articolo tratto dal China Daily, che riportiamo insieme a due contributi video risalenti a qualche anno fa.

Da mesi c’è una storia che voglio condividere con i giovani lettori di Hong Kong. Ora sembra essere davvero il momento appropriato in cui infuria la battaglia ideologica fra l’Occidente e la Cina e, di conseguenza, Hong Kong e il mondo intero ne soffrono.
Voglio dire che non c’è niente di nuovo in questo, che l’Occidente ha già destabilizzato moltissimi Paesi e territori, ha fatto il lavaggio del cervello a decine di milioni di giovani.
Io lo so, perché nel passato ero uno di loro. In caso contrario, mi sarebbe impossibile comprendere che cosa sta ora succedendo ad Hong Kong.
Sono nato a Leningrado, una bella città nell’Unione Sovietica. Ora si chiama San Pietroburgo, e il Pese è la Russia. La mamma, artista e architetto, è per metà russa e per metà cinese. La mia infanzia era divisa tra Leningrado e Pilsen, una città industriale nota per la sua birra, all’estremità occidentale di quella che fu la Cecoslovacchia. Papà era uno scienziato nucleare.
Le due città erano diverse. Entrambe rappresentavano qualcosa di essenziale nella pianificazione comunista, un sistema che ci veniva insegnato, dai propagandisti occidentali, a odiare.
Leningrado è una delle città più stupende al mondo, con alcuni dei più grandi musei, teatri dell’opera e del balletto, spazi pubblici. In passato fu la capitale russa.
Pilsen è minuta, con soli 180.000 abitanti. Ma quando ero piccolo contava parecchie biblioteche eccellenti, cinema d’arte, un teatro dell’opera, teatri d’avanguardia, gallerie d’arte, il giardino zoologico, con cose che non si potevano trovare, come ho realizzato in seguito (quando era troppo tardi), nemmeno nelle città statunitensi da un milione di abitanti.
Ambedue le città, una grande e una piccola, avevano eccellenti trasporti pubblici, vasti parchi e foreste che lambivano le periferie, nonché eleganti caffè. Pilsen aveva innumerevoli impianti da tennis, stadi di calcio e persino campi da badminton.
La vita era bella, significativa. Era ricca. Non ricca in termini di denaro, ma ricca dal punto di vista culturale, intellettuale e salutare. Essere giovani era divertente, con il sapere libero e facilmente accessibile, con la cultura ad ogni angolo, e sport per tutti. Il ritmo era lento: abbondanza di tempo per pensare, apprendere, analizzare.
Ma era era anche il culmine della Guerra Fredda.
Eravamo giovani, ribelli, e facili da manipolare. Non eravamo mai soddisfatti di ciò che ci veniva dato. Davamo tutto per scontato. Di notte stavamo incollati ai ricevitori radio, ascoltando la BBC, Voice of America, Radio Free Europe ed altri servizi di trasmissione mirati a screditare il socialismo e tutti i Paesi che combattevano contro l’imperialismo occidentale.
I conglomerati industriali socialisti cechi stavano costruendo, per solidarietà, intere fabbriche, dalle acciaierie agli zuccherifici, in Asia, Medio Oriente ed Africa. Ma non vedevamo alcuna gloria in questo perché i mezzi di propaganda occidentale semplicemente ridicolizzavano simili imprese.
I nostri cinematografi mostravano capolavori del cinema italiano, francese, sovietico e giapponese. Ma ci veniva detto di chiedere l’immondizia proveniente dagli USA.
L’offerta musicale era grandiosa, dal vivo e registrata. Quasi tutta la musica era di fatto a disposizione, sebbene con qualche ritardo, nei negozi locali e persino sul palco. Quella che non si vendeva nei nostri negozi era la spazzatura nichilista. Ma era precisamente ciò che ci veniva detto di desiderare. E noi la desideravamo, e la copiavamo con religiosa riverenza, sui nostri registratori a nastro. Se qualcosa non era disponibile, i media occidentali gridavano che era una grossolana violazione della libertà di parola.
Sapevano, e ancora oggi sanno, come manipolare giovani cervelli.
A un certo punto ci siamo trasformati in giovani pessimisti, criticando ogni cosa nei nostri Paesi, senza raffronti, senza nemmeno un po’ di obiettività.
Suona familiare?
Ci veniva detto, e noi ripetevamo: ogni cosa nell’Unione Sovietica o in Cecoslovacchia era negativa. Tutto in Occidente era grandioso. Sì, era simile a qualche religione fondamentalista o follia di massa. Quasi nessuno era immune. Di fatto eravamo infettati, eravamo malati, trasformati in idioti.
Utilizzavamo strutture pubbliche, socialiste, dalle librerie ai teatri, ai caffè sovvenzionati, per glorificare l’Occidente ed infangare le nostre stesse nazioni. Ecco com’eravamo indottrinati, dalle radio e dalle stazioni televisive occidentali, e dalle pubblicazioni introdotte clandestinamente nei Paesi.
A quei tempi le borse di plastica dell’Occidente erano divenute uno status symbol! Sapete, quelle buste di plastica che ti danno in alcuni supermercati economici o ai grandi magazzini.
Quando ci penso a distanza di parecchi decenni, faccio fatica a crederci: giovani ragazze e ragazzi istruiti, che passeggiavano orgogliosamente per le strade, esibendo economiche borse di plastica, per le quali avevano pagato una grossa somma di denaro. Perché venivano dall’Occidente. Perché simboleggiavano il consumismo! Perché ci veniva detto che il consumismo era buono.
Ci veniva detto che dovevamo desiderare la libertà. La libertà in stile occidentale.
Eravamo addestrati a “combattere per la libertà”.
Per molti versi, eravamo molto più liberi dell’Occidente. L’ho capito quando sono arrivato a New York e ho visto com’erano educati male i ragazzini locali della mia età, com’era superficiale la loro conoscenza del mondo. Quanta poca cultura c’era, nelle ordinarie città nordamericane di medie dimensioni.
Volevamo, chiedevamo i jeans firmati. Bramavamo le etichette musicali occidentali al centro dei nostri LP. Non si trattava dell’essenza o del messaggio. Era la forma al di sopra della sostanza.
Il nostro cibo era più gustoso, prodotto ecologicamente. Ma noi volevamo l’imballaggio colorato occidentale. Chiedevamo gli additivi chimici.
Eravamo costantemente arrabbiati, agitati, litigiosi. Ci mettevamo contro le nostre famiglie.
Eravamo giovani, ma ci sentivamo vecchi.
Ho pubblicato il mio primo libro di poesia, poi me ne sono andato, ho sbattuto la porta dietro di me, mi sono trasferito a New York.
Poco dopo ho capito che mi avevano ingannato!
Questa è una versione molto semplificata della mia storia. Lo spazio è limitato.
Ma sono lieto di poterla condividere con i miei lettori di Hong Kong e, naturalmente, con i miei giovani lettori in tutta la Cina.
Due Paesi meravigliosi che furono la mia casa sono stati traditi, letteralmente venduti per nulla, per paia di jeans firmati e borse di plastica.
L’Occidente festeggiava! Mesi dopo il crollo del sistema socialista, entrambi i Paesi sono stati letteralmente derubati di ogni cosa dalle aziende occidentali. La gente ha perso la casa e il lavoro, e l’internazionalismo veniva scoraggiato. Orgogliose aziende socialiste venivano privatizzate e, in molti casi, liquidate. I teatri e i cinema venivano convertiti in economici negozi d’abbigliamento di seconda mano.
In Russia l’aspettativa di vita è crollata a livelli da Africa subsahariana.
La Cecoslovacchia è stata divisa in due parti.
Oggi, decenni dopo, sia la Russia che la Repubblica Ceca sono di nuovo ricche. La Russia ha molti elementi di un sistema socialista con panificazione centrale.
Ma mi mancano i miei due Paesi, com’erano una volta, e tutti i sondaggi mostrano che mancano anche alla maggioranza della gente del posto. Mi sento anche in colpa, giorno e notte, per essermi fatto indottrinare, usare, e in modo da tradire.
Dopo aver visto il mondo, ho compreso che cos’era accaduto sia all’Unione Sovietica che alla Cecoslovacchia, e anche in molte altre parti del mondo. E proprio adesso l’Occidente mira alla Cina, usando Hong Kong.
Ogni volta in Cina, ogni volta ad Hong Kong, continuo a ripetere: non seguite il nostro terribile esempio. Difendete la vostra nazione! Non vendetela, metaforicamente, per alcune puzzolenti borse di plastica. Non fate qualcosa di cui vi pentireste per il resto della vostra vita!
Andre Vltchek

Italia, la guerra sporca dei cacciatori di rossobruni

“In Italia lo scontro ha radici profonde ma meno nobili: si è passato da un’iniziale curiosità quasi morbosa da parte dei quotidiani nazionali nel 1992-1994 per la rivista di Maurizio Murelli [Orion – n.d.c.] che invitava a votare per Rifondazione Comunista, nonostante il background destroradicale del grosso della redazione, al dossieraggio a opera dei siti antifascisti militanti con produzione di lunghi elenchi di sigle, movimenti ecc. – tracciando la genealogia già vista – per arrivare all’attuale ‘caccia alle streghe’ all’interno della sinistra verso chi si pronuncia contro l’europeismo, la governance dei flussi migratori e a favore di una risoluzione strutturale della questione (non certo una fatalità, ma una diretta conseguenza di decenni di neoliberismo e neocolonialismo applicato all’Africa), o accenni all’esistenza di un problema sicurezza che partiti come la Lega risolvono da destra e che sarebbe il caso di gestire da sinistra.
La dinamica delegittimatoria è arrivata a un livello tale che perfino Andrea Scanzi se n’è occupato su Il Fatto Quotidiano, scrivendo che “si è assistito in effetti anche a questa sottile strategia messa in atto negli ultimi anni in Italia: alcuni settori della ‘sinistra’, al fine di legittimare il prosieguo di un eclettismo ideologico ‘liberal’, hanno iniziato a tacciare di rossobrunismo tutti coloro che ponevano la contraddizione antimperialista come la contraddizione principale. Ci sono cioè settori della ‘sinistra’ che si presentano come ‘progressisti’, talvolta perfino come ‘comunisti’, ma alla prova dei fatti utilizzano la questione antifascista come prioritaria su ogni altro aspetto (antimperialismo, anticapitalismo, lotta di classe), approdando spesso e volentieri a una posizione morbida, se non conciliante, con il PD, con il centrosinistra e con le strutture e sovrastrutture che le sinistre tradizionali non avrebbero faticato a definire imperialiste (prime tra tutte NATO, UE, euro), in nome dell’unità contro le ‘destre’”. Ora, non risulta che Scanzi sia un marxista leninista antimperialista, ma ha fotografato bene la situazione. Dinamica a cui non si è ovviamente sottratta il quotidiano La Repubblica, che ha pubblicato un dossier sui rossobruni mettendo dentro di tutto, da politici come Fassina e D’Attore a intellettuali come Diego Fusaro per arrivare a siti d’informazione come L’AntiDiplomatico o ad associazioni politicoculturali come Marx XXI.
È utile usare nel dibattito la categoria rossobruno? Le riflessioni sono molteplici. Come il neologismo nouvelle droite, rossobruno è stato creato ad arte nel contesto di una precisa contingenza politica. Nel 1979 la stampa progressista francese, faticando a catalogare il pensiero di Alain de Benoist e il Grece, conia il termine nouvelle droite e lo usa contro i gollisti per la collaborazione di alcuni membri dell’associazione metapolitica alle pagine culturali del periodico Le FigaroMagazine, ‘nazificando’ così – visto il background dei membri del Grece – il centrodestra francese; nei primi anni ’90 viene coniato il neologismo rossobruno allo scopo di demonizzare chi, dalla Russia all’Europa occidentale, mette in discussione l’impianto della cultura dominante, il pensiero unico liberale, fatto di postmodernità. In entrambi i casi l’obiettivo è preservare lo status quo sistemico. Come definire l’articolo su Left di Giacomo Russo Spena, che non solo definisce rossobruna tutta la sinistra noeuro, ma la descrive sdegnosamente come “pasdaran dello Stato nazione”?
Il fatto che a farlo sia una sinistra che ha perso la propria identità è significativo. Scrive Pascale: “Le principali derive revisioniste del nostro tempo (apertura all’identity politics di stampo americano, al cosmopolitismo senza radici e all’immigrazionismo borghese, utopie di ‘riforma dell’Unione Europa dall’interno’ e anacronistici ‘fronti popolari’ con la sinistra borghese vengono giustificate proprio con il pretesto della lotta al rossobrunismo. […] [e] nella confusione ideologica in cui versa attualmente il movimento comunista, specie quello italiano, tale categoria è stata fatta propria dai think tank della borghesia liberale per delegittimare paradossalmente soprattutto i comunisti. Il che non deve stupire troppo, dato che la borghesia liberale è già riuscita a conquistare la categoria analitica della ‘sinistra’, bollando i comunisti prima come ‘estrema sinistra’ (anni ’90 e inizio ’00), poi, negli ultimi tempi, di fronte ad alcuni nuovi fermenti teoricopolitici che rischiano di incrinare la narrazione del totalitarismo liberale, come ‘rossobruna’”.”

Da La psicosi rossobruna, di Matteo Luca Andriola.

I conti con il presente

Le immagini, il linguaggio e i concetti espressi dalla politica oggi ci rimandano alla figura e all’intelligenza di un incrocio fra lo zotico e lo scemo del villaggio.
Una realtà che spiega il bene il successo che hanno certi personaggi fra i lazzaroni del Sud e le plebi del Nord che in essi si riconoscono.
In una società involgarita, incattivita e rincretinita la pretesa, affermata in sede politica e governativa, che in questo Paese i conti con il passato si possano chiudere arrestando qualche decina di latitanti non trova opposizione.
Eppure, sono tanti fra storici, giornalisti e magistrati che sanno perfettamente che nei Paesi civili i conti con il passato si chiudono non portando in galera quattro gatti a distanza di 40-50 anni dai fatti che li hanno visti protagonisti, bensì ristabilendo la verità su un periodo storico che accanto a reali oppositori del sistema, tutti di sinistra, che hanno agito con le armi ci sono stati tanti terroristi di Stato che hanno operato contro il popolo in nome della difesa dell’Occidente contro il comunismo.
Hanno operato, questi ultimi, negli interessi dello Stato e del regime che non volevano distruggere ma rendere più autoritario, capace cioè di fermare la minaccia rappresentata dall’avanzata elettorale del PCI.
Allo spettacolo grottesco cui stiamo assistendo in questi giorni siamo arrivati con il concorso di tutte le forze politiche dall’estrema sinistra all’estrema destra.
Se il partito politico dell’estrema destra, pur passato dal «neofascismo» all’antifascismo assumendo nuove denominazioni, è obbligato dalla storia a restare inchiodato nella difesa a oltranza di terroristi e stragisti di Stato, i partiti della sinistra lo hanno fatto per la paura di rendersi invisi ai governi americani, israeliani e alla NATO le cui responsabilità nella guerra politica italiana sono a essi ben note.
La convergenza di tutte le forze politiche nell’affermazione della menzogna, in un quadro politico che vede avanzare protettori, complici e difensori di terroristi di Stato e massacratori di innocenti sul piano politico, e conseguente invasione di redazioni giornalistiche e televisive, rende plausibile agli occhi della grande maggioranza degli Italiani ai quali la verità è stata negata e occultata, la pretesa che lo Stato deve fare «giustizia» riportando in carcere gli ultimi latitanti rifugiati all’estero.
Lo Stato e il regime di cui tutti, senza eccezioni, fanno parte, pur dividendosi in governativi e oppositori, vivono nella paura che le verità sul passato emergano.
Pretendono che del passato non si parli più, si rallegrano che i «misteri d’Italia» rimangano tali attribuendone la responsabilità ai «servizi deviati» e alla loggia P2, convinti di poter spiegare tutto con una esplosione di «follia collettiva giovanile» come affermato dall’ex comunista Giorgio Napolitano.
Purtroppo, per la prostituta burocratica che chiamano Stato e per i suoi lenoni politici ci sono persone che ancora oggi si battono perché la verità emerga.
Così, mentre tutti intonavano il canto di vittoria per il ritorno in Italia del latitante Cesare Battisti, esibito come un trofeo per provare la volontà del governo del cambiamento in peggio di chiudere i conti con il passato, l’impegno, il coraggio e l’intelligenza della giornalista Raffaella Fanelli portavano alla luce un depistaggio nelle indagini sull’omicidio del giornalista Mino Pecorelli.
La rabbiosa e scomposta reazione dei pennivendoli televisivi (si sono distinti per infamia i baciapile del TG1) nel riportare la notizia in modo tale che nessuno ha potuto comprendere perché sia stata richiesta la riapertura delle indagini, dimostra il panico di quanti già pregustavano il piacere di affermare che nulla ci sia più da scoprire sulla guerra politica italiana, costretti a prendere atto che ancora c’è moltissimo da portare alla luce su quel passato che chiama in causa lo Stato.
Quel che è peggio per i «velinari» televisivi è che il depistaggio portato alla luce da Raffaella Fanelli non potrà essere attribuito ai servizi segreti «deviati» o alla loggia P2, perché si svolge tutto in ambito giudiziario fra Milano, Roma e Perugia.
Anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si è unito alle richieste di quanti pretendono che i latitanti siano ricondotti in Italia per scontare le loro condanne, mentre avrebbe fatto meglio a ricordare che i killer di suo fratello sono rimasti, fino a oggi, impuniti grazie ai depistaggi posti in essere da uomini dello Stato democratico che lui oggi rappresenta.
Quella che l’ex comunista, ex secessionista, ex anti-meridionalista, oggi nazionalista (per ora) Matteo Salvini e i suoi amici chiedono è vendetta non giustizia.
È la vendetta meschina di coloro che temono l’emergere della verità e l’affermazione di una Giustizia che non è quella della magistratura alla quale si deve tanta ingiustizia, bensì della Storia.
Per questo motivo si affannano a portare in carcere vecchi e malati, persone alle quali questo Stato e questa classe dirigente hanno permesso di rifarsi una vita che oggi vorrebbero stravolgere e distruggere.
Conosciamo questa logica della vendetta a ogni costo, senza limiti di tempo, strumentale perché finalizzata a raggiungere obiettivi politici che nulla hanno a che vedere con la giustizia.
È la stessa logica che ha portato un ufficiale tedesco innocente a morire a cento anni in Italia, agli arresti domiciliari, sacrificato sull’altare della Shoah, e a inutili processi a caporali e sergenti novantenni.
Non è giustizia, è la logica di Norimberga, quella della barbarie che infierisce sui vinti per far dimenticare i propri crimini.
Noi abbiamo un’altra logica, quella della civiltà di Roma, e a essa continuiamo a ispirarci e a restare fedeli.
La conclusione è amara: per fare i conti con il passato dobbiamo prima farli con il presente.
Vincenzo Vinciguerra

Fonte

Il fascismo inesistente vi seppellirà

Partiamo dal convincimento che la verità sia nel tutto, come Hegel insegna, quindi anche nelle sue necessarie interne contraddizioni.
L’antifascismo, cosi come il neofascismo, prescinde da questo tutto, trasformando il fascismo in un archetipo che è quello che gli altri hanno deciso per lui. Una valutazione unica è doverosa non certo per una volontà riabilitativa, ma soltanto per avere un’arma in più per una corretta interpretazione, non del passato, ma del presente che, stando così le cose, pesa molto di più perché drogato.
Per questo è particolarmente illuminante il significato del termine fascismo così come evocato dagli antifascisti.
Il suo uso prescinde da una valutazione storica, così come da una politica o filosofica, il suo uso non è neanche quello di un semplice aggettivo denigratorio, ma è un investimento per garantirsi sempre il diritto all’ esistenza e alla ragione. Prescinde persino dallo spazio temporale, persino da una prospettiva manichea, come se il fascismo, in quanto Male Assoluto, fosse sempre esistito. Una cloaca comunque da contrapporre alla propria autoreferenzialità. Al suo cospetto, tutto sembra svanire, dal colonialismo, alla tratta degli schiavi, allo sterminio degli Indiani d’America, al genocidio degli abitanti della Tasmania, persino lo sfruttamento sembra così sopportabile dinanzi al fascismo, la “legge bronzea dei salari” di Ricardo finisce per coincidere con una piattaforma per il rinnovo contrattuale.
L’antifascismo diventa l’abito buono che da i super poteri, un mezzo per diventare dei fuoriclasse. Già dei fuori classe, l’antifascismo è così potente da far scomparire non solo Giovanni Gentile, ma anche Karl Marx e Antonio Gramsci.
La gravità di una tale liturgica investitura risiede tutta nell’inautenticità dell’antifascismo.
Ad un primo approccio un sistema del genere, così condiviso da non essere mai messo in discussione più da nessuno, sembrerebbe spianare la via ai suoi utilizzatori, un a priori che equivale a mettersi dalla parte dei buoni, mentre i cattivi, gli altri, dall’altra. Un’illusione di farsi giudice delle regole della vita per “vincere facile”, ma a lungo andare le astrazioni che durano troppo hanno sempre il merito di chiedere il conto ai suoi ciechi sostenitori.
Vediamo qualche particolare.
Fino al 1936, malgrado tutto, al PCI il fascismo, almeno non tutto, non doveva apparire così orrido, visto “L’appello ai fratelli in camicia nera” firmato da sessanta dirigenti del Partito, compreso Togliatti. Nello stesso anno iniziano le purghe staliniane ed i processi ai trotskisti.
Con la guerra di Spagna s’assiste forse al primo tentativo di usare l’antifascismo come fosse un’arma, e questa volta l’uso che se ne fa è senz’altro politico. I compagni anarchici e trotskisti del POUM vengono massacrati perché inspiegabilmente s’erano messi al soldo del fascismo secondo l’accusa. Il format calunnioso, di una sola maschera da mettere in faccia a tutti i nemici, viene sperimentato anche altrove, sempre con buoni risultati. Si trovano infuocate pagine su l’Unità, siamo nel gennaio del 1944, che invitano a schiacciare tutti gli infiltrati, sempre trotskisti, fattisi oramai la V colonna del nazifascismo. Il messaggio probabilmente era rivolto anche al più grande gruppo partigiano di Roma, il Movimento Comunità d’Italia riunito sotto il quotidiano Bandiera Rossa che, cosa da non crederci, era più diffuso de l’Unità. Il gruppo Bandiera Rossa era distante anni luce dal CLN, cosi come dal PCI, in quanto antimonarchico, antibadogliano, ma soprattutto avrebbe voluto non consegnare Roma agli Alleati, ma bensì proclamare “La Repubblica Romana dei Lavoratori”. Stranamente questi compagni, malgrado il loro grandissimo contributo alla resistenza, non appariranno negli annali della epopea dell’ANPI, mentre molti di loro moriranno sotto le provvidenziali raffiche naziste delle Fosse Ardeatine.
Fondamentale è il documento di chiusura della III Internazionale comunista, maggio 1943, in esso scompare esplicitamente il concetto di rivoluzione socialista lasciando il posto alla necessità d’aderire al “blocco antifascista”.
Bordiga, altro fondatore del PCI, ebbe modo d’affermare che la cosa peggiore che aveva prodotto il fascismo era proprio l’antifascismo, il tronfio antifascismo che abbracciava anche l’odiato nemico borghese.
Alla affermazione di Bordiga, gli farà eco più di mezzo secolo dopo, confermando il mortale abbraccio con il nemico di classe, quella di Costanzo Preve quando disse che peggio del fascismo c’era solo l’antifascismo. Tra i due comunisti, solo qualche bagliore di lucidità, primo fra tutti quello di Pier Paolo Pasolini.
L’inautenticità dell’antifascismo risiede nel suo essere antistorico e non contestuale, quindi non un momento antitetico da opporre alla sua affermazione, ma un opporsi che diventa evanescente perché il farlo non contempla il momento della tesi reale e di conseguenza quello del divenire nella sintesi. La sua pretesa di autenticità necessaria passerà allora esclusivamente nel vedere nel qualunque altro, quello fuori da sé, un fascista.
Non si tratta più di un solo uso mistificante del termine, ma questo diventa una piattaforma psudoideologica onnivora, capace per questo di procedere ad un processo di metamorfosi genetica.
La rimozione della missione storica del corpo sociale, sedato dall’antifascismo nel tempo, è stata lenta ma costante, fino ad essere completa. Dallo scambiare il socialismo per un riformismo che nel suo procedere non aveva neanche più il coraggio di nominarlo, fino al rendere inutile tutta la critica marxiana al capitalismo.
Mentre l’orchestrina intonava “Bella Ciao”, si scoprivano nuove icone sovrastrutturali, da Kennedy ad Obama, da Blair a Clinton, da Paolo di Tarso a Papa Francesco, da Macron ad Juncker, dalla troika alla NATO, da Chicco Testa a Vladimir Luxuria.
La globalizzazione diventa l’internazionalismo realizzato, il meticciato è la società senza classi, il consumismo la distribuzione della ricchezza, il precariato altro non è che un’opportunità.
Ed allora, in fase oramai matura, al dogma dell’antifascismo, si può affiancare con orgoglio il dogma del neoliberismo, la tanto agognata lotta per la libertà e la giustizia sociale possono finalmente rispecchiarsi realizzate nelle libertà dei diritti umani e nelle pari opportunità che il mercato a tutti offre.
In conclusione, l’oscenità dell’antifascismo risiede tutta nell’aver abbandonato il Socialismo, foss’anche come sogno raggiungibile del non ancora, appiattendosi invece acriticamente su quest’attimo presuntuoso ritenuto eterno a cui non manca niente. Questo è stato il vero profondo potere di questo antifascismo inautentico, ma anche la sua più grande e indelebile colpa.
Lorenzo Chialastri

[Modificato in data 8/5/2019]

Khrushchev in America: “Nessuna zuppa di cavolo acido per queste persone”

Nel settembre del 1959, Nikita Khrushchev divenne il primo leader sovietico a visitare l’America. Fu un evento straordinario e un momento fondamentale nella Guerra Fredda.

Nato nel 1894, figlio di contadini poveri in Russia, la vita di Khrushchev descrive quello che è probabilmente il periodo più drammatico della storia russa, a cavallo tra la Prima Guerra Mondiale, le rivoluzioni di Febbraio e Ottobre 1917, la guerra civile 1918-1922 che seguì, gli sconvolgimenti degli anni ’20, seguiti dai piani quinquennali e dalle epurazioni degli anni ’30.
Comprende anche la Seconda Guerra Mondiale e il periodo post-staliniano, un periodo in cui Khrushchev fu personalmente e politicamente centrale con il suo famigerato “discorso segreto” del 1956 al 20° Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) a Mosca.
Per un leader la cui carriera politica era strettamente legata a quella di Stalin, il discorso fu considerato da alcuni un atto di tradimento – un cinico tentativo di calmare la propria coscienza prendendo le distanze dai brutali eccessi del suo predecessore. Altri considerarono il discorso coraggioso e necessario, iniziando il disgelo di una cultura politica sclerotica all’interno delle alte sfere del Partito e del governo che era incompatibile con i tempi, permettendo così al Paese e alla sua gente di respirare più facilmente.
A prescindere dai perché e dai percome, ciò che non può essere smentito è che l’educazione contadina e lo stile casalingo di Khrushchev smentivano un leader che era disposto a rischiare a casa e anche sul palcoscenico internazionale. Egli comprendeva bene la cruciale distinzione tra purezza dottrinale che sembra buona sulla carta e politiche che superano la prova più importante di essere applicabili alle condizioni del mondo reale, assicurando che non potesse mai essere accusato di essere prigioniero di posizioni ideologiche fisse.
I frutti di tale visione del mondo non furono mai più evidenti che in una politica estera definita dall’obiettivo di una pacifica convivenza con l’Occidente. Ed è qui che torniamo ad un affascinante episodio della storia della Guerra Fredda, quando il premier sovietico, su invito del presidente Eisenhower, intraprese un tour di due settimane negli Stati Uniti il 15-27 settembre 1959. Continua a leggere

Dalla “Grande Europa” all’Europa più grande

Tra il 1984 e il 1985 Jean Thiriart scrisse un libro intitolato L’Empire Euro-soviétique de Vladivostok à Dublin. La traduzione italiana di questo testo è in corso di stampa presso le Edizioni all’insegna del Veltro.
Ma perché pubblicare oggi questo libro, il cui titolo rivela da solo l’anacronismo dell’argomento?
“Al di là dell’importanza della testimonianza storica – scrive Yannick Sauveur nella sua Introduzione al testo thiriartiano – non è inutile interrogarsi sull’attualità retrospettiva degli scritti di Thiriart alla luce delle tensioni e degli sconvolgimenti in corso. Infatti, se si guarda bene, dal punto di vista della strategia americana il nemico russo ha rimpiazzato il nemico sovietico e l’Europa è ancora oggi il medesimo nano politico, tanto più che la crisi economica cominciata col primo trauma petrolifero (1973) non ha fatto che aggravarsi, mentre la scomparsa del comunismo ha provocato una capitolazione concettuale per quanto riguarda le alternative al liberalismo di marca anglosassone, poiché perfino il modello renano di capitalismo si è dovuto piegare davanti a Wall Street.
(…) L’Empire Euro-soviétique de Vladivostok à Dublin è l’opera di un teorico per il quale la lunga durata e i grandi spazi costituiscono il centro della riflessione. Si tratta di un opera di prospettiva politica che, staccata da ogni considerazione ideologica, unisce storia, sociologia e geopolitica”.

Di Jean Thiriart, su questo blog abbiamo pubblicato:
Colonizzazione sottile
Per un’Europa fuori dalla NATO
L’Europa fino a Vladivostok, in tre parti: 1° parte2° parte3° parte

Contro il liberalismo per una Quarta Teoria Politica

Spigolature da La Quarta Teoria Politica di Aleksandr Dugin, Novaeuropa edizioni.

“Dopo aver sconfitto i suoi rivali, il liberalismo ha (re)imposto un monopolio nel pensiero ideologico: è divenuto l’unica ideologia, che non consente nemmeno l’esistenza di alcuna ideologia rivale. Si potrebbe dire che è passato da un programma a un sistema operativo comune. Si noti che, quando andiamo in un negozio a comprare un computer, il più delle volte non diciamo “Vorrei un computer con Microsoft”, ma semplicemente “Vorrei un computer”, e ci viene venduto un computer con un sistema operativo Microsoft. Lo stesso accade con il liberalismo: ci viene impiantato come qualcosa di standard, che sarebbe assurdo e inutile contestare.
(…) Il liberalismo non è più liberalismo ma sottofondo, tacito accordo, consenso. Ciò corrisponde alla transizione dall’epoca della modernità a quella postmoderna. Nella postmodernità il liberalismo, mantenendo e perfino aumentando la sua influenza, sempre più raramente rappresenta una filosofia politica liberalmente scelta e compresa, diviene inconscio, istintivo e non del tutto consapevole. Questo liberalismo istintivo ha la pretesa di trasformarsi nella “matrice” universale, non-conscia, della contemporaneità…”.
[Pagg. 209-210]

“Dobbiamo mettere fine alle vecchie ideologie e teorie politiche. Se abbiamo davvero rifiutato il marxismo e il fascismo, quello che rimane è di mettere da parte definitivamente il liberalismo, che è un’ideologia altrettanto datata, crudele e misantropa. Il termine “liberalismo” dovrebbe essere equiparato a “fascismo” e “comunismo”. Il liberalismo è responsabile di crimini storici tanto quanto il fascismo (Auschwitz) e il comunismo (i gulag); è responsabile della schiavitù e della distruzione dei nativi americani negli USA, per Hiroshima e Nagasaki, per le aggressioni in Serbia, Iraq e Afghanistan, per la devastazione e lo sfruttamento di milioni di persone sul pianeta, e per le menzogne ignobili e ciniche che imbellettano queste verità storiche.”
[Pag. 81]

“Tutti coloro che condividono un’analisi negativa della globalizzazione, dell’occidentalizzazione e della postmodernizzazione dovrebbero unire i loro sforzi per creare una nuova strategia di resistenza contro un male che è onnipresente.”
[Pag. 289]

“L’unica cosa su cui è opportuno insistere nel tracciare un simile sentiero di cooperazione è la dismissione dei pregiudizi anticomunisti e antifascisti. Questi pregiudizi sono gli strumenti per mezzo dei quali liberali e globalisti tengono divisi i loro nemici. Perciò dobbiamo ripudiare con forza tanto l’anticomunismo quanto l’antifascismo. Entrambi sono strumenti controrivoluzionari nelle mani dell’élite globale liberale. Allo stesso tempo, dobbiamo opporci a ogni genere di conflitto tra le varie credenze religiose – musulmani contro cristiani, ebrei contro musulmani, musulmani contro indù, e così via. Le guerre e le tensioni interconfessionali fanno il gioco del reame dell’Anticristo, che mira a separare le religioni tradizionali allo scopo di imporre la sua pseudo-religione, la sua parodia escatologica.
Di conseguenza, dobbiamo unire la Destra, la Sinistra e le religioni tradizionali di tutto il mondo in uno sforzo comune contro il nemico comune. La giustizia sociale, la sovranità nazionale e i valori tradizionali sono i tre principi fondamentali della Quarta Teoria Politica. Non è facile riunire sotto un unico stendardo un’alleanza così composita, ma dobbiamo provare se vogliamo sopraffare il nostro nemico.”
[Pag. 292]

La Quarta Teoria Politica e il populismo

La Quarta Teoria Politica e il populismo

La protesta politica contro l’egemonia liberale nella riflessione di un pensatore fuori dal coro

“Tutti gli autori notano la fine della divisione tradizionale dello spettro politico a destra e sinistra e l’emergere di una nuova geometria di sistemi politici. La fuga dalla destra e dalla sinistra è caratteristico per l’intera società – sia per le élite che per le masse ed è collegato alla totale dominazione della Prima Teoria Politica [il liberalismo – n.d.c]. Quando il liberalismo acquisisce la piena egemonia, comincia ad agire come tale – senza appartenere alla destra o alla sinistra. Nell’economia dominano gli approcci di destra (il mercato), in politica quelli di sinistra (il libertarismo, la politica gender, il miscuglio di sessi e popoli, il multiculturalismo, ecc…). Il liberalismo è l’ideologia delle élite e vediamo sempre più spesso la parte superiore della rete liberale – quegli stessi “iniziati liberali”, che ormai non nascondono i propri veri piani e proclamano apertamente la via alla post-umanizzazione dell’umanità. Inoltre, sempre più visibilmente i metodi di amministrazione stanno diventando totalitari, utilizzando i mezzi dell’informazione di massa e i social network per l’introduzione forzata dei dogmi liberali nelle coscienze. Piano piano, dalla parte opposta della società si concentrano i movimenti di protesta che, così come l’ideologia delle élite, non fa capo né a destra, né a sinistra.
(…) Questi movimenti di protesta e la loro espressione spontanea e non sistematizzata ha ricevuto il nome di “populismo”. Il populismo è sempre stato presente ma al giorno d’oggi sta diventando un fattore politico di estrema importanza.
(…) Qui è importante soffermarsi sul termine populus, su cui è basato il concetto stesso di populismo. Populus, il popolo – è una concezione che non ha un proprio status giuridico all’interno dell’ideologia della Modernità ma che è presente nella maggioranza delle Costituzioni moderne, come fonte del potere legittimo. Il popolo, nominato nelle Costituzioni, nei modelli giuridici è interpretato in modo liberale (come un insieme di individui – e da qui il passo verso la teoria dei diritti dell’uomo è breve), oppure dal punto di vista nazionale (come un insieme di cittadini, aventi la cittadinanza di questo o quell’altro Paese), oppure dal punto di vista socialista (come una società di classi – nei regimi delle democrazie popolari). Ma ovunque il popolo è visto come un’espressione convenzionale generalizzata e non come un concetto. Cioé, egli è riconosciuto come soggetto. E si è formato storicamente durante la transizione dal Rinascimento all’Evo Moderno. Il popolo è rimasto nelle Costituzioni proprio dal Rinascimento, dove aveva un significato concettuale indipendente, ancora non soggetto ad un’interpretazione in nessuna delle teorie politiche della Modernità. Per questo, il popolo non appartiene alle strutture politiche della Modernità ma si trova al confine (…).
La Quarta Teoria Politica si relaziona al concetto di “popolo” come a una categoria giuridica e filosofica indipendente – in quel lato della sua interpretazione nel contesto delle tre teorie politiche della Modernità [liberalismo, comunismo, fascismo – n.d.c.]. Il popolo viene riconosciuto in modo esistenzialista – per il Dasein. Di particolare significato è la formula di Heidegger “Dasein existiert völkisch“. Il popolo, populus, la Quarta Teoria Politica lo interpreta, come Dasein, il Volk als Dasein. Questo rende il fenomeno del populismo non vago, caotico o spontaneo ma fondato in profondità, filosofico e all’avanguardia. In questo caso, la Quarta Teoria Politica può essere vista come la “metafisica del populismo”, spiegando la sua presenza e fornendo una cieca protesta dell’umanità contro l’élite satanica, che ha preso il potere su di essa, attraverso la strategia, coscienza, pensiero, sistema e un piano di lotta.”

Dalla prefazione dell’Autore all’edizione italiana di La Quarta Teoria Politica, di Aleksandr Dugin, NovaEuropa edizioni, 2017, pp. LV-LVII.

L’errore principale dell’Occidente

“Viste in Russia, le elezioni sono ben diverse da come le hanno raccontate in Occidente. E’ una barriera culturale quella che impedisce di vedere con più oggettività quanto accade a Mosca: la democrazia russa si esprime nei modi, linguaggi e forme tipiche di una cultura diversa dalla nostra. L’errore principale che l’Occidente commette è quello di voler imporre al popolo russo il proprio punto di vista: dalla caduta del comunismo in poi, l’Occidente, talvolta in maniera inconsapevole, talaltra in maniera deliberata, motivi per urtare la suscettibilità russa non sono mancati e spesso il popolo russo ha sofferto come pesante umiliazione molti passaggi della politica occidentale ad iniziare dall’allargamento dell’ambito di influenza della NATO”. Così all’Adnkronos il presidente del Consiglio regionale del Veneto Roberto Ciambetti, appena rientrato dalla Russia dove ha svolto il ruolo di osservatore per conto dell OSCE commenta le reazioni in Occidente al risultato elettorale.
“Per noi italiani è difficile capire quale sia il sentimento che lega i cittadini alla Grande Madre Russia, immagine che risale all’epoca zarista ma che fu rilanciata dal Comunismo durante la Grande Guerra Patriottica, quella che per noi è la II Guerra Mondiale: me lo ha spiegato l’interprete ricordandomi che il popolo russo ha pagato il prezzo più alto in termini di morti e distruzioni per liberare l’Europa, -spiega Ciambetti- aggiungendomi poi che non c’è stato Piano Marshall per ricostruire il Paese, un Paese rinato con la propria forza e che ha ricostruito la propria identità puntando anche negli ultimi vent’anni a rilanciare il ruolo della Chiesa ortodossa, ruolo importantissimo soprattutto, ma non solo, nelle campagne”.
“Putin ha saputo impersonificare questo processo interpretando il sentimento popolare e il bisogno di vedere riconosciuta l’anima e la ‘grandeur’ russa, che in verità si manifesta non solo nel ricordo di un passato epico, ma anche in un presente altrettanto importante: per le elezioni sono stato oltre che a Mosca anche in Crimea dove il voto a Putin è stato, non casualmente, plebiscitario -sottolinea-. Se l’ISIS ha perso più del 70 per cento del territorio che controllava, se ha visto tagliate le fonti del suo finanziamento, lo si deve anche all’esercito e all’aviazione russa che ha retto il peso della guerra a DAESH.” “Ma non solo: assieme a Cina, India, Brasile e Sud Africa la Russia con Putin ha dato vita al BRICS che chiaramente hanno come collante il risentimento verso l’Occidente, e gli USA in primo luogo, verso le regole e le istituzioni finanziarie globali ad iniziare dal FMI -spiega Ciambetti-. Queste grandi nazioni, che hanno interessi talvolta in conflitto tra loro, condividono l’essere “falchi della sovranità” e la volontà di tenere l’Occidente lontano dai loro affari interni. Non è casuale se USA e Gran Bretagna alimentino accuse contro Mosca o alzino barriere doganali verso la Cina dopo aver imposto sanzioni assurde alla Russia che hanno avuto l’esito da danneggiare la nostra economia: la posta in gioco è alta e in questo gioco i veleni sparsi sulle elezioni rientrano in una strategia di delegittimazione agli occhi dell’opinione pubblica occidentale”.
“Una strategia vissuta a Mosca come una provocazione che ha portato anche i più restii a compattarsi attorno a Putin al momento del voto -continua-. Tuttavia, vista dalla Russia la situazione è molto più delicata di quanto non si possa immaginare o forse di quanto non si capisca in Italia. Faccio solo un esempio: da noi hanno avuta scarsa eco le dichiarazioni del generale russo Sergei Rudskoy, Capo del Dipartimento Operazioni Principali della Stato Maggiore delle Forze Armate della Federazione russa, il quale sabato scorso ha spiegato che “gruppi navali di attacco alleati nel Mediterraneo orientale, Mar Rosso, Golfo Persico si preparano ad un attacco alla Siria. Verrà usato come pretesto un falso attacco chimico”. Un attacco, secondo i Russi, voluto dagli USA a preservare a l’enclave di Ghouta Est, attualmente in buona parte sotto il controllo dell’ISIS, indispensabile per il proseguimento del conflitto siriano e necessaria per impedire che le truppe di Assad, sostenute dai Russi, smantellino la rete jihadista”. “E’ vero, e più volte in queste ore me lo sono ripetuto: in diplomazia e per gli affari esteri non esiste tutto bianco e tutto nero, né si può dividere il mondo in buoni e cattivi pretendendo sempre di stare dalla parte giusta e gli altri tutti dalla parte sbagliata -spiega ancora-. Muoversi per le strade di Mosca come per Simferopoli serve a smontare tanti pregiudizi e aiuta a guardare oltre quella cortina dell’ignoranza che divide parte dell’Occidente dalla Russia e nella quale si possono coltivare tesi assurde. Ad iniziare dalla straordinaria capacità di Putin di influenzare le elezioni negli USA, il referendum Brexit voluto dai conservatori, e persino le elezioni politiche italiane”, conclude Ciambetti.

Davos: dove parlare di “diseguaglianza” è conveniente, ma un hamburger in piatto costa 59 dollari

Neil Clark per rt.com

La località svizzera di Chateaux-d’Oex è nota per le sue mongolfiere. La località svizzera di Davos è conosciuta per l’aria fritta. O almeno per una settimana all’anno, quando alcuni dei più grandi chiacchieroni del mondo si incontrano per discutere di questioni “significative”.
Quest’anno, la cosa interessante e di tendenza circa la quale esprimere preoccupazione per il World Economic Forum è (stata) la “disuguaglianza”. Ok, yes? Tutti sembravano d’accordo sul fatto che bisognava fare qualcosa per restringere lo “sconcertante” divario tra ricchi e poveri – per ripetere la frase usata dal Primo Ministro liberale hipster canadese Justin Trudeau, l’uomo con quei graziosi calzini gialli e viola.
Il presidente francese Emmanuel Macron, che ci è stato detto essere stato salutato come una “rockstar”, ha dichiarato: “Nel processo globale, il capitalismo è diventato un capitalismo di superstar, la diffusione del valore (a quelli più in basso della scala) non è più equa.”
Ma le soluzioni che avrebbero effettivamente ridotto la disuguaglianza erano meno imminenti. Mi ha ricordato le espressioni annuali di “preoccupazione” quando gli aumenti delle tariffe dei treni al di sopra dell’inflazione  sono annunciati in Gran Bretagna, il Paese con le tariffe più alte in Europa. I politici che sostengono il governo dicono che “questo è deludente” – e indovinate un po’ – l’anno prossimo le tariffe saliranno di nuovo. Nessuno vuole essere citato per dire che sono favorevoli al fatto che l’82% della ricchezza è goduto dall’1% più ricco, ma allo stesso tempo non sono disposti a prendere i provvedimenti che renderebbero ciò impossibile.
Questo l’estratto dal discorso del Primo Ministro britannico Theresa May: “Dobbiamo fare di più per aiutare la nostra gente nella mutevole economia globale, per ricostruire la loro fiducia nella tecnologia come motore del progresso e garantire che nessuno rimanga indietro mentre facciamo il prossimo salto in avanti… Dobbiamo ricordare che i rischi e le sfide che affrontiamo non superano le opportunità. E nel cercare di aggiornare le regole per affrontare le sfide di oggi, non dobbiamo perdere quelle di domani”.
Qualcuno sa capire di cosa stesse effettivamente parlando la May? C’era verbosità in abbondanza nel suo discorso, ma soluzioni pratiche?
È la cosa più facile del mondo affermare che “dobbiamo fare in modo che nessuno resti indietro mentre facciamo il prossimo salto in avanti”, ma farlo è tutta un’altra cosa.
In un certo senso, Davos ci fa rimpiangere i tosti thatcheriani del passato che, almeno, erano onesti riguardo a ciò che speravano di ottenere. Ora abbiamo dei thatcheriani mascherati da “centristi” sdolcinati in una stazione alpina del jet set dove il costo di un hamburger in piatto ha raggiunto i 59 dollari americani e una camera d’albergo oltre i 500 dollari a notte – e ciò non sembra giusto. Continua a leggere

“Una strategia fallita ma che ha lasciato un effetto duraturo”

L’intervento del dott. Guido Salvini, magistrato presso il Tribunale di Milano, presentato al convegno “La rete eversiva di estrema destra in Italia e in Europa (1964-1980)”, svoltosi a Padova l’11 novembre 2016.

“Il quinquennio 1969-1974 rappresenta il periodo cruciale e più sanguinoso, l’apice di quella che è stata chiamata la strategia della tensione: in Italia si verificano ben cinque stragi, un’altra mezza dozzina di stragi almeno, soprattutto su linee ferroviarie, falliscono per motivi tecnici perché l’ordigno non esplode o il convoglio riesce a superare il tratto di binario divelto, vi è il tentativo di colpo di Stato del principe Valerio Borghese seguito da altri progetti che durano fino al 1974, vi è infine un attentato in danno dei Carabinieri quello di Peteano, con tre vittime, del maggio ‘72 caratterizzato, come vedremo, da una propria specificità.
Già l’anno 1969 in Italia anno è denso di avvenimenti politici.
In quel momento il governo è un debole monocolore guidato dall’on. Rumor che si muove in una situazione incandescente per il rinnovo dei più importanti contratti e la mobilitazione quindi di centinaia di migliaia di operai; inizia la protesta studentesca nei licei e nelle università con un anno di ritardo rispetto al 1968 francese. Sono poi in discussione in quella fase politica riforme decisive sul piano strutturale e culturale come lo Statuto dei Lavoratori, l’approvazione del sistema delle Regioni, la legge sul divorzio.
Nixon è presidente gli Stati Uniti e sono gli anni della dottrina Kissinger, quella secondo cui i governi italiani e i partiti politici di centro dovevano respingere ogni ipotesi di accordo e di compromesso con il PCI e le forze di sinistra, scelta facilitata in passato, come ha ricordato anche Aldo Moro nel suo memoriale scritto dalla prigionia, da continui flussi di finanziamenti distribuiti nascostamente dall’amministrazione americana a partiti e organizzazioni di centrodestra talvolta tramite il SID del gen. Miceli. Il 27 febbraio 1969 il presidente della Repubblica americano fa una visita in Italia ed incontra al Quirinale il presidente Saragat. Vi è stata da poco la scissione del PSI e attorno al PSDI, cui Saragat appartiene, si radunano le correnti più determinate in senso filo-atlantico e più contrarie al mantenimento dell’esperienza di centro-sinistra.
Secondo un dossier contenuto negli archivi di Washington e desecretato il Presidente italiano concorda con quello americano sul “pericolo comunista” e afferma che agli occhi degli italiani il PCI si fa passare per un partito rispettabile ma è dedito agli interessi del Cremlino.
Il giorno della visita del presidente Nixon a Roma la città è blindata e scoppiano gravissimi incidenti tra la polizia ed extraparlamentari di sinistra cui seguono nell’Università scontri tra questi ultimi e militanti dell’estrema destra: vi è la prima vittima di quell’anno Domenico Congedo, uno studente anarchico, Congedo che durante un attacco dei fascisti alla facoltà di Magistero precipita da una finestra.
Del resto a livello internazionale la situazione è critica per il blocco occidentale in quanto molti Paesi afro-asiatici sotto la spinta della decolonizzazione entrano nell’orbita dei Paesi socialisti e alcuni passaggi di campo vengono impediti solo attraverso guerre civili o colpi di Stato molto sanguinosi da quello in Indonesia nel 1965 a quello in Cile nel 1973.
Non sembra un caso che la stagione delle stragi si collochi all’interno di questo quadro internazionale e coincida quasi perfettamente con la durata della presidenza Nixon e declini nel 1974 dopo la crisi del Watergate e lo sfaldarsi dei regimi dittatoriali in Europa, la Grecia, la Spagna, il Portogallo con il conseguente venir meno dell’ipotesi di un colpo di Stato anche in Italia che s’ispiri a quelle esperienze.”

Gli anni 1969-1974 in Italia: stragi, golpismo, risposta giudiziaria continua qui.

La demonizzazione del sovranismo

C’è una parola, “sovranismo” che è sotto attacco propagandistico dal giorno della sua introduzione nel linguaggio politico nella primavera del 2012. Coloro che si rifanno a questo concetto, i sovranisti, assistono impotenti alla sua quotidiana delegittimazione, alimentata da un flusso costante, sebbene strisciante, di notizie che accostano il termine a significati apparentemente simili che tuttavia non ne colgono il significato profondo. Ricordate l’espressione TINA (There Is Not Alternative)? Quell’acronimo è l’emblema di una comunicazione politica il cui contenuto informativo è di zero bit, cioè assenza di scelta. Affinché sia possibile operare una scelta è infatti necessario almeno un bit, che sia 0 oppure 1, ma questo nel mondo della comunicazione politica modello TINA è precluso. Nel suo significato più profondo, dunque, “sovranismo” è il bit mancante nell’informazione politica, grazie al quale si può ricostruire il primo indispensabile operatore politico, l’operatore NOT. La sola presenza del NOT fa sì che diventi riconoscibile l’operatore nascosto che, ormai da decenni, è l’unico adoperato, l’operatore NOP, che sta per No-Operation (nessuna operazione).
Tutta la comunicazione politica di sistema agisce al fine di promuovere l’operatore NOP, il sovranismo invece proclama il NOT. Solo la possibilità di negare una tesi, una visione, una proposta politica, ne permette l’affioramento e, dunque il riconoscimento. Il globalismo, cioè l’idea della libera circolazione, della società vista come somma aritmetica di individui ognuno con la sua libertà che dipende solo dal suo capitale finanziario e umano (ricordate la Thatcher: “la società non esiste”), insomma l’ordine internazionale dei mercati posto come dato “naturale”, emerge nella sua qualità di scelta politica solo nel momento in cui si impugna l’operatore NOT. Ecco perché la parola sovranismo è entrata nel mirino della propaganda politica dei media liberisti, che hanno ricevuto il compito di distruggerla demonizzandone l’uso.
Un’operazione che viene portata avanti ricorrendo all’unico mezzo possibile, consistente nel riassorbirla nelle pieghe del linguaggio politico unico. Lo stratagemma usato è quello di far sì che essa venga inserita all’interno di narrazioni politiche apparentemente anti liberiste, che del liberismo sono varianti cosmetiche. Ecco allora che il sovranismo viene proposto con significanti limitati, dall’uscire dall’euro – la sovranità monetaria, alla rivendicazione etnica – prima gli Italiani, fino al risibile decideranno gli elettori con un referendum. Vediamo i movimenti No-Vax assimilati ai sovranisti (come se non ci fossero i No-Vax liberisti, europeisti, atlantisti e chi più ne ha più ne metta), si usa la parola “fascismo” come sinonimo, come pure “populismo”, fatto quest’ultimo indubbiamente meno grave, ma altrettanto capzioso.
Ora il punto cruciale da capire per intendere il significato profondo della parola sovranismo, e dunque il suo potenziale eversivo rispetto alla logica TINA, è già stato enunciato, e sono le parole della Thatcher, “la società non esiste”. Parole che possono essere intese, in fondo, come un manifesto a posteriori del marginalismo, oppure, per farci capire anche da vegani e new agers, come affermare che “il tutto è la somma delle parti”, ovvero che, per spiegarlo, basta studiare e comprendere il comportamento delle singole parti che lo compongono. Ecco, il sovranismo opera su tutto questo con un NOT: non è vero che la società non esiste, la società esiste eccome! Il tutto è più della somma delle parti.
Il che significa che le entità collettive esistono, siano esse le classi sociali, le etnie, le nazioni, i popoli, i sindacati, le associazioni capitaliste, le società segrete, le religioni, i legami di sangue, quelli tribali; insomma tutto quello che era pacificamente ammesso ancora cento anni fa e, da allora, è stato prima messo in discussione, e infine negato e annichilito, per effetto dell’azione politica di un movimento di idee, nato nella seconda metà del XIX secolo, che risponde al nome di marginalismo, con un’operazione NOT analoga a quella che oggi ripropone il sovranismo. Ed è stato annichilito perché, così facendo, il marginalismo ha camuffato la sua tesi da sintesi, elevandola a tale dignità usando in modo spregiudicato gli strumenti della comunicazione pubblicitaria di massa. Dunque un’operazione culturale di grande successo, certamente sofisticata ma anche promossa grazie all’enorme dispiegamento di mezzi messi a disposizione dalla ricchezza finanziaria e dall’impetuoso sviluppo dei mezzi di comunicazione.
Ora questo problema si pone, in Occidente, soprattutto al livello della percezione delle masse europee, in particolare italiane, perché altrove, perfino negli USA, l’idea che c’è un “noi” e un “loro” è ancora presente, e dunque che questa poltiglia che ci viene venduta come modernità, costituita dalla fiaba “dell’allocazione efficiente delle risorse all’interno di un mercato a concorrenza perfetta e cioè all’interno di un mercato in cui vi è un’ottima diffusione di informazioni”, posta a fondamento della loro idea di democrazia, è una boiata pazzesca.
L’intuizione sovranista, dunque, consiste nella riscoperta della realtà concreta – oltre la narrazione TINA – che la società esiste e non è formata dalla somma aritmetica di singoli individui, ma è attraversata da confini e confitti di ogni genere, che essa stessa genera continuamente in un processo senza fine in cui il tempo gioca un ruolo fondamentale. Se ieri c’era la classe degli operai, oggi c’è il terziario impoverito; se appena due secoli fa un popolo non esisteva e non aveva coscienza di sé, oggi pretende di difendere la sua identità. E lo stesso – chiamiamolo così – campo sovranista, è attraversato da divisioni, perché ci sono quelli che si definiscono costituzionali e democratici, ma anche i sovranisti nazionalisti; non è un caso se, nel 2012, decidemmo di raccattare da terra questo termine, sovranismo, proprio per distinguerci dai nazionalisti. Ma resta vero che il nemico ideologico comune è il marginalismo, quell’ideologia fatta propria dal grande capitale (quello sì) internazionalista, e usata per dire a tutti i suoi nemici “voi non esistete”. E’ in questo modo, convincendo tutti del fatto di non esistere, che costoro hanno vinto. Per il momento.
Quanto appena esposto potrebbe essere inteso come uno sdoganamento della possibilità di unire tutti i sovranisti, ma questo sarebbe un errore imperdonabile. Non basta, per unire, il fatto di denunciare l’idea farlocca della fine della storia, così come non basterebbe, in una società per azioni, prendere coscienza che un socio di minoranza ha fatto credere a tutti di avere la maggioranza delle quote e che non ci fosse alternativa al suo dominio, per unire tutti gli altri in un’alleanza durevole. La fine della narrazione TINA, la rinascita della consapevolezza crescente che la società è divisa in classi, che le nazioni e i popoli esistono, segna solo il momento in cui il bluff della minoranza, che era riuscita a porsi come unico soggetto della storia del mondo, è stato scoperto. Dunque siamo sì, oggi, tutti “sovranisti”, ma torneremo presto a dirci socialisti, comunisti, popolari, democristiani, repubblicani e, feccia della feccia, perfino liberali.
Dalle parti di questo blog oggi siamo sovranisti, ma domani saremo socialisti.
Fiorenzo Fraioli

Fonte

Portella della Ginestra strage fascista?

“La riflessione prende spunto da un articolo di Simona Zecchi, nel quale la bravissima giornalista ricorda con lucidità e aderenza alla verità la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947.
Simona Zecchi, nel suo articolo, denuncia che a distanza di 70 anni dal fatto, lo Stato italiano non ha ancora reso pubblici tutti i documenti che ad esso si riferiscono.
C’è da aggiungere che è stato un governo italiano di centrosinistra a chiedere a quello americano di non rendere pubblici i documenti della CIA di quel periodo, in particolare quelli riferiti alle elezioni politiche del 1948.
Si devono piangere i morti ma non si deve dire perché sono morti e, soprattutto, chi li ha fatti morire.
La storia di Salvatore Giuliano è quella di un giovane mafioso che è stato usato dalla politica e dalle forze di sicurezza dell’epoca (servizi segreti, carabinieri e polizia) per contenere l’avanzata elettorale dei Partiti comunista e socialista.
La Sicilia e la Sardegna, difatti, dovevano servire come base per l’eventuale riconquista del territorio peninsulare se fosse caduto nelle mani dei comunisti sostenuti dall’Unione Sovietica e dalla Jugoslavia.
Bloccare i comunisti e i socialisti loro alleati in Sicilia non era, quindi, solo un problema politico ma anche militare.
Il compito di controllare il territorio, mantenere l’ordine pubblico, contrastare il comunismo, Alcide De Gasperi in nome dello Stato italiano lo ha affidato, con la benedizione del Vaticano, alla mafia.
Non a caso la prima base della cosiddetta “Gladio” in Sicilia è stata costituita nel 1987. A svolgere il ruolo ed assolvere i compiti dei “gladiatori” in Sicilia fino a quel momento era stato la mafia.
Portella della Ginestra è stata, di conseguenza, la prima strage di Stato compiuta per finalità esclusivamente politiche, a vantaggio della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati.
Questa è la verità.
Non bisogna farsi confondere dal numero degli attori che hanno partecipato ai fatti, perché si rischia di attribuire ad altri le responsabilità che sono esclusivamente governative.
L’ispettore generale di PS Ciro Verdiani, che è stato in contatto con Salvatore Giuliano fino al giorno primo della sua morte per indurlo ad abbandonare la Sicilia e rifugiarsi all’estero, al processo di Viterbo ha dichiarato di aver sempre tenuto informato l’allora ministro degli Interni Mario Scelba.
Non è stato smentito.
Il libro di Casarrubea e Cereghino, giustamente citato da Simone Zecchi, è però fuorviante anche nel titolo, “Lupara nera”, perché attribuisce agli uomini della Decima Mas, considerati “neofascisti”, un ruolo che, se ricoperto, rispondeva alle esigenze di un regime e di uno Stato che erano ormai antifascisti.
È sbagliato considerare tutti coloro che hanno aderito alla Repubblica Sociale Italiana come “fascisti”.
Tanti vi hanno aderito solo perché si trovavano al di qua della Linea Gotica, tanti per opportunismo, tanti per condurre il doppio-gioco, tanti hanno trovato comodo tradire man mano che si delineava la vittoria alleata.
Il reparto della divisione “Decima”, preposto all’addestramento dei sabotatori ed al loro invio dietro le linee alleate, quello di cui avrebbero fatto parte i “gladiatori” ante litteram della Decima, il battaglione “Vega”, era diretto dal capitano di vascello Mario Rossi, imposto al comando dal principe Junio Valerio Borghese, che lavorava per l’OSS e per James Jesus Angleton.
Il 25 aprile 1945, Mario Rossi se ne andò a casa propria, e Genova, e nessuno è mai andato a cercarlo.
Decima o non Decima, lupara rimane bianca, se si vuole affermare la verità.
Spacciare Portella della Ginestra come strage “fascista” vuole dire favorire l’impunità dei mandanti che fascisti non erano.
Prova ne sia che la verità ancora non si conosce per scelta di governi di centro, di centro-destra, di centro-sinistra all’interno dei quali non risulta che abbiano mai ricoperto incarichi fascisti o presunti tali.
Se leggiamo i fatti per come si sono svolti, la tattica tanto cara ai politici italiani dei “chiagne e fotte” non darà più risultati.
E sarà un bene, per i vivi e per i morti.”

Da “Chiagne e fotte” di Vincenzo Vinciguerra.

L’unica riconciliazione possibile

“Verificata la possibilità di ottenere i voti di poco più di un milione di Italiani che, abbagliati dalla propaganda antifascista, lo vedevano come l’erede del fascismo, il Movimento Sociale Italiano si offre come ruota di scorta della Democrazia Cristiana con i cui attivisti svolge la campagna elettorale della primavera del 1948 con lo slogan “Chi vota DC vota bene, chi vota MSI vota meglio”.
Dopo, più si allontana dai postulati dottrinari ed ideologici del fascismo più s’impegna nel campo attivistico contro il Partito Comunista per rendersi strumento prezioso ed indispensabile dell’alta borghesia e del Vaticano, non trascurando di servire gli interessi degli Stati Uniti e della neo-costituita Alleanza Atlantica.
Si viene, in questo modo, a formare un “neo-fascismo” di propaganda al servizio dell’antifascismo cattolico e liberale al potere.
Già negli anni Cinquanta, il MSI è solo un partito di estrema destra senza più legami ideologici e storici con il fascismo mussoliniano e rivoluzionario che considerava la borghesia la “rovina dell’Italia” e che aveva invitato i propri militanti ad aderire al Partito Socialista di Unità Proletaria di Pietro Nenni.
Del resto, la Democrazia Cristiana guidata dalla gesuitica politica vaticana la sua riconciliazione l’aveva portata avanti, per fini elettoralistici, fin dal febbraio del 1946, quando aveva chiamato alla leva tutti quei giovani che avevano fatto parte delle Forze Armate repubblicane [si intenda Repubblica Sociale Italiana – n.d.r.].
Erano seguiti la fine dell’operazione, il reimpiego dei licenziati, il reintegro nelle Forze Armate di quanti avevano pur giurato fedeltà allo Stato repubblicano, riconoscimenti pensionistici e quanto altro poteva servire per dimostrare che per la Democrazia Cristiana ed i suoi alleati la guerra civile italiana era solo un ricordo.
Lo stesso Movimento Sociale Italiano era ritenuto, giustamente, forza politica di sostegno esterno ai governi democristiani e, forse, sarebbe riuscito perfino ad ottenere qualche sottosegretariato se lo scarso seguito elettorale suo e dei partiti laici non avesse convinto Aldo Moro a varare la politica di centro-sinistra con la benedizione dell’amministrazione Kennedy ed il contributo decisivo della CIA.
Un partito di estrema destra che rappresentava solo sé stesso non poteva rappresentare la controparte fascista all’antifascismo perché era al servizio, anche segreto, delle sue componenti cattoliche e liberali.
Quale conciliazione si sarebbe mai potuta fare con una forza fascista che non esisteva se non nelle manifestazioni esteriori di un partito che ingannava i suoi elettori autorizzando saluti romani e slogan nostalgici alle sue manifestazioni salvo servire gli interessi del potere antifascista?
Una commedia all’italiana, una tragica commedia che ha raggiunto il suo apice con i grotteschi abbracci fra reduci della RSI e delle forze di liberazione nel 1994 quando il pregiudicato Silvio Berlusconi sdoganò il Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale per farne il proprio alleato politico.
Non passarono due anni che tutti i “fascisti” del MSI-DN, a partire dal loro segretario nazionale, Gianfranco Fini, si volsero in antifascisti condannando esplicitamente il fascismo ritenuto il “male assoluto”.
A quel punto, non si comprende con chi gli antifascisti avrebbero potuto riconciliarsi, se non con i sparuti gruppuscoli di estrema destra che ostentavano di restare fedeli al Movimento Sociale Italiano che mai era stato fascista.
In realtà, l’unica riconciliazione possibile in questo Paese sarebbe quella con la storia che andrebbe raccontata secondo verità.
Ma questo non è possibile perché il potere antifascista si regge sulla menzogna.
E per non smentirsi inventa l’esistenza, ancora nel 2017, di temibili gruppi “fascisti” la cui unica attività è quella di presentarsi ogni anno, almeno a Milano, nella parte del cimitero riservata ai caduti della RSI per offenderne la memoria con il saluto romano.
Per il resto dell’anno brigano con La Russa, Alemanno, Meloni, Salvini con i quali devono salvare l’Italia da migranti, zingari e barboni.
Anche le pulci reclamano un palcoscenico saltellando fra i piedi dei Pulcinella e degli Arlecchino nazionali.
Nessuna riconciliazione nazionale, quindi, è mai stata fatta e mai potrà essere fatta in un Paese in cui solo i morti rimangono coerenti: così per i fascisti, così per i comunisti, così per i “terroristi”.
Per i pochissimi che non rinnegano, non ripudiano, non si dissociano rimane la prospettiva consolante di morire in una solitudine orgogliosa, dimenticati nel tempo presente perché mai vinti.
Ed è quello che alla fine conta.”

Da Riconciliazione, di Vincenzo Vinciguerra.

La teoria del gradiente culturale

A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre

“In Europa la promozione del modello liberale in opposizione all’autocrazia e l’affermazione della civiltà in opposizione alla barbarie asiatica hanno dato luogo anche alla teoria del gradiente culturale.
Secondo questa concezione, la civiltà progredirebbe da Occidente a Oriente partendo da un focolaio centrale che sarebbe situato fra Parigi e Londra, e si diffonderebbe in seguito vero Est man mano che si civilizzerebbero i popoli dell’Europa centrale, poi dell’Europa orientale e infine della Russia.
(…) La teoria del gradiente culturale è interessante poiché permette di integrare la Russia nella civiltà europea o escluderla a piacere, a seconda delle circostanze. Quando la Russia diventa utile – e lo diventerà per la Francia nell’ultimo decennio del XIX secolo, per il Regno Unito nel primo decennio del XX e di nuovo durante la Seconda Guerra Mondiale – la si ammetterà nel mondo civile sottolineando, come Leroy-Beaulieu, la sua compatibilità con l’Occidente. Si insisterà allora – come avvenne in tempi più recenti durante il periodo Gorbacëv, e successivamente negli anni 2001-2003 dopo gli attentati del World Trade Center – sull’avvicinamento della Russia agli ideali dell’Occidente, quelli di democrazia pluralista ed economia liberale.
Ma quando la Russia viene percepita come una minaccia – dopo il 1815, il 1917 e il 1945 o dopo che Vladimir Putin riprese in mano l’economia nel 2003 – allora la teoria del gradiente torna utile nell’altro senso in quanto permette di escluderla dalle nazioni civili e rigettarla nella barbarie, ricorrendo a tutto l’arsenale dei consueti cliché: autoritarismo, atavico espansionismo, statalismo, conservatorismo retrogrado.
Non è dunque sorprendente che l’ipotesi dello sviluppo graduale della civiltà secondo un asse Ovest-Est, o Nordovest-Sudest, a partire dalla Rivoluzione Francese non tenga alcun conto dei comportamenti occidentali devianti. La barbarie degli Europei nelle colonie sudamericane, africani e asiatiche, come anche quella del terrore imposto in Cina dagli eserciti coloniali dopo la ribellione dei Boxer nel 1901, non vengono mai menzionate; si tace della barbarie degli Americani contro gli Indiani, o del fatto che l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti avvenne pressapoco nello stesso periodo di quella della servitù della gleba in Russia. Quindi, in quegli anni, da un punto di vista strettamente umano, gli Stati Uniti non erano certo più civili della Russia.
(…) Di fatto, da esplicativa che era ai suoi inizi, la teoria del gradiente culturale è rapidamente divenuta essenzialista: definendo la Russia come in ritardo sui suoi modelli europei occidentali, si reificherà questo ritardo, lo si ipostatizzerà per trasformarlo in un elemento costitutivo e discriminatorio in senso assoluto, seguendo il consueto ragionamento razzista: il russo è barbaro come l’ebreo è avaro, il nero pigro, il musulmano terrorista. Da lì a descrivere la Russia come nemica della civiltà il passo è breve, come la penna degli editorialisti contemporanei ci mostra quotidianamente.
Inoltre questo bisogno di classificare, sistemare, gerarchizzare le diverse società umane, questa ossessione per la tassonomia e il ranking, vanno a colmare l’angoscia così tipicamente occidentale da primo della classe che deve incessantemente verificare di essere in testa alla corsa e di mantenere le distanze dai suoi inseguitori. Dopo l’Illuminismo, l’Occidente ha incessantemente bisogno di rassicurarsi, di provare a sé stesso di essere sempre all’avanguardia del progresso e della civiltà e che i suoi “valori” siano effettivamente universali. E’ il prezzo da pagare per lo spirito di superiorità e la volontà di supremazia. E la Russia, al contempo così vicina e così diversa, è l’ideale metro di paragone.
(…) “Il lettore deve fare lo sforzo di riconoscere che i contadini russi, pur avvolti nelle loro pelli di montone, sono esseri umani come noi”, scriveva l’autore britannico Donald Mackenzie Wallace nel 1877. Centoquarant’anni più tardi le pelli di montone sono scomparse, ma non la mentalità che presenta il Russo come un ritardatario che fatica sempre a inerpicarsi sui gradini dell’economia liberale e della democrazia pluralista, quintessenza dell’avanzata civiltà occidentale.”

Da Russofobia. Mille anni di diffidenza, di Guy Mettan, Sandro Teti Editore, pp. 192-196.

Solo la sovranità è progressista

Se uccidi oggi un Sankara, domani avrai a che fare con mille Sankara.
Thomas Sankara

All’indomani del vertice dei 25 Paesi membri dell’Organizzazione per l’Unità Africana, il 26 luglio 1987, il Presidente del Consiglio Nazionale Rivoluzionario del Burkina Faso denunciava in questi termini il nuovo asservimento dell’Africa: “Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Coloro che ci hanno prestato denaro sono quelli che ci hanno colonizzato, le stesse persone che hanno gestito i nostri Stati e le nostre economie, sono i colonizzatori che hanno indebitato l’Africa con i finanziatori”. Il debito del Terzo Mondo è il simbolo del neocolonialismo. Perpetua la negazione della sovranità, piegando le giovani nazioni africane ai desiderata dei poteri ex-coloniali.
Ma il debito è anche ciò di cui i mercati finanziari si nutrono. Il prelievo parassitario da economie fragili, arricchisce i ricchi nei Paesi sviluppati a scapito dei poveri nei Paesi in via di sviluppo. “Il debito (…) dominato dall’imperialismo è una riconquista abilmente organizzata affinché l’Africa, la sua crescita, il suo sviluppo obbediscano a standard che ci sono totalmente estranei, facendo in modo che ognuno di noi diventi uno schiavo della finanza, cioè schiavo di coloro che hanno avuto l’opportunità, l’astuzia, l’inganno di piazzare da noi i fondi con l’obbligo di rimborso”.
Decisamente, era troppo. Il 15 ottobre 1987, Thomas Sankara cadde sotto i proiettili dei cospiratori a favore del “Françafrique” e del suo succoso affare. Ma il capitano coraggioso di questa rivoluzione soffocata ne dettò i principi fondamentali: un Paese si sviluppa solo se è sovrano e questa sovranità è incompatibile con la sottomissione al capitale globalizzato. Il vicino del Burkina Faso, la Costa d’Avorio ne sa qualcosa: colonia specializzata nell’esportazione di monocolture di cacao a partire dagli anni ’20, è stata rovinata dalla caduta dei prezzi e trascinata nella spirale infernale del debito.
Il mercato del cioccolato vale 100 miliardi di dollari ed è controllato da tre multinazionali (una svizzera, una statunitense e una indonesiana). Con la liberalizzazione del mercato richiesta dalle istituzioni finanziarie internazionali, queste multinazionali dettano le loro condizioni a tutto il settore. Nel 1999, il FMI e la Banca Mondiale hanno chiesto la rimozione del prezzo garantito al produttore. Il prezzo pagato ai piccoli coltivatori è stato dimezzato, essi impiegano per sopravvivere centinaia di migliaia di bambini schiavi. Impoveriti dai prezzi in calo della sovrapproduzione, il Paese è anche costretto a ridurre le imposte sulle imprese. Privato delle risorse, schiavo del debito e ostaggio dei mercati, il Paese è in ginocchio.
La Costa d’Avorio fa scuola. Un piccolo Paese con una florida economia (il cacao rappresenta il 20% del PIL e il 50% dei proventi delle esportazioni) è stato letteralmente silurato dagli stranieri che cercano solo di massimizzare i profitti con l’aiuto delle istituzioni finanziarie e la collaborazione di leader corrotti. Thomas Sankara l’aveva capito: se è schiavo dei mercati, l’indipendenza di un Paese in via di sviluppo è pura finzione. Non riuscendo a rompere gli ormeggi con la globalizzazione capitalista, un Paese si condanna alla dipendenza e alla povertà. In un libro profetico pubblicato nel 1985, Samir Amin ha chiamato questo processo di rottura “la disconnessione del sistema mondiale”.
Quando si considera la storia dello sviluppo di un Paese, appare evidente che: i Paesi migliori sono quelli che hanno completamente conquistato la loro sovranità nazionale. Per esempio, la Repubblica Popolare Cinese e i nuovi Paesi sviluppati dell’Asia orientale hanno perseguito politiche economiche proattive e hanno promosso un’industrializzazione accelerata. Queste politiche erano basate – e lo sono ancora in gran parte – su due pilastri: la gestione unitaria degli sforzi pubblici e privati ​​sotto la guida di uno Stato forte e l’adozione quasi sistematica di un protezionismo selettivo.
Una tale osservazione dovrebbe bastare a spazzare via le illusioni alimentate dall’ideologia liberale. Lungi dal gioco libero delle forze del mercato, lo sviluppo di molti Paesi nel ventesimo secolo è il risultato di una combinazione di iniziative di cui lo Stato ha fissato sovranamente le regole. Da nessuna parte si vede uscire lo sviluppo dal cappello magico degli economisti liberali. Ovunque, è stato il risultato di una politica nazionale e sovrana. Protezionismo, nazionalizzazioni, rilancio della domanda e istruzione per tutti: è lungo l’elenco delle eresie grazie alle quali questi Paesi hanno scongiurato – in vari gradi e a costo di molteplici contraddizioni – l’angoscia del sottosviluppo.
Senza offesa per gli economisti da salotto, la storia insegna l’opposto di ciò che la teoria afferma: per uscire dalla povertà, è meglio la forza di uno Stato sovrano che la mano invisibile del mercato. E’ quello che hanno capito i Venezuelani che cercano dal 1998 di restituire al popolo il profitto della manna petrolifera privatizzata dall’oligarchia reazionaria. Questo è quello che intendevano Mohamed Mossadegh in Iran (1953), Patrice Lumumba in Congo (1961) e Salvador Allende in Cile (1973) prima che la CIA li facesse sparire dalla scena. Questo è ciò che Thomas Sankara chiedeva per l’Africa che cadeva nella schiavitù del debito dopo la decolonizzazione.
Si obietterà che questa diagnosi sia imprecisa, poiché la Cina si è sviluppata molto rapidamente dopo le riforme liberali di Deng. È vero. Un’iniezione massiccia di capitalismo mercantile sulle sue coste le ha procurato dei tassi di crescita enormi. Ma non bisogna dimenticare che nel 1949 la Cina era un Paese in miseria, devastato dalla guerra. Per sfuggire al sottosviluppo, ha fatto enormi sforzi. Le mentalità arcaiche furono smantellate, le donne emancipate, la popolazione istruita. A costo di molte contraddizioni, le strutture del Paese, la costituzione di un’industria pesante e lo status di potenza nucleare sono stati acquisiti durante il Maoismo.
Sotto la bandiera di un comunismo riverniciata nei colori della Cina eterna, quest’ultima ha creato le condizioni materiali per il futuro sviluppo. Se in un anno veniva costruito in Cina l’equivalente dei grattacieli di Chicago, non era perché la Cina fosse diventata capitalista dopo aver sperimentato il comunismo, ma perché essa ne ha fatto una sorta di sintesi dialettica. Il comunismo ha unificato la Cina, ha ripristinato la sua sovranità e l’ha liberata dagli strati sociali parassitari che ne ostacolavano lo sviluppo. Molti Paesi del Terzo Mondo hanno cercato di fare lo stesso. Molti hanno fallito, di solito a causa dell’intervento imperialista.
In termini di sviluppo, non esiste un modello. Ma solo un Paese sovrano che si è dotato di una vela sufficientemente resistente può affrontare i venti della globalizzazione. Senza una padronanza del proprio sviluppo, un Paese (anche ricco) diventa dipendente e si condanna all’impoverimento. Le società transnazionali e le istituzioni finanziarie internazionali hanno messo le proprie mani su molti Stati che non hanno alcun interesse a obbedir loro. Leader di uno di questi piccoli Paesi presi alla gola, Thomas Sankara ha sostenuto il diritto dei popoli africani all’indipendenza e alla dignità. Ha inchiodato i colonialisti di ogni genere al loro orgoglio e alla loro avidità. Sapeva soprattutto che il requisito della sovranità non era negoziabile e che solo la sovranità è progressista.
Bruno Guigue

Fonte – traduzione di C. Palmacci

Terrore Rosso colpisce ancora? Gli USA impongono la designazione di agenti stranieri sui media russi come ai tempi della seconda guerra mondiale

Di Robert Bridge per rt.com

Il McCarthyismo dell’epoca sovietica che ha imperversato in America alla metà del XX secolo è stato un semplice gioco da bambini rispetto all’isteria russofobica che ora sta attraversando gli USA, dove i media russi devono persino identificarsi con una designazione tipica dell’era nazista.

L’aspetto più inquietante della spettacolare esplosione delle relazioni USA-Russia nell’ultimo anno non è necessariamente la velocità fulminea con la quale si è verificata, ma che si tratta di un atto deliberato e premeditato di violenza politica assolutamente evitabile.
La massiccia campagna anti-Russia è arrivata con una ferocia così rapida e ingiustificata che nemmeno l’ultimo senatore americano Joseph McCarthy, il cui nome è praticamente sinonimo di caccia alle streghe, sarebbe arrivato a tanto. E proprio quando pensi di aver toccato il fondo nelle relazioni bilaterali, una botola si apre sotto i piedi, svelando un’altra caduta precipitosa.
In quello che sembra essere il motivo principale nelle relazioni mediatiche tra Stati Uniti e Russia, il Dipartimento di Giustizia statunitense ha fatto al ramo americano di RT [Russia Today] la richiesta oltraggiosa di registrarsi come “agente straniero” per continuare ad operare sul suolo statunitense.
Ciò che rende la richiesta degli USA particolarmente inaccettabile, se non del tutto ripugnante, è la storia dietro la Legge per la registrazione degli agenti stranieri del 1938, o FARA, creata per contrastare l’agitazione filo-nazista. Poche persone avrebbero potuto dimenticare quanto sangue, sudore e lacrime costarono alla Russia nel suo straordinario sforzo per respingere l’armata di Hitler dal suo territorio. Infatti, senza il sacrificio incomparabile della Russia, che ha spezzato la schiena della macchina da guerra nazista, sarebbe assolutamente inutile parlare oggi di “libertà mediatica”. Continua a leggere

Quando la sinistra non aveva paura della sua ombra

“Cos’è successo tra il 1973 e il 2017? Mezzo secolo fa, la sinistra francese ed europea era generalmente solidale – almeno a parole – con i progressisti e i rivoluzionari dei Paesi del Sud. Senza ignorare gli errori commessi e le difficoltà impreviste, non sparava alla schiena dei compagni latinoamericani. Non distribuiva responsabilità ai golpisti e alle loro vittime con giudizi salomonici. Si schierava, a costo di sbagliare, e non praticava, come fa la sinistra attuale, l’autocensura codarda e la concessione all’avversario a mo’ di difesa. Non diceva: tutto questo è molto brutto, e ognuno ha la sua parte di responsabilità in queste violenze riprovevoli. La sinistra francese ed europea degli anni ‘70 era certamente ingenua, ma non aveva paura della sua ombra, e non beatificava a ogni piè sospinto quando si trattava di analizzare una situazione concreta. È incredibile, ma pure i socialisti, come Salvador Allende, pensavano di essere socialisti al punto da rimetterci la vita.
A guardare l’ampiezza del fossato che ci separa da quell’epoca, si hanno le vertigini. La crisi venezuelana fornisce un comodo esempio di questa regressione perché si presta a un confronto con il Cile del 1973. Ma se si allarga lo spettro dell’analisi, si vede bene che il decadimento ideologico è generale, che attraversa le frontiere. Nel momento della liberazione di Aleppo da parte dell’esercito nazionale siriano, nel dicembre 2016, gli stessi “progressisti” che facevano gli schizzinosi davanti alla difficoltà del chavismo, hanno cantato insieme ai media detenuti dall’oligarchia per accusare Mosca e Damasco delle peggiori atrocità. E la maggior parte dei “partiti di sinistra” francese (PS, PCF, Parti de Gauche, NPA, Ensemble, i Verdi) hanno organizzato una manifestazione davanti all’ambasciata russa a Parigi, per protestare contro il “massacro” dei civili “presi in ostaggio” nella capitale economica del Paese.
Certo, questa indignazione morale a senso unico nascondeva il vero significato di una “presa di ostaggi” che c’è stata, in effetti, ma da parte delle milizie islamiste, e non da parte delle forze siriane. Lo si è visto non appena sono stati creati i primi corridoi umanitari da parte delle autorità legali: i civili sono fuggiti in massa verso le zone governative, a volte sotto le pallottole dei loro gentili protettori in “casco bianco” che giocavano ai barellieri da una parte, e ai jihadisti dall’altra. Per la sinistra, il milione di siriani di Aleppo Ovest bombardata dagli estremisti abbigliati da “ribelli moderati” di Aleppo Est non contano, la sovranità della Siria nemmeno. La liberazione di Aleppo resterà negli annali come un tornante della guerra per procura combattuta contro la Siria. Il destino ha voluto che, purtroppo, segnasse un salto qualitativo nel degrado cerebrale della sinistra francese.
Siria, Venezuela: questi due esempi illustrano le devastazione causati dalla mancanza di analisi unita alla codardia politica. Tutto avviene come se le forze vive di questo Paese fossero state anestetizzate da chissà quale sedativo. Partito dalle sfere della “sinistra di governo”, l’allineamento alla doxa diffusa dai media dominanti è generale. Convertita al neoliberismo mondializzato, la vecchia socialdemocrazia non si è accontentata di sparare alla schiena degli ex compagni del Sud, si è anche sparata nei piedi.
(…)
Potrà anche rompere con la socialdemocrazia, ma questa sinistra aderisce alla visione occidentale del mondo e al suo dirittumanismo a geometria variabile. La sua visione delle relazioni internazionali è direttamente importata dalla doxa pseudo-umanista che divide il mondo in simpatiche democrazie (i nostri amici) e abominevoli dittature (i nostri nemici). Etnocentrica, guarda dall’alto l’antimperialismo lascito del nazionalismo rivoluzionario del Terzo Mondo e del movimento comunista internazionale. Invece di studiare Ho Chi Min, Lumumba, Mandela, Castro, Nasser, Che Guevara, Chavez, Morales, legge “Marianne” [una sorta di “l’Espresso” francese – n.d.t.] e guarda France 24 [la Rainews24 francese – n.d.t.]. Pensa che ci siano i buoni e i cattivi, che i buoni ci somigliano e che bisogna bastonare i cattivi. È indignata – o disturbata – quando un capo della destra venezuelana, formata negli USA dai neoconservatori per eliminare il chavismo, viene incarcerato per aver tentato un colpo di Stato. Ma è incapace di spiegare le ragioni della crisi economica e politica del Venezuela. Per evitare le critiche, è restia a spiegare come il blocco degli approvvigionamenti sia stato provocato da una borghesia importatrice che traffica con i dollari e organizza la paralisi delle reti di distribuzione sperando di abbattere il legittimo presidente Maduro.
Indifferente ai movimenti di fondo, questa sinistra si contenta di partecipare all’agitazione di superficie. In preda a una sorta di scherzo pascaliano che la distrae dall’essenziale, essa ignora il peso delle strutture. Per lei, la politica non è un campo di forze, ma un teatro di ombre. Parteggia per le minoranze oppresse di tutto il mondo dimenticando di domandarsi perché certe sono visibili e altre no. Preferisce i Curdi siriani ai Siriani tout court perché sono una minoranza, senza vedere che questa preferenza serve alla loro strumentalizzazione da parte di Washington che ne fa delle suppellettili e prepara uno smembramento della Siria conformemente al progetto neo-conservatore. Rifiuta di vedere che il rispetto della sovranità degli Stati non è una questione accessoria, che è la rivendicazione principale dei popoli di fronte alle pretese egemoniche di un occidente vassallo di Washington, e che l’ideologia dei diritti umani e la difesa del LGBT serve spesso come paravento per un interventismo occidentale che si interessa soprattutto agli idrocarburi e alle ricchezze minerarie.
(…)
Drogata di “moralina”, intossicata da formalismo piccolo-borghese, la sinistra radical-chic firma petizioni, intenta processi e lancia anatemi contro i capi di Stato che hanno la brutta abitudine di difendere la sovranità del proprio Paese. Questo manicheismo le impedisce il compito di analizzare ciascuna situazione concreta e di guardare oltre il proprio naso. Pensa che il mondo sia uno, omogeneo, attraversato dalle stesse idee, come se tutte le società obbedissero agli stessi principi antropologici, evolvessero secondo gli stessi ritmi. Confonde volentieri il diritto dei popoli all’autodeterminazione e il dovere degli Stati di conformarsi ai requisiti di un Occidente che si erge a giudice supremo. Fa pensare all’abolizionismo europeo del XIX secolo, che voleva sopprimere la schiavitù presso gli indigeni, portando la luce della civiltà con la canna del fucile. La sinistra dovrebbe sapere che l’inferno dell’imperialismo oggi, come il colonialismo ieri, è sempre lastricato di buone intenzioni. Nel momento dell’invasione occidentale dell’Afghanistan, nel 2001, non abbiamo mai letto tanti articoli, nella stampa progressista, sull’oppressione delle donne afghane e sull’imperativo morale della loro liberazione. Dopo 15 anni di emancipazione femminile al cannone 105, queste sono più coperte e analfabete che mai.”

Da 1973-2017 : il collasso ideologico della “sinistra” francese (ed europea), di Bruno Guigue.

Democrazia vs Oligarchia

Un luogo comune stancamente e pigramente ripetuto fa nascere la “democrazia” nell’antica Grecia e più in particolare nell’antica Atene, scriveva nel 2006 il compianto Costanzo Preve nel suo “Elogio del comunitarismo”

“…si trattava di una democrazia non tanto caratterizzata dal formalismo procedurale, che pure era presente, ma da un fatto sostanziale e contenutistico, e cioè dalla prevalenza del demos, che era certamente anche un corpo elettorale attivo e passivo, ma che era soprattutto l’insieme sociale dei più poveri, come del resto Aristotele dice in modo chiarissimo e inequivocabile. La democrazia greca era dunque non una forma di “sanzione giuridica” della disuaglianza sociale più estrema, come è oggi nella sua caricatura occidentalistica, ma era una forma di “intervento politico correttivo” su questa disuguaglianza. Ed infatti, i democratici antichi lo capivano benissimo, perché la forma politica contraria cui si opponevano era appunto l’oligarchia, il dominio dei pochi che erano anche i più ricchi.
Il contrario della democrazia era dunque l’oligarchia, e solo l’oligarchia. Solo dopo le guerre persiane, e soprattutto durante la preparazione ideologica dell’aggressione di Alessandro il Macedone contro l’impero persiano, l’opposizione ideologica fu simbolicamente “spostata”, e la dicotomia non fu più Democrazia contro Oligarchia, ma diventò Libertà dei Greci contro Tirannide Orientale. Tutti gli storici dell’antichità conoscono ovviamente questo spostamento ideologico, ma in genere lo sottovalutano. E questo non è un caso, perché la recente polemica ideologica del liberalismo moderno contro il dispotismo feudale, signorile, assolutista e religioso viene retrodata simbolicamente all’antichità classica. Il nemico della democrazia non è più lo scatenamento oligarchico della ricchezza illimitata e incontrollata, la cui dinamica porta infallibilmente alla dissoluzione di ogni comunità, ma è il sovrano orientale di Persepoli. Qualcosa del genere, come si sa, accadde anche nel secolo appena trascorso, in cui il nemico della democrazia era la tirannia comunista, non la concentrazione oligarchica delle ricchezze finanziarie.
Il fatto più curioso e paradossale in questo spostamento sta in ciò, che proprio quando il nemico della democrazia non era più l’oligarchia, bensì il dispotismo orientale, la democrazia stessa era finita, e i nuovi dispotismi, prima dei regni ellenistici e poi dell’impero romano, si imponevano svuotando di ogni contenuto la decisione politica delle comunità democratiche. E come oggi il cosiddetto “capitalismo compassionevole” si candida a sostituire il welfare state, allo stesso modo allora al posto della decisione politica comunitaria in favore del demos si imponeva la pura beneficenza dall’alto (everghetismo).”

In dialogo con Giancarlo Paciello

Proponiamo ai nostri lettori le risposte fornite dall’amico Giancarlo Paciello a quattro domande che gli abbiamo sottoposto a seguito della pubblicazione del suo No alla globalizzazione dell’indifferenza, presso l’editrice Petite Plaisance.
Buona lettura!

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Caro Federico, a tener conto dei punti interrogativi mi poni quattro domande. Le domande che mi fai sono decisamente di più. Ripercorrerò perciò il tuo testo e cercherò di rispondere, cercando di includere tutto, ove possibile, nel quadro della riflessione che mi ha spinto a scrivere No alla globalizzazione dell’indifferenza.
La genesi del libro, come si legge nella premessa, da te molto gentilmente pubblicata nel tuo blog, è la richiesta esplicita di mia figlia, che dopo aver letto le mie considerazioni sull’assassinio di Gheddafi nell’ottobre del 2011, mi sollecitava ad esporre le mie convinzioni universalistiche chiaramente inconciliabili con una teoria dei diritti umani del tutto prona agli interessi dell’imperialismo statunitense. Certo di poter contare sul sostegno del mio amico, ma soprattutto grande filosofo, Costanzo Preve, accettai la sfida.
Ma, l’uomo propone e … dio dispone!
Il 23 novembre del 2013, Costanzo, provato da tutta una serie di vicissitudini ospedaliere, ci ha lasciato e io mi sono trovato, da solo, di fronte al problema. Il compito restava dei più difficili, anche se la collaborazione con Costanzo, sulla base prevalente di una corrispondenza epistolare e qualche mia scappata a Torino, dove vive mia figlia, mi aveva però permesso di gettare le basi per un solido saggio di risposta alla sollecitazione filiale.
Ho riordinato le idee e pazientemente ho affrontato uno studio sull’universalismo, che faceva comunque parte del mio bagaglio culturale. Senza mai allontanarmi dalla storia, e recuperando i termini di una polemica filosofica di oltre duemila e cinquecento anni. L’intento dichiarato era quello di gettare un ponte fra la mia cultura, formatasi all’interno della Guerra Fredda e quella di mia figlia e dei suoi coetanei, che si era andata determinando all’interno della globalizzazione. Due cicli storici a dir poco antitetici, il secondo dei quali, quello che stiamo vivendo, caratterizzato da un individualismo sfrenato.
E il capitolo iniziale “Da un ciclo storico all’altro” costituisce la struttura portante di tutta l’argomentazione del libro, anticapitalistica e anticrematistica in senso assoluto, contro un capitalismo che ha raggiunto livelli di pericolosità per la specie umana che neanche la follia delle bombe di Hiroshima e Nagasaki potevano far ipotizzare. Continua a leggere

Il pericolo rosso

Questo lavoro cerca di ricostruire la storia del nostro Paese nel periodo compreso fra la guerra civile del 1943-45 e il 1969, inizio della strategia della tensione, avendo come filo conduttore i rapporti fra DC, PCI, MSI e i loro referenti internazionali, alla luce dell’attività “coperta” delle organizzazioni paramilitari clandestine. Questi partiti ideologicamente forti disponevano di apparati di sicurezza e sistemi logistici attivabili in situazioni di emergenza; ciò pone problemi di enorme rilievo in merito al punto centrale, in uno Stato democratico, relativo all’esercizio del monopolio della forza. Pone anche il problema dello “spazio” reale in cui si esercita la sovranità dei cittadini, laddove l’esistenza di strutture paramilitari clandestine pone dei limiti che nemmeno l’esercizio del diritto di voto può far superare.
Da un lato i comunisti, con i loro apparati paramilitari riorganizzati con l’aiuto di Mosca, nati dalle costole del combattentismo partigiano, protetti e finanziati dall’URSS. Dall’altro il variegato e contraddittorio fronte anticomunista, con le sue strutture ricostituite sotto la supervisione degli anglo-americani: la Gladio quale evoluzione delle formazioni partigiane cattoliche e la rete di strutture a essa collegate; la “Gladio nera”, sofisticata evoluzione del radicalismo fascista “utilizzata” dall’anticomunismo di marca atlantica per operazioni illegittime e illegali: nel loro insieme, esse hanno tenuto in stallo la democrazia italiana per mezzo secolo.

Pietro Neglie è professore associato di Storia contemporanea all’Università di Trieste, corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche di Gorizia. Studioso del movimento sindacale, del fascismo e del comunismo, si è occupato a lungo dei complessi rapporti tra fascisti e comunisti. Direttore della Fondazione Giuseppe Di Vittorio dal 1992 al 2002, è attualmente consigliere di amministrazione della Fondazione Bruno Buozzi.
Fra le opere più significative: Fratelli in camicia nera. Comunisti e fascisti dal corporativismo alla CGIL 1928-1948, il Mulino, Bologna, 1996; Un secolo di Anti-Europa. Classe, nazione e razza: la sfida totalitaria, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2003; La stagione del disgelo. Il Vaticano, l’Unione Sovietica e la politica di centro sinistra in Italia (1958-1963), Cantagalli, Siena, 2009.

Il pericolo rosso. Comunisti, cattolici e fascisti fra legalità ed eversione 1943 – 1969,
di Pietro Neglie
Luni Editrice, pp. 384, € 25

La Russia, un baluardo contro l’Impero

“Lo scenario politico internazionale nella nostra epoca può forse avere qualche analogia con quello realizzatosi alla vigilia della prima guerra mondiale, ma le divergenze sono di gran lunga più numerose delle somiglianze. A quel tempo esistevano numerose grandi potenze, ciascuna al centro di un impero coloniale. Queste potenze da un lato avevano aspirazioni egemoniche ma non universalistiche (la Germania voleva strappare colonie al Regno Unito, assaltare il “potere mondiale”, ma non conquistare il Regno Unito), dall’altro tendevano a formare blocchi di alleanze, concentrazioni di forza economica, politica e militare in linea di massima equivalenti. Era l’età degli imperialismi. Oggi esiste un solo centro di potere mondiale le cui ambizioni territoriali, economiche e culturali sono illimitate: è l’età dell’Impero. Ignorare, nel 2017, l’esistenza di questo sistema di potere, significa farsi sfuggire non un dettaglio, ma la caratteristica capitale del mondo contemporaneo, caratteristica peraltro già indagata in lungo ed in largo da decenni.
Cos’ è l’Impero?
(…)
E’ la “democrazia totalitaria” profetizzata da Alexander Zinov’ev nel 1999 ed oggi pienamente realizzata. Per quanto ciò sembri paradossale il cosiddetto “totalitarismo” (nel senso di assorbimento totale di ogni aspetto della vita umana in un’unica dimensione economica, politica, ideologica ed etica), strumento concettuale brandito dal liberalismo per legittimarsi, non si è mai realizzato in forma storicamente tanto perfetta quanto lo è oggi, sotto l’Impero del liberalismo stesso.
Questi i tratti essenziali, a cui è utile aggiungere alcuni importanti dettagli.
Nel tempo dell’Impero esistono ancora, di nome, imperialismo, fascismo, ed estremismo religioso. Ma si tratta di copie sbiadite degli omonimi fenomeni del secolo scorso. Di zombie che l’Impero utilizza per conseguire i suoi fini. La stessa “nazione indispensabile”, gli Stati Uniti d’America, non può adottare indirizzi strategici contrastanti con le logiche del potere globale, senza precipitare (come mostra il caso Trump) in una gravissima crisi istituzionale. La dirigenza americana inclina pericolosamente verso il protezionismo? Sarà la centrale europea a far da sponda, fino a che i globalisti d’oltre atlantico non avranno “risolto”, con le buone o con le cattive, l’errore di percorso. L’Impero uniforme ed orizzontale non teme nessuna crisi locale.
Ove si presentano aree di resistenza economica, politica e culturale, l’Impero interverrà suscitando nazionalismo, fondamentalismo o terrorismo, che verranno utilizzati di volta in volta per frantumare e digerire queste sacche (Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina…) o per alimentare la lealtà ed il conformismo delle popolazioni terrorizzate. Ove la guerra ibrida non sia possibile o conveniente, e l’ Impero sia costretto ad un intervento diretto, lo strumento utilizzato non sarà la “guerra” che presuppone un riconoscimento implicito del nemico, ma l’“operazione di polizia internazionale” espressione che abolisce la politica estera declassandola a questione di ordine pubblico discendente da un’unica fonte di legittimazione imperiale. La convergenza ideale e pratica arancio – bruno – verde fra certi ambienti liberal atlantici, la manovalanza neofascista ucraina ed i mangiatori di cuori siriani è solo apparentemente incongrua: nella realtà si tratta di strumenti di potere decisamente integrabili che l’Impero utilizza simultaneamente a diversi livelli.
Poi c’è la questione della sproporzione delle forze: un immenso divario che è militare, ma soprattutto economico, politico e mediatico. Per misurarla è utile osservare la proiezione dello schieramento della NATO dalla Germania Ovest fino al ventre molle della profondità strategica russa, ricordare che il blocco atlantico supera la Russia di quattro volte per popolazione, di dieci volte per spesa militare, di venti volte per potenza economica. E’ utile ma non è sufficiente, perché in realtà la superiorità dell’Impero trascende la realtà della NATO, estendendosi a tutte le organizzazioni e le formazioni internazionali costituite intorno ad esso, di cui l’Impero detiene un pacchetto di controllo che gli consente di usarle a piacere. Alla luce di queste considerazioni è chiaro che non esiste alcuno scontro fra “opposti imperialismi”.
Volendo a tutti i costi utilizzare le categorizzazioni leniniste, la Russia odierna dovrebbe piuttosto collocarsi nella categoria delle “semi colonie” (Persia, Cina, Turchia, nella classificazione di Lenin, che scriveva nel 1916…): quella dei paesi parzialmente egemonizzati che lottano per conservare margini di autonomia politica. In questi casi Lenin era categorico: la borghesia della nazione oppressa deve essere sostenuta nella propria lotta contro la nazione opprimente, ed avversata nella lotta contro il proprio proletariato: “In quanto la borghesia della nazione oppressa lotta contro quella della nazione che opprime, noi siamo sempre, in tutti casi, più risolutamente di ogni altro, in favore di questa lotta, perché noi siamo i nemici più implacabili, più coerenti dell’oppressione. In quanto la borghesia della nazione oppressa difende il proprio nazionalismo borghese, noi siamo contro di essa. Lotta contro i privilegi e le violenze della nazione che opprime; nessuna tolleranza per l’aspirazione della nazione oppressa a conquistare dei privilegi.”. E ancora: “Se noi non ponessimo la rivendicazione dl diritto delle nazioni all’autodecisione, se non agitassimo questa parola d’ordine, aiuteremmo non solo la borghesia, ma anche i feudali e l’assolutismo della nazione che opprime.”
In conclusione la questione si pone esattamente nei termini prospettati da Preve: riconosciuta la (onni)presenza e l’esistenza dell’Impero “liquido” “orizzontale” “globale” dei nostri giorni, occorre decidere se collaborare arrendendosi (è la soluzione implicitamente scelta da Negri-Hardt) o resistergli. E se si decide di resistere si incontra Putin.
Forse voi “di sinistra”, prima di incontrare Putin a questo punto del mio ragionamento, lo avete avvistato altrove, in posti a voi cari. Ad esempio potreste averlo trovato nel Venezuela bolivarista, mentre concorda politiche energetiche con il governo locale o mentre fornisce grano e cooperazione politica e militare. Oppure a Cuba, mentre annulla il 90% dei debiti del Paese verso la Russia. O in Corea del Nord: il mondo accerchia Pjongjang, Putin manda un segnale, aprendo una nuova linea di traghetti con Vladivostok. E ancora in Donbass, in Siria, nelle Filippine. Ovunque l’Impero non riesca ad affermarsi proiettando la luce della propria potenza, si trova Putin. Putin è il rovescio, è l’ombra della globalizzazione.
E’ facile immaginare cosa accadrebbe a queste realtà di resistenza locale il giorno in cui un Maidan moscovita abbattesse lo Zar: sarebbero immediatamente soverchiate, schiacciate annichilite. La stesso pensiero di un altrove, di un altro tempo, soppresso negli anni novanta, recentemente riaffiorato, verrebbe inghiottito nel buco nero del pensiero unico. Putin è l’assillo, il rovello, l’ossessione, lo spettro dei media mainstream. Nella rappresentazione dei nostri organi di informazione Putin è onnipotente, è ovunque, è il male che si annida nel sistema, perché la sua stessa esistenza ne mette a nudo le negate criticità. Il vostro nemico lo sa bene che Putin è dalla vostra parte: e voi no?”

Da A sinistra, con Putin!, di Marco Bordoni.

Le due “Americhe”


“Non viene mai capito che in realtà esistono due “Americhe”: una le cui ricchezze sono più che raddoppiate attraverso l’aumento di valore della ricchezza – beni di proprietà e strumenti finanziari – e l’altra che ha sperimentato un piccolo aumento di ricchezza ma nel contempo ha sofferto in modo esorbitante i mali che egli [Nicholas Eberstadt – n.d.c.] elenca. Così, egli enuncia la seguente proposizione: “La possibilità delle diseguaglianze non preoccupa molto l’ordinario americano. La reale insicurezza dell’economia sì. Il Grande Ascensore Sociale Americano è rotto – e c’è un urgente bisogno che venga riparato.
Naturalmente la diseguaglianza importa alla gente. E’ per questo che esso è distante dai politici convenzionali. E’ per questo che ha una così bassa opinione di quasi tutte le istituzioni americane. E’ per questo che così molti hanno votato per Trump.
E per ciò che riguarda l’Ascensore Sociale, esso non è rotto perché la crescita è in declino o i lavoratori hanno troppi diritti (Eberstadt ha scritto un libro su questo “problema”), ma perché una classe sistematicamente ruba la ricchezza dalle altre ed ha ogni intenzione di continuare il furto.
A differenza di coloro che dibattono sull’ingerenza russa o sulle cospirazioni dell’estrema sinistra come cause della vittoria di Trump, Eberstadt è attento ai fattori reali ed oggettivi che hanno portato molti elettori a voltare la schiena ai programmi delle elites. Trump (e Sanders) derivano la loro popolarità dall’insoddisfazione delle masse nei confronti della politica convenzionale.
Con Trump, gli elettori hanno optato per il nebuloso, mitizzato e distorto ricordo di un’epoca d’oro del dopoguerra quando sembrava che il lavoro abbondasse, i salari crescessero con la produttività e i privilegi fossero relativamente generosi. Case di proprietà, beni di consumo e divertimento sembravano essere illimitati. Sfortunatamente, molti associano quell’epoca la supremazia bianca, alla dominazione maschilista e all’orgoglio nazionalista. Nonostante le promesse di Trump, quell’epoca non era né d’oro né è possibile riportarla in vita. Il suo tempo è passato. I compromessi della Guerra Fredda non sono più sull’agenda da molto.
E gli elettori di Sanders, in modo simile, esprimono il loro voto per una immaginaria socialdemocrazia che associano all’Europa – Stato assistenziale, sanità universale, istruzione alla portata di tutti, ecc. Ma la storia degli ultimi decenni dimostra che il capitalismo non può e non vuole oggi coesistere coi pur tiepidi programmi del centrosinistra. L’epoca “gloriosa” della socialdemocrazia europea è anch’essa una mera chimera, la quale può essere rivista solo in un viaggio nella memoria. Anche quel progetto sociale era una rimanenza del mondo bipolare quando la “minaccia” del Comunismo esigeva un capitalismo più gentile e mite.
Date le possibilità offerte, non è sorprendente che un elettorato arrabbiato si sia affidato alla demagogia e all’astrattezza. Il prossimo passo è quello di creare un nuovo apparato di istituzioni che sostituiscano quelle screditate, un nuovo apparato di istituzioni che servano il popolo. Ma a sbarrare il passo ci sono una finta democrazia e i monopoli del capitale.”

Da Una riflessione sobria sul trumpismo?, di Zoltan Zigedy.

San Pietroburgo, 3 aprile 2017

Pax romana o pax barbarica?

paxamericana

Karl Marx al tempo della (declinante) egemonia globale USA

“Dal tempo di Agostino di Ippona, ma anche prima, il discorso della pax romana è sempre lo stesso. Certo, avevano ragione il cartaginese Asdrubale ed il celta Vercingetorige a difendere le loro comunità aggredite dai romani, ma alla fine l’impero è stato “provvidenziale” perché ha unificato il mondo (o almeno un pezzo di mondo che allora andava dalla Scozia al Golfo Persico). E su questa unificazione, sia pure conseguita con l’ingiustizia, le lacrime ed il sangue, può in un secondo momento innestarsi la rivelazione cristiana, che forse sarebbe stata impossibile in un mondo diviso fra Annibale, Vercingetorige, Mitridate, Porsenna, Pirro e Cleopatra.
La longue durée di questa concezione imperiale provvidenzialistica si chiama oggi americanismo, e nel nostro caso più esattamente “americanismo di sinistra”. Questa concezione ovviamente si presenta (apparentemente) divisa in molte varianti, unificate però tutte da un triplice codice teorico: approvazione della globalizzazione come possibile risorsa da rovesciare (e dunque New Global e non No Global), rifiuto della questione nazionale e confinamento della questione comunitaria a folklore protetto da ONG assistenziali di lingua rigorosamente inglese.
Su questa base ovviamente l’americanismo di sinistra confligge con quello di destra, e dunque Toni Negri confligge con Giuliano Ferrara. Ma si tratta a mio avviso di scontri tattici congiunturali all’interno di un’unica strategia storica. Bush può essere (ed è) un arrogante petroliere fondamentalista, ma se l’impero promuove la globalizzazione (e dunque distrugge le nazioni e le comunità) allora il suo ruolo resta contraddittoriamente provvidenziale. Qui le scuole operaiste del marxismo del general intellect, che per ragioni storiche ben ricostruibili hanno sempre trovato nell’Italia una terra di elezione particolare, possono incontrare la corrente culturale futurista e modernizzante di cui la “sinistra” è un vettore privilegiato. Questo marxismo-futurismo giocherà sulla pax americana, anche se ovviamente non cesserà mai di strillare sui suoi cosiddetti “eccessi”.
Voglio esprimermi in modo chiaro ed univoco. Marx è sopravvissuto a Kautsky, a Stalin, a Mao ed a Gorbaciov. Ma Marx potrebbe questa volta non sopravvivere alla sua incorporazione nel partito imperiale americano. Mi sembra chiaro come il sole che la classe operaia di fabbrica occidentale e le classi contadine povere orientali non erano, e non potevano essere, delle classi capaci di una transizione inter-modale strategica dal capitalismo al comunismo, e considero chi continua a sostenerlo non solo un Eremita, ma addirittura un Eremita Scemo. Dio ci guardi dagli ultimi uomini nichilisti e dagli uomini superiori radicalchic, ma ci guardi anche dagli eremiti scemi. Ma Marx può sopravvivere al ragionevole sbaglio dell’investimento metafisico in gruppi sociali magari simpatici ma subalterni come la classe operaia di fabbrica o la classe contadina povera, ma non potrebbe sopravvivere alla sua incorporazione nelle cosiddette moltitudini disobbedienti e desideranti, per il fatto che queste moltitudini sono già la forma antropologica assunta dall’impero, con la semplice differenza che queste moltitudini sognano di consumare senza pagare. Chi non ha ancora capito perché il New York Times, organo imperiale dell’alta finanza sionista, abbia prima giudicato il libro sull’impero di Negri e di Hardt come il punto più alto del marxismo del Terzo Millennio ed abbia poi definito il disordinato movimento pacifista la seconda superpotenza mondiale, deve essere giudicato un caso incurabile di scemenza teorica addirittura sublime.
Marx può sopravvivere a mio avviso solo se sapremo assumere la pax barbarica come il solo orizzonte praticabile dei prossimi decenni. Vi sarebbero centinaia di pagine in proposito da scrivere. Ma per ora, come dicevano i latini, intelligenti pauca.”

Da Marx e Nietzsche di Costanzo Preve, pp. 51-52.
Il saggio, edito nel 2004, può essere liberamente scaricato qui.

Se la lunga guerra fra Marx e Nietzsche è finita, e solo degli eremiti incorreggibili (peraltro largamente sostenuti dal circo identitario politico, universitario ed editoriale) vogliono continuare a combatterla, inizia invece l’epoca della resistenza. È una nuova guerra, veramente, ma data la sproporzione economica e militare essa si gioca per ora nei cuori e nelle menti. Si tratta dei cuori e delle menti che accettano l’impero americano, quasi sempre trasfigurato nell’immagine provvidenziale della pax romana, e delle menti e dei cuori che invece per ora avvertono in modo ancora confuso, ma sempre di più avvertiranno in modo chiaro e razionale, che l’accettazione dell’impero americano è semplicemente la morte di ogni civiltà.