Di quest’ultimo mese si ricorderà l’accelerazione impressa agli eventi da parte della cosiddetta “Coalizione”, capitanata dagli USA e, come ormai alla luce del sole e oltre ogni minimo accenno di pudore, composta di un esercito di manodopera di riserva estremamente variegato, tipico della guerra ibrida in corso, e che va dalle milizie curde ai terroristi dell’ISIS.
Il tentativo era abbastanza evidente e, come vedremo, prevedibile: colpire il nemico – che, a scanso di equivoci, era ed è Assad e alleati – su più fronti, simultaneamente, efficacemente, per frantumarne le linee di difesa, affondare i colpi e seminare il panico fra le retroguardie di colpo proiettate in prima linea, tagliare i canali di comunicazione e approvvigionamento, obbligare le forze di élite dell’esercito siriano a ripiegare per ripristinare confini e mettere in sicurezza situazioni altrimenti compromesse. Ripiegare da dove? Ma da Deir Ez-zor, dove simultaneamente i Curdi avanzavano senza sparare un colpo, pappandosi fette di territorio sempre maggiori, allungando linee di fronte di decine di chilometri lungo sottili lingue di terra che sfidavano ogni logica di tattica e strategia militare (prima fra tutte, il consolidamento della linea di fronte per evitare contrattacchi fatali sulle retrovie lasciate scoperte e la conseguente formazione di sacche in cui circondare e chiudere le avanguardie), lasciando soltanto come unica ipotesi quella infima, meschina, della combine. Ebbene, la strategia americana verteva su queste due leve: da una parte bloccare (o fatalmente rallentare) l’avanzata siriana nella provincia dei pozzi, dall’altra occupare per prima il ricco Eldorado.
Ci eravamo lasciati con prodromi di questa strategia, ma mai ci saremmo aspettati che si sviluppasse fino a questi livelli. Quanto accaduto in questi trenta giorni circa ha dell’incredibile, e quanto è riuscita a fare l’alleanza Russia-Siria-Iran ha ancora più dell’incredibile, fino al risultato di oggi: la liberazione di Al Mayadin. Ma andiamo con ordine e, per farlo, ci serviamo di un’ottima sintesi a opera del buon Colonel Cassad. Continua a leggere
damasco
La balcanizzazione della Siria può attendere
“Quando Deir Ez Zour fu costruita, non erano ancora presenti i confini dettati dai trattati di Sykes – Picot, non c’erano le entità statali siriane ed irachene, non esistevano avamposti di frontiera né di Damasco e né di Baghdad; quel territorio desertico, attraversato dall’Eufrate, era ancora frequentato soprattutto da beduini e da tribù che si dirigevano verso il fiume per usufruire delle sue acque e permettere loro di continuare a vivere seguendo millenarie tradizioni. Ma soprattutto, quel territorio era ancora parte integrante dell’Impero Ottomano: è proprio qui che i vertici militari di Istanbul nel 1860 avevano deciso di fondare un avamposto militare che poteva beneficiare sia della presenza dell’Eufrate e sia della vicinanza delle vie di comunicazione che collegavano l’occidente con Baghdad; vaste lande di terra, nei secoli rimaste periferiche alle rotte commerciali tanto dei romani quanto della via della seta che, dalla fine del diciannovesimo secolo, potevano diventare improvvisamente strategici luoghi di controllo militare per i sultani. E’ così che ha avuto inizio la storia di Deir Ez Zour, la città che martedì è stata sollevata da un assedio dell’ISIS che durava da più di tre anni; un contesto particolare all’interno della guerra siriana, un vero e proprio conflitto nel conflitto che non mancherà, al netto dell’immotivata scarsa copertura mediatica data dall’Occidente, di inserirsi prepotentemente sui libri di storia nel prossimo futuro. Per comprendere su quale base abbia poggiato una resistenza con pochi precedenti nella storia militare, è bene fare un passo indietro e tornare per un attimo alla storia che ha portato alla nascita prima ed allo sviluppo poi di Deir Ez Zour; due sono stati, in particolare, gli eventi che hanno contribuito nel corso dei decenni alla crescita demografica ed economica di questa città: in primo luogo, il 16 maggio del 1916 Inglesi e Francesi hanno stabilito una linea di confine a pochi chilometri dal suo centro urbano, con i trattati di Sykes – Picot, i quali hanno improvvisamente tracciato un lungo taglio nel cuore del deserto mesopotamico: Per mezzo di questo nuovo confine, da una parte si è dato vita ad un protettorato agganciato a Parigi, dall’altra invece si è assistito al sorgere di una zona d’influenza britannica. In secondo luogo, nella prima metà del ventesimo secolo sono state scoperte importanti riserve petrolifere nel sottosuolo desertico vicino Deir Ez Zour ed ecco quindi che, quello che era sorto come mero avamposto militare ottomano, da adesso in poi diverrà uno strategico centro economico a pochi passi dalla ‘nuova’ frontiera mediorientale voluta da Francia ed Inghilterra al termine della prima guerra mondiale.”
Deir Ez Zour, genesi di una resistenza di Mauro Indelicato continua qui.
La questione curda
Il ruolo della attuale dirigenza curda di fronte a un’occasione storica
Ho troppo rispetto per il popolo curdo, per la questione curda, per esprimere giudizi in quella che sarà una pura e semplice valutazione dell’attuale corso del maggior movimento curdo oggi – temporaneamente – alla guida di un territorio da essi denominato Rojava (letteralmente “Ovest”, in riferimento con ogni evidenza a un “Est” iracheno), un’area attualmente di oltre 42mila km quadrati a nord della Siria, superiore per estensione alla superficie di due Regioni come la Lombardia e il Veneto, distribuita in maniera discontinua a occidente (Afrin) e a oriente (il restante territorio) del cuneo occupato dai Turchi proprio per impedirne il ricongiungimento, unico successo ottenuto dall’operazione Scudo dell’Eufrate (Fırat Kalkanı); un’area che nel giro di tre anni è andata ben oltre i tradizionali confini dei villaggi curdi, giungendo a occupare:
– il 23% del territorio siriano;
– le sue tre maggiori dighe (importanti sia per la fornitura di energia elettrica, che per l’irrigazione);
– il 60% della sua superficie coltivabile (fonte).
Interessante, vero? Come si è arrivati a questo, temporaneo, status quo? Quali le cause, quali i presupposti, quali le possibili conseguenze e configurazioni future?
Occorre, come sempre, fare un passo indietro. Un popolo di trenta, quaranta milioni di persone (a seconda di come si considerano i Curdi della diaspora), distribuito principalmente – ma non solo – su quattro Stati indipendenti (Turchia, Siria, Iraq e Iran), la nazione più popolosa al mondo senza Stato, è da oltre un secolo che lotta per la propria indipendenza. All’inizio del secolo scorso, occorre sottolinearlo, i Curdi furono impiegati dai britannici in chiave antiturca (I conflitto mondiale) e tedesca (II conflitto mondiale), sempre con l’illusione di uno Stato promesso e mai realizzato (Dmitrij Minin, I segreti del conflitto siriano: il fattore curdo). Successivamente, si accostarono all’URSS, ma senza successo: la tragica vicenda della Repubblica di Mahabad (1946), primo nucleo di un Kurdistan indipendente in territorio iraniano, vide l’appoggio esterno dei Sovietici, che coprirono successivamente la ritirata del Molla Mustafa Barzani, padre dell’attuale capo del Kurdistan iracheno Mas’ud Barzani. Riparato in Azerbaigian, organizzò campi di addestramento a Tashkent e completò gli studi militari a Mosca (fonte). Fino a metà degli anni Cinquanta i Curdi furono gli unici alleati dei sovietici in Medio Oriente. Tuttavia, anche lì le cose stavano cambiando. L’appoggio sovietico alle rivoluzioni baathiste fece progressivamente spostare l’occhio dei Curdi verso Occidente. I britannici non c’erano più, ma c’era Israele. Sono databili da allora i primi contatti fra Mossad e Curdi (fonti: france-irak-actualite.com; the-american-interest.com), culminati nella visita vera e propria di Barzani padre in Israele. L’opzione rivoluzionaria in senso socialistico persisteva solo fra i Curdi di Turchia, culminante nel 1978 con la fondazione del PKK di Ocalan, ma risultava sempre più minoritaria, in termini di peso specifico sull’intero movimento indipendentistico curdo, a partire soprattutto dalla fine dell’URSS.
Il resto è storia recente: la strumentalizzazione della questione curda come fattore destabilizzante in Iraq e in Siria, è segno distintivo della politica mediorientale a stelle e strisce (o, visti anche i precedenti storici appena citati, US-raeliana nel suo complesso). In altre parole, questi due Paesi hanno conosciuto negli ultimi tre anni un’intrusione sempre maggiore degli Statunitensi sul loro territorio con l’istallazione di basi militari nei territori controllati dai Curdi, per combattere ovviamente i propri avversari che non sono, come ormai è sotto gli occhi di tutti, l’ISIS o Al Qaeda. La base aerea siriana di Tabqah, per esempio, abbandonata a causa dell’ISIS, ripresa dai Curdi catapultati oltre l’Eufrate dai mezzi anfibi e dalla copertura aerea americani, è stata seduta stante ceduta ai loro padroni. Un’altra base, ancora più grande, è in costruzione a Kobane, per rendere più costante e consistente l’approvvigionamento ai loro alleati. Forti di questo appoggio, le milizie curde dell’YPG hanno recentemente annunciato un’offensiva verso i territori dello “scudo turco” che li separano da Afrin. A sud di Raqqa, dopo esser stati fermati a Resafa dalla perentoria avanzata dell’esercito siriano, si stanno ritagliando fette di territorio lungo la striscia a sud dell’Eufrate, ufficialmente per chiudere da sud la capitale del sedicente Stato Islamico, in pratica per sondare la possibilità di ulteriori movimenti espansivi verso Sud.
Qui però si ferma la pars construens della loro iniziativa e iniziano problemi non da poco:
1. Afrin, separata dal resto di Rojava dallo “scudo turco” e posta sotto minaccia diretta di invasione, sempre da parte turca, è appena stata “visitata” da una folta rappresentanza di ufficiali russi. Questo avvenimento non può non essere legato alla visita ad Ankara del ministro della difesa russo Šojgu del giorno prima. I Russi ad Afrin si stanno costruendo la loro base, di fatto depotenziando il resto di Rojava in mano all’YPG, garantendo di fatto il ritorno di quella fetta di territorio nell’alveo della Repubblica Araba di Siria. Questo a Erdoğan basta. E avanza. I suoi movimenti di truppe e incidenti di confine sembrano aver sortito l’effetto deterrente voluto.
2. Un diamante è per sempre, ma non l’appoggio USA. Né Londra, né Washington hanno mai dato apertamente garanzie concrete alla costituzione di un Kurdistan indipendente e sovrano. Lo stesso ex-ambasciatore USA in Siria Robert Ford, in una recente intervista, ha definito “non solo politicamente stupida, ma immorale” l’attuale politica verso i Curdi, visto che alla fine “li tradirà”. I Curdi mancano di un appoggio costante a Washington, come sono, per esempio, la lobby ebraica e quella armena. Sembrano più che altro la “cara amica di una sera” del nostro repertorio canoro. Questo Rojava, nella figura del suo presidente Salih Muslim, lo sa benissimo, e infatti cerca – piuttosto maldestramente – di tenere il piede in più scarpe, senza inimicarsi troppo Mosca (da qui la cessione della base di Afrin, anzi, di Afrin punto) e Damasco (senza indire – almeno al momento – “referendum” sulla falsariga di quello appena svoltosi in Iraq). E cerca di trarre il maggior vantaggio dalla presenza USA sul territorio che controlla, di fatto svendendolo al potente alleato… inimicandosi però le popolazioni arabe locali, e non solo.
3. A differenza del Kosovo, dove a fronteggiare la protervia NATO c’era una Serbia indomita ma debole, oggi ci sono Iraq, Iran, Siria e Turchia. La Russia non solo sta vincendo sul campo un conflitto che nei primi sei mesi di quest’anno ha visto radicalmente mutare scenario (vedasi le ultime due cartine della Siria datate 01/01 e 30/06 di quest’anno), non solo ha permesso un graduale ma decisivo ripristino della sovranità nazionale da parte dell’unico governo legittimo, quello che – piaccia o no – fa capo ad Assad (per la prima volta, per esempio, la provincia di Aleppo vede prevalere come possesso di territorio il governo siriano sui suoi nemici e oppositori, come si vede nella cartina proposta sopra le due mappe già citate), ma è riuscita nella non facile impresa di mettere d’accordo Iran e Turchia nella costituzione di unico asse anti-ISIS e anti-Al Qaeda, ovvero anti-israeliano (vedasi, per ultimo ma non da ultimo, dopo i raid aerei israeliani contro le postazioni siriane sul Golan, l’origine degli equipaggiamenti sequestrati dall’esercito siriano ad Al Qaeda, sempre sulle alture del Golan), e anti-USA (vedasi, sempre per ultimo ma non da ultimo, oltre agli attacchi USA contro le postazioni siriane fatti “per errore”, come quello che l’anno scorso ridusse enormemente le difese di Deir Ez-zor prima dell’immancabile offensiva ISIS, anche le forniture dirette via Bulgaria e Jeddah ai terroristi). Il che non significa che siamo di fronte a un blocco compatto e monolitico che fronteggia un altro blocco altrettanto compatto e monolitico. I Turchi oggi ci sono, trattano coi Russi per l’acquisto di sistemi antiaerei e antimissile S-400 Triumf, domani non si sa. Gli Iraniani oggi sono pesantemente coinvolti nelle vicende irachene (delle cosiddette milizie popolari) e siriane, cercano una loro via al Mediterraneo, sono in piena e pluriennale sintonia coi Russi, anche sul versante geopolitico del Caspio in chiave di contenimento dell’iniziativa USA nella regione, poi chissà. Tuttavia, ora sono tutti, incondizionatamente, uniti contro i Curdi e la loro svolta filoamericana.
Gli affari sono affari. E di questo stiamo parlando, meglio, stanno parlando le potenze geopolitiche attualmente presenti sullo scacchiere mediorientale. Prima i Curdi lo capiranno, meglio riusciranno a promuovere la loro causa, cercando di coordinarsi non con chi sta a un oceano di distanza, ma con chi oggi li vede sempre più come un pericolo o, peggio ancora, come una minaccia. Hanno di fronte a sé, dopo un secolo di lotte, un’occasione storica. Non la devono e non la possono perdere. L’alternativa, sarebbe la ripetizione di tragedie già viste.
Paolo Selmi
Legenda delle cartine
Rosso: governativi e alleati
Grigio: Stato Islamico (ISIS-DAESH)
Verde: gruppi vari della galassia “ribelle” (Esercito Libero Siriano, etc.)
Bianco: gruppi derivati dallo scioglimento di Jabhat Al Nusra
Giallo: Curdi
Siria: svolta decisiva?
Prima di passare a una veloce disamina della situazione, regione per regione, occorre fornire un dato importantissimo, che è proprio di oggi. Per la prima volta, le forze siriane hanno creato verso est un unico fronte (che si può vedere qui). Ovviamente, il fronte orientale unito da nord a sud è stato possibile solo grazie ai travolgenti successi di questa settimana, resi a loro volta possibili dalla creazione delle quattro zone di diminuzione da cui migliaia di soldati siriani sono stati tratti per successivo dislocamento su questo fronte: peraltro, la creazione delle zone di diminuzione non ha significato, come qualcuno invece ritiene, la cessazione delle attività belliche in tali territori: è notizia di ieri la liberazione di Bayt Na’im nella sacca a est di Damasco facente parte delle zone di diminuzione (notizia delle ore 9:00, cartina annessa); una liberazione ottenuta impiegando le cosiddette “seconde file”, certo, ma che significa da un lato che non si tratta di uno status quo destinato a durare a lungo e, dall’altro, che gli assediati sono ora in una situazione di maggior debolezza di prima, dal momento che nulla garantisce loro l’incolumità una volta risolto il conflitto se, come auspicano gli estensori della proposta di queste zone, le truppe ora impegnate sul fronte unico orientale, torneranno a finire il lavoro lasciato a metà. Continuando invece sui vantaggi di un’unica linea di fronte, è altrettanto ovvio, ma vale la pena notarlo, che disporre di questo consente, per la prima volta:
1. maggior coordinamento nelle operazioni militari;
2. maggiore ottimizzazione delle forze in campo, sia come impiego che dislocamento;
3. maggiore efficacia nell’azione sia offensiva che difensiva e preventiva.
Ecco quindi la situazione di quest’unico fronte alla luce dei recenti sviluppi:
A nord, il fronte a est di Aleppo è crollato e le forze siriane si dirigono verso Masknah, ultimo avamposto ISIS su quel fronte (sono a 1,5 km dalla città, avendo già raggiunto la locale stazione ferroviaria): una manovra a tenaglia che allarga il fronte sempre più a sud chiudendolo, di fatto, in una morsa. Caduta Masknah, avverrà velocemente il ricongiungimento a Tabqa, ovvero la “stretta di mano sull’Elba” con gli “alleati” di sempre. Una “stretta di mano” vista molto, molto male oltreoceano. Non tanto l’YPG, che cerca solo la miglior condizione politico-territoriale e rapporti tutto sommato amichevoli da cui far partire eventuali negoziati a fine conflitto sullo “status” più o meno particolare di Rojava e Afrin, quanto gli USA, che considerano la caduta di Assad prioritaria, vedranno di malocchio il “passaggio delle consegne”, richiesto dai Siriani, nei confronti di un territorio arabo, non curdo, su cui i Curdi però sono arrivati prima. Ancora più a monte: permetterà la “coalizione alleata” il passaggio dei Siriani verso sud? O li bloccherà a Tabqa (con conseguente, anche se al momento improbabile, possibilità di innesco di conflitto diretto fra Curdi-USA e Siriani-Russia, ma anche Turchia che non si farà scappare l’occasione di intervenire)? Lo scopriremo nelle prossime puntate. Di certo, il fronte a Tabqa si è stabilizzato con l’occupazione di quella casella, in vista dell’attacco finale a Raqqa e, mentre i “gialli” dell’YPG si preparano, i “rossi” delle forze armate siriane procedono da nord-ovest e da sud-ovest, all’altezza dell’arteria Hanaser-Itriya, con l’evidente, duplice, scopo di:
1. allargare il più possibile la fascia di sicurezza su questa strada, puntualmente occupata dal nemico con operazioni suicide (l’ultima pochi giorni fa) tese a impegnare il maggior numero di truppe speciali per lo “sblocco” di questa importante arteria, l’unica che collega efficacemente nord e sud del Paese;
2. sfondare verso nord-est e puntare a Raqqa da sud; operazione che non solo proteggerebbe Palmira da nord ma, ricongiungendosi alle truppe provenienti da una Masknah liberata, porrebbe i Curdi a Tabqa in una condizione di evidente inferiorità (completamente circondati da nord-ovest a sud dai Siriani e non ancora ricongiunti con il grosso del contingente curdo-americano a nord, essendoci ancora Raqqa in mezzo) riducendone enormemente il potere negoziale.
Vedremo. Nel frattempo, i Russi stanno già prendendo contromisure nei confronti dell’ennesimo sgambetto a stelle e strisce: favorire, tramite un “corridoio” sicuro a sud di Raqqa, la fuga di migliaia di soldati ISIS verso Palmira. Ennesima mossa sleale, smentita subito dall’YPG, ma parte, nei fatti, della strategia militare “alleata” verso i Siriani. O dobbiamo dimenticare che i miliziani che ripresero Palmira a dicembre dell’anno scorso venivano, in migliaia, da Mosul attraverso l’unico corridoio “casualmente” rimasto libero, nonché da Raqqa? Del resto, cosa ci facevano ieri 27 pick-up bombardati dall’aviazione russa, con a bordo 120 miliziani ISIS sulla strada che da Raqqa porta a Palmira? Una gita fuori porta?
E’ comunque al centro-sud, che la situazione è notevolmente cambiata nel giro di una settimana. A est di Palmira, la conquista della strada che conduce a Deir Ez-zor procede, lentamente ma procede: siamo a 37 km da Al Sukhna, importante avamposto la cui conquista permetterebbe un’avanzata ancora più decisa su questo fronte. La cartina appena citata permette di apprezzare anche la creazione, ancora in essere all’alba del 25 maggio, di una sacca fra il “gancio” a sud di Palmira che punta verso sud-ovest e una flangia la cui punta più avanzata a sud-est è quella recentemente bombardata a 47 km dalla base USA in territorio siriano di Al Tanf (ibidem). Assistiamo peraltro, ancora più a sud, al tentativo di creazione di un’altra sacca. Anche qui sottolineiamo, per chi non avesse un minimo di memoria storica, o un parente caduto o miracolosamente sopravvissuto dalla Russia, per cui il nome Nikolaewka non significhi qualcosa di più di un semplice indirizzo civico, che il termine “sacca” non è usato a caso e richiama alla strategia militare di terra preferita dai Russi, impiegata recentemente con successo nel Donbass. Ebbene, tale strategia “venuta da lontano” ha consentito in un giorno la conquista di 27 mila kmq con la chiusura della prima, importante, sacca (Lazio e Marche messe insieme, per dare un ordine di grandezza; cartina qui). Cosa significa questo, in termini di strategia verso l’infido vicino giordano? Una cosa sola. Come mostra quest’altra cartina con vista invertita rispetto ai punti cardinali (per intenderci, base di Tanf e confine giordano-iracheno in alto), i “verdi” foraggiati da Washington e Amman sono totalmente in scacco, chiusi in sacche e attaccati da più fronti, costretti a cedere terreno, incapaci di reagire (l’ultimo attacco, condotto venerdì 25 contro la riserva di Zuluf con droni suicida Switchblade e altri ammennicoli gentilmente forniti da Washington è miseramente fallito. Vedasi). Se a questo aggiungiamo che già domenica scorsa erano 50 i km di confine con la Giordania tornati sotto il controllo siriano, il tanto auspicato (da Washington) aiuto dei “verdi” nell’accerchiamento dei “rossi”, nonostante le incursioni yankee da sud, nonostante il continuo foraggiamento a perdere in termini di tecnica, consiglieri militari e attacchi diretti, stanti così le cose è e rimarrà sempre più un auspicio.
E Deir Ez-zor, l’enclave che eroicamente resiste all’accerchiamento totale dei “neri” dell’ISIS? Tiene, aspettando che arrivino, prima o poi, i nostri. Ancora oggi ha respinto un tentativo di sfondamento. Ma la situazione è tutt’altro che stabile. Appare chiaro come sia gli USA, che l’ISIS (accostamento affatto casuale) vedrebbero assai di buon occhio la caduta di questa città, teatro appena qualche mese fa di un attacco terribile che solo per poco non è culminato nella disfatta.
In conclusione, i fatti sul campo stanno mostrando l’efficacia, per il momento vincente, di una scelta coraggiosa, in assoluta controtendenza rispetto a quanto finora occorso. Il bombardamento sulla colonna siriana in avvicinamento ad Al Tanf, piuttosto che l’assegno di 110 miliardi di dollari staccato dai Sauditi per forniture di armi a stelle e a strisce, sono da leggere anche in questa chiave: reazione – tardiva – a una situazione che ha colto e sta cogliendo tutt’ora molti di sorpresa. Ci riaggiorniamo. Nel frattempo, stiamo in campana e non perdiamo il polso di una situazione arrivata, forse, a una svolta decisiva.
Paolo Selmi
Lettera aperta ai ciarlatani della rivoluzione siriana
Nel momento preciso in cui un dirigente storico della resistenza araba libanese, in Siria, è appena spirato sotto i colpi dell’esercito sionista [qui l’autore si riferisce alla morte di Mustafa Badreddine, avvenuta per mano delle milizie antigovernative, inizialmente attribuita ad una incursione aerea israeliana – ndr], indirizzo questa lettera aperta agli intellettuali e militanti di “sinistra” che hanno preso partito per la ribellione siriana e credono allo stesso tempo di difendere la causa palestinese, mentre sognano tutti presi la caduta di Damasco.
Ci dicevate nella primavera del 2011, che le rivoluzioni arabe rappresentavano una speranza senza precedenti per popoli che subivano il giogo di despoti sanguinari. In un eccesso di ottimismo, noi vi abbiamo ascoltato, sensibili ai vostri argomenti su questa democrazia che nasceva miracolosamente e a tutti i vostri proclami sui diritti umani. Siete riusciti quasi a persuaderci che questa protesta popolare che si è portata via i dittatori di Tunisia ed Egitto avrebbe spazzato via la tirannia ovunque e in ogni altra parte del mondo arabo, sia in Libia che in Siria, nello Yemen come nel Bahrain, e chi sa dove altro ancora.
Ma questo bello svolazzo lirico ha lasciato apparire rapidamente qualche falla. La prima, tanto grande da rimanere a bocca aperta, è apparsa riguardo la Libia. Quando, adottata dal Consiglio di Sicurezza per soccorrere le popolazioni civili minacciate, una risoluzione ONU si trasformò in un assegno in bianco per la destituzione manu militari di un capo di Stato divenuto ingombrante per i suoi partner occidentali. Degna dei peggiori momenti dell’era neo-conservatrice, questa operazione di “regime change” compiuta per conto degli USA da due potenze europee con mire di affermazione neo-imperiale è sfociata in un disastro di cui la sfortunata Libia continua oggi a pagare il caro prezzo. Infatti il collasso di questo giovane Stato unitario portò il Paese alla mercé delle ambizioni sfrenate delle sue tribù, sapientemente incoraggiate alle ostilità dalle bramosie petroliere dei carognoni occidentali.
C’erano anche anime belle comunque, tra di voi, tanto per accordare delle circostanze attenuanti a questa operazione, così come ce n’erano, inoltre, in primo piano per esigere che un trattamento analogo fosse inflitto al regime di Damasco. Questo perché il vento della rivolta che soffiava allora in Siria sembrava convalidare la vostra interpretazione degli eventi e sembrava dare una giustificazione a posteriori al bellicismo umanitario già scatenato contro il potentato di Tripoli. Eppure, lontano dai media di “mainstream”, alcuni analisti ci fecero osservare che il popolo siriano era lontano dall’essere unanime nella protesta e che le manifestazioni anti-governative avevano luogo soprattutto in alcune città, bastioni tradizionali dell’opposizione islamista, e che quel febbricitante ambito sociale, composto dalle classi impoverite dalla crisi, non avrebbe mai portato masse di persone alla causa per contribuire alla caduta del governo siriano.
Questi ammonimenti nostri sull’utilizzare il buon senso nella comprensione, voi li avete ignorati, così come i fatti che non corrispondevano alla vostra narrazione, voi li avete filtrati come vi è sembrato meglio. Li dove degli osservatori imparziali vedevano una divisione in poli della società siriana, voi avete voluto vedere un tiranno sanguinario che assassinava il suo popolo. Li dove uno sguardo spassionato permetteva di discernere le debolezze, ma anche i punti di forza dello Stato siriano, voi avete abusato di una retorica moralizzante per istruire a carico di un governo, che era molto distante dall’essere l’unico responsabile delle violenze, un processo sommario.
Voi avete visto le numerose manifestazioni contro Bashar Al Assad, ma non avete mai guardato i giganteschi raduni di sostegno al governo e alle riforme, che riempirono le vie di Damasco, di Aleppo e Tartous. Voi avete stilato la contabilità macabra delle vittime del governo, ma avete dimenticato quella delle vittime dell’opposizione armata. Ai vostri occhi c’erano vittime buone e vittime cattive, alcune che si meritavano di essere menzionate ed altre di cui non si vuole sentire neanche parlare. Deliberatamente voi avete visto le prime, bendandovi gli occhi per rendervi ciechi di fronte alle seconde.
E allo stesso tempo, questo governo francese, del quale criticate volentieri la politica interna per mantenere l’illusione della vostra indipendenza intellettuale, vi ha dato ragione su tutta la linea. Curiosamente, la narrazione del dramma siriano che era la vostra, coincideva con la politica estera del signor Laurent Fabius, un capolavoro di servilismo che mescolava l’appoggio incondizionato alla guerra israeliana contro i Palestinesi, l’allineamento pavloviano con la leadership americana e la solita minestra riscaldata di ostilità nei confronti della resistenza araba. Ma il vostro apparente matrimonio con la Quai d’Orsay non è mai sembrato darvi troppo fastidio. Voi difendevate i Palestinesi nel cortile mentre cenavate con i loro assassini in giardino. Vi capitava anche di accompagnare i dirigenti francesi in visita di Stato a Israele. Eccovi quindi intruppati e complici, assistere allo spettacolo di un presidente che dichiara pubblicamente che a lui “piaceranno sempre i dirigenti israeliani”. Ma ci voleva molto di più per scandalizzarvi e quindi vi siete imbarcati una nuova volta con il Presidente, come tutti d’altronde.
Avete a giusto titolo condannato l’intervento militare americano in Iraq nel 2003. La virtù rigenerante dei bombardamenti per la democrazia non vi scalfiva, e dubitavate delle virtù pedagogiche delle operazioni belliche chirurgiche. Ma la vostra indignazione nei confronti di questa politica della cannoniera in versione “high tech” si dimostrò stranamente selettiva. Poiché reclamavate a tutti i costi contro Damasco, nel 2013, ciò che giudicavate intollerabile dieci anni prima contro Baghdad.
Un solo decennio è bastato per rendervi così malleabili, tanto da vedere ormai la salvezza del popolo siriano in una pioggia incrociata di missili su questo Paese che non vi ha fatto nulla di male. Rinnegando le vostre convinzioni anti-imperialiste, voi avete sposato con entusiasmo l’agenda di Washington. Mentre senza vergogna non soltanto applaudivate in anticipo i B 52, ma riprendevate la propaganda più becera e grottesca degli Stati Uniti, da cui il precedente iracheno e le sue menzogne memorabili dell’era Bush avrebbero dovuto immunizzarvi.
Mentre inondavate la stampa esagonale delle vostre assurdità, fu proprio un giornalista americano d’investigazione d’eccezione, che sbriciolò la patetica “false flag” destinata a rendere Bashar Al Assad il responsabile di un attacco chimico di cui nessun organismo internazionale l’ha accusato, ma che gli esperti del Massachusetts Institute of Technology e l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche, tuttavia, hanno attribuito alla parte avversa. Ignorando i fatti, travestendovi da qualcos’altro alla bisogna, voi avete recitato in questa occasione la vostra parte miserabile in questo melodramma cacofonico di menzogne. E quello che è ancora peggio, è che continuate a farlo. Anche quando lo stesso Obama lascia intendere che lui stesso non ci ha creduto, voi vi ostinate a reiterare queste stupidaggini, come dei cani da guardia che continuano ad abbaiare anche dopo il dileguarsi dell’intruso. E per quale motivo? Per giustificare il bombardamento, da parte del vostro governo, di un piccolo Stato sovrano, il cui torto maggiore è il suo rifiutare di sottostare all’ordine imperiale. E per cosa? Per venire in aiuto di una ribellione siriana di cui voi avete sapientemente mascherato il vero volto, accreditando il mito di un’opposizione democratica e laica che esiste soltanto nelle halls dei Grand Hotel di Doha, di Parigi o di Ankara.
Questa “rivoluzione siriana”, l’avete dunque esaltata, ma avete pudicamente voltato lo sguardo altrove quando si trattava invece di notare le sue pratiche mafiose, la sua ideologia settaria e i suoi finanziamenti dubbi e carichi di problematiche da porsi. Voi avete accuratamente occultato l’odio interconfessionale che la ispira, questa avversione morbida per gli altri credo direttamente ispirata al wahhabismo che ne è il pilastro ideologico. Voi sapevate bene che il regime baathista, in quanto laico e non settario in senso confessionale, costituiva un’assicurazione a vita per le minoranze religiose, ma non ve ne siete dati pena, arrivando addirittura a classificare come “cretini”, coloro che prendevano la difesa dei cristiani perseguitati. Ma non è tutto purtroppo. Arrivati alla resa dei conti, vi resterà appiccicata addosso anche questa ultima ignominia: voi avete fatto da garanti alla politica di un Laurent Fabius per il quale Al Nusra, ramo siriano di Al Qaida, “ fa un buon lavoro in Siria”. E chi se ne frega! Tanto peggio per i passanti sbrindellati nelle vie di Homs o per gli alauiti di Zahra assassinati dai ribelli, tanto, per i vostri occhi questi sono le ultime ruote del carro.
Tra il 2011 e il 2016 le maschere sono cadute. Fate appello al diritto internazionale mentre applaudite alla violazione dello stesso contro uno Stato sovrano. Pretendete di promuovere la democrazia per i Siriani diventando gli araldi del terrorismo che subiscono. Dite di difendere i Palestinesi, ma siete dalla stessa parte della barricata di Israele. Allora state tranquilli, perché quando un missile israeliano si abbatte sulla Siria non sarà mai che colpirà i vostri beniamini. Perché grazie a Israele e alla CIA, ma anche grazie a voi miei cari, questi coraggiosi ribelli continueranno a predisporre il futuro radioso della Siria sotto l’egida del takfirismo. Perché quel missile sionista, che si abbatterà sulla Siria, ucciderà sicuramente e solo uno dei leader di questa resistenza araba di cui cianciate, ma che voi avete tradito.
Bruno Guigue
Strategia segreta del terrore
«Il nemico oscuro che si nasconde negli angoli bui della terra» (come lo definì nel 2001 il presidente Bush) continua a mietere vittime, le ultime a Bruxelles e a Lahore. È il terrorismo, un «nemico differente da quello finora affrontato», che si rivelò in mondovisione l’11 settembre con l’immagine apocalittica delle Torri che crollavano. Per eliminarlo, è ancora in corso quella che Bush definì «la colossale lotta del Bene contro il Male». Ma ogni volta che si taglia una testa dell’Idra del terrore, se ne formano altre.
Che dobbiamo fare? Anzitutto non credere a ciò che ci hanno raccontato per quasi quindici anni. A partire dalla versione ufficiale dell’11 settembre, crollata sotto il peso delle prove tecnico-scientifiche, che Washington, non riuscendo a confutare, liquida come «complottismo».
I maggiori attacchi terroristici in Occidente hanno tre connotati. Primo, la puntualità. L’attacco dell’11 settembre avviene nel momento in cui gli USA hanno già deciso (come riportava il New York Times il 31 agosto 2001) di spostare in Asia il centro focale della loro strategia per contrastare il riavvicinamento tra Russia e Cina: nemmeno un mese dopo, il 7 ottobre 2001, con la motivazione di dare la caccia a Osama bin Laden mandante dell’11 settembre, gli USA iniziano la guerra in Afghanistan, la prima di una nuova escalation bellica. L’attacco terroristico a Bruxelles avviene quando USA e NATO si preparano a occupare la Libia, con la motivazione di eliminare l’ISIS che minaccia l’Europa.
Secondo, l’effetto terrore: la strage, le cui immagini scorrono ripetutamente davanti ai nostri occhi, crea una vasta opinione pubblica favorevole all’intervento armato per eliminare la minaccia. Stragi terroristiche peggiori, come a Damasco due mesi fa, passano invece quasi inosservate.
Terzo, la firma: paradossalmente «il nemico oscuro» firma sempre gli attacchi terroristici. Nel 2001, quando New York è ancora avvolta dal fumo delle Torri crollate, vengono diffuse le foto e biografie dei 19 dirottatori membri di al Qaeda, parecchi già noti all’FBI e alla CIA.
Lo stesso a Bruxelles nel 2016: prima di identificare tutte le vittime, si identificano gli attentatori già noti ai servizi segreti.
È possibile che i servizi segreti, a partire dalla tentacolare «comunità di intelligence» USA formata da 17 organizzazioni federali con agenti in tutto il mondo, siano talmente inefficienti? O sono invece efficientissime macchine della strategia del terrore? La manovalanza non manca: è quella dei movimenti terroristi di marca islamica, armati e addestrati dalla CIA e finanziati dall’Arabia Saudita, per demolire lo Stato libico e frammentare quello siriano col sostegno della Turchia e di 5mila foreign fighters europei affluiti in Siria con la complicità dei loro governi.
In questo grande bacino si può reclutare sia l’attentatore suicida, convinto di immolarsi per una santa causa, sia il professionista della guerra o il piccolo delinquente che nell’azione viene «suicidato», facendo trovare la sua carta di identità (come nell’attacco a Charlie Hebdo) o facendo esplodere la carica prima che si sia allontanato.
Si può anche facilitare la formazione di cellule terroristiche, che autonomamente alimentano la strategia del terrore creando un clima da stato di assedio, tipo quello odierno nei Paesi europei della NATO, che giustifichi nuove guerre sotto comando USA.
Oppure si può ricorrere al falso, come le «prove» sulle armi di distruzione di massa irachene mostrate da Colin Powell al Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 5 febbraio 2003. Prove poi risultate false, fabbricate dalla CIA per giustificare la «guerra preventiva» contro l’Iraq.
Manlio Dinucci
Ecco cosa è veramente accaduto nello spazio aereo siriano il mese scorso
Secondo fonti molto affidabili, la Siria aveva accettato tramite terzi un accordo segreto per l’utilizzo da parte degli aerei da combattimento della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti di tre corridoi aerei finalizzati a bombardare le postazioni del “DAESH”, acronimo arabo dell’organizzazione terroristica denominata “Stato Islamico”, sul suo territorio.
Tuttavia, nel mese di gennaio del 2015, in flagrante violazione degli accordi segreti fra i Paesi della coalizione e la Siria, aerei da guerra israeliani hanno utilizzato uno dei corridoi designati e penetrato lo spazio aereo siriano. Gli aerei israeliani avevano proceduto al lancio di cinque missili terra-aria “Popeye” (prodotti da Rafael Advanced Industries, Lockheed e Turkish Aerospace Industries, conosciuti anche con la designazione AGM-142 Have Nap negli Stati Uniti) contro obiettivi precisi in zone non colpite dalla guerra in Siria. La difesa anti-aerea siriana è riuscita a distruggere tre dei cinque missili in volo. Gli altri due hanno raggiunto i loro obiettivi.
Molto irritati a seguito di quest’incidente, alcuni ufficiali siriani hanno chiesto a un grande Paese terzo di avvisare i Paesi della coalizione dell’esistenza di alcune zone in Siria dove gli aerei della coalizione sarebbero stati sistematicamente abbattuti. Queste zone comprendono la capitale Damasco, tutta la costa del Mediterraneo e le zone sotto controllo delle forze armate siriane.
Immediatamente, tutti gli aerei della coalizione coinvolti nella campagna di bombardamenti aerei contro le postazioni del DAESH nella parte orientale e settentrionale della Siria hanno cominciato ad essere sistematicamente “contrassegnati” o “illuminati” in modo potente dai radar dell’esercito siriano e da quelli di nuova generazione, in dotazione alla base di guerra elettronica russa sita a Tartus. Dopo quest’incidente, l’utilizzo di caccia F-22 Raptor sulla Siria è stato interrotto. Londra, Parigi e Ankara hanno rilanciato allora le loro campagne e dichiarazioni ostili nei confronti della Siria.
Il 14 febbraio del 2015, in una mossa senza precedenti e molto audace, i cacciabombardieri siriani, scortati da velivoli MIG-29, sono penetrati a quota molto bassa nello spazio aereo del Libano prima di deviare verso sud in direzione della frontiera israeliana, per virare infine verso est ed entrare in Siria sulle alture del Golan e prendere in contropiede le postazioni ribelli del Fronte al-Nusra.
Il 17 marzo 2015, un aereo non identificato è penetrato dalla Giordania nello spazio aereo siriano. Ѐ stato immediatamente identificato come un drone del tipo MQ1 B Predator e monitorato come lo sono tutti gli aerei della coalizione. Ma il drone ha deviato dal suo corridoio designato per dirigersi su Latakia, sorvolando una zona vietata ai velivoli della coalizione internazionale. Dopo un avvertimento, il drone ha cominciato a fare dei cerchi sopra la zona di Latakia. Il comando della difesa aerea del territorio ha ordinato allora a una batteria di missili terra-aria Sol-Air del tipo S-125 Neva/Pechora 2M di abbattere il drone. Un solo missile è stato lanciato. I resti del Predator sono caduti su un edificio civile, e sono stati rapidamente recuperati da un’unità speciale dell’esercito siriano.
La domanda posta da molti analisti è quella relativa al comportamento assai singolare del drone. Perché ha persistito a sorvolare in cerchio una zona dove le difese antiaeree lo avevano illuminato? Quale era lo scopo di questa manovra? Quale l’obiettivo (umano) di questa missione a Latakia? Era un tentativo di spingere i Siriani ad aprire il fuoco per primi? A quale scopo? La risposta all’ultima domanda sembra inserirsi nel quadro di un casus belli per giustificare l’inizio di una nuova strategia in preparazione. Una tesi rafforzata dalla assai prevedibile rielezione del Primo ministro israeliano ultra-estremista Benjamin Netanyahu, dopo votazioni farsa, mentre Israele si considera in guerra totale, guidato da un “dittatore” (nell’accezione dei tempi della Repubblica Romana ) non dichiarato.
Gli Stati Uniti hanno riconosciuto di aver perso i contatti con uno dei loro droni sulla Siria. Damasco non ha commentato l’annuncio, ma un media ufficiale ha reso pubblica la notizia che un drone statunitense è stato abbattuto dalla difesa antiaerea siriana.
Fonte – traduzione di M. Guidoni
La Primavera Siriana: dai prodromi al Califfato
Relazione di Mons. Giuseppe Nazzaro, ex Visitatore Apostolico di Aleppo ed ex Custode di Terrasanta, al convegno “Siria, ascoltiamo la gente”, organizzato dall’associazione Impegno Civico lo scorso 30 Ottobre presso l’Istituto Veritatis Splendor di Bologna.
Si tratta di una lettura impegnativa per la lunghezza ma… “dulcis in fundo” (o “in cauda venenum”, direbbero gli atlantisti).
Mi sia concesso iniziare questa mia presentazione affermando che, prima del 15 marzo 2011 non erano tantissime le persone al mondo che conoscevano dove trovare la Siria sulla carta geografica. Era un problema di pochi addetti ai lavori. Interessava piuttosto certi ambienti colti che si interessavano di archeologia, dei popoli legati alle antiche civiltà assiro-babilonesi o di storia del cristianesimo.
Il mondo intero, oggi, parla della Siria e si interessa di questo Paese di circa 185.180 kmq , che si estende sulla costa del Mediterraneo Orientale per circa 80 kilometri.
I prodromi di una situazione
La data del 15 marzo 2011, ufficialmente, coincide con quella che possiamo definire: l’inizio di una rivoluzione nata quasi per gioco al confine con la Giordania, sui muri della città di Dera’a, ad opera di dodicenni che s’erano divertiti a scrivere dei graffiti del seguente tenore: “abbasso il regime”.
Ciò che all’inizio, poteva sembrare un gioco o, meglio, una ragazzata, in realtà, non era altro che l’inizio di una richiesta di maggiore apertura al Governo centrale del Paese che, per i non addetti ai lavori o per chi non aveva conosciuto la Siria prima dell’anno 2000, avrebbe potuto anche essere una richiesta legittima. Chi invece vi è vissuto ha visto e costatato con i propri occhi e con tutto il suo essere, non solo l’apertura del Governo verso le riforme sociali, ma soprattutto ha visto il benessere che le riforme avevano già portato e continuavano a portare al popolo siriano.
Ora non penso di dire un’eresia se affermo che il giovane dottore Bachar El-Assad, dopo alcuni mesi dalla sua elezione alla Presidenza della Repubblica Araba Siriana, ha iniziato immediatamente una serie di riforme per il benessere del Paese e dei suoi compatrioti: commercio con l’estero, turismo interno ed estero, soprattutto libertà di movimento, di istruzione per uomini e donne. Le donne libere professioniste in continuo aumento, l’Università aperta a tutti senza distinzione di sesso. Un Paese dove vivevano diverse etnie 23 gruppi religiosi e tutti si rispettavano e si accettavano come facenti parte, come in realtà si ritenevano, di un’unica realtà e figli di un unico Paese che era la Siria, casa e Patria comune a tutti. Dal punto di vista religioso tutti erano liberi di esercitare e vivere il loro credo rispettati ed accettati da tutti. Continua a leggere
A volte anche quattro
Carissimi, come forse avrete saputo sono appena tornato dal mio viaggio di attivista per i diritti umani (dal 30 agosto al 16 settembre) più pericoloso… evidentemente l’ultima ora non era ancora giunta… 🙂 … e ho registrato con un bravo musicista Ya Sūriyya (1), che ora la radio principale di Damasco, Saut al-Shaeb (La voce del Popolo), trasmette in tutto il Paese!…
quando ci rivedremo, spero presto!, vi racconterò tutto a voce. Per intanto vi dico solo questo: ho partecipato a Tartus, roccaforte inespugnabile, piena di povera gente sfollata da altre città (la tragedia si sente indirettamente, ma incombe terribile… le foto delle migliaia di uccisi ti guardano dai muri, dalle finestre…persino dai vetri delle automobili), a un’assemblea delle madri dei martiri… commovente e impressionante… a rappresentarle una signora che nell’arco di 40 giorni ha perso, trucidati dagli islamobeccai, il marito (generale dell’esercito), il padre, un fratello e un figlio…
Immaginate l’orrore: meno di un mese fa in un villaggio della provincia di Latakia (con Tartus il porto principale della Siria e dove sono principalmente concentrati gli alauiti) i mostri islamici del Kali Yuga (a libro paga dei pedoemiri, del Mossad, della Cia, del Mi6, della Nato, cioè dell’Occidente predone, e orwelliano) hanno BOLLITO VIVI quattro bimbi e sventrato la loro madre incinta, facendo a pezzi il feto… in Siria gli orrori compiuti dai terroristi abominevoli, che anche l’ItaGlia disgraziata appoggia, sono all’ordine del giorno… ogni famiglia piange i suoi morti… è penetrata nella Repubblica Araba siriana (l’unica, insieme con l’Algeria e oggi, forse, speriamo, il nuovo Egitto, rimasta laica e indipendente) la feccia dell’umanità… alieni mercenari… pendagli da forca, letteralmente (2)… sequestratori, torturatori, mozzateste, cannibali, trafficanti d’organi, assassini seriali (3)… boia assistiti e istruiti dagli appositi sbirri turchi e specialisti anglogiudamericani… drogati dai loro imam teocratici… e pieni di anfetamine, cocaina, ecstasy… tanto trogloditi, plagiati e deficienti, quanto criminali efferati: una schifosa e incredibile invasione… sponsorizzata dai “democratici”. E quello che leggete sui giornali tutti asserviti e ascoltate-vedete in televisione è FALSO. Siamo davvero all’interno della società degli spettri. Continua a leggere
Ecco le prove!
Da ridere per non piangere…
New York, 28 agosto – Conversazioni intercettate dai servizi segreti americani lunedì scorso dimostrerebbero il ruolo del regime siriano nell’attaco con armi chimiche a est di Damasco. Lo riporta in esclusiva la rivista Foreign Policy.
Le intercettazioni riguardano telefonate di un funzionario della difesa siriana con un leader dell’unità siriana armi chimiche. Nella conversazione si chiede conto e ragione dell’attacco al sarin in cui sarebbero morte oltre mille persone. Queste conversazioni avrebbero dato a Washington la certezza che gli attacchi sono opera del regime di Bashar al Assad, scrive Foreign Policy.
(ANSA)
Dalla Siria
Il giorno della festa dei lavoratori del mondo
al-Jumhūriyya al-ʿArabiyya al-Sūriyya, questa la denominazione completa della Repubblica Araba di Siria. Ricorda il nome della Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista. A poco più di un anno dal mio viaggio in Libia, sono sbarcato nella tarda serata del 30 aprile 2012 all’aeroporto di Damasco. In quell’occasione ero coi British Civilians for Peace in Libya, oggi mi trovo qui con altri osservatori, ma allo stesso scopo: vedere personalmente qual è la realtà dei fatti e riferirne. Siamo un gruppo di italiani, alcuni nati in Siria, come Jamal Abo Abbas, capo della comunità siriana di Roma, che ha organizzato il viaggio. A uno di loro, Ahmad Al Rifaele, hanno appena ammazzato il cugino, Kusai Malek, e il cognato del cugino, Bashar Halimeh. La sua famiglia abita nella periferia di Damasco. Mi racconta una storia simile a tante altre che ascolterò in seguito. Gli uccisi non erano soldati e neanche sostenitori attivi del regime. Semplicemente non aderivano alle manifestazioni dei “ribelli”. E’ bastato questo, può bastare anche solo questo. Alle 3 di mattina di venerdì scorso i terroristi sono penetrati in casa e hanno sgozzato uno dei due, sparando mortalmente all’altro. E hanno rubato tutto quello che era possibile portar via. Per un miracolo non ci sono stati altri morti. A volte sterminano le famiglie per intero, così che non rimangano testimoni. Poi attribuiscono la carneficina ai soldati dell’esercito regolare. Arriviamo al Cham Palace, in pieno centro, e troviamo una città quasi deserta. Fino a un mese e mezzo fa, mi dicono, Damasco era vivissima anche in piena notte. L’esperienza libica insegna una dura lezione. Tutti sanno che l’avvenire della Siria è legato a quel che farà la Cina e, soprattutto, la Russia. Se i due alleati decidessero, per qualche motivo, di togliere la solidarietà al Paese come accadde nei confronti della Giamahiria, la torva dei predatori “umanitari” si scatenerebbe. Sono lì in attesa, coi loro aerei, le loro bombe radioattive, le loro truppe d’assalto specializzate. Per ora impiegano e foraggiano, tramite l’Arabia e il Qatar, dalle basi in Turchia, le formazioni dei tagliagola libici, iracheni, afghani, pachistani, yemeniti, in piccola parte siriani. Partecipano anche direttamente con alcuni gruppi di “istruttori” e contractors, lo dimostrano i francesi arrestati pochi giorni fa. Ma sono casi singoli, come piccole gocce in attesa della cascata di veleno. Quest’aria di catastrofe incombente l’avevo respirata anche a Tripoli. Allora, mi ricordo, c’era una sorta di paradossale spensieratezza persino nella tragedia, sembrava impossibile la vera e propria devastazione. Dalla finestra del mio hotel vedevo la spiaggia e il porto e il mare tranquilli, il traffico delle automobili regolare, l’azzurro del cielo immacolato. L’Africa non avrebbe permesso che la Libia, il suo gioiello, venisse stuprata e distrutta. Ora sappiamo di cosa sono capaci gli imperialisti e gli orridi mostri “islamici”. Le immagini della tortura, sodomizzazione e omicidio, in mondovisione, di Muammar Gheddafi e poi dell’oscena megera ridens di hamburgerlandia sono impresse come memento mori negli occhi di tutti anche in Siria, da Bashar al-Assad all’ultimo eroico soldato o lavoratore della terra. E nessuno dimentica che solo la Siria e l’Algeria (quest’ultimo il Paese che ospita i familiari ancora in vita del grande Gheddafi) si opposero alla risoluzione per la no-fly zone sulla Libia votata dai traditori della Lega Araba. E’ un progetto e ruolino di marcia implacabile a suo modo grandioso, quello degli occidentali, stabilito più di dieci anni fa. Le “primavere” dei signori del caos, l’opera enorme di frammentazione e spoliazione “autogestita” del Medio Oriente, puntano al’Iran e infine alla Russia. Che per prima lo sa bene. Sarà capace, avrà la forza di opporsi a questo disegno? L’interrogativo incombe tremendo e nessuno, in cuor suo, fa finta di illudersi. Anche perché gli agenti del nemico sono attivi più che mai. Siamo immersi nella società degli spettri, “superamento” di quella dello spettacolo. La base da cui si origina ogni rappresentazione ed ermeneutica di questo genere di conflitti fornita dagli organi del “mainstream” non è più la realtà, ma un suo Ersatz costruito a tavolino ovvero in studios appositi, una fanta-realtà virtuale, modellata ad usum Delphini. Essa giustifica di fronte alla falsa coscienza ciò che è stato programmato, e dovrà accadere. La ricostruzione e la messa in onda a cura di al-Jewzeera, nel deserto del Qatar, della piazza centrale di Tripoli invasa dai manifestanti “democratici” giorni prima della caduta stessa della città, certificano che il sistema funziona. Ora terroristi hanno cominciato a commettere i loro crimini con l’uniforme degli agenti della sicurezza. Quel che si vuole, appunto, è che scompaia la distinzione tra vero e falso. E alla fine la responsabilità di tutti gli orrori ricada sulle autorità dell’ultimo Stato arabo laico e antisionista. Voltato l’angolo della strada c’è una grande banca che ha appena subìto un attentato. A pochi passi il Parlamento siriano, altro obiettivo sensibile. Il nostro punto di osservazione è privilegiato. Continua a leggere