Prigionieri del fuori

Spigolature da una intervista a Marco Adorni, curatore con Fabrizio Capoccetti di “Prigionieri del fuori. Ordine neoliberale e immigrazione”, BFS edizioni.

“Il dibattito pubblico sulle migrazioni è spesso attraversato da petizioni di principio, come l’idea che, siccome le civiltà sono nate dall’incontro, allora ogni limite (culturale, confessionale, sociale, economico, ecc.) è il male. In un’argomentazione di questo tipo si omette una parte importante della storia del genere umano: il fatto che l’incontro con l’altro non sia mai stato qualcosa di semplice, naturale e pacifico; inoltre, non ci si avvede che la logica no borders è quanto di più utile al neo-liberismo: che cos’è il potere odierno se non una forza sociale transnazionale che sconvolge i confini, abbatte ogni limite, devasta il diritto, privatizza il pubblico, agendo unicamente per incrementare la propria potenza? Per cui, l’immigrazione è tutto tranne che un fenomeno neutrale.”

“Carl Schmitt definiva il ‘politico’ ciò che dava forma e organizzazione all’unità politica in quanto tale, un pouvoir neutre senza cui la lotta politica sarebbe scomparsa. Ma la neutralizzazione di cui parlava il giurista tedesco non ha a che fare con quella attuale, caratterizzata da un potere ontologico, poiché si produce nell’annientamento stesso dello Stato, cioè dell’unità politica, a tutto vantaggio della logica del capitale contemporaneo, che è quella di transnazionalizzare, cioè trovare radicamento stabile nel ‘fuori’, nell’eccezione permanente (ove risiede la vera sovranità globale). Occorre comprendere che non siamo più cittadini di Stati democratici, ma soggetti passivi che vivono e lavorano in uno spazio astratto, un ‘oltre Stato’ anomico e invisibile, dove formazioni predatorie dotate di competenze e strumenti, composte da specialisti e uomini di governo, possono dominare indisturbate, precarizzando lavoro e diritti, inquinando l’ambiente e costringendo centinaia di migliaia di persone prive di cittadinanza a spostarsi continuamente, mettendo così a rischio quel poco che resta degli Stati territoriali e della loro sovranità. Che cosa sono, dunque, i migranti? La prefigurazione di ciò che stiamo diventando tutti: prigionieri del ‘fuori’.”

“Perché non si prova a interrogarsi sulle ragioni geopolitiche dei movimenti umani? Perché non si prova ad affrontare politicamente il fallimento di gran parte degli Stati africani o la loro totale soggezione al potere delle multinazionali occidentali? Perché non di cerca di risolvere il problema dei migranti aiutandoli ‘a casa loro’ – il che non significa realizzarvi campi di concentramento? Perché sono proprio il caos e l’assenza degli Stati a permettere l’estrazione di enormi fortune dai territori di partenza delle masse di disperati verso l’Europa. Ora, bisogna ‘creare dei confini’, che permettano di restituire identità a queste masse umane, e dentro tali confini istituirvi Stati democratici e funzionanti; ciò implicherebbe automaticamente occuparsi anche dei nostri confini, cioè del ‘noi’ e del nostro altrettanto legittimo bisogno di sicurezza e ordine: ogni luogo è unico e unico è ogni popolo.”

“Non credo, sinceramente, che si riuscirà, in questa situazione, a costruire un discorso differente sull’immigrazione, almeno finché, soprattutto a sinistra, non si smetterà di depoliticizzare la riflessione etica, il dibattito pubblico, l’economia e la società italiana. Parlare di accoglienza di migranti senza affrontare la questione del lavoro, la precarizzazione della vita in tutti i suoi aspetti, l’impunità imperante e la crisi dello Stato di diritto, non farà che rafforzare l’identificazione tra la sinistra e il potere.”

Fonte: Eurasia. Rivista di studi geopolitici, n. 3/2018, pp. 183-188.

Bill & Melinda Gates Foundation: la filantropia come strumento di potere globale

foundation-jpg“Già Oscar Wilde nel suo “L’anima dell’uomo sotto al socialismo” aveva colto ed evidenziato il paradosso di un sistema, quello capitalista, che genera sia delle feroci diseguaglianze che la filantropia, falsamente determinata a risolverle. “I migliori tra i poveri – scrisse Wilde – non sono mai riconoscenti [ai benefattori n.d.r.]. Sono scontenti, ingrati, disobbedienti e ribelli, e hanno ragione di esserlo. […] Perché dovrebbero essere grati delle briciole che cadono dalla mensa del ricco? Dovrebbero esser seduti intorno al tavolo con gli altri commensali condividendo la festa!”.
Utilizzando l’immagine dei super-ricchi in abbuffata e delle briciole che cadono dalla tavola, Oscar Wilde è riuscito – forse senza neppure esserne consapevole – a raffigurare plasticamente l’assurdità della cosiddetta “trickle-down theory” (letteralmente teoria dell’effetto del gocciolamento), in seguito smentita dalla storia e da schiere di premi Nobel. Purtroppo ritorna ciclicamente in auge per bocca degli entusiasti del capitalismo, secondo i quali viviamo nel migliore dei mondi possibili. La loro argomentazione è tanto semplice quanto imbarazzante per la sua fallacia: ciò che importa è la crescita economica, a prescindere dall’aspetto distributivo e di governance della ricchezza prodotta, poiché – sempre secondo tali entusiasti del modello capitalista – una crescita economica in valore assoluto aumenterà proporzionalmente anche il numero di briciole che cadranno dalla mensa dei capitalisti. Questo è il massimo della giustizia sociale che riescono ad immaginare ed è il primo pilastro teorico che sostiene la filantropia nella nostra epoca. Una carità “compatibile” al sistema, che non sconvolga l’ordine sociale capitalista, la sua organizzazione del lavoro, della produzione e della proprietà.
L’attuale tendenza che sta travolgendo il mondo della cooperazione, definita nel titolo filantrocapitalismo, sarà analizzata prendendo ad esempio il caso più eclatante e quantitativamente imponente: il ruolo della fondazione Bill e Melinda Gates (Microsoft Corporation) nella governance di uno dei settori più importanti della cooperazione internazionale, ovvero la salute globale.
La Bill & Melinda Gates Foundation (BMGF o The Gates Foundation) è una delle più grandi fondazioni private al mondo. Prende il nome dai loro fondatori Bill Gates e sua moglie Melinda French, sebbene la direzione sia affidata anche a un terzo fiduciario, Warren Buffet. Quest’ultimo è un business-man americano, considerato uno degli investitori di maggior successo del ventesimo secolo, onnipresente nelle liste degli uomini più ricchi del mondo e tuttora uno dei più influenti “potenti” del pianeta.
(…)
Il modello filantropico di Gates non intende rendere il mondo del business più caritatevole quanto piuttosto rendere il mondo della carità il più simile possibile a quello del business: un universo di piccole ONG che competono tra loro per accaparrarsi i fondi – sulla base di parametri econometrici aziendalistici – messi a disposizioni dai big (tipo la BMGF) che dettano contemporaneamente anche l’indirizzo globale delle politiche umanitarie, materia per materia. Come dicevamo, il sogno del grande capitale di gestire brevi manu le relazioni internazionali controllabili tramite soft power e dunque abbandonare la mediazione degli stati e quella delle agenzie multilaterali (che hanno dominato la cooperazione internazionale nel secolo scorso) si è fatto realtà.
IMG_2301Secondo i Gates i migliori risultati sono raggiungibili attraverso progetti finanziati “verticalmente” – interventi targettizzati su specifiche malattie – bypassando largamente gli esistenti sistemi sanitari nazionali e limitando, di fatto, lo sviluppo di nuovi nel sud del mondo. Viceversa, un modello di integrazione “orizzontale” con i sistemi sanitari pubblici non paga agli occhi dei venture philanthropists, che vogliono un pay-off misurabile velocemente e di grande impatto, specie per il proprio capitale reputazionale. Ciò sta contribuendo alla diffusione massiccia nel sud del mondo di sistemi sanitari “all’americana”. Quando nei prossimi decenni gli aiuti internazionali saranno ragionevolmente ridotti, o comunque la volatilità di questi non consentirà di garantire la stabilità dell’assistenza primaria di base, i principi di eguaglianza ed universalità del diritto alle cure resteranno fuori la porta insieme a chi non è provvisto di assicurazione sanitaria privata. Avendo ostacolato senza mezzi termini la costituzione e lo sviluppo dei sistemi sanitari pubblici, la fondazione Gates ha contribuito a mantenere un regime di dipendenza che vincola la salute dei popoli del sud del mondo alla presunta generosità dei super-ricchi di turno in Occidente.
(…)
La “venture philanthropy” è il risultato di un sistema iniquo che favorisce enormi ricchezze e atroci disparità: tagliando contemporaneamente le tasse per i super ricchi e gli investimenti in servizi sociali e sanitari pubblici il sistema crea allo stesso tempo la capacità della filantropia privata e il bisogno di questa. Appellarci alla generosità dei miliardari non è la soluzione per la salute globale, così come per lo sviluppo dei paesi del sud del mondo in generale. Occorre un sistema che non crei mega-miliardari e il bisogno della loro generosità per redistribuire le briciole. Il filantrocapitalismo non rappresenta soltanto un utile “distrazione di massa” ma un pericoloso deterrente per eventuali cambiamenti – anche solo in senso riformista – di politica economica.
(…)
E’ stata venduta al mondo l’idea che la soluzione ai problemi dell’umanità sia la filantropia, quando in realtà è una parte significativamente rappresentativa del problema. Il mondo della cooperazione tutto si sta mettendo in riga di fronte all’affermazione di questo modello; la fondazione Gates ha regolare accesso ai leaders globali e finanzia quotidianamente centinaia di università, organizzazioni internazionali, ONG e media. Può contare sulla sua forza economica per silenziare gli esperti dello sviluppo più critici ma generalmente non ce n’è bisogno, la sua voce è diventata la più influente nel mondo della cooperazione e sembrano tutti pronti ad allinearsi a questa. L’influenza della fondazione è così pervasiva da rendere impossibile per molti attori dello sviluppo esporsi pubblicamente contro le politiche promosse dai Gates fintanto che la loro esistenza materiale e quella delle loro organizzazioni dipende da questo colosso della carità business-friendly.”

Da Cooperazione internazionale e filantrocapitalismo: il caso più eclatante (II parte), di Marco Mercuri.

gal_6894

Vergogna su di lei, ministro Frattini

Qui la notizia.
La dinamica degli eventi puzza di bruciato lontano un miglio e la Farnesina non sa fare altro che puntualizzare che “i medici italiani in stato di fermo lavoravano in una struttura umanitaria non riconducibile né direttamente né indirettamente alle attività finanziate dalla cooperazione italiana”.
Già,
la cooperazione italiana in Afghanistan.

Da una parte le sparano sempre più grosse, dall’altra si dedicano alla loro specialità, il tiro al bersaglio sui civili
Washington, 11 aprile – Dopo la notizia che i tre italiani di Emergency avrebbero confessato di voler uccidere il governatore di Helmand, le autorità afghane, citate dalla CNN, hanno accusato gli stessi di aver ucciso nel 2007 l’interprete dell’inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, Adjmal Nashkbandi.
Mastrogiacomo venne rapito il 5 marzo 2007. Con lui c’erano l’autista Sayed Haga, ucciso immediatamente, e l’interprete Adjmal Nashkbandi. Dopo 14 giorni Mastrogiacomo fu rilasciato mentre il suo interprete, liberato ma subito ripreso dai talebani, fu ucciso dopo circa 20 giorni.
(AGI)

Kandahar, 12 aprile – Nuove accuse alla NATO per una strage di civili in Afghanistan. Il governo di Kabul ha puntato il dito contro le truppe dell’ISAF per aver aperto il fuoco contro un bus e aver ucciso quattro persone, tra cui una donna e un bambino, e averne ferite altre 18.
Secondo le autorità di Kandahar, dove è avvenuto l’incidente, i soldati hanno sparato quando il bus si è avvicinato a un convoglio militare.
(AGI)

Oggi, ieri, domani… le comiche!
Scena 1°: “Il magazzino supervisionato indirettamente”

Kabul, 12 aprile – “Pistole, giubotti esplosivi, radio e altro equipaggiamento sono stati trovati in un magazzino dell’ospedale di Emergency supervisionato indirettamente dagli italiani”. A ribadirlo è il portavoce del governatorato di Helmand, Daoud Ahmadi, in un’intervista ad AKI – ADNKRONOS INTERNATIONAL in cui parla del caso dei tre medici italiani di Emergency arrestati in Afghanistan, insieme a sei afghani, con l’accusa di aver parecipato a un presunto complotto per uccidere il governatore della provincia meridionale di Helmand, Gulab Mangal.
(Adnkronos/Aki)

Scena 2°: “Un caso di cattiva informazione”
Tirana, 12 aprile – Il presunto coinvolgimento degli italiani di Emergency in un attentato contro il governatore di Helmand “è stato un caso di cattiva informazione resa al mondo intero”. Cosi’ Franco Frattini da Tirana ha commentato le precisazioni del portavoce, Daoud Ahmadi. Il titolare della Farnesina, pur senza citarlo esplicitamente, ha accusato il britannico Times di aver dato “una notizia erronea” .
(AGI)

Ora la “libera stampa” si accorge che Matteo Dell’Aira di Emergency, nelle scorse settimane, aveva ripetutamente denunciato la condotta della soldataglia atlantista a Marjah e dintorni, come da noi subito segnalato su questo blog.
Giunge poi l’utile messa a fuoco del generale Fabio Mini (grassetto nostro):

Roma, 12 aprile – Una soffiata, la perquisizione, una scatola di esplosivo, una pistola, due bombe a mano attive e quattro inattive, gli agenti dei servizi che si portano dietro le telecamere, qualche soldato e poliziotto afgano e un paio di parà inglesi che si dirigono a colpo sicuro in una sala e fra decine di scatoloni individuano subito quelli sospetti.
Il generale Fabio Mini, ex capo del contingente NATO in Kosovo, commenta sulle pagine di Peacereporter l’arresto dei tre volontari di Emergency in Afghanistan sostenendo apertamente la tesi della vendetta politica da parte delle autorità locali, legata in parte al ruolo giocato dall’associazione nella liberazione del giornalista di Repubblica, Daniele Mastrogiacomo, finito nelle mani dei talebani. ”Ho già detto chiaramente in tempi non sospetti che Emergency avrebbe pagato caro il suo intervento politico nella vicenda Mastrogiacomo. Ora ci siamo”, scrive Mini. ”Un altro fatto concreto è il fastidio arrecato da Emergency alle forze internazionali e ai governanti afgani ogni volta che ne ha denunciato le nefandezze”. L’associazione di Gino Strada, prosegue Mini, ”è un punto di riferimento per chiunque abbia bisogno e quindi anche per i cosiddetti talebani”, mentre Helmand è ancora una roccaforte dei ribelli pashtun.
”’Dal punto di vista militare – è il ragionamento del generale – Emergency deve cessare di essere un testimone e un punto di riferimento per i ribelli. Tutti devono sapere che farsi ricoverare può essere l’anticamera dell’arresto che per gli afgani è sempre l’anticamera del cimitero. Inoltre, il governatore deve riacquistare peso dimostrando ai suoi e ai protettori inglesi che anche le organizzazioni internazionali e gli alleati italiani ce l’hanno con lui. Solo così può sperare di continuare a fare gli affari propri. Come ottenere tutto questo con un semplice coup di teatro – conclude Mini – è esattamente quello che si è visto finora”.
(ASCA)

Chi è il “terrorista”?
Roma, 12 aprile – Emergency torna a parlare di “sequestro” per gli operatori dell’organizzazione italiana prelevati sabato scorso dall’ospedale di Lashkar Gah, in Afghanistan.
“A questo punto possiamo parlare a tutti gli effetti di sequestro, dal momento che i tempi di un fermo legale sono scaduti”, ha detto il responsabile comunicazione di Emergency, Maso Notarianni. “Sono scadute le 72 ore di fermo senza che vi sia stato un fermo restrittivo o qualsiasi altra comunicazione e non ci risultano notifiche a nessuna procura afgana”, ha sottolineato.
(AGI)

“Qualcosa di molto insolito, quasi oscuro”
Roma, 13 aprile – Il corrispondente del Times dall’Afghanistan ha confermato a Peacereporter le parole del portavoce del governatore di Helmand, che al giornalista britannico aveva riferito di una presunta ammissione di colpa da parte dei tre volontari di Emergency arrestati.
”Ribadisco che in due occasioni ha detto che gli italiani hanno confessato ciò che veniva addebitato loro, ovvero il tentativo di organizzare un complotto per uccidere il governatore della provincia”, ha detto Jerome Starkey. ”La mia prima impressione è stata che si trattasse di una cosa insolita, ed io per primo sono rimasto fortemente sorpreso da una tale dichiarazione. Per questo gliel’ho chiesto una seconda volta. Lui ha risposto che gli italiani e gli altri avevano confessato il loro crimine”.
Il portavoce del governatore locale, secondo il giornalista, ha detto anche altre cose ”così bizzarre che non le abbiamo neppure pubblicate. Tra queste anche quella che alcuni medici ‘farabutti’ di Emergency avrebbero eseguito amputazioni non necessarie a poliziotti e soldati afgani. Questa cosa mi ha molto colpito, l’ho ritenuta talmente bizzarra da non ritenerla degna di pubblicazione”. A Peacereporter Starkey ha aggiunto che ”in Afghanistan, su accadimenti come questi, è sempre possibile che ci siano elementi a sostegno di una motivazione politica”.
Per il giornalista si tratta di ”qualcosa di molto insolito, direi quasi oscuro. Una cosa so, che uno dei tre italiani fermati, ogni qualvolta si presentava qualcuno armato, che si trattasse di polizia afgana, di militari NATO, li rimproverava aspramente. Mi meraviglierebbe davvero parecchio che uno così possa essere implicato in un complotto per fare fisicamente del male a un altro essere umano”.
(ASCA)

Italia, muoviti!
Roma, 14 aprile – ”L’Italia ha tutti i mezzi per poter dire semplicemente consegnateci i nostri tre connazionali subito e in ottime condizioni”. Lo ha dichiarato il fondatore di Emergency Gino Strada, intervistato da Sky Tg24, sottolineando che ”è ora che chi di dovere si dia una mossa”.
Per Strada si tratta ”chiaramente” di una ”manovra politica” per ”screditare il lavoro di Emergency”. Una manovra, secondo il fondatore dell’ong, ”molto offensiva per il nostro Paese”. Strada ha poi spiegato come non ci siano novità sul luogo in cui si trovano i tre operatori, Matteo Dell’Aira, Marco Garatti e Matteo Pagani: ”Non siamo mai stati informati da nessuno: dove sono i nostri tre amici e colleghi? Sono a Kabul? A Lashkar Gah? Abbiamo diverse informazioni ma di certo non c’è niente”.
(ASCA)

A Frattini le pressioni fanno bene…
Kabul, 14 aprile – “Non sono soddisfatto dalle risposta delle autorità afghane”, ha detto il ministro degli esteri Franco Frattini, riferendo a Montecitorio sulla vicenda dei tre operatori di Emergency fermati in Afghanistan.
“Desidero conoscere con urgenza -ha detto il Ministro – la configurazione delle accuse che vengono mosse” ai tre operatori di Emergency; “gli elementi di prova” ed essere certi che “sia garantito il loro il diritto pieno alla difesa”. Per questo sono state prese alcune iniziative e per questo l’ambasciatore italiano a Kabul è stato incaricato di consegnare “una lettera del premier al presidente afghano Karzai” per chiedere risposte “urgenti e concrete”, ha detto il ministro.
(ANSA)

… ma l’effetto è molto breve!
Roma, 14 aprile – “A coloro che hanno adombrato l’idea che noi si possa andare lì (in Afghanistan, ndr) a dire ‘Questa è la nostra regola’, spazzando via le leggi e come se fossimo i padroni dell’Afghanistan”, il ministro degli Esteri Franco Frattini risponde dicendo che “questo è un errore che io non farò”.
Durante la replica davanti alle commissioni Esteri di Camera e Senato sulla vicenda dei tre operatori di Emergency arrestati in Afghanistan, il titolare della Farnesina ha sottolineato che “ci possono piacere o no, ma queste leggi sono in vigore in un Paese sovrano e dobbiamo far sì che vengano rispettate”.
(Adnkronos/Aki)

Afghanistan Paese sovrano?!? Signor Ministro, non esageri con le battute di spirito e si ricordi che lei non è padrone neanche a casa sua!

“Noi curiamo anche i talebani”
Caro direttore, si introducono – direttamente o con la complicità di qualcuno che vi lavora – alcune armi in un ospedale, poi si dà il via all’operazione… Truppe afgane e inglesi circondano il Centro chirurgico di Emergency a Lashkargah, poi vi entrano mitragliatori in pugno e si recano dove sanno di trovare le armi. A quanto ci risulta, nessun altro luogo viene perquisito. Si va diritti in un magazzino, non c’è neppure bisogno di controllare le centinaia di scatole sugli scaffali, le due con dentro le armi sono già pronte – ma che sorpresa! – sul pavimento in mezzo al locale. Una telecamera e il gioco è fatto.
Si arrestano tre italiani – un chirurgo, un infermiere e un logista, gli unici internazionali presenti in quel momento in ospedale – e sei afgani e li si sbatte nelle celle dei Servizi di Sicurezza, le cui violazioni dei diritti umani sono già state ben documentate da Amnesty International e Human Rights Watch.
Anche le case di Emergency vengono circondate e perquisite. Alle cinque persone presenti – tra i quali altri quattro italiani – viene vietato di uscire dalle proprie abitazioni. L’ospedale viene militarmente occupato.
Le accuse: “Preparavano un complotto per assassinare il governatore, hanno perfino ricevuto mezzo milione di dollari per compiere l’attentato”. A dirlo non è un magistrato né la polizia: è semplicemente il portavoce del governatore stesso.
Neanche un demente potrebbe credere a una simile accusa: e perché mai dovrebbero farlo? La maggior parte dei razzi e delle bombe a Lashkargah hanno come obiettivo il palazzo del governatore: chi sarebbe così cretino da pagare mezzo milione di dollari per un attentato visto che ogni giorno c’è chi cerca già di compierlo gratuitamente?

La lettera di Gino Strada continua qui.

Meglio di ogni altra cosa
“Nella Valle del Panshir, dove ancora non c’é Internet, 11 mila persone si sono recate a piedi all’ospedale di Emergency per firmare l’appello a favore della liberazione dei nostri colleghi. E questo credo dica meglio di ogni altra cosa il rispetto che c’é in Afghanistan per la nostra organizzazione”.
Gino Strada a margine della manifestazione in sostegno di Emergency a Roma, 17 aprile 2010 (fonte Ansa).

Rilascio=sgombero?
Roma, 18 aprile – Nelle ultime 48 ore sono stati trattenuti dalle autorità afghane all’interno di una guest house i tre operatori di Emergency rilasciati oggi. Lo riferiscono all’ADNKRONOS fonti dell’intelligence sottolineando che “sono stati trattati bene” e che “probabilmente l’epilogo della vicenda sarà l’invito da parte delle autorità di Kabul a lasciare l’Afghanistan”.
(Adnkronos)

Domande sospese
Ora, a liberazione avvenuta, riaffiora la chiusura dell’ospedale come obiettivo della operazione. Un nuovo escamotage per cercare, ancora una volta, di screditare Emergency, e non solo.
E tra chi sarebbe avvenuto l’accordo? Tra i Governi dell’Italia e dell’Afganistan? Escludo che il Governo italiano possa compiere un crimine di questa sorta – perché chiudere un ospedale in una zona di guerra, quando è l’unica opportunità di cura per i feriti – è di per sé un crimine di guerra. Lo escludo e ritengo l’insinuarlo offensivo per il nostro governo.
Ed escludo anche che questa contropartita possa essere stata chiesta dal Governo afgano. Sappiamo che non è così, perché ce lo hanno detto tutti in Afganistan, dalle massime autorità del Paese fino ai responsabili della sanità nella regione di Helmand. Tutti ci hanno detto che il nostro lavoro è fondamentale in quel paese martoriato dalla guerra (alla quale partecipa anche l’Italia…) e si augurano che Emergency riapra presto quell’ospedale.
Lo speriamo anche noi, e stiamo lavorando perché ciò avvenga.
A smontare poi definitivamente l’ipotesi dell’accordo ci ha pensato Amrullah Saleh, il capo della NDS, i servizi segreti afgani. Prima di rilasciarli, Saleh ha chiamato i tre operatori di Emergency e ha detto loro: “Abbiamo valutato le accuse contro di voi, e ci siamo convinti che siete innocenti. Per questo da adesso siete liberi, non per le pressioni di qualcuno”.
Liberi perché innocenti. Nessun accordo. Punto.
Tutto a posto, dunque? Quasi. Perché alcune domande restano ancora sospese. Prima fra tutte: chi ha organizzato quella provocazione, visto che le autorità di Kabul, compreso il capo dei servizi di sicurezza, dicono che non ne sapevano nulla.
Chi la ha decisa? Il governatore di Lashkargah? Non sembra una mossa molto popolare, per un governatore, il provocare la chiusura dell’unico ospedale funzionante nella regione che governa.
Chi ha deciso di far annullare il volo della linea aerea Pamir, che la mattina del 10 aprile, quattro ore prima che fosse arrestato, doveva portare Marco Garatti da Lashkargah a Kabul?
E che cosa ci facevano militari inglesi a passeggiare con fucili mitragliatori per l’ospedale di Emergency?
Aspettiamo risposte, da dentro e fuori l’Afghanistan.

Da “Aspettiamo risposte da dentro e fuori l’Afghanistan”, di Gino Strada.

Milano, 28 aprile – Cinque dei sei operatori afgani di Emergency – fermati a Lashkargah lo scorso 10 aprile insieme ai tre operatori italiani già rilasciati – sono stati liberati oggi per “mancanza di prove a loro carico”.
Lo riferisce in una nota l’organizzazione non governativa, precisando che invece resta in stato di fermo il sesto dipendente afghano “sul quale proseguono le indagini”.
I cinque rilasciati oggi sono due addetti alla sicurezza, due autisti e un giardiniere che lavoravano presso l’ospedale di Emergency di Lashkargah.
(Reuters)

Riapre?
Bruxelles, 8 giugno – A inizio luglio dovrebbe riaprire l’ospedale di Emergency a Lashkar Gah, in Afghanistan, chiuso il 10 aprile. Lo dice Gino Strada.
Il fondatore di Emergency è intervenuto al Parlamento europeo ad un seminario sull’Afghanistan. L’ospedale, situato nella provincia di Helmand nel sud del Paese, è stato chiuso in seguito all’intervento delle forze afgane e di quelle britanniche. ‘Non abbiamo una data precisa, ma immagino che tra un mese, a inizio luglio, sarà aperto’, afferma Strada.

[continua]

Cooperazione italiana in Afghanistan

Roma, 3 febbraio – Nei giorni scorsi, nell’ambito dei progetti di sviluppo nel settore della sicurezza, il Provincial Reconstruction Team italiano, che opera sotto il Regional Command West, il Comando ISAF a leadership italiana e su base Brigata ”Sassari”, ha inaugurato e completato due nuovi progetti nella provincia di Herat. Lo riferisce una nota del contingente italiano in Afghanistan.
Il primo progetto riguarda la realizzazione di una ‘training room” presso il comando regionale della ANP (Afghan National Police) di Herat, completa di tutte le dotazioni, degli arredi e degli equipaggiamenti necessari alla piena funzionalità della struttura. E’ stata inoltre effettuata la donazione di una consistente quantità di materiali e di attrezzature edili, per un totale di circa 6.000 euro, destinati a migliorare le infrastrutture che ospitano il comando regionale della ANP.
Il secondo progetto riguarda la posa della prima pietra del nuovo sistema di videosorveglianza del carcere di Herat, progetto del valore di circa 37 mila euro messi a disposizione dal Ministero della Difesa. L’impianto, composto da una sala di controllo interna dotata di monitor e di un sistema di registrazione delle immagini composto da diciannove telecamere esterne, servirà ad incrementare le misure di sicurezza e ad assicurare la sorveglianza dell’area perimetrale interna ed esterna della struttura.
(ASCA)

E vanno anche in giro a vantarsene…

Ancora tu, Lince

Roma, 17 settembre – Sarebbero sei gli italiani rimasti uccisi nell’attentato kamikaze a Kabul. Altre due vittime civili sarebbero invece afghane. Tra i feriti altri tre militari del contingente italiano.
Tutti si trovavano a bordo di un blindato Lince.
(AGI)

Vedi anche Scarronzoni per…

Roma, 17 settembre – Sono sei i morti fra i militari italiani, tutti del 186esimo Reggimento Paracadutisti Folgore, provocati dall’attentato a Kabul che ha investito alle 12 ora locale, le 9.30 in Italia, due mezzi di scorta ad una colonna di personale diretta all’aeroporto, a quanto apprende l’Adnkronos da fonti della Difesa. Altri tre militari italiani, sempre della Folgore, sono rimasti feriti e, per ora, non vi sono indicazioni sulle loro condizioni.
(Adnkronos)

Orgoglio?!?
Roma, 17 settembre -‘I soldati italiani hanno pagato un prezzo alto per la libertà e la sicurezza dell’Afghanistan, dell’Italia e dell’Europa’, commenta Frattini. In ogni caso, per il ministro degli Esteri bisogna ‘restare per dimostrare che l’orgoglio dell’Italia è sempre alto.
(ANSA)

mini-kfor

Roma, 17 settembre – ”La strada su cui è avvenuto l’attentato ai militari italiani si trova in una zona oggettivamente molto pericolosa. E’ un tratto conteso tra varie fazioni proprio per attaccare i convogli di passaggio, indipendentemente dalla loro nazionalità. Tanto che nel novembre 2005, al mio arrivo all’aeroporto di Kabul, per evitare di percorrere quei quattro chilometri che portano direttamente alla base ISAF nel centro della capitale, facemmo un’altra strada assieme al convoglio di scorta: un aggiramento di 35 chilometri”. A dirlo è il generale Fabio Mini, ex comandante della missione NATO in Kosovo, in un’intervista che sarà pubblicata domani sul quotidiano ecologista Terra.
”Le missioni sul terreno, Enduring Freedom prima e ISAF poi – dice Mini – hanno avuto la pretesa di bloccare completamente le frontiere. Una cosa che non è possibile fare da nessuna parte. In Kosovo, un Paese più piccolo dell’Abruzzo, non ci riuscivamo, figuriamoci in Afghanistan che è quattro volte l’Italia”. Nell’intervista, il generale spiega che in Afghanistan ”non è un problema di uomini. E’ necessario un maggiore impegno economico e civile. Finché la popolazione afghana resta in uno stato di disperazione, senza niente da perdere, nemmeno la vita (l’aspettativa media è di 40 anni), non avrà paura della morte”. ‘‘Per garantire la sicurezza – conclude Mini – bisogna prima conquistare la fiducia e la collaborazione della popolazione. In Afghanistan invece si sta facendo l’esatto contrario. Il risultato è che ora, rispetto al 2003, ci odiano molto di più. Alla fine della guerra, quando gli americani cercavano Bin Laden a Tora Bora, i talebani erano 7.000. Oggi gli insorti sono oltre 10mila”.
(ASCA)

Silenzio assordante che copre il silenzio degli innocenti
I paracadutisti italiani caduti a Kabul in un attacco kamikaze sono le vittime sacrificali della politica imposta dagli USA ed accettata servilmente dai loro camerieri atlantici in servizio permanente effettivo dal 1945. Noi non accettiamo né il vittimismo cialtronesco delle Istituzioni né lo sciacallaggio usato per fini di bassa politica dalla sedicente opposizione. Quella che, tanto per esser chiari, con il governo D’Alema partecipò ai bombardamenti su Belgrado e che mai ha rifiutato il suo appoggio agli USA in lotta contro i “Popoli Canaglia”. Kabul come Nassirya: sangue versato dai nostri parà, ridotti ad essere esportatori di “libertà” e “democrazia” lungo la via del petrolio e quella del papavero e nella previsione di una non ancora dichiarata guerra contro l’Iran. Ascari costretti a combattere sul territorio afghano per far passare gli oleodotti della multinazionale Unocal, in quella che è legittimo chiamare la IV Guerra dell’Oppio.
Tutti tacciono, tutti si guardano bene dallo spiegare agli Italiani i veri motivi della nostra presenza in Medio Oriente.
E nessuno parla dei “Lince”, i corazzati-bidone che rappresentano un pericolo per l’incolumità dei nostri militari (ed oggi se ne è avuta la drammatica conferma) ma che costituiscono una colossale speculazione da parte della Fiat-Iveco della famiglia Elkann. Come abbiamo dimostrato e documentato sull’ultimo numero di “Giustizia Giusta”.
Comunicato stampa dell’Associazione per la Giustizia e il Diritto “Enzo Tortora” – Redazione di Giustizia Giusta, V.le Giulio Cesare – 00192 Roma

carabinieri

Ritiro? Macché, più carabinieri!
Roma, 18 settembre – L’impegno italiano nell’addestramento delle forze di sicurezza afghane aumenterà e sta già aumentando in questi ultimi mesi dell’anno. Secondo il capo ufficio stampa della Farnesina, Maurizio Massari, infatti, ”raggiungeremo il numero di 200 carabinieri formatori, tra settembre e novembre, che si aggiungono alle oltre 15 unità della Guardia di Finanza impegnate nell’addestramento della polizia di frontiera afghana a Herat”.
Massari, nel corso di un briefing con la stampa, ha affermato che ”il ruolo dell’Italia è effettivamente di primissimo piano nell’addestramento delle forze di sicurezza afghane” e che questo ”si è concretizzato il 14 agosto scorso, quando è stata riconosciuta all’Italia la posizione di coordinatore responsabile della formazione della polizia afghana”.
(ASCA)

Guerra e/o cooperazione
Roma, 18 settembre – ”Rivolgendoci ai ministri e ai parlamentari che continuano a ripetere che i problemi dell’Afghanistan, dell’Africa, delle guerre e dell’immigrazione si risolvono con la cooperazione, diciamo di essere coerenti, di dar seguito alle promesse con impegni reali sia a livello di finanziamenti che di risorse e di strumenti. Per questi motivi aderiamo all’iniziativa della Tavola della Pace del 3 ottobre. Perchè pace e informazione sono due beni fondamentali a rischio. Perchè senza un’informazione di pace non c’è neanche una politica di pace”. Così Guido Barbera, presidente del Cipsi – coordinamento di 42 Ong e associazioni di solidarietà internazionale in riferimento alla strage degli italiani a Kabul.
”Innanzitutto – afferma Barbera – esprimiamo la nostra vicinanza, solidarietà e cordoglio ai familiari dei soldati italiani vittime della strage, ai feriti e a tutti i civili coinvolti, compresi quelli colpiti la scorsa settimana da un bombardamento della NATO. Ma non possiamo tacere. Il problema è politico: qual’è il ruolo e la politica internazionale dell’Italia, dell’Europa, degli USA, della NATO, nello scenario afghano? E’ necessario fare un’analisi storica e politica di cosa è accaduto in Afghanistan, soprattutto negli ultimi otto anni di guerra, e del disastro che è stato provocato; attraverso un dibattito in Parlamento, decisioni del Governo, un conferenza che porti a un accordo della comunità internazionale”.
”Non è solo con i militari che si potrà risolvere la situazione afghana. Non si risolvono i conflitti con la forza, ma con il dialogo. Noi – conclude Barbera – associazioni del Cipsi e della società civile crediamo che sia necessario invertire la tendenza delle scelte di politica internazionale in Afghanistan. La risposta è incrementare in modo decisivo la cooperazione internazionale nel paese, per contribuire al processo di pace: che siano visibili interventi e relazioni solidali, scuole, salute, istruzione, alimentazione e difesa dei diritti di tutti. Sono l’antidoto alla guerra e al terrorismo. Condanniamo la violenza sui civili”.
(ASCA)
Esternazioni largamente condivisibili, ma vorremmo chiedere al loro autore: nella pratica, come è possibile svolgere attività di cooperazione civile in un ambiente di guerra non dichiarata ma aperta e dirompente?
Non bisognerebbe piuttosto aspettare una avvenuta pacificazione e solo al termine del conflitto investire risorse (e sì, perché qui servono tanti denari e tanti ne sono già stati spesi, spesso a vanvera…) per una ricostruzione che sia effettivamente tale e duratura?

soldati

Per cosa sono morti?
Per difendere la pace, la libertà, la democrazia in Afghanistan e la sicurezza internazionale come dicono i nostri politici? No.
Non per la pace, perché i nostri soldati in Afghanistan stanno facendo la guerra.
Non per la libertà, perché i nostri soldati stanno occupando quel Paese.
Non per la democrazia, perché i nostri soldati proteggono un governo-fantoccio che non ha nulla di democratico.
Non per la sicurezza internazionale, perché i nostri soldati stanno combattendo contro gli afgani, non contro il terrorismo islamico internazionale: a questo, semmai, stanno fornendo un pretesto per odiare e attaccare l’Occidente e anche il nostro Paese.
E allora per cosa sono morti?
La risposta l’ha data il generale Fabio Mini, ex comandante del contingente NATO in Kosovo, intervenendo la scorsa settimana a un dibattito sull’Afghanistan tenutosi a Firenze e organizzato da Peacereporter:
“Ufficialmente lo scopo fondamentale, il center of gravity, della missione non è la ricostruzione, o la pacificazione né la democrazia: è la salvaguardia della coesione della NATO in un momento di crisi della stessa. Questo è lo scopo dichiarato, scritto nei documenti ufficiali della missione ISAF. La NATO è in Afghanistan esclusivamente per dimostrare che è coesa: lo scopo è essere insieme. Ecco perché gli Stati Uniti chiedono soldati in più: ma pensate davvero che manchino loro le forze per far da soli? Credete davvero che i nostri soldati o i lituani siano importanti? No! L’importante è che nessuno si sottragga a un impegno NATO. Ecco perché vengono chiesti continuamente uomini agli alleati”.
“Agli infami, vigliacchi aggressori che hanno colpito ancora nella maniera più subdola diciamo con convinzione che non ci fermeremo”, avverte il ministro della Difesa, Ignazio La Russa.
E’ stravagante definire ‘vigliacchi’ uomini che sacrificano la propria vita per uccidere il nemico. Forse questo giudizio andrebbe riservato ai piloti alleati che da mille piedi di altitudine sganciano bombe che fanno strage di talebani e civili, sapendo di non poter essere né visti né colpiti.
Anche chiamare ‘aggressori’ i guerriglieri talebani che colpiscono le truppe d’occupazione NATO è curioso. Siamo noi che abbiamo aggredito loro invadendo il loro Paese.

“Non ci fermeremo”, conclude La Russa in tono bellicoso. Altri soldati italiani dovranno quindi sacrificare le loro vite e stroncare quelle di altri afgani, combattenti e non. Da maggio, per la cronaca, le truppe italiane hanno “neutralizzato” almeno cinquecento “nemici” nelle battaglie combattute nell’ovest dell’Afghanistan con il massiccio impiego di carri cingolati ed elicotteri da combattimento. E presto, come annunciato, anche con le bombe sganciate dai nostri Tornado.
Secondo il ministro degli Esteri, Franco Frattini, bisogna “conquistare il cuore degli afgani per fare terra bruciata di ogni complicità e omertà verso i terroristi”.
Ma finché l’occupazione e la guerra continueranno, con le stragi di civili, i rastrellamenti, la distruzione dei villaggi, la terra bruciata si allargherà attorno ai nostri soldati e la guerriglia afgana diventerà sempre più popolare. La rabbia e il dolore di chi, a causa delle truppe occidentali, perde un familiare, la casa, una parte del corpo o semplicemente la libertà e la dignità, non fanno che portare acqua al mulino del “nemico”. Un nemico che, infatti, più la guerra va avanti, più si rafforza e guadagna consensi.

Per cosa sono morti?, di Enrico Piovesana.
[grassetti nostri]

talebani

Il Ministro della Difesa, dal canto suo, ha dato un’altra dimostrazione di sconcertante prevedibilità. La sua performance in seconda serata a “Porta a Porta” il 17 Settembre sui caduti della Folgore a Kabul ha ripetuto per filo e per segno, a beneficio di un pugno di ascoltatori (lo share è stato un autentico flop) e del pubblico presente nello studio, la ormai famosissima lezioncina-Napolitano.
Accantonata, alla svelta, la farsa della “missione di pace”, il titolare di Palazzo Baracchini nel corso della trasmissione ha continuato a sostenere che il Belpaese è in Afghanistan per fermare sul terreno il “terrorismo di al-Qa’ida”. Un terrorismo che altrimenti dilagherebbe in Occidente e ci colpirebbe a casa nostra come è successo a New York l’11 Settembre del 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle e alla stazione di Atocha a Madrid nel Marzo del 2004.
Due attentati, servirà ricordarlo, oggetto di clamorosi depistaggi politici e istituzionali, di indagini pilotate e di sentenze che non sono mai riuscite ad individuare né mandanti né esecutori che non uscissero dai data base di Langley.
Un’aggiunta che il Ministro della Difesa ha intenzionalmente evocato, da gran furbo, per allargare anche all’Europa la minaccia “reale” portata dal fondamentalismo islamico all’Occidente.
La recitazione della manfrina di La Russa è scivolata via senza sollevare un battito di ciglio in sala. L’apatia, l’indifferenza che sta risucchiando nel baratro il Paese si vede anche dalle reazioni degli spettatori seduti sulle poltroncine bianche della Rai in occasione di un evento luttuoso come quello di Kabul.
L’Italia, partendo da Kost, dalla base “Salerno” partecipa dal 2002 alla guerra degli USA in Afghanistan, ma fino ad oggi, se la memoria non ci inganna, il Sisde o il Sismi, prima, o l’Aisi e l’Aise, fino ad oggi, non hanno mai lanciato allarmi specificatamente provenienti da quel Paese che possano aver interessato la sicurezza del territorio nazionale, né se ne trova traccia su Gnosis o nelle relazioni che semestralmente vengono inviate semestralmente dal Cesis a Camera e Senato.
Non risulta inoltre che i Ministri degli Interni e della Difesa che si sono succeduti dalla data citata abbiamo mai denunciato pubblicamente l’esistenza di minacce specifiche per il territorio metropolitano ad opera di elementi “qaedisti” di nazionalità afghana presenti in Italia in contatto o collegamento con organizzazioni “terroristiche” operanti nei territori dell’Af-Pak.
L’attenzione dei Ros del Generale Ganzer si è invece concentrata più volte su nuclei o cellule salafite come “ Predicazione e Combattimento” presuntamente organizzate da elementi originari del Maghreb a cui sono stati spesso addebitati già nel corso degli accertamenti di polizia reati gravissimi che non hanno mai retto di fronte alle successive verifiche della Magistratura Inquirente, toccando punte paradossali che hanno fatto ridere l’“intelligence mondiale”, come nel caso della Chiesa di S. Petronio a Bologna e degli “attentati” alla Metropolitana di Milano.
Quando ci sono stati provvedimenti restrittivi, in ogni caso, i “wahhabiti del Mediterraneo” sono giudicati per reati minori come il favoreggiamento dell’ingresso clandestino, la raccolta di fondi, il possesso di materiale illecito di propaganda.
Insomma, in Italia non ci sono mai stati potenziali terroristi di intransigente fede sunnita provenienti dal Paese delle Montagne che prendano ordini dal nebuloso e famigerato Mullah Omar né strutture “organizzate” di sostegno ai combattenti usciti dalle madrase di Peshawar o di Islamabad; non c’è inoltre università o scuola superiore pubblica o privata, centro di aggregazione religiosa, culturale e sociale, dove possa addensarsi un nucleo di studenti, aderenti o simpatizzanti “coranici” in combutta con i combattenti pashtun.
Gli unici afghani presenti nella Repubblica delle Banane sono quelli che l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu ha fatto uscire dal Pakistan dopo un accurato check-in.

Priva perciò di qualunque credibilità, per insussistenza di motivazioni reali, la puntuale manfrina, con imitatori di “alto livello” recitata a beneficio (?) dell’opinione pubblica italiana dall’Inquilino del Quirinale.

Da Afghanistan: quando i nodi vengono al pettine, di Giancarlo Chetoni.
[grassetti nostri]