La guerra non poteva essere impedita


“Chi ha seguito le vicende ucraine senza pregiudizi ideologici, e con un minimo di onestà intellettuale, sa che al momento della dissoluzione dell’URSS, l’Ucraina era una potenza economica, la terza potenza industriale dell’Unione Sovietica dopo Russia e Bielorussia, oltre che il suo granaio. Questa repubblica sovietica possedeva industrie aerospaziali, automobilistiche e di macchine utensili, i suoi settori minerario, metallurgico e agricolo erano ben sviluppati, come i suoi impianti nucleari e petrolchimici, le sue infrastrutture turistiche e commerciali. Ospitava inoltre il più grande cantiere navale dell’URSS.
A partire dal 1991, anno della sua indipendenza, il PIL dell’Ucraina è rimasto indietro rispetto al livello raggiunto in epoca sovietica, la capacità industriale si è notevolmente ridotta e la popolazione è diminuita di circa 14,5 milioni di persone in 30 anni a causa dell’emigrazione e del più basso tasso di natalità in Europa. Non solo, l’Ucraina è anche diventata il terzo debitore del FMI e il Paese più povero d’Europa. Questi record negativi non possono essere imputati solo alla corruzione sistemica e spaventosa dell’Ucraina: le reti di corruzione che hanno spremuto l’Ucraina sono transnazionali.
L’Ucraina è stata vittima di due rivoluzioni colorate finanziate dagli Stati Uniti che hanno portato a un cambio di regime e ad una guerra civile che l’hanno separata a forza dal suo principale partner economico, la Russia. La sua storia è stata cancellata e riscritta, le ricette neoliberali hanno distrutto il suo tessuto economico e sociale instaurando una forma di governo neocoloniale.
L’Ucraina è entrata a far parte del nefasto Partenariato Orientale dell’UE nel 2009 e, fin dalla sua indipendenza, è stata invasa da ONG, consulenti economici e politici occidentali. Lo stato di soggezione del Paese ostaggio degli interessi anglo-americani si è cementato dopo che l’ultimo governo ucraino che si era opposto alle dure condizioni del FMI è stato rovesciato dal colpo di Stato sponsorizzato dagli Stati Uniti nel 2014.
Il 10 dicembre 2013, il presidente ucraino Viktor Yanukovich aveva dichiarato che le condizioni poste dal FMI per l’approvazione del prestito erano inaccettabili: “Ho avuto una conversazione con il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden, mi ha detto che la questione del prestito del FMI è stata quasi risolta, ma gli ho ripetuto che se le condizioni fossero rimaste tali non avremmo avuto bisogno di tali prestiti”. Yanukovich ha quindi interrotto i negoziati con il FMI e si è rivolto alla Russia per ottenere assistenza finanziaria. Era la cosa più sensata da fare, ma gli è costata cara. Non è possibile rompere impunemente le catene del FMI: questo fondo a guida americana concede prestiti a Paesi con l’acqua alla gola in cambio della solita shock therapy fatta di austerità, deregolamentazione e privatizzazione, e prepara in questo modo il terreno per gli avvoltoi della finanza internazionale, quasi sempre angloamericani.
Se si permette a coloro che hanno distrutto un Paese di essere coinvolti nella sua ricostruzione, essa sarà inevitabilmente solo un punto sul continuum di conquista, occupazione e saccheggio, anche se viene imbellettato. La distruzione produce quella tabula rasa su cui l’occupante può scrivere le proprie regole: “Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove hanno fatto il deserto, lo chiamano pace”. Tacito conosceva bene sia la realtà che la propaganda dell’imperialismo romano. Ci si può solo chiedere se coloro che parlano di “ricostruzione”, “ripresa”, “riforma”, “ordine fondato sulle regole”, “reset” o qualsiasi altra espressione di moda al momento, siano consapevoli di questa realtà brutale o credano veramente alla propria propaganda. In ogni caso, promettono un’utopia futura per la quale vale la pena uccidere e morire.
(…) Vendere una guerra richiede un impegno a tutto campo, ed è per questo che i think tank e gli specialisti di marketing sono stati coinvolti fin dalle prime fasi. Essi generano narrazioni che contribuiscono a plasmare lo spazio discorsivo, a creare una percezione di sostegno universale per l’Ucraina, a fornire punti di discussione e versioni della verità sia ai politici che ai media. Devono motivare gli ucraini affinché continuino a combattere e i vassalli europei affinché continuino a finanziare la guerra e ad armare l’Ucraina, indipendentemente dalle devastanti perdite umane ed economiche che ciò comporta.
(…) I politici europei, mentre sono alle prese con i costi sempre più crescenti di una guerra per procura degli Americani nel loro continente, come meccanismo di compensazione sostengono l’idea assurda che una soluzione di pace in Ucraina minaccerebbe la sicurezza europea e non sarebbe nell’interesse del Vecchio Continente. La retorica della ricostruzione, intrecciata all’illusione di una vittoria dell’Ucraina, permette al partito transatlantico della guerra di presentarsi come una forza del bene e un motore di crescita futura. I promotori della ricostruzione hanno cercato aggressivamente di occupare il terreno morale estromettendo i costruttori di pace e per farlo hanno spinto la tesi che la guerra non poteva essere impedita né fermata.”

Da Promuovere la ricostruzione in Ucraina per alimentare la guerra, di Laura Ruggeri.

Un errore strategico che mette a repentaglio i fondamenti del potere


“I principali detentori di titoli di debito USA all’estero sono Cinesi, Giapponesi, Arabi e Belgi. Il presupposto di tali acquisti è ovviamente la fiducia nelle istituzioni finanziarie americane: ed è proprio qui il punto nodale e l’errore tattico di fondo che incrina irrimediabilmente questa fiducia. E’ l’errore tattico che si traduce in disastro strategico. Immaginate che la vostra banca decida di congelare e sequestrare i vostri soldi, regolarmente depositati presso un conto corrente, perché avete preso a schiaffi il vostro vicino di casa e questi potrebbe reclamare un risarcimento danni. Certamente arriverà la Polizia per farvi smettere, e ci sarà un giudice che vi giudicherà per le vostre azioni e magari vi condannerà a un risarcimento dei danni. Dopodiché potrete fare appello contro la sentenza di condanna, e comunque per portarvi via i soldi si devono seguire certe regole stabilite dalla legge (esecutorietà dei titoli, pignoramenti, vendite forzate, eccetera). Insomma, che c’entra la vostra banca con la lite con il vostro vicino? Niente, anzi in genere le banche erano vicine ai loro clienti e cercavano di tutelarne gli interessi a tutti i costi, magari anche con comportamenti al limite o fuori dalla legge, per esempio nascondendo dietro scatole fumose i vostri soldi per sottrarli alle pretese dei terzi creditori. E invece qui, la vostra banca agisce per prima contro di voi sequestrandovi i soldi perché siete stato cattivo e perché domani potrà risarcire il vostro avversario. Se questa cosa capitasse a un vostro amico o conoscente, pensereste che non ci si può fidare di una banca così fatta e che è prudente togliergli i soldi dalle mani al più presto pere evitare che capiti anche a voi. Ora, immaginate che cosa hanno pensato i governanti di Cina, Arabia Saudita, Emirati, India e altri simili Paesi che sono gonfi di titoli del debito pubblico USA. Gli americani, ad esempio, potrebbero pensare domani che la guerra in Yemen è un crimine contro l’umanità (lo è, ma dato che finora è conforme ai loro interessi, si guardano bene dal dirlo), e sequestrare i fondi dell’Arabia Saudita depositati presso di loro. O imporre sanzioni ai Paesi dell’OPEC perché non buttano fuori la Russia dall’organizzazione o perché riducono la produzione per tenere alto il prezzo del petrolio. Il sequestro dei trecento miliardi di dollari che Elvira Nabiullina, Governatore delle Banca centrale Russa aveva (ingenuamente) depositato nelle istituzioni finanziarie occidentali fidando sul rispetto delle regole generali di fiducia tra le banche, ha scatenato il panico in tutto il resto del mondo. Ciascun Paese ha il suo “buco nero” per il quale può domani essere accusato dagli Americani e sottoposto a sanzioni ritrovandosi dalla sera alla mattina senza soldi per fare fronte alle proprie obbligazioni. Ed è cominciata non solo una lenta ma costante fuga dal dollaro, ma anche un’affannosa ricerca di un’alternativa ad esso come moneta di riferimento. Il dollaro è tuttora la moneta di riferimento per le transazioni internazionali, e non solo per le merci che provengono dagli USA, ma anche per le transazioni tra altri Paesi del mondo. Questo fatto, ovviamente, sostiene la domanda globale di dollari, ma sta venendo rapidamente meno: i paesi del BRICS stanno elaborando un sistema di pagamenti alternativi e nel frattempo un numero crescente di transazioni tra di loro viene effettuata in monete locali o in monete di Paesi amici, come il Yuan cinese, ad esempio. La facilità con cui le banche russe sono state estromesse dal sistema di pagamenti SWIFT, ha mostrato che gli Occidentali non si fanno scrupoli di utilizzare un meccanismo studiato per facilitare gli scambi mondiali come un’arma politica. Ma in fondo, lo SWIFT non è altro che un programma che può ben essere sostituito da un altro programma che sia sottratto all’uso politico di un Paese con pretese di dominazione globale. E se si riduce la domanda di dollari, c’è la conseguenza certa di un’implosione del debito pubblico americano e soprattutto del debito estero, con una forte inflazione interna e una svalutazione del dollaro e delle monete sue alleate, euro e Sterlina, soprattutto.
Aver rotto il patto di fiducia tra depositanti e banche comporta il rischio di un tracollo del sistema finanziario occidentale che si fonda proprio su questo patto di fiducia. Certamente, per comprare merci USA ed europee è necessario acquistare dollari e euro, ma anche per comprare merci cinesi o indiane è necessario acquistare Yuan e Rupie. E se le economie occidentali, sul piano finanziario valgono poco meno del 50% del PIL mondiale, esse contano per il 24% circa del PPA, ovvero del PIL per Potere di Acquisto, e il 13% circa della popolazione mondiale. E se le economie occidentali sono stagnanti o in recessione, le economie dei Paesi terzi sono invece in rapida crescita e alla fine le loro logiche finiranno per prevalere. A meno che non si faccia una guerra talmente devastante da inibire quella crescita e fondare il potere sulle cannoniere piuttosto che sulle monete. Già, appunto, la guerra.”

Da L’errore fatale del potere, di Domenico De Simone.

Dalla pandemia alla guerra

La crisi raccontata dal professor Fabio Vighi (Cardiff University)

Dalla “guerra al Virus” alla “guerra di Putin”. Dal rischio di vivere in uno stato d’emergenza permanente alla “demolizione controllata” dell’economia reale, attraverso strumenti di controllo biopolitico, quali il Green Pass. Partendo dal periodo pre-pandemico il professor Fabio Vighi ripercorre la crisi strutturale in cui siamo piombati e dalla quale sembra quasi impossibile uscire. Codirettore, unitamente ad Heiko Feldner, dell’Ideology Critique and Žižek Studies (centro che promuove la ricerca nell’ambito della teoria critica e politica), Fabio Vighi è professore di cinema e teoria critica alla Cardiff University. Vive e lavora nella capitale del Galles dal 2000, dove studia l’ideologia del “capitalismo di emergenza”. Ha pubblicato numerosi volumi in lingua inglese, tra cui Critical Theory and the Crisis of Contemporary Capitalism (2015) e Unworkable: Delusions of an Imploding Civilization (2022). Gli scenari prospettati dal docente non sono rassicuranti. Sui problemi dell’Italia e degli Italiani il professore si rifà a un’affermazione lucida e impietosa di Pier Paolo Pasolini: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”.

Professore, con la guerra tra Russia e Ucraina sembra sia iniziato il secondo tempo dello stesso, macabro film. La sceneggiatura è simile a quella utilizzata per la pandemia, di cui ormai non parla più nessuno: fino a poco tempo fa i nemici erano i no-vax, ora sono i Russi e, in particolare, Putin. Dove si può collocare la verità?

“Credo che la verità si debba collocare a livello sistemico. Il capitalismo globalizzato a trazione finanziaria, per come ci si presenta dalla crisi del 2008, ha un disperato bisogno di continue emergenze per giustificare manovre monetarie espansive sempre più grottesche, che dividono il mondo tra una sparuta élite di ultra ricchi (il cosiddetto 0,01%) e masse sempre più impoverite e disorientate”.

Più precisamente…

“La necessità di creare emergenzialismo a getto continuo ha due motivazioni principali: 1) giustificare la creazione di montagne di debito a basso costo da parte delle banche centrali (Federal Reserve in primis) – debito che viene perlopiù investito in altro debito nei mercati finanziari; 2) permettere di scaricare la responsabilità della crisi economica reale sulla figura del Mostro, come si sta facendo ora, per esempio, con l’inflazione attribuita a Putin. Attraverso la produzione seriale di emergenze si cerca dunque di nascondere una crisi strutturale di valorizzazione. Ciò significa che il sistema capitalistico ha raggiunto il suo limite espansivo e non è più in grado di generare sufficiente ricchezza per la riproduzione sociale. Questa impotenza lo rende totalmente dipendente dall’ideologia dell’emergenzialismo. Da qui la transizione fluida da Virus a Putin, che assolvono praticamente lo stesso ruolo di “garanti” di un sistema ormai senescente trainato da denaro creato artificialmente con il click del mouse di un computer. Il gigantismo del capitalismo finanziario è la tragica conseguenza del sopravvenuto nanismo dell’economia capitalistica reale – una situazione ormai irreversibile”.

Il virus esisteva davvero e, talora, uccideva veramente. Pure le bombe ammazzano, ma perché l’Italiano medio deve fare sempre il “tifoso”, accettando la costruzione di un nemico? All’Italia non conveniva rimanere neutrale, anziché fornire armi ed equipaggiamenti all’Ucraina? L’articolo 11 della Costituzione afferma che l’Italia ripudia la guerra…

“Non scopriamo nulla di nuovo nel dire che l’Italia è eterodiretta, non solo culturalmente ma anche perché piena zeppa di basi militari USA. Siamo ridotti allo stato di colonia e da colonia veniamo trattati, con il consenso di una classe politica sempre più ignorante e opportunistica. In più possiamo vantare una situazione economica disastrosa (debito pubblico) che non ci lascia molto spazio di manovra a livello negoziale. Purtroppo, la logica dello stato di emergenza (se non di eccezione), che ormai è strutturale, vince a mani basse sulla Costituzione. Lo stato di emergenza viene trattato come merce di scambio rispetto ad aiuti economici, nella fattispecie (per l’Italia) dalla BCE – aiuti che ovviamente comportano ulteriore indebitamento nonché l’imposizione delle famigerate riforme. Insomma un cappio al collo che si stringe lentamente fino a soffocarci. Le sembra un caso che lo stato di emergenza per Covid, imposto dal governo Draghi, scada il 31 marzo, proprio in concomitanza con la scadenza del PEPP (programma di sostegno pandemico della BCE)? Le pare che questa scadenza sia motivata da ragioni sanitarie?”.

Cosa accadrebbe se la BCE smettesse di acquistare il nostro debito?

“Se la BCE dovesse smettere di acquistare il nostro debito piomberemmo subito in recessione. Le ultime dichiarazioni della Lagarde in merito alla riduzione dell’APP (che andrà a sostituire gli aiuti emergenziali del PEPP) avevano indotto a ipotizzare un rapido ritorno alla fine del 2011, quando i rendimenti sui BTP a 10 anni s’impennarono oltre il 7%, sdoganando le cosiddette ‘riforme strutturali’. Se non fosse che proprio ieri (17 marzo) la Lagarde ha fatto retromarcia: dopo appena una settimana, alla luce degli eventi in Ucraina, si dice già pronta a frenare sulla stretta monetaria. Tutto come ampiamente previsto. La guerra di Putin sarà spremuta oltre l’immaginabile per giustificare la creazione di denaro (debito) dal nulla – esattamente come successo con Covid-19. Quanto agli italiani, così li descriveva Pasolini negli anni ’60: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”. Dopo oltre mezzo secolo, la situazione è addirittura peggiorata. Il cosiddetto “popolo italiano” tende a rispondere direttamente agli algoritmi del sistema di dominio tecnocratico, mentre le classi medie sono in preda a un irrigidimento conformistico sempre più cieco e disperato, la cui funzione è negare ostinatamente il loro graduale ma inesorabile impoverimento, la loro perdita di status. Non che vada meglio altrove, ma forse non è un caso che l’Italia sembri essere il terreno ideale su cui testare i programmi distopici del futuro (il famoso ‘laboratorio sociale’)”.

Parliamo delle sanzioni comminate alla Russia e delle loro possibili ripercussioni economiche. Alcune banche russe, ad esempio, sono fuori da Swift: chi si farà più male? La Russia o l’Europa? L’Italia rischia la bancarotta?

“Quello delle sanzioni è un argomento delicato, perché non si capisce a chi possano giovare. Se la Russia dovesse crollare, come ci raccontano i media, credo abbia risorse per riprendersi abbastanza velocemente, anche grazie allo spostamento dell’asse commerciale verso la Cina, che è già in cantiere da tempo. D’altra parte, molte banche d’investimento occidentali sono pesantemente esposte al debito russo, quindi rischiano contraccolpi molto dolorosi. Senza contare il danno economico diretto che le sanzioni avranno soprattutto sull’Europa, vista la sua dipendenza dalla Russia, non solo energetica ma riguardante tutta la filiera alimentare, a partire dai fertilizzanti. Credo per altro che vi sia un’ipocrisia di fondo nell’imposizione di queste sanzioni, che si misura sul semplice fatto che Gazprombank ne è rimasta esclusa, proprio perché responsabile del commercio del gas russo con l’Europa. Come ha sintetizzato Wolfgang Munchau (ex Financial Times): “L’UE fa il tifo per l’Ucraina da una comoda distanza di sicurezza, osservando il conflitto da salotti riscaldati dal gas russo.” Se le cose stanno così, cioè se le sanzioni si riveleranno non un bazooka ma una pistola ad acqua, se non addirittura un boomerang, allora la spiegazione dev’essere ricercata a un livello di analisi più profondo”.

Quale?

“In primo luogo sono ingrediente fondamentale nella narrazione di quella che potremmo chiamare la Putin-pandemia: facilitano cioè la “mostrificazione” di Putin, la sua elevazione a nemico pubblico numero uno, che d’incanto ci mette dalla parte giusta della storia – la parte del Bene. Noi infatti siamo gli occidentali virtuosi che non bombardano popoli biondi e dagli occhi azzurri, ma solo popoli evidentemente meno degni di commozione umanitaria (iracheni, libici, afgani, siriani, somali, etc.); che sono, come purtroppo si sente dire sui media, meno civilizzati, meno simili a noi. È evidente che questa strategia servirà a scaricare su Putin e la Russia sia la colpa di un’inflazione in realtà strutturale, che la responsabilità di tutte le misure emergenziali che dovremo continuare a sciropparci per motivi che non hanno nulla a che vedere con Putin. In ultima istanza questo atteggiamento servirà a giustificare quella che ho chiamato la ‘demolizione controllata’ dell’economia reale, sia in Italia che altrove”.

I principali esportatori di gas verso l’Italia sono Russia (pari al 46% circa) e, in misura inferiore, Algeria, Qatar, Norvegia e Libia. A chi ci rivolgeremo, qualora Putin decidesse di chiudere il “rubinetto” e quale prezzo dovremo pagare? Ci “salverà” forse lo Zio Sam?

“Un prezzo molto alto, letteralmente. Se Putin dovesse chiudere il rubinetto (ma non credo lo farà), sarebbero guai seri – almeno nell’immediato. Il costo del gas liquido USA è molto alto rispetto a quello del gas naturale russo, con tutto ciò che ne consegue. Oltre al fatto che la domanda di gas europeo è molto superiore alla capacità di esportazione del gas liquido americano. Tutto ciò però non è affatto casuale, ma il frutto di un cambio di paradigma interno al ciclo di accumulazione capitalistica.”

Può chiarirci il concetto?

“Questo cambio di paradigma prevede il potenziamento del settore finanziario (ovvero la creazione di bolle strutturali), a cui giocoforza corrisponde la demolizione controllata dell’economia reale. Dopo più di quarant’anni di neoliberismo, siamo giunti a un vero e proprio capovolgimento della ricetta capitalistica originale: il valore, cioè la ricchezza economica, non si crea più attraverso investimento nel lavoro umano, ma attraverso sempre più audaci speculazioni finanziarie (dove è il denaro stesso che viene messo al lavoro). La finanza non è più appendice dell’economia reale, ma quest’ultima è appendice della finanza. Basti pensare che il valore della bolla dei derivati oggi è almeno dieci volte quello del PIL globale. Questa situazione capovolta è ormai parossistica, e produce una serie di violente, assurde e criminose contraddizioni (dalla ‘guerra al Virus’ alla ‘guerra di Putin’) che credo possano essere contenute solo attraverso l’irrigidimento autoritario (o totalitario) del capitalismo stesso”.

I mercati sono in subbuglio: dove conviene investire? C’è chi è tentato dall’oro, il cui prezzo però è salito alle stelle…

“Prima o poi è evidente che le attuali “bolle di tutto” scoppieranno, perché gonfiate all’inverosimile dalle banche centrali, e dunque in massima parte artificiali, cioè dissociate rispetto al valore generato nell’economia reale (che infatti è in caduta libera, mentre i mercati continuano a salire, pur con le consuete correzioni di rito). Tuttavia, con nemici di questo calibro (Virus, Putin, poi Clima e probabilmente una riedizione pandemica, o chissà cos’altro) il redde rationem continua a essere rimandato. Il campanello d’allarme sarà, credo, il mercato del debito, nella fattispecie i rendimenti sulle obbligazioni USA (Treasuries) a 10 anni. Qualora questi rendimenti dovessero salire improvvisamente e sproporzionatamente sarà segno che ingenti masse di denaro stanno uscendo dal mercato del debito, il che porterebbe a un effetto domino su tutti gli altri mercati, che dipendono appunto dalla leva a debito. I mercati finanziari sono specie di derivati del mercato del debito. Per chi ha la possibilità di investire, credo che oro e metalli preziosi in generale rimangano il bene rifugio più sicuro rispetto alla volatilità economico-finanziaria e all’inflazione. Nelle ultime settimane hanno subito alti e bassi abbastanza clamorosi, ma alla lunga sono tra gli investimenti più sicuri”.

Entriamo nel tema della finanza decentralizzata (DeFi): le criptovalute e la tecnologia blockchain potrebbero rivelarsi utili per “uscire” dal sistema finanziario attuale oppure esse presentano dei rischi?

“Dobbiamo sempre partire dal presupposto fondamentale, e cioè che l’economia capitalistica crea ricchezza reale attraverso investimento nel lavoro produttivo di valore. Quando però il lavoro viene estromesso dalla logica stessa del capitale, che utilizza tecnologia per risparmiare sui costi di produzione e garantirsi competitività, allora si crea un corto circuito da cui non si può pensare di uscire con le criptovalute, che rimangono strumenti finanziari. Il corto circuito di cui parlo è iniziato più di quarant’anni fa, quando la terza rivoluzione industriale (microelettronica) ha cominciato ad automatizzare la produzione industriale a un livello tale che più lavoro umano veniva estromesso di quanto ne venisse riassorbito. Questo processo di svalorizzazione dell’economia attraverso automazione tecnologica è aumentato esponenzialmente negli ultimi anni, da qui la precarizzazione ormai strutturale del lavoro. In ultima istanza, per quanto mi riguarda, i rischi della finanza decentralizzata sono quelli di un modello capitalistico senescente, che ha abbandonato la sua formula fondativa ed è sempre più in balìa di una deriva iper-finanziaria destinata al collasso. La criptovalute possono essere una soluzione parziale, ma non credo possano dare vita a un tipo di capitalismo virtuoso perché decentralizzato. Il fatto poi che dipendano da tecnologia blockchain significa che possono essere semplicemente spente da chi controlla tale tecnologia. Non dimentichiamo che ormai tutte le maggiori banche centrali stanno sperimentando l’utilizzo di valute digitali basate proprio su tecnologia blockchain”.

Torniamo al virus. È ormai evidente a tutte le persone di buonsenso l’inutilità del Green Pass sotto l’aspetto sanitario. Qual è, in realtà, il fine del lasciapassare? Potrebbe rimanere per sempre oppure trasformarsi in qualcos’altro?

“Il Green Pass è uno strumento di controllo biopolitico che serve (e servirà sempre più) a chi detiene il monopolio del potere economico in un contesto di contrazione strutturale. La digitalizzazione della vita è fondamentale per il controllo monetario dall’alto, cioè da parte di quelle banche centrali che, nelle loro intenzioni, si faranno garanti della nostra sopravvivenza tramite appunto sottomissione a una sorta di schiavitù monetaria. Agustin Carstens, capo della Banca dei Regolamenti Internazionali (la ‘banca centrale di tutte le banche centrali’) lo ha detto senza peli sulla lingua: “Tramite CBDC (central bank digital currencies) vogliamo poter controllare capillarmente l’utilizzo del denaro!”. Per far questo sarà necessaria sia la digitalizzazione completa delle valute che la loro centralizzazione attraverso tecnologia blockchain. Il Green Pass è un passo in questa direzione distopica. Certo rimane ancora molto lavoro da fare rispetto all’installazione dell’infrastruttura tecnologica, e questo è fonte di speranza. Ma bisogna esserne consapevoli”.

Lei ha scritto che “la finanza non è crollata perché è stato necessario imporre i lockdown; piuttosto, è stato necessario imporre i lockdown perché la finanza stava crollando”. Tuttavia numerose attività sono fallite o comunque andate in crisi a causa delle restrizioni. Può descriverci quanto è avvenuto?

“Tornando al periodo immediatamente pre-pandemico, la mia analisi sviluppa le conseguenze di un’osservazione elementare. Dopo un decennio di QE strutturale (Quantitative Easing, cioè acquisti di asset finanziari da parte delle banche centrali), nel settembre 2019 il mercato dei prestiti interbancari di Wall Street (cosiddetto ‘repo’), che fornisce liquidità immediata a tutti i principali speculatori e in particolare alle quattro maggiori megabanche americane (JP Morgan, Citibank, Bank of America e Goldman Sachs), si è improvvisamente congelato, spedendo i tassi d’interesse sui prestiti dal 2% al 10%. Si erano formate le condizioni per una trappola di liquidità in grado di contagiare tutti i principali mercati, e dunque di scatenare uno tsunami finanziario di tali dimensioni da far impallidire quello del 2008. A quel punto, per salvare sia le banche che il Tesoro USA, la Federal Reserve ha attivato la stampante (in realtà, creando dollari al computer), che ha permesso di aumentare vertiginosamente il gettito rispetto ai QE precedenti. Si è trattato di un’espansione monetaria assolutamente straordinaria: trilioni di dollari partoriti dal nulla e messi direttamente a disposizione dei cosiddetti primary dealers (operatori primari) della Fed: sia le megabanche USA che quelle internazionali come Deutsche Bank, la giapponese Nomura Securities, Barclays Finance, PNB Paribas, ecc. Nell’ultimo trimestre del 2019, dunque ben prima dell’arrivo di Virus, il bilancio della Fed è cresciuto di 4,5 trilioni di dollari, destinati a salvare le banche e i mercati dal collasso. Un’operazione poi continuata durante la ‘pandemia’, quando lo stimolo emergenziale fu mobilitato su scala globale. Sebbene oggi, a distanza di più di due anni, comincino a uscire i dettagli del salvataggio del settembre 2019, la notizia continua a essere censurata da tutti i maggiori organi di stampa. È in questo contesto che a inizio 2020 interviene, molto tempestivamente, Virus, impedendo a una parte dell’enorme massa monetaria creata dal nulla di mettersi in moto come domanda reale potenzialmente iper-inflattiva. Volente o nolente, il raffreddamento dell’economia globale dovuto a Covid-19 ha consentito di riassestare un settore finanziario di nuovo giunto sull’orlo del precipizio, rimandando le magagne dell’inflazione e del rialzo dei tassi alle prime timide riaperture ‘da variante’”.

E cosa c’entrano i lockdown?

“Allo stesso tempo, i lockdown hanno permesso l’ulteriore rafforzamento dei capitali a più alto market cap, da Big Tech a Big Pharma e alle megabanche. In effetti, negli ultimi due anni abbiamo assistito a un fenomeno che la dice lunga sulla presunta sostenibilità del nostro modello socio-economico: da una parte gli indici finanziari sono in costante crescita, dall’altra un’economia globale in caduta libera. Basti pensare che Apple, l’azienda con più alto market cap al mondo (2,8 trilioni abbondanti, dunque superiore al PIL di quasi tutti i paesi al mondo, inclusi Gran Bretagna, Francia e Italia) impiega circa 100.000 lavoratori. Penso che questo sia solo l’inizio di un nuovo modello di capitalismo autoritario di tipo neo-feudale, in cui i grandi monopoli tendono a esercitare signoraggio monetario sulle grandi masse impoverite”.

Le autorità sanitarie hanno sempre sostenuto che solo i vaccini ci avrebbero condotto fuori dall’emergenza. Perché le cure domiciliari precoci sono state snobbate e i medici che si sono discostati dai protocolli ufficiali hanno subito spesso insulti e procedimenti disciplinari? Chi avrebbe avuto interesse ad ostacolare le cure?

“Rispondo con una domanda: com’è potuto succedere tutto ciò se non attraverso un’operazione coordinata dall’alto? Non dev’essere stato neppure troppo difficile, considerando sia gli intrecci di interessi tra economia, politica e sanità, che il potere esercitato da organismi transnazionali già esistenti e operativi. Una volta partito l’ordine dall’alto, per esempio rispetto alla sospensione delle cure domiciliari, si dev’essere avviato un passaggio di consegne verso il basso che ha garantito la riuscita dell’operazione. Chi non è stato al gioco è stato, molto semplicemente, fatto fuori – cioè escluso dalla possibilità di dissociarsi dai protocolli ufficiali. Come nel caso della ‘guerra di Putin’, l’obiettivo era alimentare il terrore per garantire stato di emergenza e chiusura della società (modello lockdown), e di conseguenza l’attuazione di politiche monetarie straordinarie – cosa che solo un’emergenza globale poteva legittimare”.

È guerra anche tra i colossi farmaceutici. Il vaccino russo Sputnik (somministrato ad esempio a San Marino) non ha ancora ottenuto l’autorizzazione da EMA, tant’è che solo recentemente è stato riconosciuto dall’Italia ai fini del Pass. Nel frattempo, l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, ha dichiarato: “Sospendiamo la cooperazione per Sputnik, perché la scienza deve essere al servizio della pace e non della guerra, come ha ricordato il Papa”. Esiste quindi un vaccino dei “giusti”, “timorati di Dio”?

“Ciò dimostra quanto tutto ciò che ci sta accadendo sia conseguenza dell’unica ‘scienza’ che conta, quella economica. Perché il vero malato terminale qui è il capitalismo in versione turbo-finanziaria, che allo stesso tempo è anche il virus che ci sta distruggendo”.

Stiamo vivendo un’emergenza permanente: prima la pandemia, ora la guerra. Quando i diritti inderogabili dell’uomo saranno restituiti alla loro originaria natura? Ci attende una realtà distopica, caratterizzata da lockdown a intermittenza, coprifuochi preventivi e nuovi strumenti per congelare e trasformare l’economia?

“Purtroppo credo di sì. Al momento non si vede altro all’orizzonte. Serve una presa di coscienza collettiva che possa portarci sia a resistere che a tentare di sovvertire questa logica economica cieca e pulsionale, che ci sta trascinando verso una nuova frontiera di totalitarismo. Il capitalismo che ci attende è quello del lockdown più o meno permanente, cioè della regimentazione forzata della vita, che ci verrà venduto come soluzione dolorosa ma necessaria (il “sacrificio” di cui già parla apertamente Biden) per salvaguardare la nostra libertà, la nostra democrazia, e soprattutto la nostra vita, da minacce esterne. In realtà è l’esatto contrario: le minacce esterne, cioè la produzione industriale di emergenzialismo, rappresentano la strategia, disperata e insieme criminosa, con cui il nostro sistema capitalistico ha scelto di negare l’evidenza della propria involuzione implosiva, prolungando dunque la propria agonia”.

(Fonte)

Laboratorio Italia

Ormai l’hanno capito tutti: nella narrazione sul Covid, così come nell’adozione delle misure che ne sono derivate, l’Italia è un Paese speciale. La vicenda della moderna Tessera del Fascio, denominata Green Pass, è lì a dimostrarlo.

La tabella qui sotto è inequivocabile. Pur essendo uno dei paesi con il più alto tasso di vaccinazione, l’Italia è nettamente prima nella speciale classifica delle leggi liberticide messe in campo. Segue, ma a grande distanza, la Francia macroniana. Gli altri sono tutti staccatissimi.

Tra le altre cose brilla la sequela di NO della Danimarca, laddove troviamo invece l’infinita serie di SI’ ad ogni obbligo possibile e immaginabile del nostro Paese. Se, shakespearianamente, un tempo il marcio risiedeva in Danimarca, oggi sembra essersi spostato a Roma, laboratorio prescelto di un imbroglio e di un esperimento sociale planetario a danno dei popoli.

Perché l’Italia ha assunto questo ruolo? Ecco un punto che bisogna cercare di comprendere bene. A mio avviso le ragioni sono tre, ovviamente collegate tra loro.

Se, come pensiamo, il progetto globale è quello della transizione ad un mondo ademocratico, popolato da regimi autoritari basati sul potere di una tecnocrazia ormai liberatasi dalle stesse regole della democrazia liberale, l’Italia è il Paese perfetto per fare da apripista a questo disegno. E lo è tanto più dopo che il simbolo vivente di questa tecnocrazia globalista e ferocemente antipopolare, Mario Draghi, ha preso le redini del comando.

Se l’ex presidente della BCE è la prima e decisiva ragione della disgrazia che è toccata al nostro Paese, ciò è dovuto però ad altri due motivi: la straordinaria crisi della politica e delle istituzioni che si trascina oramai da un trentennio; la condizione di Paese eternamente ricattato via debito dentro i micidiali meccanismi della gabbia dell’euro.

Senza una politica ridotta al lumicino, e senza il perenne ricatto del debito, alimentato dalla cupola oligarchica che governa un’Unione Europea che è parte decisiva del progetto del Grande Reset, la tecnocrazia non avrebbe potuto imporsi. Di sicuro non in questa misura.

Queste semplici considerazioni ci portano a due conclusioni.

La prima è che la lotta che conduciamo in Italia ha una straordinaria importanza. Se il nostro Paese è il laboratorio avanzato delle mostruosità non solo antipopolari, ma financo anti-umane messe in campo dal blocco dominante, il suo esito avrà conseguenze che andranno ben oltre i confini nazionali.

La seconda è che dobbiamo sempre nominare il nemico. Il dissenso deve dunque diventare opposizione. In primo luogo opposizione al nuovo regime ed al suo massimo rappresentante Mario Draghi.

L’attuale presidente del Consiglio non solo ricopre infatti una posizione centrale e difficilmente sostituibile, ma gode pure di un notevole consenso. Il consenso è però merce volatile assai, e potrebbe anche indebolirsi ben prima del previsto. Proprio per questo bisogna alzare sia il livello della mobilitazione che quello della consapevolezza politica.

La lotta sarà dura, ma non impossibile. L’autoritario “Laboratorio Italia” deve fallire. La libertà, il diritto al lavoro, la democrazia deve trionfare. E’ stato questo il senso della grande manifestazione del 25 settembre. Andiamo avanti!

Leonardo Mazzei

(Fonte)

“Io sono contraria, voglio dire che sono contraria”

L’omicidio geopolitico di Alfred Herrhausen

Prima di intraprendere la carriera di banchiere e di entrare nelle grazie del cancelliere Helmut Kohl, Alfred Herrhausen aveva gestito con grande intelligenza la ristrutturazione di Daimler-Benz, alla quale aveva imposto un processo di diversificazione culminato con la trasformazione dell’azienda in un gruppo tecnologico integrato, dotato del know-how necessario ad operare nei settori strategici dell’aerospazio, della difesa, dell’elettronica e della tecnica ferroviaria. È nell’ambito del disegno di Herrhausen che la divisione Mercedes venne progressivamente affiancata dagli altri tre comparti fondamentali, costituiti dalla Dasa, rivolta all’aerospazio e alla difesa, dall’AEG, orientata sull’elettronica, e dalla Debis, concentrata sul ramo finanziario. Da buon industriale “prestato” al mondo della finanza, Herrhausen aveva pensato di smaltire i costi della riunificazione mettendo le elevate competenze degli ingegneri e dei lavoratori dell’ex Germania orientale al servizio di un progetto mirante al rilancio economico di tutta l’Europa dell’est. «Entro dieci anni – affermò Herrhausen – la Germania orientale diverrà il complesso tecnologicamente più avanzato d’Europa e il trampolino di lancio economico verso l’est, in modo tale che Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, e anche la Bulgaria svolgano un ruolo essenziale nello sviluppo europeo» (1). In un articolo pubblicato sul quotidiano economico tedesco «Handelsblatt», Herrhausen denunciò che la politica debitoria adottata dalle banche, in particolare quelle statunitensi, nei confronti dei Paesi in difficoltà finanziarie era orientata a peggiorare le loro condizioni, e indicò nella forte riduzione della massa debitoria (fino al 70%) delle nazioni povere, nel taglio dei tassi di interesse a cinque anni e l’allungamento della durata dei presti le misure da adottare per conseguire una robusta ripresa economica dei Paesi in via di sviluppo. Una simile ricetta avrebbe infatti «permesso a queste nazioni di riassegnare alla ripresa economica le risorse finora destinate al servizio del debito» (2). La concezione di Herrhausen traeva ispirazione dall’accordo sul debito raggiunto a Londra del 1953, grazie al quale la Germania occidentale era riuscita a rilanciarsi poderosamente dal punto di vista industriale. Il banchiere considerava gli squilibri debitori un vero e proprio “rischio sistemico”, e propose pertanto di mitigarli attraverso l’istituzione a Varsavia di un organismo modellato sul calco del KFW, l’ente che aveva gestito con grande successo il rilancio dell’economia tedesca disintegrata dalla Seconda Guerra Mondiale. Un organismo alternativo a Banca Mondiale e FMI preposto all’erogazione dei prestiti nell’ambito di un “nuovo Piano Marshall” finalizzato al rilancio dei Paesi est-europei, e non alla loro conversione immediata al sistema neoliberale. Conformemente a questa “nuova Ostpolitik”, il banchiere tedesco premeva per l’abolizione del debito “intra-im¬prese”, un dato contabile che gravava sulle industrie ex comuniste (nel 1994 raggiunse i 200 miliardi di marchi) grazie al quale Banca Mondiale e FMI tenevano in pugno i Paesi dell’Europa orientale. Il presidente della Deutsche Bank arrivò persino a sottolineare che il rilancio economico dello spazio ex sovietico e la sua integrazione con l’assetto produttivo dell’Europa occidentale erano nell’interesse della Germania, che per realizzare tutto ciò avrebbe dovuto destinare risorse alla costruzione di linee ferroviarie veloci in grado di assicurare il rapido trasporto di materie prime dalla Russia ai poli industriali tedeschi. Si trattava proprio del tipo di progetto che Gran Bretagna prima e Stati Uniti poi avevano irriducibilmente ostacolato nel corso dei decenni precedenti, come ammesso candidamente dallo stesso Kissinger: «se le due potenze [Germania e Russia] si integrassero economicamente intrecciando rapporti più stretti, si verrebbe a creare il pericolo della loro egemonia» (3). Nella visione profondamente innovativa di Herrhausen, la Germania si sarebbe dovuta trasformare in un ponte fra est ed ovest e in motore della riconversione industriale dell’Europa orientale – della Polonia soprattutto, considerata la nazione chiave della regione. Mentre si prodigava per mettere in pratica i suoi piani, che comportavano l’affrancamento di tutto il “vecchio continente” dalla “tutela” statunitense esercitata sotto il profilo economico da Banca Mondiale e FMI, Herrhausen rivelò di essersi imbattuto in “massicce critiche” formulate soprattutto dal presidente di Citibank Walter Reed, specialmente dopo aver caldeggiato pubblicamente l’applicazione di una moratoria di qualche anno sul debito dell’Europa orientale. Nonostante le forti resistenze con cui era costretto a fare i conti, Herrhausen riuscì comunque ad allargare il campo d’azione di Deutsche Bank assorbendo la Banca d’America e d’Italia, le merchant bank Mdm (portoghese), Albert de Bary (spagnola) e Morgan Grenfell (prestigiosa banca d’investimento londinese). Il potenziamento di quello che si configurava già come il maggior istituto di credito tedesco risultava necessario a costituire un valido e potente polo economico che fungesse da contraltare ai grandi gruppi finanziari anglo-americani, i quali stavano portando avanti una vasta campagna di espansione monetaria mediante la concessione di crediti ad alto tasso di interesse ai Paesi poveri. Dal punto di vista di Washington, il disegno di Herrhausen rappresentava una minaccia particolarmente insidiosa perché metteva in discussione la presa statunitense sui Paesi in via di sviluppo (il presidente messicano Miguel de la Madrid, colpito dalle idee di Herrahusen, lo invitò a Città del Messico nel 1987 per analizzare le sue proposte) da cui dipendeva il mantenimento dell’ordine economico istituito nel periodo reaganiano. «I mercati finanziari e valutari globalizzati oggi sono una questione di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti» (4), dichiarò senza mezzi termini il direttore della CIA William Colby facendo eco al suo collega della CIA William Webster, secondo cui, con la caduta del Muro di Berlino, «gli alleati politici e militari dell’America sono ora [diventati] i suoi rivali economici» (5).L’1 dicembre 1989, un ordigno esplosivo dotato di innesco laser posizionato all’uscita dell’abitazione di Herrhausen di Bad Homburg (ricco sobborgo di Francoforte) fece saltare l’automobile blindata su cui il banchiere era appena salito. La responsabilità venne attribuita al gruppo terroristico di ispirazione comunista Rote Armee Fraktion (RAF), benché la sofisticazione dell’attentato suggerisse di allargare lo spettro delle indagini. Non a caso, i tre membri della “nuova generazione” della vecchia Baader-Meinhof che erano stati arrestati durante le prime indagini risultarono in seguito estranei alla consumazione del fatto. Ancora oggi la giustizia tedesca non è riuscita a individuare i colpevoli. Il colonnello Fletcher Prouty, veterano della CIA che in passato aveva dipinto al procuratore Jim Garrison lo sfondo politico sul quale si era materializzato l’assassinio di John F. Kennedy, rivelò che l’omicidio di Herrhausen era avvenuto «quattro giorni prima che [il banchiere] venisse negli Stati Uniti a pronunciare un discorso che avrebbe potuto cambiare i destini del mondo. Era crollato il Muro di Berlino ed Herrhausen voleva spiegare agli Americani i nuovi orizzonti dell’Europa […]. Herrhausen parlava di una grande Europa unita, senza più le interferenze della Banca Mondiale. Parlava di un progetto di integrazione tra est e ovest europeo. Un’operazione che avrebbe mutato i rapporti internazionali e che è stata freddata sul nascere» (6). Per questo, a detta di Prouty, l’assassinio del presidente della Deutsche Bank rientra nello stesso quadro generale in cui si sono verificati gli omicidi di Enrico Mattei e Aldo Moro.

Giacomo Gabellini

Note

1) Cfr. Engdahl, William, What went wrong with East’s Germany economy?, «Executive Intelligence Review», 2 ottobre 1992.

2) Herrhausen, Alfred, Die zeit ist reif. Schuldenkrise am wendepunkt, «Handelsblatt», 30 giugno 1989.

3) Cfr. Kissinger: «Der western mussß sich an das neue selbstbewußtsein der Deutschen gewöhnen», «Welt am Sonntag», 3 maggio 1992.

4) Cfr. Taino, Danilo, Belzebù sullo yacht, «Corriere della Sera», 10 marzo 1993.

5) Cfr. CIA director Webster targets US allies, «Executive Intelligence Review», 13 ottobre 1989.

6) Cfr. Cipriani, Antonio, Il colonnello Prouty: «Vi spiego chi governa il mondo», «L’Unità», 19 marzo 1992.

Fonte

Il grande inganno

Povertà, disoccupazione, disuguaglianza sociale non sono frutto del destino cinico e baro ma di una precisa scelta politica che è giunto il momento di contrastare.

Per i programmi di acquisto di titoli attivati dalla BCE a partire dal 2011 sono stati spesi 3.315 miliardi di euro.
Tremilatrecentoquindicimiliardi miliardi di euro, il 185,5% del PIL Italiano. Il 20,13% del PIL dell’intera UE. Creati dal nulla.
La BCE ha però puntualmente fallito il suo già ridicolo obiettivo inflazionistico, quello del 2%.
Questo perché mentre non esiste praticamente nessun legame tra l’emissione di moneta e l’inflazione, esiste invece un legame molto forte tra occupazione, salari e inflazione.
L’Unione Europea questo lo sa bene. E infatti per rispettare il suo folle mandato della stabilità dei prezzi si è inventata la disoccupazione naturale. O NAIRU (Non-accelerating inflation rate of unemployment).
Guarda caso sono decenni che quello dell’Italia oscilla proprio intorno a quella disoccupazione che i tecnocrati UE hanno stabilito dover essere “naturale” per l’Italia. E cioè circa il 10%.
Ecco perché in Italia mancano milioni di dipendenti pubblici (almeno 2,5 rispetto a Francia e Inghilterra).
Ecco come siamo arrivati ad avere 4,5 milioni di poveri assoluti e 9 milioni di italiani in condizioni di povertà relativa, quasi 14 milioni di inattivi e più di 2 milioni di disoccupati, 12 lavoratori su 100 che vivono sulla soglia della povertà a causa dei salari troppo bassi. 4,3 milioni di lavoratori part time, di cui 2 su 3 involontari.
Ecco perché in Italia mancano quasi del tutto infrastrutture degne di un Paese civile, soprattutto nel centro-sud.
Non c’è una rete autostradale degna di questo nome, sotto Roma. Della rete ferroviaria, meglio non parlare.
Non ci sono fabbriche e industrie a sufficienza, nel Sud Italia.
Non c’è lavoro in Italia, soprattutto nel Sud. E quando c’è, i salari sono indecenti.
Ecco perché ogni anno circa 250.000 giovani sono costretti a scappare dal Sud al Nord del Paese. Questo mentre altrettanti giovani del Nord sono costretti a scappare all’estero.
A volte a fare la fortuna di un Paese straniero, a volte a fare i lavapiatti, ma con la paura e la vergogna di tornare indietro dopo aver fallito. Quando a fallire è stata la classe politica che li ha costretti a fuggire.
Una insopportabile beffa che si aggiunge al danno di spendere milioni di euro per i nostri giovani, per il futuro del Paese, e lasciare poi che vadano a fare le fortune di altri Paesi. Perdendoci doppiamente.
Avremmo da fare per le prossime 5 generazioni, almeno. Avremmo gli uomini, le competenze, le materie per costruire un novo Paese, finalmente unito. Da Nord a Sud.
Unito con le autostrade, unito con i treni, ma soprattutto unito nei salari e nel benessere.
Eppure da decenni ci dicono che tutto questo non sia possibile perché il mezzo di comunicazione finanziario per mettere in connessione due bisogni reali, che non hanno scarsità del bene da scambiare, ma della valuta che regola questo scambio.
Perché “Mancano i soldi”, insomma.
Quella della mancanza di soldi è la scusa più vecchia del mondo. È quella che usano per giustificare il nostro progressivo impoverimento mentre loro aumentano indegnamente la percentuale di ricchezza sul totale.
Non mancano mattoni, ferro, cemento, materie da lavorare, da trasformare che giustifichino tutti i poveri e i disoccupati. Che giustifichino tutta questa disperazione.
Si tratta solo di un modello economico fondato sulla scarsità, sulla privazione, dal lato della domanda. E sullo spreco dal lato dell’offerta.
La povertà, la disoccupazione, la disuguaglianza sociale, le milioni di vite distrutte, il futuro strappato alle nuove generazioni costrette a emigrare.
Tutte queste atrocità non sono frutto del destino cinico e baro. Sono una precisa scelta politica.
Dettata da tornaconto personale di pochi e dalle false credenze di alcuni.
Sulle quali ci si sta però giocando la vita, i sogni, le speranze, il futuro di intere popolazioni.
Gilberto Trombetta

(Modificato il 7/10/2020)

Redde rationem


Bene, direi che ci siamo, è il redde rationem.
La Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe ha accolto in parte, ma una parte decisiva, il ricorso che era chiamata a valutare.
I giudici tedeschi dicono essenzialmente tre cose:
1) Viene contestata come inadeguatamente motivata l’iniziativa per cui la BCE ha deviato dal principio di proporzionalità nei suoi acquisti di titoli (acquistandone di più dai paesi con maggior debito pubblico, per calmierarne gli interessi). La Corte tedesca sostiene che questo può diventare un finanziamento monetario del deficit, che non è consentito dai trattati vigenti né dalle leggi tedesche.
2) I giudici di Karlsruhe respingono la precedente sentenza della Corte di giustizia europea, affermando che in nessun caso la BCE (tramite le banche centrali nazionali) può detenere più del 33% del debito di ciascuno stato.
3) Essi infine contestano il fatto che la BCE si stia muovendo come un organo con autonomia politica, al di fuori del suo mandato, che la vincola a compiti di sorveglianza monetaria.
Se entro tre mesi la Bundesbank non darà adeguate e convincenti risposte essa sarà obbligata a ritirarsi dagli interventi della BCE, rendendoli di fatto impossibili.
In sostanza i giudici costituzionali tedeschi hanno messo nero su bianco quello che tutti sapevano, ma nessuno voleva ammettere.
L’Unione Europea e il suo apparato normativo, a partire dallo statuto della BCE, incarnano un progetto neoliberista nato negli anni ’80, che intendeva esplicitamente minimizzare i margini di intervento degli Stati in termini di politica economica, e che promuoveva (e promuove) un sistema di pura concorrenza economica, non di solidarietà, né di cooperazione.
Ciò che dicono i giudici costituzionali tedeschi è sacrosanto e irrefutabile dal punto di vista legale (anche se ha il difettuccio di venir fuori proprio in un momento in cui robuste politiche economiche statali sono tassative ed inevitabili).
Ciò che è stato fatto ripetutamente nel corso degli anni è stato di allentare o aggiustare vari meccanismi istituzionali introducendo surrettiziamente una dimensione politica che non appartiene affatto al ‘progetto europeo’.
Lo si è fatto sia per venire incontro alle aspirazioni di leadership della Germania stessa, sia per l’evidente necessità di non poter fare a meno di una politica economica in qualche modo comune, nel momento in cui sono in comune la moneta e le regole del mercato europeo.
Tutto ciò è stato fatto forzando, interpretando, distorcendo i trattati in vigore, che a seconda degli accordi e dei rapporti di forza potevano essere tagliole implacabili o cordiali suggerimenti, divieti o permessi i più variegati.
Questo gioco ha anche permesso a numerosissimi politici, in Italia ma non solo, di giocare al gioco degli Stati Uniti d’Europa, un simpatico gioco di società in cui si fa credere alla plebe che proprio lì dietro l’angolo ci sia il nuovo mondo coraggioso dove saremo tutti una grande famiglia europea, con una politica economica comune, regole comuni, salari comuni, tasse comuni, una politica estera comune.
Il problema di fondo, tuttavia, è che nessuno, mai, ha realisticamente pensato che questa prospettiva fosse davvero in tavola.
Questi spettri multicolori, queste apparizioni suggestive avevano sostanzialmente un’unica funzione, ovvero quella di permettere ai candidati (progressisti) per il Parlamento Europeo di vendersi in campagna elettorale come parte del ‘grande progetto degli Stati Uniti d’Europa’, quel progetto che – state sereni – avrebbe migliorato le sorti di tutti ed in particolare del popolo.
La sentenza della corte di Karlsruhe mette giù con apprezzabile brutalità teutonica la cruda verità: l’Unione Europea non ha, né ha mai avuto, niente a che vedere con una struttura destinata ad avere una politica economica comune (viatico per una politica comune in senso generale).
Al contrario essa è un’istituzione che serve a mettere in competizione gli Stati, creando condizioni ottimali per reprimere ogni rivendicazione da parte delle classi lavoratrici all’interno di ciascuno Stato, e per fornire garanzie ai rentiers.
Non ho nessun dubbio che continueremo a sentire i nostri politici cianciare ancora di ’70 anni di pace’, del ‘sogno europeo’, della famosa ‘solidarietà europea’, degli ‘aiuti europei’, ecc. Bisogna capirli. Se fossero chiamati davvero a prendere le redini dello Stato non saprebbero da che parte cominciare. Speravano, e sperano ancora, che essere governati in remoto da Francoforte li esentasse da assumersi responsabilità; dopo tutto bastava fare un po’ i simpatici a Bruxelles e qualche briciola spendibile sul fronte interno come grande vittoria arrivava comunque.
Ora però la sentenza tedesca minaccia di tagliare bruscamente anche l’approvvigionamento di quelle briciole.
E con un debito al 160% del PIL, senza una banca centrale che monetizzi (tacitamente o dichiaratamente) il debito, il default del debito pubblico italiano è matematicamente certo.
Possiamo girarci attorno finché vogliamo, ma quella è l’unica direzione in cui la pallina può cadere.
Non ci sono margini per avviare un ‘programma di austerity’ per ridurre il debito pubblico: era già impossibile con il debito al 120%, ma ora sarebbe una prospettiva lunare. Qualunque programma ‘lacrime e sangue’, in un Paese che era mezzo morto già prima della pandemia e che ora è con un piede nella fossa, non farebbe che avviare un avvitamento recessivo terminale.
Qualunque patrimoniale sulle liquidità che non fosse in grado di intercettare tutti i capitali detenuti all’estero e/o in paradisi fiscali sarebbe largamente insufficiente (e avrebbe ripercussioni sulla fiducia nel risparmio peggiori di qualunque haircut). Una patrimoniale sull’immobiliare distruggerebbe l’ultima base di sopravvivenza del Paese, distruggendo causa svendita i valori immobiliari (e con essi anche i collaterali di banche e assicurazioni).
Dunque direi che le opzioni teoricamente sul tavolo sono ora solo tre:
a) un magico colpo di reni europeo, che, d’un tratto riscopre un spirito di fratellanza e solidarietà, e nell’arco di qualche mese mette in comune i debiti, e cambia i trattati, imponendo alla BCE di fare espressamente politica economica di carattere anticiclico e con l’obiettivo della piena occupazione;
b) una monetizzazione del debito italiano in proprio (che significa un’uscita dall’eurozona e dai trattati vigenti);
c) un default del debito pubblico.
Come spesso accade, le probabilità delle tre opzioni sono in proporzione inversa alla loro desiderabilità.
Andrea Zhok

(Fonte)

 

Ripartiamo dalla verità dei fatti

“Che ci piaccia o no, e agli Italiani non piace, visto che il 63% si è dichiarato contrario all’istituzione di una tassa patrimoniale sulle ricchezze, si sta agitando sempre più fortemente, un partito della patrimoniale che vede alleati i liberisti del nord, tedeschi in prima fila, e la cosiddetta sinistra italiana, dietro la quale si nascondono, ma nemmeno tanto, i liberisti italiani. Ha cominciato all’inizio della crisi da coronavirus il senatore Zanda del PD, proponendo di andare a vendere il patrimonio immobiliare dello Stato per recuperare, a suo dire, 60 miliardi, e piano piano si sono aggiunti gli altri, da Cottarelli e la Fornero, a Landini fino a Del Rio e Melillo che a nome del gruppo parlamentare della Camera del PD, propongono un “contributo di solidarietà” per il coronavirus (di fatto una patrimoniale checché ne dicano) per i redditi superiori a 80 mila euro l’anno. Da ultimo arrivano i Tedeschi a rinforzare il tiro al piccione italico, con un articolo su una delle più seguite e prestigiose riviste di economia e finanza, Manager Magazine che in un editoriale del 30 aprile a firma di Daniel Stelter, rivela l’esistenza di un piano del governo tedesco per indurre l’Italia ad applicare una tassa sui patrimoni del 14% sulla base di un semplice calcolo aritmetico: la ricchezza degli Italiani, immobili compresi, si aggira intorno ai 9.900 miliardi di euro, e da una simile imposta straordinaria si genererebbe un ricavo di circa 1.400 miliardi che andrebbe ad abbattere il debito pubblico fino a circa il limite di Maastricht del 60% del PIL. Una simile manovra consentirebbe all’Italia di assumere senza problemi di conseguenze sui suoi conti pubblici, altro debito sufficiente per fare fronte all’emergenza coronavirus. Alla base di questa ipotesi, c’è un ragionamento semplice:la ricchezza privata degli Italiani è la più alta in Europa a fronte di un debito pubblico che è egualmente il più alto nella comunità. Per gli autori della proposta l’equazione è che gli Italiani hanno risparmiato i soldi che non hanno pagato in tasse, e quindi devono in qualche modo restituirli.
Ma perché proprio i liberisti si fanno promotori di una proposta che sembra più adatta a politiche fiscali dell’epoca sovietica, che a una società moderna? Qualcuno di una certa età ricorderà gli argomenti democristiani contro il Partito Comunista negli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo: “I comunisti vi porteranno via le vostre ricchezze e anche la casa!” Ecco, adesso lo vogliono fare i liberisti, ovvero proprio i nemici acerrimi (a parole) dei comunisti di allora, e per la banale ragione che il loro obiettivo è di impadronirsi delle ricchezze dell’Italia spendendo il meno possibile e approfittando della debolezza e della paralisi in cui è caduto il nostro governo, incapace di prendere decisioni efficaci per fare fronte all’urgenza dettata dalla situazione economica. Paralisi in buona parte indotta dal partito che rema contro il governo e che vorrebbe un nuovo governo tecnico, magari a guida Draghi, con la strana alleanza tra Lega, pezzi consistenti del PD, Berlusconi, la sinistra o quello che ne resta e dice di essere di sinistra, il tutto sotto la illuminata guida di Renzi e dei suoi compari di bottega. Tramontata l’ipotesi degli eurobond, lontana, fumosa e vaga quella del Recovery Fund, ridimensionato a soli mille miliardi circa l’intervento della BCE, volto per lo più a salvare le figliolette banche, non resta che affidarsi al MES e agli altri strumenti messi micragnosamente a disposizione dalla comunità per recuperare un po’ di soldi. Ma sappiamo bene che il MES non solo non basta, ma è anche una trappola, anche se alle “condizionalità” è stata sostituita la “stretta sorveglianza” sui conti di chi chiede l’intervento del MES, il che a me sembra pure peggio delle condizionalità che almeno sai dove ti portano. Oltretutto il 5 maggio, la Corte Costituzionale tedesca si pronuncerà sulla compatibilità del QE della BCE con i principi dello Stato tedesco e se, come è possibile anche per il crescente coro di chi in Germania nega ogni solidarietà per la vicenda coronavirus, questo significherebbe che l’unico strumento utilizzabile a breve termine sarebbe l’insufficiente e deleteria trappola del MES per cercare di salvare lo spread dall’assalto della speculazione finanziaria. Se ci pensate, è un quadro folle e disgustoso, a fronte della generosità e del sacrificio di tanti Italiani in questa emergenza, ma tant’è.”

Il partito trasversale della patrimoniale e la “strana” alleanza tra Tedeschi e Italiani, di Domenico De Simone continua qui.

Alzare la testa e cessare di scaricare colpe e potere sui più deboli


“Da tempo l’elettronica ha reso possibile il “capitalismo di controllo”, la compra-vendita dei megadata che consentono agli algoritmi di tracciare e prevedere i nostri comportamenti economici; ora le finalità non sono più commerciali: ora la politica stessa è controllo, e lo Stato è “Stato di sicurezza” – se possibile, da tutti introiettato e invocato –. E la prospettiva non è tanto l’emergenza quanto la permanenza: dall’Europa ci viene detto che dovremo accettare limitazioni alle libertà fintanto che non verrà scoperto un vaccino: almeno due anni, quindi; e se il vaccino non si trovasse, com’è il caso dell’AIDS? passeremo tutta la vita con app, mascherine, distanziamenti, patenti di buona salute e marchi di infettività?
La realtà è che il neoliberismo, cessata da tempo la sua fase euforica, alza ora il vessillo della sofferenza e della disciplina. Anche nell’ambito economico, naturalmente: dietro le offerte presuntamente allettanti del MES senza condizioni c’è il tentativo di perpetuare il comando dell’ordoliberismo sulla nostra economia, con la riserva esplicita dell’obbligo del rispetto di ogni vincolo esistente e di quelli che sicuramente verranno, pena la Troika. Nel frattempo, frazioni non irrilevanti del mondo intellettuale si sforzano di fare introiettare ai cittadini l’idea della minorità italiana, della colpa nazionale di un popolo di sconsiderati, di indebitati, di mancatori di parola, di cattivi pagatori: una sorta di auto-razzismo che ci dovremmo auto-infliggere in una generalizzazione del principio del ciclista in cui tutti subiamo potere per nostra colpa e tutti lo esercitiamo su tutti noi (non su qualche deviante, quindi, ma su ciascuno di noi, tutti devianti), aderendovi e legittimandolo in una universale confessione ed espiazione del nostro peccato.
La pandemia si rivela così un’ottima occasione per accelerare i cambiamenti, del resto già in atto, del paradigma politico-economico-culturale: non è una vera cesura, ma uno svelamento di ciò che era implicito. Il passaggio in atto da una legittimazione attraverso il consenso democratico (che prevedeva almeno il dissenso) a una legittimazione attraverso la colpa introiettata e la pena auto-inflitta serve a ribadire in forme nuove la logica di dominio che pervade questo tempo. Alzare la testa e cessare di scaricare colpe e potere sui più deboli – cioè su noi stessi – sembra a questo punto l’unica ragionevole strategia possibile.”

Da Il principio del ciclista, di Carlo Galli.

Uscire dal circolo compulsivo del Sistema

Una lettura non breve ma consigliatissima

“Poi, in questo mondo abituato a relazionarsi ad ogni realtà in forma di negoziazione, dove tutto ha il suo prezzo, è emerso un soggetto dalle preferenze non negoziabili: un virus.
Non era naturalmente la prima volta che il sistema mostrava paurosi scricchiolii. Erano passati poco più di dieci anni dalla più grave crisi finanziaria del dopoguerra. Ma si trattava appunto di una crisi finanziaria, dunque di qualcosa che rientrava per definizione sul piano della ‘negoziabilità’. Si era intervenuti quel tanto che bastava per un ritorno in grande stile al business as usual. Dopo aver cullato per qualche settimana l’idea che ‘non si potesse andare più avanti così’, una volta passata la paura ai vertici della catena alimentare, tutto è andato avanti esattamente come prima, solo con qualcuno più povero e qualcuno più ricco.
Così, una crisi che era nata da decisioni politiche americane, dall’azzardo morale di istituti di credito multinazionali, e dalla più sordida speculazione finanziaria è stata trasferita in un batter d’occhio in debito pubblico degli Stati democratici e in colpevolizzazione dei popoli, chiamati a ripianarli. Il tutto senza colpo ferire. Le servitù mediatiche di tutto il mondo si sono affaticate nello spiegare ai propri cittadini come dovessero farsi carico di quell’onere, come dovessero portare quelle catene, perché se le erano meritate. La complessità dei meccanismi finanziari, la loro natura remota ed arcana ai più aveva fatto il resto, permettendo di convincere i popoli, un po’ ovunque nel mondo, che quei debiti, contratti per tenere in vita istituti finanziari ‘too big to fail’ e per contrastare ondate speculative di squali di professione, erano colpa di Mario il barista, di Emma la parrucchiera, di Giacomo il maestro elementare, tutti vissuti al di sopra delle proprie possibilità.
E questi hanno annuito e si sono chinati a portare il basto, che neanche i ‘cafoni’ di Fontamara.
Poi l’imprevisto. Un’epidemia, anzi una pandemia.
E questa volta non sembra così facile spiegare a Mario, Emma e Giacomo che è colpa loro.
Ma comunque ci proveranno, anzi ci stanno già provando. Sentiamo già mormorare, a seconda delle situazioni, che la colpa è/sarà dei debiti pregressi (come quelli della crisi subprime), o dei sistemi sanitari meno efficienti (quelli stroncati a colpi di privatizzazioni e tagli), o di strategie di contenimento meno efficienti (capita a chi si perde tra donne e vino, come usuale tra i PIGS, secondo il presidente Dijsselbloem). E col tempo certamente verranno fuori altri ingegnosi capi di imputazione, cui la servitù mediatica darà giusta eco.
(…) Oggi, tuttavia, le dimensioni colossali della crisi, la sua origine naturale e il suo carattere globale, limitano la capacità di ricorrere a espedienti che ne camuffino la natura.
Accade, perciò che si comincino a fare alcune scoperte.
Si è scoperto d’un tratto che gli Stati nazionali, quegli ‘orpelli inutili e superati dai tempi’, sono proprio l’unica cosa che può proteggere le popolazioni davanti a problemi non negoziabili privatamente sul mercato e non trasferibili a terzi con un magheggio finanziario. Per decenni quando alcuni facevano sommessamente notare che non esistevano altri ordinamenti rispetto agli Stati nazione che rispondessero al popolo, e che potessero aiutarlo in una situazione di necessità, frotte di astuti progressisti ribattevano sprezzanti con accuse di arretratezza culturale, oscurantismo, populismo.
Si è scoperto, di passaggio, che quei famosi Stati, fino a ieri obsoleti, inutili e impotenti di fronte allo strapotere dei mercati, possono con una parola bloccare le merci in transito destinate ad altri Paesi, chiudere le frontiere, convertire produzioni private a finalità socialmente utili, e chiudere in casa 4 miliardi di persone sul pianeta. Basta siano motivati a farlo.
Si sta scoprendo (qui con qualche fatica in più) che il denaro è uno strumento, prodotto e messo a disposizione come medio di scambio e riserva di valore dagli Stati. E che perciò esso può essere messo a disposizione a costo zero nella quantità ritenuta utile alle operazioni economiche correnti. Questa scoperta è quella che viene più duramente ostacolata, perché una volta che l’idea fosse passata, milioni di persone che hanno vissuto per anni impiccate ad un raffreddore dei mercati, potrebbero reagire con le immortali parole del ragionier Fantozzi Ugo, illuminato da letture eversive nel suo sottoscala: “Ma allora m’han sempre preso per il culo.”
Già. Perché per anni hanno tagliato l’istruzione, il welfare, la sanità pubblica, la ricerca, le pensioni, hanno lasciato in strada lavoratori e piccoli imprenditori, hanno distrutto il tessuto produttivo, hanno costretto all’emigrazione centinaia di migliaia di persone, il tutto per la semplice ragione, si diceva, che non c’era alternativa: non c’erano soldi. E guai ad alzare la testa a chiederli. Perché allora ti spiegavano che i mercati (cioè i detentori di grandi capitali privati) avrebbero perso fiducia in noi, e sarebbero saliti gli interessi su debito. E oggi si inizia a scoprire, così, di passaggio, come fosse un dettaglio, che sia l’erogazione di credito che lo spread sono controllati dalle Banche Centrali. E quelli che per anni hanno sostenuto menzogne, muti. Ora si occupano di altro.
Ma non solo.
Si sta scoprendo che scommettere le carte della propria economia su filiere produttive lunghissime e fortemente internazionalizzate è un fattore di fragilità. A chi in passato lo faceva notare si rispondeva con la retorica di: “Allora vuoi l’autarchia?” Come se la scelta fosse tra far cucire palloni a bambini pakistani con pelli importate dall’Argentina per risparmiare un centesimo, o sigillare i confini versione Corea del Nord.
Si sta scoprendo che scommettere le proprie carte migliori sulle esportazioni, sacrificando i mercati interni espone a paurosi contraccolpi ad ogni crisi internazionale. Finora, infatti, figuravano come Paesi ‘virtuosi’ quelli che erano disposti a contrarre i salari all’interno per far guadagnare competitività alle proprie esportazioni. Era un dettaglio, naturalmente, che tale virtù, quando universalizzata, comportasse semplicemente una compressione di tutti i salari a livelli di sussistenza e generasse crisi di sottoconsumo, da far scontare di nuovo ai lavoratori, licenziandoli.
Si sta scoprendo che l’unica ricchezza reale è il lavoro della gente, il loro ingegno, la loro volontà, e che il denaro è solo un mezzo per agevolare il funzionamento della divisione del lavoro, ma che senza poggiare sul lavoro umano è letteralmente nulla, un numero su un conto, un pezzo di carta. Se non hai medici e infermieri non li puoi comprare. Se non hai scoperto una cura, non la trovi sul mercato. Se la gente fosse quella che gli economisti pensano sia, invece di avere medici in pensione che tornano al lavoro rischiando la vita, avresti medici in servizio che si danno malati in massa.
E infine si sta scoprendo qualcosa di semplice, impalpabile, ma forse decisivo: si sta scoprendo che quello che sembrava un meccanismo universale capace di triturare ogni cosa, un destino inciso nell’acciaio di immensi ingranaggi storici, può essere spazzato via in un momento. Nonostante l’immane tragedia, nonostante gli angoscianti pronostici sulle ristrettezze future, nonostante la condanna agli arresti domiciliari, circola in queste terribili settimane una atmosfera vitale. Dopo tanto tanto tempo in cui vigeva solo la cappa di un sistema senza alternative o vie di fuga, dove potevi anche sapere che stavi devastando il pianeta e la salute dei tuoi figli, ma non importava, perché l’inesorabilità del meccanismo non poteva essere messa in discussione. Questa crisi forza gran parte del mondo ad una pausa di riflessione. E nelle pause di riflessione accade che molte persone che di solito non hanno modo per farlo, inizino a pensare. E non c’è cosa più minacciosa per un’organizzazione sociale ed economica come quella del capitalismo avanzato di una popolazione che esca dal circolo compulsivo delle richieste di sistema e si dia il tempo di guardare sentieri laterali.”

Da Scenari della “grande frattura”, di Andrea Zhok

L’ambiente ideale per le persone che vogliono speculare


“Dovrei chiarire, perché c’è molta confusione. Questa non è una guerra biologica, perché il coronavirus non è un virus pericoloso. Ha alcune somiglianze con altri virus. Innesca la polmonite, quindi c’è un processo di recupero. In effetti, se guardiamo ai recenti sviluppi, la pandemia in Cina è più o meno risolta. Hanno annunciato che oltre l’80% dei casi confermati è stato risolto. Ora, i media non ne discuteranno mai perché una volta che iniziano a dire: “Oh, le persone si stanno riprendendo, stanno guarendo” e così via, questo tipo di affermazioni disinnesca il panico. Quello che vogliono fare è mantenere alto il livello di panico, ed è quello che sta accadendo in questo momento. C’è paura e intimidazione, c’è panico. Le persone si sentono minacciate e le autorità stanno intraprendendo azioni che non proteggono la salute delle persone, ma fanno esattamente il contrario. Ora, non sto dicendo che il coronavirus non sia un problema di salute. Lo è davvero.
Ma ciò che più mi preoccupa sono tutti i milioni di persone che hanno perso il lavoro a causa del coronavirus, per non parlare di coloro che hanno perso i loro risparmi di una vita in borsa. Pensa a tutti gli investitori più piccoli che mettono i loro soldi con il loro broker e così via, e cosa succede? Perdono tutto quando il mercato crolla. Ora, questo, ovviamente, è un problema e ha anche implicazioni per la salute. Alcune persone si suicidano quando perdono i loro risparmi. Ma questo è semplicemente considerato parte di un meccanismo di mercato. In realtà non fa parte di un meccanismo di mercato. Fa parte di un processo di manipolazione attraverso sofisticati strumenti speculativi come la vendita allo scoperto. Lo sappiamo. E se hai il presentimento che il presidente Trump sta per attuare un divieto di viaggi transatlantici verso l’Unione Europea, immediatamente coloro che ne hanno sentore possono speculare sul crollo delle azioni delle compagnie aeree. È molto facile. Effettuano una scommessa e se scende, fanno soldi.È qui che, naturalmente, questi potenti interessi, finanzieri e hedge fund aziendali stanno facendo un’enorme quantità di denaro. E ciò a cui stiamo assistendo ora è un trasferimento di ricchezza, una concentrazione di ricchezza in denaro, che penso non abbia precedenti.
È forse uno dei maggiori trasferimenti di ricchezza monetaria nella storia moderna. In altre parole, è caratterizzato da fallimenti di piccole e medie imprese, aumento del debito, aumento dei debiti personali, debiti societari, acquisizione di società concorrenti. E in un certo senso, è caratterizzato da conflitti all’interno dell’establishment finanziario. Non è solo una guerra contro la Cina. All’inizio sembrava essere una guerra economica contro la Cina, che ha portato alla chiusura del commercio e delle spedizioni e così via, dove le fabbriche dovevano chiudere e così via, per non parlare del settore turistico. Ma è più di questo, perché influisce anche sull’equilibrio interno di potere all’interno dell’establishment finanziario. Il fatto che le compagnie aeree ne siano le vittime è significativo, perché potrebbero crollare e quindi, ovviamente, essere acquistate, e ciò significa che c’è stata una ridistribuzione non solo della ricchezza monetaria ma anche di vera ricchezza. Questi sono beni. L’esistenza del coronavirus, che genera incertezza, panico, è in definitiva l’ambiente ideale per le persone che vogliono speculare e fare soldi a spese di coloro che hanno risparmi, a spese delle piccole imprese e alle spese di società concorrenti. Questa è la situazione in cui ci troviamo e non ricordo alcun periodo della nostra storia recente paragonabile a quello in cui viviamo adesso, in cui intere economie sono in stallo (…)”.

Da Chi ha diffuso il virus? Intervista col prof. Michel Chossudovsky, a cura di Bonnie Faulkner.

Laboratorio Grecia

A chi, dall’alto (?) del proprio scranno parlamentare, ipotizza una “grecizzazione” dell’economia italiana, attraverso l’adozione di misure che richiamano in maniera sinistra quanto perpetrato nel Paese balcanico durante l’ultimo decennio, vogliamo rivolgere l’invito a prendere visione del seguente documentario, realizzato dal benemerito Collettivo Vox Populi, scritto e diretto da Jacopo Brogi.
Laboratorio Grecia è “un viaggio che attraversa la Storia greca passata e recente: dalla seconda guerra mondiale all’attuale crisi economico finanziaria. Un documentario di Storia e di tante storie: vita quotidiana nell’epicentro del neoliberismo applicato. (…) Cronache del nostro avvenire: in cammino fra le generazioni, per abbandonare l’eterno presente ed inventare un Futuro dalle misure umane.”

L’Italia merita di più


Dunque, ricapitolando:
– (1) Come abbiamo sempre detto, gli eurobond sono fuori discussione: il ministro tedesco dell’Economia Altmeier ha affermato senza mezzi termini che «la discussione sugli eurobond è un dibattito sui fantasmi», mentre Otmar Issing, ex capo economista della BCE (ovviamente tedesco), ha ricordato che comunque sarebbero incostituzionali secondo la legge tedesca e la misura dovrebbe essere sottoposta a referendum popolare. Ma cos’altro devono fare i Tedeschi per farvelo capire? Invaderci e tatuarlo sulla fronte di ogni primogenito?
– (2) Come abbiamo sempre detto, il MES “senza condizionalità” non esiste, come hanno ribadito Germania e Olanda. Non solo è impensabile che questi Paesi accettino che questo finanziamento abbia il carattere di un trasferimento, come sarebbe necessario, e non di un prestito; ma è estremamente improbabile che accettino anche solo di aprire una linea di credito per l’Italia che non preveda almeno la possibilità di una futura ristrutturazione del debito (leggasi: mettere le mani direttamente nelle tasche degli Italiani). Eppure, nonostante ciò, è ormai chiaro che Conte e Gualtieri insistono comunque per l’attivazione di una linea di credito legata al MES.
– (3) Come abbiamo sempre detto, l’idea che l’Italia possa fare tutto il deficit che vuole adesso che è stato sospeso il Patto di stabilità è un’illusione: la BCE continua a non essere un garante di ultima istanza, come ha ricordato Isabel Schnabel, membro tedesco del Comitato esecutivo della BCE, che ha dichiarato che gli interventi decisi dalla BCE per affrontare l’emergenza coronavirus «naturalmente non sono» un piano di soccorso pensato per l’Italia. Tradotto: se l’Italia dovesse perdere l’accesso ai mercati o finire sotto attacco speculativo, la BCE potrebbe intervenire solo previa accettazione da parte dell’Italia delle clausole di condizionalità di cui sopra.
– (4) Ovviamente forme di monetizzazione diretta dei deficit nazionali da parte della BCE – come sono in procinto di fare tutte le altre banche centrali del mondo e come suggerito da Paul De Grauwe e altri – non sono neanche prese in considerazione.
Alla luce di quanto detto, dovrebbe essere ormai chiaro a tutti – ma evidentemente non lo è – che nella cornice dell’euro non esistono soluzioni per uscire dalla crisi che non prevedano l’ulteriore impoverimento e deindustrializzazione del Paese e la sua definitiva subordinazione ai centri di comando europei.
Mattarella dice che dobbiamo essere «uniti come nel dopoguerra». Peccato che nel dopoguerra non ci siamo ancora: siamo ancora nel bel mezzo della guerra, una guerra che combattiamo allo stesso tempo sia contro il COVID-19 che contro le pulsioni imperialiste ed egemoniche, mai sopite, del potere tedesco. E che se ottant’anni fa il destino del Paese fosse stato in mano a persone come Mattarella, invece di combattere una guerra di liberazione l’Italia sarebbe probabilmente diventata un Länder tedesco.
L’Italia merita di più. L’Italia merita una classe politica che dica che è ignobile che il nostro Paese, mentre piange i suoi morti, sia costretto ad andare col cappello in mano ad elemosinare soldi ai nostri concorrenti commerciali; che dica che l’Italia in queste settimane sta dimostrando di avere tutta la fibra morale, la forza, il coraggio e lo spirito di solidarietà di cui ha bisogno per rimettersi in piedi da sola, a patto che sia messa nelle condizioni di farlo; che è arrivato il momento di porre fine a vent’anni di “amministrazione controllata” sotto il regime dell’euro, di riprenderci in mano il nostro destino e di tornare a camminare con le nostre gambe.
E invece. E invece abbiamo un ministro dell’Economia che da bravo quisling – a fronte di stime che parlano di una perdita potenziale del PIL di centinaia di miliardi, di migliaia di aziende che rischiano di chiudere, di centinaia di migliaia di persone che rischiano di ritrovarsi senza un lavoro – minimizza, dicendo che «nel 2020 l’Italia avrà una perdita del PIL di qualche punto percentuale, grave ma gestibile». Non ci sono parole per commentare.
Thomas Fazi

(Fonte)

“Non mi stupirei se molti Italiani stessero già affilando i coltelli”

“Non si abbia timore a dirlo: i Tedeschi con le loro imposizioni sono direttamente responsabili di qualche migliaio di nostri morti che a causa dei tagli imposti non hanno potuto trovare posto negli ospedali mentre soffocavano. Qualche migliaio di morti tra i bambini lo avevano fatto anche in Grecia, ridotta alla fame dal loro commissariamento. Un’Unione che quando è scoppiata l’epidemia in Italia ha pensato bene di produrre filmati sulla pizza al catarro, a sequestrate le nostre forniture mediche e impedendo il sorvolo del territorio agli aerei militari russi con gli aiuti umanitari, mettendo contestualmente i puntini sulle i precisando che qualora avessimo ricevuto degli aiuti essi sarebbero stati solamente dei prestiti, da ripagare con gli interessi.
Un’Unione comandata da burocrati imbecilli che invece di pensare alle cose che contano come i piani di contenimento epidemiologico ha preferito trastullarsi con lo spread, il collare borchiato che ci hanno messo al collo costringendoci con l’Euro a sottoscrivere debito su debito mettendoci al contempo nella condizione di non poterlo mai ripagare a causa dei tagli imposti al nostro sviluppo economico. Questi euro burocrati ed euro governanti sono così stupidi che pur avendo sotto gli occhi l’errore clamoroso commesso dal governo italiano nel mettere in atto le misure di contenimento con gravissimo e colpevole ritardo, hanno finito per commettere lo stesso errore perché erano troppo impegnati a ridere di noi e a progettare sgradevoli sgambetti.
Se Conte avesse le palle e volesse dimostrare di non essere il lacchè degli euronazisti, dovrebbe andare in Europa non a chiedere flessibilità, ma ad informare per mera cortesia diplomatica che l’Italia prenderà anche in autonomia qualsiasi misura necessaria per risollevare la propria economia, in una logica nostrana del “whatever it takes”. Se Conte sotto la direzione europea dovesse accedere al MES per l’ottenimento degli aiuti a debito mentre il Parlamento nelle sue funzioni è de-facto sospeso e mentre la gente non avrebbe modo di scendere in strada a protestare perché agli arresti domiciliari, non solo sarebbe un vigliacco ma si meriterebbe che l’intero Paese venisse messo a ferro e fuoco dalla tanto odiata plebe. Lo scrivo in maiuscolo, conscio del rischio del reato di vilipendio: SAREBBE UN VIGLIACCO.
Perché diciamocelo chiaro e senza mezzi termini: le contromisure contenute nel decreto salva-Italia sono delle sonore prese per il culo, esse sono la radiografia di un governo schiavo delle regole tedesche anche in un momento critico come questo. Mentre gli altri Paesi stanziano centinaia di miliardi in helicopter money e sospensioni fiscali, Conte elargisce 600 euro una tantum solo a pochissime persone (che non possono ottenere perché il sito dell’INPS non funziona) e postpone il pagamento delle tasse di qualche giorno. Nel frattempo la sua incapace amministrazione non è ancora riuscita a distribuire le mascherine agli operatori sanitari, mentre lui cincischia su facebook in fascia notturna, CHE VERGOGNA! Quello che succederà nei prossimi giorni con Conte e l’Europa lo vedremo, nel frattempo non mi stupirei se molti Italiani stessero già affilando i coltelli, dopo tutto sono chiusi in casa e non avrebbero modo migliore per impiegare il proprio tempo.”

Da Coronavirus, UE totalmente inutile. MES, Conte stia attento ai forconi, di Roberto Preatoni.

“Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”

Virus: scatta la colpevolizzazione dei cittadini

Una delle strategie più efficaci messe in campo dai poteri forti durante ogni emergenza consiste nella colpevolizzazione delle persone, per ottenere dalle stesse l’interiorizzazione della narrazione dominante su ciò che accade, al fine di evitare qualsiasi ribellione verso l’ordine costituito.
É una strategia ampiamente messa in campo nell’ultimo decennio con lo shock del debito pubblico, presentato alle persone come la conseguenza di vite dissennate, vissute al di sopra delle proprie possibilità, senza alcuna responsabilità verso le generazioni future.
Lo scopo era evitare che la frustrazione per il peggioramento delle condizioni di vita di ampie fasce di popolazione si trasformasse in rabbia verso un modello che aveva anteposto gli interessi delle lobby finanziarie e delle banche ai diritti delle persone.
É una strategia che si sta ora dispiegando nella fase più critica dell’epidemia prodotta dal virus Covid19.
L’epidemia ha reso il re nudo e ha dimostrato tutti gli inganni della dottrina liberista.
Un sistema sanitario come quello italiano, fino a un decennio fa tra i migliori al mondo, è stato fatto precipitare sull’altare del patto di stabilità: tagli da 37 miliardi complessivi e una drastica riduzione del personale (-46.500 fra medici e infermieri), con il brillante risultato di aver perso più di 70.000 posti letto, che, per quanto riguarda la terapia intensiva di drammatica attualità, significa essere passati dai 922 posti letto ogni 100mila abitanti nel 1980 ai 275 nel 2015.
Tutto questo dentro un sistema sanitario progressivamente privatizzato e, quando anche pubblico, sottoposto ad una torsione aziendalista con l’ossessione del pareggio di bilancio.
É quasi paradigmatico che il re sia visto nudo a partire dalla Lombardia, considerata l’eccellenza sanitaria italiana e ora messa alle corde da un’epidemia che, nella drammaticità di queste settimane, ha dimostrato l’intrinseca fragilità di un modello economico-sociale interamente fondato sulla priorità dei profitti d’impresa e sulla preminenza dell’iniziativa privata.
Può essere messo in discussione questo modello, con il rischio che, a cascata, l’intero castello di carte della dottrina liberista crolli? Dal punto di vista dei poteri forti, è inaccettabile.
Ed ecco scattare la fase della colpevolizzazione dei cittadini.
Non è il sistema sanitario, de-finanziato e privatizzato, a non funzionare; non sono i folli decreti che, da una parte, tengono aperte le fabbriche (e addirittura incentivano con un bonus la presenza sul lavoro), e dall’altra riducono i trasporti, facendo diventare le une e gli altri luoghi di propagazione del virus; sono i cittadini irresponsabili che si comportano male, uscendo a passeggiare o a fare una corsa al parco a inficiare la tenuta di un sistema di per sé efficiente.
Questa moderna, ma antichissima, caccia all’untore è particolarmente potente, perché si intreccia con il bisogno individuale di dare nome e cognome all’angoscia di dover combattere con un nemico invisibile: ecco perché indicare un colpevole ( “gli irresponsabili”), costruendogli intorno una campagna mediatica che non risponde ad alcuna realtà evidente, permette di dirottare una rabbia destinata a crescere con il prolungamento delle misure di restrizione, evitando che si trasformi in rivolta politica contro un modello che ci ha costretto a competere fino allo sfinimento senza garantire protezione ad alcuno di noi.
Continuiamo a comportarci responsabilmente e facciamolo con la determinazione di chi ha da sempre nella mente e nel cuore una società migliore.
Ma iniziamo a scrivere su tutti i balconi “Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”.
Marco Bersani

(Fonte)

Il più grande inganno


Mentre il governo giallo-fucsia ci racconta che per aumentare di poco i salari agli insegnanti dovremmo tassare merendine, bibite e biglietti aerei, mentre ci dicono che l’unico modo per affrontare il problema ambientale è concentrarsi sull’aspetto climatico, pagare nuove eco-tasse e comprare auto elettriche, la Banca Centrale Europea riprende le operazioni di QE al ritmo di 20 miliardi di euro al mese.
In Italia mancano milioni di dipendenti pubblici (almeno 2,5 rispetto a Francia e Inghilterra).
In Italia mancano quasi del tutto infrastrutture degne di un Paese civile, in tutto il centro-sud. Non c’è una rete autostradale degna di questo nome, sotto Roma. Della rete ferroviaria, meglio non parlare.
Non ci sono fabbriche e industrie a sufficienza nel Sud Italia.
Non c’è lavoro, nel Sud. E quando c’è, i salari sono indecenti.
Ecco perché ogni anno circa 250.000 giovani sono costretti a scappare dal Sud al Nord del Paese. Questo mentre altrettanti giovani del Nord sono costretti a scappare all’estero.
A volte a fare la fortuna di un Paese straniero, a volte a fare i lavapiatti, ma con la paura e la vergogna di tornare indietro dopo aver fallito. Quando a fallire è stata la classe politica che li ha costretti a fuggire.
Una insopportabile beffa che si aggiunge al danno di spendere milioni di euro per i nostri giovani, per il futuro del Paese, e lasciare poi che vadano a fare le fortune di altri Paesi. Perdendoci doppiamente.
L’aumento della produzione di energie rinnovabili, la riconversione di industrie e fabbriche, la drastica riduzione del trasporto merci via aerea e marittima (due, quelle sì, grandi cause di inquinamento atmosferico), l’aumento esponenziale, di linee e di mezzi, del trasporto pubblico nei grandi centri abitati per combattere davvero i danni dell’inquinamento atmosferico laddove necessario.
Avremmo da fare per le prossime 5 generazioni, almeno. Avremmo gli uomini, le competenze, le materie per costruire un nUovo Paese, finalmente unito. Da Nord a Sud.
Unito con le autostrade, unito con i treni, ma soprattutto unito nei salari e nel benessere.
Ci dicono, da anni, da troppi anni, che tutto questo non sia possibile per mancanza di soldi.
Perché il debito dello Stato è troppo alto. Perché, in fondo, abbiamo per decenni vissuto al di sopra delle nostre possibilità.
Hanno progressivamente cancellato ogni traccia di lotta di classe per sostituirla con una guerra generazionale fratricida. Stano aizzando i giovani contro i loro genitori e i loro nonni.
E lo stanno facendo portando avanti questa assurda narrazione della scarsità. Una scarsità, però, non reale ma auto-indotta.
E così, da 27 anni, guidato dalla peggior classe politica che si sia mai vista, lo Stato italiano ci toglie più di quanto ci dia: si chiama avanzo primario. È lo Stato che da protettore dell’uguaglianza e della popolazione si fa invece boia e strozzino.
Mentre la BCE continua a emettere, dal nulla, 20 miliardi di euro al mese. Venti miliardi di euro. Ogni maledettissimo mese. Più di un miliardo di euro ogni due giorni.
Quella della mancanza di soldi è la scusa più vecchia del mondo. È quella che usano per giustificare il nostro progressivo impoverimento mentre loro aumentano indegnamente la percentuale di ricchezza sul totale.
È una balla che non si regge più sulle gambe. Una balla che era già stata smontata decenni fa.
Gilberto Trombetta

A noi Orwell ci fa un baffo

Dati alla mano, in UE si formerà un governo fotocopia del precedente, solo un po’ più magro e incattivito, un governo formato da PPE, PSE + i liberaldemocratici di ALDE.
Sarà questa maggioranza che eleggerà il prossimo presidente della BCE, e visto lo scampato pericolo sarà finalmente uno deciso a mettere in riga i Paesi che turbano il guidatore – cioè il governo della finanza.
E, sappiatelo, ne ha tutti i mezzi, perché a quel signore eletto sostanzialmente dall’azionista di maggioranza (Germania) abbiamo consegnato il potere assoluto sui nostri conti pubblici, sui nostri investimenti, sulla nostra solvibilità.
A occhio e croce direi che la propaganda europeista ha vinto nei limiti in cui poteva vincere. Nelle salde mani dei ‘competenti’ l’Europa si avvia ad altri 5 anni di agonia, in cui qualunque iniziativa che non sia ‘market-friendly’ verrà bombardata come indecoroso populismo. In Italia ci verranno ripetute le solite incredibili idiozie sul debito pubblico come debito del ‘buon padre di famiglia’, della necessità di stringere ancora un po’ la cinghia, di svendere ancora quel po’ di patrimonio pubblico rimasto, e ci verrà soprattutto innestata ancora più in profondità l’idea che “non c’è alternativa”.
A chi vuole difendersi da tutto ciò non resterà che appellarsi a gente che brandisce rosari e invoca la flat tax. E ad opporsi a questi ultimi ci saranno le quinte colonne di Bruxelles, pronte a starnazzare al ‘fascismo’.
A noi Orwell ci fa un baffo.
Andrea Zhok

Fonte

Lo Stato confiscato e la riconquista della sovranità

Il paradosso del Robin Hood trasposto e l’egemonia finanziaria

La cosa veramente bizzarra, ma che bizzarra non è solo se ci soffermiamo un secondo, é quella di chiederci come mai i paladini dell’austerità e del rigore, i seguaci fedeli dello spread, gli ossessionati del debito pubblico e dall’inflazione, quelli del contenimento e della parsimonia, sono gli stessi che vivono in una condizione non di semplice agio, ma in uno sfarzo sfrenato senza pudore, senza uguali in nessuna corte d’altri secoli.
Ci viene detto che manca il lavoro, anzi no, é che manca il denaro e quindi di conseguenza il lavoro.
E sì, perché il lavoro a guardarci intorno ce ne sarebbe d’ogni tipo e in gran misura. Pubblico o privato, hai voglia a faticare, ma come dice una pubblicità di prestiti “senza lillari non si lallera” e noi siamo in deflazione.
Mentre non si ha più rispetto per il lavoro e per chi lavora, diritti deregolamentati e salario di sussistenza, al denaro oramai ci approcciamo in modo dogmatico e riverente, quasi fosse una manna dal cielo che cade a volte sì e a volte no, per ragioni che a noi comuni mortali non è dato sapere. Il suo comparire è come se dipendesse solo dal potere di un dio onnipotente e capriccioso che ne sfarina una manciata a suo gradimento.
Ma il denaro un tempo non era un elemento neutro, senza alcun valore naturale? Una misura equivalente al valore di un bene? La sua esistenza e dignità non dipendeva forse dal nostro saperlo riconoscere e accettarlo come tale misura? Ed ancora, la sua massa non era la rappresentazione fenomenica solo del nostro creare che si ottiene con il lavoro?
Immaginiamo un naufrago, il buon Crusoe su di un isola deserta, che abbia con sé tutte le sue carte di credito e un baule di banconote. Come potrà usarle al fine della sua sopravvivenza? Nella migliore delle ipotesi, le carte di credito potrebbero essere utili per raschiare pelli da concia e le banconote per avviare il fuoco.
Il denaro è solo una convenzione accettata che trasporta in sé un valore convenzionale e nient’altro, questo dovremmo tenerlo sempre bene a mente.
Con queste riflessioni, Ezra Pound ebbe a dire che la mancanza di denaro è una follia perché è come dire che non si possono costruire le strade perché mancano i chilometri.
L’economia, quella fondata sul lavoro, che ebbe già antichi nemici e approfittatori nei seguaci della crematistica, é stata ora completamente disumanizzata avendo rimosso per intero l’uomo e le sue attività. La disciplina economica della finanza ha preso il suo posto, ed il monetarismo espressione del tutto e del niente, novello apeiron, governa. Il denaro, cartaceo o anche di più il virtuale, esiste prima di tutto, a prescindere, addirittura senza lavoro. Non serve più il controvalore aureo, neanche più la carta per la sua stampa. La massa monetaria nella sua totalità non ha limiti ma neanche più pudori.
La ricchezza non ha più il senso della misura, ma di rimando neanche la povertà; come scrive il professor Fusaro, il nostro è un tempo in cui abbiamo perso il “metro”.
La distribuzione della ricchezza mai come in questi ultimi anni ha visto una polarizzazione così sfrenata, mai come in questi tempi l’indice di Gini tende in modo crescente verso l’unità. Alla concentrazione della ricchezza segue la concentrazione del potere nelle stesse poche mani. Malgrado tutto, alla violenza economica viene risparmiata ogni critica, perché ci viene detto che il problema non è in questo sistema imposto e fallimentare, ma in noi che lo subiamo. Una crisi dettata da quel famoso debito pubblico che grava come un senso di colpa già dalla nascita, una colpa da espiare ed espiabile solo tendenzialmente, perché il debito oltre ad appartenere a tutti come l’aria che respiriamo, si é eternizzato con gli interessi, pertanto ripianarlo è impossibile. Abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità e la stretta é una condizione dovuta, necessaria e riparatoria. Se prima lavorando onestamente potevamo vivere permettendoci di acquistare una casa e far studiare i figli, ora lavorando di più, magari in due, non basta, dobbiamo avere meno per restituire di più, riconsegnare il maltolto ai legittimi proprietari, fosse anche solo per gli interessi. Dobbiamo imparare a vivere facendo sacrifici perché il denaro è poco e il rimedio al problema é proprio permanere nella sua rarità; questo è ciò a cui l’establishment ci ha educato, insieme alla funzione pedagogica del mercato.
Certamente una disaffezione dal denaro è un nobile principio quando è un’aspirazione morale ed etica, e fintantoché le condizioni di contorno sono tali da limitarne il bisogno.
Ma qui si apre una voragine pericolosissima perché ciò che un tempo era garantito da uno Stato Sociale, oggi con la spending review e il pareggio di bilancio, viene messo tutto in discussione, quando non soppresso, quindi ci troviamo nella contraddizione fatale di non aver più disponibilità economica da un lato, mentre dall’altro siamo costretti a pagare servizi o diritti.
Questa doppia tenaglia, scarsità di reddito da una parte e rimozione di una rete pubblica di protezione dall’altra, produce un processo di polarizzazione agli estremi. Ulteriore aggravio é il fatto che l’ascensore sociale è bloccato, il sistema é rigido e monolitico, castale e fortemente impersonale, non facilmente identificabile ma blindato.
Mentre il mantra ossessivamente ci ricorda che i debiti vanno onorati, chi ha meno deve far sacrifici per chi ha di più.
Anche lo Stato non deve fare eccezioni.
L’abominio più grande é il declassamento dello Stato. Il confronto e il contrasto tra pubblico e privato non viene risolto in modo armonico: quando i ruoli non sono deliberatamente invertiti – il privato che si appropria di ciò che é pubblico, mentre al pubblico viene lasciata la sola intimità morbosa del privato – l’aporia viene rimossa con la soppressione del primo termine. Ciò coincide con il derubricare lo Stato a soggetto privato, svuotandolo del suo aspetto costitutivo, quello pubblico. Lo Stato confiscato, trattato come un qualunque privato, deve rimettere i suoi debiti senza eccezioni, pena il fallimento, piani di risanamento e il commissariamento più forte di ogni democrazia.
Cosi come Marx nella critica agli economisti classici, Smith e Ricardo, intravvede come questi, nel riconoscere nel capitale circolante il giusto recupero del capitale anticipato, nascondano invece come il valore, cioé il plusvalore, nasca dal lavoro non retribuito, dallo sfruttamento, allo stesso modo possiamo ritenere come oggi le Banche Centrali, il FMI, le agenzie di rating, nella loro narrazione di rigore monetario, indicando nel debito il giusto dovuto, nascondano l’espropriazione ai danni degli Stati e dei popoli di ogni libertà politica e civile.
Anche se la conseguenza antropologica della finanziarizzazione dell’economia é stata quella del funambolo, l’uomo sospeso che ha perso ogni sua certezza se non la sua condizione precaria, avanza gradatamente la percezione dell’inganno paradossale e il desiderio per l’uomo di riconquistare la sua centralità e sovranità, così come per lo Stato la sua Res-Pubblica, ma questa è già storia dei nostri giorni.
Lorenzo Chialastri

Aggiornato il 14/12/2018

La cartina di tornasole, i conti non tornano ancora

Nulla ci vieta di fare alcune osservazioni critiche al governo in carica anche se consapevoli del fatto che l’unica alternativa sarebbe il Partito Democratico e/o Forza Italia, entrambi nemici di classe e del popolo sovrano.

Non sappiamo se la manovra economica del governo del cambiamento sarà veramente efficace, non abbiamo la certezza se questo governo sia veramente del cambiamento o avrà il tempo per tentar di cambiar le cose. Non sappiamo se riuscirà a risolvere il problema della povertà e rialzare il PIL. Non sappiamo neanche se basterà l’ottimismo o il deficit fissato al 2,4% per ridurre il coefficiente di Gini, quello che misura le disuguaglianze della ricchezza. Non sappiamo neppure se riuscirà a liberare la vita reale dallo spettro dello spread. Non sappiamo se avrà la forza morale per bandire quei tassi d’interesse da usurai che spezzano il popolo. L’economia, ed ancor meno la finanza, non sono una scienza esatta, anzi non sono neanche una scienza, anche se a questo mirano per sedersi poi sul trono dell’indiscutibilità divina.
Certo il governo definito populista e sovranista qualche grattacapo all’Europa delle banche lo ha creato, producendo un pericoloso precedente.
E’ bastato solo che qualcuno dal fondo degli ultimi banchi della classe reclamasse, anche se con aria un po’ sommessa a volte timida, che i compiti dati dai maestri erano insostenibili, e questi subito sono andati su tutte le furie, una lesa maestà, una bestemmia impensabile, ed allora giù con anatemi, richiami e strali avvelenati.
Certamente la sovranità di un nazione si raggiunge attraverso un percorso di grande difficoltà, ma con un po’ di coraggio bisognerà pur partire da qualche parte. Tutto sta però nello stabilire quale è il paradigma di riferimento e cosa noi consideriamo per sovranità. Negli ultimi decenni si è assunto come naturale un assurdo disumano che di naturale non ha nulla, un’insana perversione che ha scandito il tempo della nostra esistenza, capace di orientare ogni cosa che facciamo al fine di non irritare ed innervosire i mercati, mentre questi, i mercati, hanno potuto tranquillamente a loro piacimento, per vendetta o per capriccio, portare sul baratro una nazione sana, indipendentemente dalla sua operosità. Guardando le cose alla radice possiamo affermare sicuramente che la sovranità vera non può prescindere da quella monetaria. Il potere della moneta per l’esistenza di un nazione è così forte ed indispensabile che viene riconosciuto da chiunque sia in buona fede, indipendentemente dal suo orientamento politico o economico.
“Datemi il controllo della moneta e non mi importa chi farà le sue leggi”, scriveva Rothschild, così come il problema fu sentito nella stessa misura da Lenin, per non parlare di Ezra Pound.
Lasciamo stare questo gravoso problema della sovranità monetaria che, nel solo chiederci a chi spetta la proprietà dell’euro, produrrebbe una crisi d’astinenza ai poveri euroinomani, altro che piano B. Non chiediamoci allora a quale entità antidemocratica sono state affidate le chiavi di casa, della zecca in questo caso. Cosa rimane quindi come misura della nostra presunta sovranità se non la nostra visione in termini di geopolitica? Attraverso questa abbiamo l’opportunità, anzi l’obbligo di dichiarare al mondo chi siamo e cosa vogliamo. La politica estera è la cartina di tornasole per chi si batte per la propria e l’altrui sovranità. Chi crede in questa forma d’autogoverno, non può in questo ambito che affermare la propria multipolarità da contrapporre a chi della unipolarità ha fatto una ragione storica, il suo destino manifesto, e che dopo la caduta del muro di Berlino ha colto un segno della provvidenza per la sua realizzazione.
Dal suo insediamento con toni chiari il governo giallo-verde ha tenuto a sottolineare la sua vicinanza geostrategica agli USA, troncando ogni speranza a chi avrebbe voluto un disimpegno magari graduale dalla NATO, non solo per risparmiare quei 70 milioni di euro al giorno di spese militari, ma proprio per liberarsi da un alleato troppo ingombrante e premuroso.
E’ anche vero che si é parlato di revocare le sanzioni alla Russia, novità sul nostro piano politico, ma in questi giorni mentre gli USA hanno deciso di riprendere unilateralmente le sanzioni contro l’Iran (colpevole di esistere come la Siria o la Palestina) e tutti i suoi alleati saranno allora costretti a non acquistare più petrolio iraniano per non incorrere nelle medesimi sanzioni, nessuna flebile voce s’è levata contro un’altra guerra commerciale alla quale ossequiosamente ci accoderemo ancora una volta.
Si ha l’impressione che se riusciamo a parole (finalmente) ad alzar la voce contro la Troika, il senso di riconoscimento nei confronti degli Americani a stelle e strisce é ancora così grande che non ci permette neanche di dubitare mai del loro altruismo e della loro bontà. Riusciamo solo ad annuire, o quando pronunciamo parola é solo per promettere fedeltà eterna, foss’anche quella del premier Conte a Trump per sfavorire la Russia a vantaggio del gasdotto TAP.
Per non parlare di Bolsonaro, dove si chiude il cerchio in cui “di notte tutte le vacche sono nere” e sovraniste. Certamente gli entusiasmi e le congratulazioni sono state fatte a titolo privato da uno dei due vice premier. Comunque si è dimostrato soltanto o la propria malafede sovranista o peggio ancora di non rendersi conto della storia dei fatti per ignoranza o superficialità. Quale è la presunta sovranità che spinge a stare con chi ha nostalgia della più classica delle dittature sudamericane? Pur ammettendo che anche le dittature possono essere sovraniste, pensiamo a Cuba, è da sottolineare che molto peggio sono quelle che lavorano per la spoliazione del Paese per conto terzi. A quel tipo di dittatura, sempre incoraggiata sul piano militare e logistico dagli USA, è sempre seguito il più sfacciato programma di privatizzazioni sul modello dettato dai Chicago boys. Chi svende la propria Patria non sarà mai libero ne starà mai dalla parte del popolo, non basta vincere le elezioni.
I sovranisti in Sud America hanno avuto la tempra di una Evita Duarte Peron, di un Hugo Chavez, di un Ernesto Guevara, di un Salvador Allende, hanno nazionalizzato nell’interesse della propria terra per difendersi dal quel maledetto vicino. Bolsonaro è evidentemente dall’altra parte, vicino a Pinochet, a Faccia d’Ananas Noriega ed a Milton Friedman, questo un vicepremier sovranista lo dovrebbe sapere perché altrimenti i conti, non quelli della manovra ma quelli che valgono veramente per il bene del popolo, perché autentici valori, non tornano.
Lorenzo Chialastri

Per un’Europa della libertà e della capacità sovrana dei popoli di autogovernarsi

Fulvio Grimaldi intervista alcuni esponenti dell’opposizione al governo Tsipras in Grecia.

F.G. Cos’è il Plan B?
Alekos Alavanos (economista, psicoterapeuta, già presidente di Synaspismos e poi capogruppo di Syriza, oggi segretario della formazione “Plan B”, staccatasi da Syriza dopo il referendum consultivo del luglio 2015) E’ un’idea alternativa per una politica totalmente diversa rispetto a quelle dettateci da Bruxelles, Francoforte e Berlino e che hanno distrutto la società e l’economia della Grecia. Non siamo io e altri compagni che abbiamo cambiato idea, è stata Syriza a cambiare totalmente. La rottura avviene nel 2011 quando Syriza sostiene che non era possibile avere una linea autonoma nel quadro dell’eurozona e dell’UE.

F.G. Che Grecia sarebbe quella del Piano B?
A.A. Nessuno può pensare che ogni cosa possa essere fatta senza correre rischi, trappole, difficoltà. Proponiamo una cosa molto semplice: le politiche che la maggioranza dei Paesi evoluti ha attuato dopo una prolungata recessione. Significa liquidità, domanda, salari e pensioni in grado di far girare la ruota. Significa un ruolo diverso dello Stato, creativo e dinamico, una politica di bilancio opposta a quella dell’UE.

F.G. Pensi che ci possa essere vita fuori dall’UE?
A.A. Certamente c’è vita fuori dall’Europa. Ma non c’è alcuna Europa, non è Europa. Per oltre vent’anni sono stato un membro del Parlamento europeo, amo l’Europa, tengo al confronto con gli altri Paesi, le altre forze politiche. Abbiamo bisogno di cooperazione in Europa. Ma deve essere una cooperazione basata sulla solidarietà, sul mutuo beneficio, sul rispetto. Se vuoi essere filo-Europa devi essere contro l’UE e la sua valuta. Siamo all’ennesimo memorandum: ancora tagli, riduzione delle pensioni, più tasse, meno esenzioni. Tutto questo mentre già stiamo in una gravissima depressione.

F.G. Il popolo greco aveva deciso diversamente…
A.A. Il venerdì, prima del referendum della domenica in cui vinse il no alla Troika, vidi la Merkel in tv che diceva che se i Greci avessero votato no, il lunedì non sarebbero più stati membri dell’UE e dell’euro. Ci minacciò. Usano campagne terroristiche, ora anche in Italia, di fronte alla rivolta della gente. I Greci non si fecero intimidire: oltre il 60% votarono no. Poi furono traditi, ingannati. Se io voto no e il governo il giorno dopo dice sì, ciò che si perde sono l’autostima, la fiducia, la prospettiva, la dignità morale.

F.G. E adesso?
A.A. Credo che ci siano dei buoni segni, che non ci vorrà molto prima che il popolo greco si svegli e riprenda in mano il fucile, il fucile della politica.

F.G. Anche noi abbiamo vinto un referendum contro i desideri della Troika. Credi che l’UE abbia per l’Italia un progetto come quello imposto a voi?
A.A. Spero che i poteri sistemici in Italia non si comportino come i nostri e le sinistre come le nostre sinistre. In effetti l’Italia è un boccone grosso. Ma potrebbe anche essere la leva per cambiare l’intera Unione. Le recenti elezioni, chiunque governi ora, hanno espresso una chiara volontà della maggioranza contro quanto all’Italia viene imposto. L’Europa non può sopravvivere nella forma e con i contenuti di adesso. Brexit è la soluzione. Spero che i popoli italiano e greco ritrovino la propria autostima e lottino, insieme ai Francesi, ai Tedeschi, a tutti, per un’Europa diversa, senza la BCE, senza questa valuta tossica. Un’Europa della libertà, creatività e della capacità sovrana dei popoli di autogovernarsi.

F.G. Vedi un filo che corre dalla vostra guerra contro i nazifascisti, alla guerra civile, a quella partigiana contro i britannici, alla dittatura NATO di Papadopulos, fino alla Troika?
A.A. C’è un filo, un filo assai pericoloso. E’ il filo della dipendenza, della subordinazione, militare, politica, anche psichica. La Grecia, inizio e simbolo della nazione che resiste, fin dall’800, è un simbolo increscioso, intollerabile. Dobbiamo farla finita. Non siamo agli inizi dell’800, quando qui comandavano i sultani. Sai, non c’è più sovranità nazionale. Una sovranità che non sarebbe in contraddizione con la collaborazione internazionale. Anzi. C’è sovranità nazionale quando il popolo si autogoverna e quando la cooperazione internazionale rispetta e favorisce una sovranità nazionale democratica. Il frutto è sull’albero. Lasciamolo maturare. Arriverà sulle nostre tavole.

F.G. Sembra che in Grecia rinasca una resistenza.
Panagiotis Lafazanis (segretario di “Unità Popolare”, già dirigente del partito comunista greco KKE e ministro nel primo governo Tsipras) Per la prima volta dopo molto tempo si sono viste manifestazioni popolari di massa davanti al parlamento e in molte città contro la Troika, l’alleanza con Israele di un paese da sempre vicino ai palestinesi, la cessione del nome Macedonia (“Macedonia del Nord”), nome greco di terra greca, al vicino slavo. E si è vista la brutalità della repressione di un governo che si dice di sinistra, per quanto alleato all’estrema destra. Pensiamo che il movimento risponderà e si rafforzerà, in vista anche di una data molto importante, quella del referendum vittorioso contro l’austerità e la Troika, il 5 luglio.

F.G. Come siete messi, dopo l’ennesimo memorandum?
P.L. La condizione della società greca è catastrofica, una situazione in cui non ci si vuol far vedere nessun futuro. Il 34,6% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, 3.796.000 persone su 10 milioni. E il debito che dovremmo pagare con questo strangolamento continua a crescere. E’ ancora forte la sensazione che tutto è perduto. Ma c’è anche l’altra faccia della luna: resta un potenziale sociale in grado di riprendere in mano la situazione e reagire. Insomma, c’è un corpo sociale che si convince di essere fottuto e un altro che è deciso a uscire dal vicolo cieco impostoci da Tsipras.

F.G. Basteranno le sole forze greche, o ci vorrà il concorso di altri Paesi?
P.L. In effetti, perché il popolo greco possa liberarsi, gli occorre il concorso di altri popoli europei, in prima linea di quello italiano. Però a noi tocca l’impegno di non aspettare che si muova un popolo vicino. Dovremo comunque essere i primi a rompere le sbarre del carcere tedesco. Forse saremmo l’ispirazione per altri, fino all’affondamento di tutta l’eurozona, come di questa Unione Europea.

F.G. Qual è il progetto strategico dei vostri nemici?
P.L. Per la Grecia è la distruzione del Paese, non c’è dubbio. Per l’Europa si tratta di una nuova feudalizzazione che elimini i soggetti nazionali in modo da riunire sotto il controllo dell’oligarchia tutte le ricchezze dei singoli Paesi. Per noi del Sud si tratta dell’applicazione di classici criteri colonialisti. Sono questi i caposaldi del progetto europeo. Sono caposaldi razzisti, ma a dispetto del suo razzismo, l’Europa sta conoscendo l’inserimento massiccio nel suo seno di altre popolazioni spodestate e sradicate e chi nutre dubbi sull’onestà del fenomeno, che non nasconda qualcosa di letale, viene accusato di xenofobia.

F.G. Potrebbe trattarsi di una strategia dei globalisti finalizzata a svuotare delle proprie generazioni giovani il Sud del mondo, ricco di risorse appetite dall’imperialismo?
P.L. Evidentemente. Ma si noti che i Paesi costretti a ricevere queste masse di migranti sono la Grecia e l’Italia. Non è un caso. E si prevede che queste masse aumenteranno man mano che l’Africa viene impoverita e si diffondono altre guerre. Non per nulla gli USA e la NATO hanno intensificato in questi giorni i bombardamenti su Iraq e Siria, mentre si accentua la militarizzazione dell’Africa. Di questi sviluppi Grecia e Italia sono le grandi vittime.

F.G. Siamo tutti figli della civiltà greca. E’ per questo che la Grecia deve essere punita?
P.L. E’ da qualche secolo che ci si vendica della nostra civiltà. Poi, per le élite euro-atlantiche punire la Grecia alla vista di tutti gli altri ha lo scopo di fornire un esempio. Se voi non accettate incondizionatamente l’impero, sarete puniti come i Greci. Ma potrebbe anche succedere che la Grecia si riveli il tallone d’Achille di questo progetto.

F.G. Anche qui per certe finte sinistre del neoliberismo globalista la parola sovranità è diventata reazionaria e sovranismo sinonimo di destra?
Grigoriou Panagiotis (antropologo, sociologo, economista, giornalista, autore di Asimmetrie sulla vicenda UE-Grecia) Posso solo dirti che il governo Tsipras ha ceduto controllo e sovranità del Paese, compresi i beni pubblici, ai creditori, titolari di un debito sistematicamente creato da dominanti esterni e complici interni. E questo per 99 anni. Si è perso il 40% dell’industria, il 40% del commercio, il 30% del turismo, tutti i porti, tutti gli aeroporti. Il 30% dei greci sono esclusi dalla sanità pubblica e al 30% è anche la disoccupazione reale. Per un po’ si è ricevuta un’indennità di 450 euro, poi più niente. Tutto questo si chiama effetto Europa, effetto euro. L’ingresso della Grecia nell’UE e nell’euro ha comportato il progressivo smantellamento della nostra economia produttrice. Importiamo addirittura gran parte dei nostri viveri. E’ una condizione di totale dipendenza. Non c’è patria, non c’è autodeterminazione e, ora con il vicino slavo titolato “Macedonia del Nord”, non ci sono più neppure gli spazi e confini della nazione greca. Un processo che interessava a UE e NATO che ora possono incorporare anche Skopje.

F.G. Come e più dell’Italia questo massacro sociale ed economico è stata aggravato dall’afflusso di decine di migliaia di migranti da Siria e altri Paesi.
G.P. Un gravame terribile, insostenibile e sicuramente non innocente da parte della Turchia e di coloro che hanno messo queste persone in condizione di dover fuggire. E’ sconcertante come a questi profughi sia garantita, giustamente, un minimo di copertura sociale, mentre a milioni di Greci è stata tolta. Le ONG straniere sollecitano l’immigrazione, per esempio affittando abitazioni a basso prezzo e riempiendole di migranti, cui pagano anche elettricità, gas e acqua. Migliaia di Greci rimangono senza casa e senza niente.

F.G. Stavo filmando un gruppo di persone dell’OIM (Organizzazione Internazionale Migranti), un organismo a metà tra ONU e privati. Non gradivano essere ripresi. Poi mi è piombato addosso un arcigno poliziotto che mi ha intimato di cancellare quelle riprese, se no mi avrebbe addirittura arrestato. Cosa significa tutto questo?
G.P. Non appena si affrontano queste cose si viene accusati di razzismo. Qui abbiamo una strategia contro certi Paesi del Sud. Da un lato la gente viene indotta a lasciare casa sua dalla violenza o dalla miseria importate a forza; dall’altro, chi li riceve non deve sentirsi più padrone a casa sua. Tanto meno, in quanto forze ed enti esterni assumono il controllo della tua economia nazionale. E qui, a difenderla, sei tacciato di nazionalismo. I Greci pensano a ragione di aver perduto la loro sovranità. E’ come essere sotto occupazione. Di nuovo un’occupazione tedesca. Pensa che in tutti i settori dello Stato ci sono dei controllori della Troika! Ricevono i ministri all’Hotel Hilton. Della Costituzione non c’è più traccia e neppure i diritti fondamentali del lavoro sanciti dall’UE sono rispettati.

F.G. Perché si impedisce di filmare migranti e chi se ne occupa? Cosa si vuole nascondere?
G.P. Il fatto è che altri decidono sulle sorti del tuo Paese e che devi fare o non fare quello che vogliono loro. Sempre di più la vicenda dei migranti, come in Italia, diventa un segreto. Un segreto delle ONG e dei loro finanziamenti occulti o, comunque, finalizzati a fargli assumere un ruolo che non è il loro e che sottrae prerogative allo Stato nazionale, uno Stato che non è più padrone delle proprie frontiere, del proprio territorio, delle persone che vuole o può accogliere. Tutte queste decisioni sono prese altrove, con le ONG che gestiscono un fenomeno, in effetti nella piena illegalità, dato che non esiste un quadro giuridico entro il quale farle agire. A cosa ti fa pensare un Paese mandato in default dall’Europa e a cui l’Europa, Dublino, impongono di ricevere e tenersi decine di migliaia di migranti che ne sono la rovina definitiva? Dobbiamo integrare chi non lo vorrebbe quando dalla nostra comunità nazionale, costituzionale, espelliamo tre quarti dei Greci? A cosa ti fa pensare un Paese mandato in default dall’Europa e a cui l’Europa, Dublino, impongono di ricevere e tenersi decine di migliaia di migranti che ne sono la rovina definitiva?

F.G. All’Italia.

Fonte

Solo la sovranità è progressista

Se uccidi oggi un Sankara, domani avrai a che fare con mille Sankara.
Thomas Sankara

All’indomani del vertice dei 25 Paesi membri dell’Organizzazione per l’Unità Africana, il 26 luglio 1987, il Presidente del Consiglio Nazionale Rivoluzionario del Burkina Faso denunciava in questi termini il nuovo asservimento dell’Africa: “Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Coloro che ci hanno prestato denaro sono quelli che ci hanno colonizzato, le stesse persone che hanno gestito i nostri Stati e le nostre economie, sono i colonizzatori che hanno indebitato l’Africa con i finanziatori”. Il debito del Terzo Mondo è il simbolo del neocolonialismo. Perpetua la negazione della sovranità, piegando le giovani nazioni africane ai desiderata dei poteri ex-coloniali.
Ma il debito è anche ciò di cui i mercati finanziari si nutrono. Il prelievo parassitario da economie fragili, arricchisce i ricchi nei Paesi sviluppati a scapito dei poveri nei Paesi in via di sviluppo. “Il debito (…) dominato dall’imperialismo è una riconquista abilmente organizzata affinché l’Africa, la sua crescita, il suo sviluppo obbediscano a standard che ci sono totalmente estranei, facendo in modo che ognuno di noi diventi uno schiavo della finanza, cioè schiavo di coloro che hanno avuto l’opportunità, l’astuzia, l’inganno di piazzare da noi i fondi con l’obbligo di rimborso”.
Decisamente, era troppo. Il 15 ottobre 1987, Thomas Sankara cadde sotto i proiettili dei cospiratori a favore del “Françafrique” e del suo succoso affare. Ma il capitano coraggioso di questa rivoluzione soffocata ne dettò i principi fondamentali: un Paese si sviluppa solo se è sovrano e questa sovranità è incompatibile con la sottomissione al capitale globalizzato. Il vicino del Burkina Faso, la Costa d’Avorio ne sa qualcosa: colonia specializzata nell’esportazione di monocolture di cacao a partire dagli anni ’20, è stata rovinata dalla caduta dei prezzi e trascinata nella spirale infernale del debito.
Il mercato del cioccolato vale 100 miliardi di dollari ed è controllato da tre multinazionali (una svizzera, una statunitense e una indonesiana). Con la liberalizzazione del mercato richiesta dalle istituzioni finanziarie internazionali, queste multinazionali dettano le loro condizioni a tutto il settore. Nel 1999, il FMI e la Banca Mondiale hanno chiesto la rimozione del prezzo garantito al produttore. Il prezzo pagato ai piccoli coltivatori è stato dimezzato, essi impiegano per sopravvivere centinaia di migliaia di bambini schiavi. Impoveriti dai prezzi in calo della sovrapproduzione, il Paese è anche costretto a ridurre le imposte sulle imprese. Privato delle risorse, schiavo del debito e ostaggio dei mercati, il Paese è in ginocchio.
La Costa d’Avorio fa scuola. Un piccolo Paese con una florida economia (il cacao rappresenta il 20% del PIL e il 50% dei proventi delle esportazioni) è stato letteralmente silurato dagli stranieri che cercano solo di massimizzare i profitti con l’aiuto delle istituzioni finanziarie e la collaborazione di leader corrotti. Thomas Sankara l’aveva capito: se è schiavo dei mercati, l’indipendenza di un Paese in via di sviluppo è pura finzione. Non riuscendo a rompere gli ormeggi con la globalizzazione capitalista, un Paese si condanna alla dipendenza e alla povertà. In un libro profetico pubblicato nel 1985, Samir Amin ha chiamato questo processo di rottura “la disconnessione del sistema mondiale”.
Quando si considera la storia dello sviluppo di un Paese, appare evidente che: i Paesi migliori sono quelli che hanno completamente conquistato la loro sovranità nazionale. Per esempio, la Repubblica Popolare Cinese e i nuovi Paesi sviluppati dell’Asia orientale hanno perseguito politiche economiche proattive e hanno promosso un’industrializzazione accelerata. Queste politiche erano basate – e lo sono ancora in gran parte – su due pilastri: la gestione unitaria degli sforzi pubblici e privati ​​sotto la guida di uno Stato forte e l’adozione quasi sistematica di un protezionismo selettivo.
Una tale osservazione dovrebbe bastare a spazzare via le illusioni alimentate dall’ideologia liberale. Lungi dal gioco libero delle forze del mercato, lo sviluppo di molti Paesi nel ventesimo secolo è il risultato di una combinazione di iniziative di cui lo Stato ha fissato sovranamente le regole. Da nessuna parte si vede uscire lo sviluppo dal cappello magico degli economisti liberali. Ovunque, è stato il risultato di una politica nazionale e sovrana. Protezionismo, nazionalizzazioni, rilancio della domanda e istruzione per tutti: è lungo l’elenco delle eresie grazie alle quali questi Paesi hanno scongiurato – in vari gradi e a costo di molteplici contraddizioni – l’angoscia del sottosviluppo.
Senza offesa per gli economisti da salotto, la storia insegna l’opposto di ciò che la teoria afferma: per uscire dalla povertà, è meglio la forza di uno Stato sovrano che la mano invisibile del mercato. E’ quello che hanno capito i Venezuelani che cercano dal 1998 di restituire al popolo il profitto della manna petrolifera privatizzata dall’oligarchia reazionaria. Questo è quello che intendevano Mohamed Mossadegh in Iran (1953), Patrice Lumumba in Congo (1961) e Salvador Allende in Cile (1973) prima che la CIA li facesse sparire dalla scena. Questo è ciò che Thomas Sankara chiedeva per l’Africa che cadeva nella schiavitù del debito dopo la decolonizzazione.
Si obietterà che questa diagnosi sia imprecisa, poiché la Cina si è sviluppata molto rapidamente dopo le riforme liberali di Deng. È vero. Un’iniezione massiccia di capitalismo mercantile sulle sue coste le ha procurato dei tassi di crescita enormi. Ma non bisogna dimenticare che nel 1949 la Cina era un Paese in miseria, devastato dalla guerra. Per sfuggire al sottosviluppo, ha fatto enormi sforzi. Le mentalità arcaiche furono smantellate, le donne emancipate, la popolazione istruita. A costo di molte contraddizioni, le strutture del Paese, la costituzione di un’industria pesante e lo status di potenza nucleare sono stati acquisiti durante il Maoismo.
Sotto la bandiera di un comunismo riverniciata nei colori della Cina eterna, quest’ultima ha creato le condizioni materiali per il futuro sviluppo. Se in un anno veniva costruito in Cina l’equivalente dei grattacieli di Chicago, non era perché la Cina fosse diventata capitalista dopo aver sperimentato il comunismo, ma perché essa ne ha fatto una sorta di sintesi dialettica. Il comunismo ha unificato la Cina, ha ripristinato la sua sovranità e l’ha liberata dagli strati sociali parassitari che ne ostacolavano lo sviluppo. Molti Paesi del Terzo Mondo hanno cercato di fare lo stesso. Molti hanno fallito, di solito a causa dell’intervento imperialista.
In termini di sviluppo, non esiste un modello. Ma solo un Paese sovrano che si è dotato di una vela sufficientemente resistente può affrontare i venti della globalizzazione. Senza una padronanza del proprio sviluppo, un Paese (anche ricco) diventa dipendente e si condanna all’impoverimento. Le società transnazionali e le istituzioni finanziarie internazionali hanno messo le proprie mani su molti Stati che non hanno alcun interesse a obbedir loro. Leader di uno di questi piccoli Paesi presi alla gola, Thomas Sankara ha sostenuto il diritto dei popoli africani all’indipendenza e alla dignità. Ha inchiodato i colonialisti di ogni genere al loro orgoglio e alla loro avidità. Sapeva soprattutto che il requisito della sovranità non era negoziabile e che solo la sovranità è progressista.
Bruno Guigue

Fonte – traduzione di C. Palmacci

Per l’Italia si avvicina il momento della verità

“Il nostro Paese si colloca quindi ad uno stadio successivo dell’eurocrisi rispetto alla Francia e si trova ora, svanito lo scenario di una dissoluzione “politica” dell’Unione Europea, all’avanguardia di quella “economica”.
Sul versante del debito pubblico, è sufficiente ricordare come l’ultima “A” assegnata ai nostri titoli di Stato sia stata tolta dall’agenzia canadese Dbrs lo scorso gennaio. Il versante bancario è persino più preoccupante: pesano i 205 €mld di sofferenze bancarie ed il misterioso stallo nel salvataggio pubblico di Monte dei Paschi di Siena, ormai fermo dallo scorso dicembre. È forte il sospetto, come già anticipammo mesi fa, che il braccio di ferro tra Germania ed Italia sull’istituto senese sia tutt’altro che risolto, lasciando aperta la strada del “bail in” o a perdite particolarmente severe per gli obbligazionisti. Sia la salute delle finanze pubbliche che quella gli istituti privati è aggravata dall’assenza di crescita economica (stimata dalla Commissione Europea al +0,9% per il 2017 ed al 1,1% nel 2018): è un’attività economica così debole da poter scivolare facilmente nella recessione qualora il governo dovesse attuare le ulteriori misure d’austerità imposte dall’Europa, il quadro globale dovesse deteriorarsi o la BCE riducesse la politica monetaria ultra-espansiva, rafforzando l’euro e facendo lievitare gli interessi sul debito pubblico.
Già, molti collocano nel biennio 2018-2019, con la dell’allentamento quantitativo e la scadenza del mandato di Mario Draghi, il termine ultimo dell’Italia per “rimettersi in carreggiata”. In realtà, il precipitare della situazione italiana potrebbe essere questione di sei-nove mese, in coincidenza delle (ineludibili) elezioni legislative: se esistono pochi dubbi sulla vera natura del Movimento 5 Stelle, classico esempio di partito populista “addomesticato”, sono alte però le probabilità che dalle prossime urne esca un parlamento “impiccato”, incapace di esprimere una chiara maggioranza a causa della tripartizione quasi perfetta dello schieramento politico. È quanto sta sperimentando dallo scorso ottobre la Spagna, dove Mariano Rajoy si è visto costretto a formare un governo di minoranza che presto sarà sottoposto al battesimo di fuoco della legge finanziaria. Se il governo Gentiloni dovesse cadere entro l’autunno, l’attuale parlamento fosse incapace di esprimere una legge elettorale od il prossimo di formare un saldo esecutivo, bisogna attendersi che la speculazione sul debito pubblico riesploda, come nell’estate del 2011.
Gli squali della City e di Wall Street agirebbero, proprio come allora, coordinandosi con i tre principali alfieri dell’establishment euro-atlantico in Europa: la Banca Centrale di Mario Draghi. la Germania di Angela Merkel e la Francia di Emmanuel Macron (che ricopre il ruolo che Nicolas Sarkozy ebbe nel 2011). Andrebbe in onda una leggera variante di quanto sperimento sei anni fa dall’esecutivo Berlusconi: Francoforte invierebbe “una lettera” suggerendo le riforme strutturali inderogabili per continuare ad acquistare i titoli di Stato (lettera che “filtrerebbe” al Corriere della Sera in pochi giorni), Berlino chiederebbe all’Italia di accettare un prestito dal Fondo Monetario Internazionale e/o dall’ESM così da mettere al riparo le finanze pubbliche, Parigi si adagerebbe alla linea tedesca, conscia che è l’unico modo per continuare ad avvalersi dello scudo politico offerto dal “motore franco-tedesco”.
L’Italia, svuotata di qualsiasi sovranità, sarebbe così rimessa alla mercé della Troika sulla falsariga di quanto sperimento dalla Grecia. Con una significativa differenza, però: il piatto è molto più appetitoso, grazie al tessuto produttivo più diversificato, imprese pubbliche più floride, un patrimonio immobiliare dello Stato più ricco e risparmi privati più cospicui. Sarebbe così portato a compimento il grande saccheggio dell’economia italiana iniziato nel biennio 1992-1993 e consumato, prima, per agganciarci all’euro e, poi, per scongiurare la nostra uscita: da quinta economia del mondo che era nei primi anni ‘90, l’Italia scivolerebbe verso il rango di Stato semi-fallito, depauperata della sua industria, dei suoi giovani, dei suoi capitali.
Diversi elementi indicano che sia questo il prossimo futuro dell’Italia: il governatore della BCE, l’ex-Goldman Sachs Mario Draghi, ha più volte sottolineato che l’uscita dalla moneta unica non è contemplata dai trattati ed ha ammonito che, in ogni caso, tutti i debiti contratti da Bankitalia con la BCE (si parla di 350-400 €mld sul sistema Target2) devono essere saldati. È chiaro che Draghi farà di tutto per impedire l’Italexit, usando la liquidità della banca centrale come arma di ricatto (lo stesso schema applicato nel 2015 in Grecia). I consiglieri economici di Angela Merkel hanno già “suggerito” all’Italia, in occasione del salvataggio di MPS, di chiedere soccorso al Fondo salva-Stati (ESM) ed al FMI: al coro si è aggiunto anche il ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, che ha recentemente ribadito la necessità di potenziare l’ESM per aggirare i Parlamenti nazionali ed evitare che “l’Europa si disgreghi” al riesplodere della speculazione. Da ultimo, il neo-presidente Emmanuel Macron non ha alcun interesse a sposare la causa dell’Italia o dell’Europea mediterranea e preferisce venderci alla Troika così da guadagnare altro tempo per la Francia: la “modernizzazione” dell’economia transalpina, a colpi di austerità e liberismo, deve ancora iniziare e si preannuncia drammatica.
Non c’è alcun dubbio che l’attuale od il prossimo parlamento, se lasciati liberi da qualsiasi vincolo esterno, voterebbero per il commissariamento dell’Italia da parte della Troika: la soluzione sarebbe in continuità con la linea “europeista” della Seconda Repubblica e diversi centri di potere (il presidente Sergio Mattarella, la Bankitalia di Ignazio Visco, la Confindustria di Vincenzo Boccia, i sindacati, il salotto di RCS, etc. etc.) premerebbero per mantenere lo status quo anche a costo di vedere il FMI e l’ESM installarsi stabilmente a Roma, svuotando di qualsiasi significato le nostre istituzioni. Il parlamento italiano dovrà però tenere conto degli umori di una società che, sfibrata dalla peggiore depressione economica dai tempi dell’Unità, è tanto esausta quanto insofferente: qualsiasi opportunità di ribellione (che si tratti del referendum costituzionale o del referendum sul salvataggio di Alitalia) è ormai prontamente sfruttata per gridare un “No!” in faccia all’establishment. C’è da chiedersi quale sarebbe la reazione della società italiana di fronte a nuova austerità, nuove umiliazioni, nuovi saccheggi.
È pronto il parlamento italiano ad affrontare uno scenario simile, o probabilmente peggiore, a quello greco? È pronta la nostra fallimentare classe dirigente a mantenere l’ordine con la violenza, dopo aver trascinato nel baratro il Paese? È pronto il nostro establishment a giocare fino in fondo la partita, col rischio di spezzarsi l’osso del collo?
Sono interrogativi che troveranno una risposta nei prossimi mesi. Nel frattempo il deflusso di capitali, ben visibile su Target 2, continua mese dopo mese. L’eurozona è sempre più polarizzata tra area marco (con la Francia in posizione ancillare) e area mediterranea: le tensioni finanziarie, nonostante la morfina della BCE, sono molto più gravi del 2011-2012. Il momento della verità si avvicina e l’Italia è (contro la sua volontà) in prima linea.”

Da Euro-crack: l’Italia è ora in prima linea, di Federico Dezzani.

La moneta-debito

Periodicamente, qualche liberale dal cuore buono ci rammenta che l’aumento del debito generato da una maggiore spesa pubblica andrà a pesare sulle giovani generazioni.
Ieri, ad esempio, è stato il turno di Tito Boeri, presidente dell’INPS, l’ente sempre più traballante da quando ha dovuto farsi carico delle posizioni pensionistiche dei lavoratori pubblici, i cui contributi vengono pagati dallo Stato soltanto in maniera figurativa, cioé con un tratto di penna sui registri contabili.
A costoro andrebbe dunque ricordato che “L’unico modo per arrestare il declino dell’Italia è decidere di non far pagare solo i cittadini, ma anche i creditori. Il popolo italiano ha l’obbligo di restituire solo quella parte di debito che è stata utilizzata per il bene comune. Tutto il resto -dovuto a tassi eccessivi, indebitamento per interessi, ruberie, sprechi, corruzione, etc.- può (e deve!) essere ripudiato perché illegittimo.
La prima cosa da fare è quindi aggredire gli interessi, che ci salassano e alimentano la crescita del debito. Tre le iniziative possibili: vietare qualsiasi forma di speculazione sui titoli del debito pubblico, l’autoriduzione dei tassi di interesse, la sospensione dei pagamenti delle quote impossibili da coprire.
Risolta finalmente l’emergenza, bisognerà poi mettere ordine nei conti pubblici per liberarci definitivamente del debito e non ricadere mai più nella sua mortifera spirale.
Rammentando che il debito pubblico italiano non avrebbe avuto un epilogo così drammatico se avessimo conservato la sovranità monetaria di cui godevamo prima del 1981, quando si verificò il cosiddetto “divorzio” fra la Banca d’Italia e il ministero del Tesoro.” [Fonte]

Con sottotitoli

Con doppiaggio

Soldi, petrolio, sabbia ed imbecilli

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Che cosa potrebbe fare una povera ex superpotenza fallita?

“Quello di cui il Presidente-eletto Trump ha bisogno è un progetto pronto all’uso, con cui trasferire in patria un quantitativo significativo di bottino imperiale, abbastanza fronzoli e carabattole da mostrare alla gente come simboli di una ritrovata grandezza. Ma il problema è: che cosa c’è rimasto da saccheggiare? I rapporto globale debito/PIL è attorno al 300%, e una nazione fallita che derubi un’altra nazione fallita non ha molte speranze di fare bottino. Le nazioni non in bancarotta, che hanno un debito basso e forti riserve di valuta pregiata e di oro (Russia e Cina) non sono esattamente dei bersagli facili. Attacca la Russia e ti ritrovi a terra, senza neanche sapere che cosa è successo. Attacca la Cina e ti becchi dieci anni di agopuntura, molto cara ed estremamente dolorosa. L’Iran potrebbe sembrare un bersaglio più facile, e Trump ha lanciato qualche grido di guerra più o meno in quella direzione, ma anche i Persiani sono molto insidiosi, e sono ormai quasi 26 secoli che stanno perfezionando l’arte dell’insidia. In più, Cina, Russia ed Iran capiscono benissimo il gioco, e vanno tutti mano nella mano, sfidando gli Stati Uniti a fare qualcosa di nuovo. Contro di loro, gli uomini di Trump sarebbero come bambini sperduti nel bosco.
E così, tramite un processo di eliminazione, arriviamo all’unica, ovvia, possibilità: le monarchie del Golfo Persico, con l’Arabia Saudita che fa da primo premio. Naturalmente, l’Arabia Saudita è un protettorato americano e deve la sua esistenza ad un accordo siglato nel 1945 fra Re Abdulaziz ibn Saud e il Presidente Franklin D. Roosevelt. Ma questo non è certo un problema: il sud di prima della guerra era America in tutto e per tutto, ma questo non ha impedito al nord di attaccarlo. Tutto quello che ci vorrebbe è l’annuncio di un drammatico cambio di politica estera: “L’Arabia Saudita si sta comportando male. Il Presidente Trump è molto deluso”.
Perché un cambio di politica? Perché è indispensabile e il tempo stringe. L’Arabia Saudita ha ancora riserve finanziarie in abbondanza, ma si stanno assottigliando rapidamente, dal momento che la nazione dissipa tutti i suoi averi nel tentativo di mantenere in un relativo benessere la sua popolazione di mangiapane a tradimento. Ha riserve petrolifere in quantità (anche se gradualmente diminuisce la qualità e aumentano i costi di estrazione, a causa della mancanza d’acqua e di altri problemi), ma le sta dilapidando molto più in fretta del dovuto. Vedete, l’Arabia Saudita è (come se fosse) un pusher di petrolio, ma è anche drogata di petrolio, e, gradualmente, ne sta consumando sempre di più. Questo fenomeno è conosciuto come Export Land Effect: le nazioni produttrici di petrolio tendono ad investire i ricavi petroliferi all’interno, creando una crescita economica che, a sua volta, fa aumentare i consumi energetici. Distruggere l’economia saudita, salvaguardando allo stesso tempo la sua industria petrolifera, renderebbe nuovamente disponibili per l’esportazione notevoli quantitativi di petrolio.
Ciò che rende questo progetto pronto all’uso è il fatto che l’Arabia Saudita è un bersaglio molto facile. Prima di tutto, è piena di imbecilli. Gente che per tutto il tempo non fa altro che sposarsi fra cugini, e dopo qualche generazione di simili incroci fra consanguinei il suo QI si può contare con le dita delle mani (pollici compresi, se è un numero veramente alto). Neanche il sistema educativo saudita è di molto aiuto: si basa sopratutto sulla ripetizione a memoria del Corano e dei testi ad esso correlati, e non tiene in nessuna considerazione il pensiero critico ed indipendente e quella forte voglia di rivolta che rendono le nazioni difficili da conquistare e da controllare. L’economia dipende quasi completamente dai lavoratori stranieri, dal momento che gli stessi Sauditi non amano lavorare troppo, e questa comunità di lavoratori provenienti dall’estero può essere facilmente intimorita e costretta a fare le valige. Infine, i Sauditi sono estremamente inconsistenti dal punto vista militare, come si è visto nell’attuale assenza di progressi nello Yemen (crisi umanitaria a parte). Tutti i loro sistemi d’arma sono realizzati negli Stati Uniti, e possono essere disabilitati con breve preavviso bloccando l’invio di mercenari, istruttori e pezzi di ricambio. (A differenza del materiale di fabbricazione russa, che può funzionare in maniera autonoma per decenni e che normalmente si riesce a riparare con martello e cacciavite, gli armamenti americani tendono ad essere complessi e necessitano di manutenzione specialistica continua).
(…)
La prima bordata potrebbe essere una serie di poche, semplici richieste. L’Arabia Saudita dovrebbe unirsi alla comunità delle nazioni civili e garantire gli stessi diritti alle donne ed alle minoranze sessuali, la libertà di culto per i non-Mussulmani e gli atei, il diritto al matrimonio fra persone appartenenti a gruppi religiosi diversi, una tabella di marcia verso il raggiungimento di un ordine costituzionale, una democrazia rappresentativa e la rinuncia all’applicazione della dottrina religiosa alle questioni civili. Da qui la situazione potrebbe facilmente degenerare, una bomba qui, un po’ di disordini laggiù e, dopo un po’, tutti i lavoratori stranieri se ne tornano a casa, i consumi petroliferi interni crollano e l’industria petrolifera ritorna sotto il controllo straniero, la ricchezza viene espropriata e utilizzata per “rendere nuovamente grande l’America”. Quest’ultima parte potrebbe non andare a genio a tutti, ma il piano generale ha così tanti aspetti positivi che la maggioranza lo accetterebbe comunque. Specialmente gli Europei, che si lamentano della marea di migranti islamici, molti dei quali radicalizzati dagli insegnamenti sauditi, accoglierebbero a braccia aperte un modo per rendere innocuo e socializzare l’Islam, trasformandolo così in un’altra religione, i cui praticanti evitino di usare la parola “infedele” come un pugno in faccia e non siano così stupidi da cercare di imporre gli atavici dettami della loro religione alla comunità, in gran parte secolare, che li circonda.
Se Trump non romperà quell’uovo di cioccolato che è l’Arabia Saudita e non scapperà con la sorpresa che contiene, allora lo farà qualcun’altro. I giorni dell’Arabia Saudita sono contati. Per adesso è ancora ricca di soldi, petrolio, sabbia ed imbecilli, ma sta consumando sempre più rapidamente i primi due. Aspettate solo una dozzina d’anni o giù di lì, e tutto quello che sarà rimasto saranno sabbia ed imbecilli. Ben prima di allora, qualcuno cercherà di arrivare fino a loro e di portar via quello che rimane del tesoretto. Potrebbero anche essere gli Americani: sono stati loro a dare il via a questo caotico regno nel deserto, potrebbero anche essere quelli che gli daranno il colpo di grazia.”

Da Come rendere nuovamente grande l’America con i soldi degli altri, di Dmitry Orlov.

La guerra è appena iniziata

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Pasticciaccio brutto sul Colle, mentre l’UE getta la maschera

Non se lo aspettavano: né Renzi, né Mattarella, e tanto meno Napolitano che è il grande vecchio al telecomando pensavano che il no vincesse davvero e soprattutto non in proporzioni tali da richiedere imperativamente le dimissioni del premier prima dell’approvazione della finanziaria. Così si è arrivati al pasticciaccio indecoroso al quale assistiamo e nel quale si somma tutta l’ignavia e la cialtroneria di un ceto politico che è ormai soltanto una formazione di molluschi aggrappati ai palazzi parlamentari: Mattarella, il presidente sagoma a due dimensioni, nemmeno per un attimo ha pensato di indurre Renzi ad approvare la finanziaria prima della consultazione popolare come sarebbe stato ovvio, probabilmente perché non glielo ha suggerito Napolitano che è la sua terza dimensione e anche adesso si rifugia nell’astensione da ogni proposta. Così adesso ci troviamo con il guappo che scalpita come un dannato per andarsene e il duo Mattarella – Napolitano che vogliono costringerlo a rimanere fino all’approvazione della legge di stabilità.
Tutto questo però nasce dalle promesse ingannevoli perpetrate durante tutta la lunghissima campagna elettorale: la legge di stabilità non poteva in nessun caso essere approvata prima del referendum semplicemente perché altrimenti il guappo avrebbe scoperto il proprio bluff, avrebbe mostrato a tutti che ancora una volta stava prendendo per il naso il Paese e che molti provvedimenti erano semplicemente fumo negli occhi e voto di scambio, compresi i famosi 85 euro ai dipendenti pubblici per i quali non vi è traccia di copertura. Inoltre questo avrebbe costretto l’Europa di Bruxelles a venire allo scoperto sconfessando le “aperture” di pura facciata messe in piedi per aiutare il guappo nella sua campagna contro la Costituzione. Infatti già ieri l’Eurogruppo, ovvero il consesso dei ministri delle finanze della UE ha chiesto straordinarie correzioni al bilancio, incaricando la Commissione Europea di dettare al governo italiano i passi necessari per ridurre il debito. Ma non si astiene dal suggerire in proprio la ricetta: privatizzazioni selvagge ed entrate straordinarie (leggi tasse) per tirare fuori i 15 miliardi che mancano dopo mille giorni di gestione demenziale, cialtrona e condita di innumerevoli menzogne.
E’ fin troppo chiaro che se Renzi dovesse firmare, sia pure come ultimo atto, una legge di stabilità lacrime e sangue, invece di lasciare ai successori il compito di maneggiare la castagna bollente preparata con le sue manine, subirebbe un altro durissimo colpo: anche i media più fedeli, anche i vegliardi domenicali più incalliti nello spaccio del renzismo per nome e conto del trafficante che risiede in Svizzera, potrebbero nascondere l’evidenza: che per un anno il Paese è vissuto nell’immobilismo e dentro la narrazione completamente fasulla di un imbonitore , funzionale solo al referendum. Ma tutto questo, un premier in evidente confusione emotiva, un presidente terrorizzato dal dover decidere qualcosa, un PD trasformato in banda di dervisci danzanti al cospetto del proprio declino, ma ormai privo di qualsiasi personaggio in grado di cambiare rotta o ancor meglio di recidere il cordone ombelicale con questo partito degli equivoci per cercare aria pura, si configurano come un’ennesima offesa alla volontà degli elettori: queste dimissioni congelate sanno di beffa, di incoerenza e di presa in giro. Perché è chiaro che assieme ai domiciliari di Renzi a Palazzo Chigi viene artificialmente messo in freezer anche il resto, compreso un Parlamento nato non soltanto da una legge elettorale dichiarata anticostituzionale, ma ormai lontanissimo dal rispecchiare la realtà del Paese.
I nodi stanno venendo al pettine: i parlamentari del PD e del fritto misto alleato, sono ormai terrorizzati, come del resto le oligarchie europee, dalla sola idea di elezioni e faranno di tutto e di più per evitarle, per assemblare col lego un ennesimo governo tecnico, anche se al loro arco non ci sono che manovre di corridoio e di aula visto che la realtà va altrove, da quella economica intrecciata indissolubilmente ai diktat europei privi di qualsiasi senso a quella sociale che si è rimessa in movimento. Proprio per questo ieri dicevo che la guerra è appena iniziata, una guerra per ritrovare la democrazia e per non finire come la Grecia.

Fonte

Cercano di condizionarvi. Cercano di intimidirvi. Non permettetelo

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“Tu popolo, sei esangue, ma ti viene chiesto di donare altro sangue; in un ciclo che sembra non aver mai fine. Perché aumentano la povertà e la criminalità, mentre i giovani non trovano lavoro e sono costretti a emigrare; mentre il debito pubblico, per quanti sforzi si faccia, non cala mai.
Lo scopo finale è chiaro: far implodere gli Stati nazionali e delegare ogni potere a quegli stessi organismi internazionali, magari attraverso la creazione degli Stati Uniti d’Europa dove i singoli popoli non conterebbero più nulla.
I premier che si sono succeduti in Italia negli ultimi anni sono funzionali a questo disegno: Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi.
Confesso: ero pessimista sul futuro dell’Europa. Ma poi, lo scorso giugno, qualcosa è cambiato.
I Britannici hanno detto basta, sebbene avessero in teoria molto da perdere perché la loro economia era tra le migliori al mondo e perché all’interno dell’Unione Europea – oltre a tenere la sterlina – avevano il diritto di sottrarsi a diversi vincoli. Quando c’è stato il referendum le élite hanno cercato di terrorizzarli in ogni modo. Non è servito. I Britannici hanno voluto riprendersi la libertà e preservare i valori fondanti della loro democrazia, della loro identità nazionale e hanno votato per la Brexit.
Anche gli Americani si sono ribellati a un processo economico che ha provocato un continuo impoverimento della classe media e alla rottura del patto sociale con le élite, incapace di autocritica e di discernimento. Anche loro sono stati sottoposti a una campagna martellante da parte dei media e alla minaccia di uno tsunami finanziario, ma non si sono lasciati spaventare e hanno eletto Trump, che era il candidato più temuto dall’establishment transanazionale.
Un’onda si è alzata, portentosa e inaspettata. Un’onda che potrebbe diventare travolgente il 4 dicembre se gli Italiani voteranno no e se gli Austriaci eleggeranno presidente il candidato della destra Hofer, inviando un altro segnale di netta rottura all’establishment di Bruxelles.
Ma come, dirà qualcuno, questa è una riforma che consente all’Italia di cambiare, di diventare più efficiente… Sicuri? quali riforme? E con quali scopi? Renzi vuole pieni poteri per poter realizzare ancor più rapidamente l’agenda delle élite globaliste e, dunque, per spogliare ancor di più l’Italia. E non lasciatevi ingannare dall’Economist che improvvisamente lo abbandona e invita a votare No. L’Economist forse ha capito che il premier è bruciato o forse mette semplicemente le mani avanti, avendo già pronta la soluzione alternativa: un altro governo tecnico. Grazie. Ma abbiamo già dato.
E non lasciatevi ingannare dai titoli terroristici sullo spread che torna a salire e da quelli del Financial Times secondo cui se il referendum venisse bocciato, otto banche fallirebbero; come se ci fosse un nesso casuale tra il dissesto degli istituti e il voto popolare. Se le banche devono fallire, falliranno comunque, statene certi. Questa è propaganda, come quella per il sì che occupa ogni spazio pubblico, soprattutto, martellando senza tregua gli Italiani, con logiche da regime autoritario.
Cercano di condizionarvi. Cercano di intimidirvi. Non permettetelo.
Fate come gli Americani e i Britannici. E votate NO.”

Da Italiani, fate come Britannici e Americani: votate NO, di Marcello Foa.

Il motore è sempre la grande finanza

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“Si profila quindi all’orizzonte una crisi peggiore della precedente: spazi per tagli dei tassi non c’è ne sono più, l’indebitamento pubblico è già raddoppiato in otto anni, le tensioni sociali (come testimoniano lo stillicidio di rivolte razziali) sono già a livello di guardia, il margine per finanziare la ripresa a carico di Paesi terzi molto modesto (si veda l’accumulo di riserve auree in sostituzione del dollaro ed il continuo declassamento del debito pubblico americano da parte della agenzie di rating cinesi). Anche lo status del dollaro come valuta mondiale di riserva sarebbe messo a repentaglio, di fronte a finanze pubbliche sempre più dissestate.
L’impero angloamericano si avvicina ad una crisi strutturale, tale da causarne il collasso: è possibile tenere testa a Mosca e Pechino, proiettarsi su cinque continenti e controllare i mari, mentre l’economia affonda ed il debito pubblico cresce al ritmo di 10.000$ mld ogni otto anni? La risposta è no.
È in questa prospettiva che vanno lette le affermazioni di Donald Trump: il repubblicano è consapevole che un crack del mercato azionario è ineluttabile (“If rates go up, you’re going to see something that’s not pretty”) ed ha contemplato, nel caso in cui la situazione per le finanze statunitense si facesse critica, una ristrutturazione del debito pubblico o l’emissione massiccia di dollari così da alimentare l’inflazione. La prima ipotesi è un tabù per le oligarchie finanziarie, custodi dell’ortodossia finanziaria, la seconda ipotesi è una blasfemia. Così facendo, Donald Trump sarebbe il primo presidente ad adottare un approccio post-imperiale: un taglio del debito all’argentina, od una politica monetaria alla venezuelana, accelererebbe il tramonto del dollaro come valuta di riserva mondiale e la parallela eclissi dell’impero angloamericano. Senza più la possibilità di comprare dal resto del mondo beni e servizi in cambio di pezzi carta (i dollari americani stampati a piacimento ed accettati solo perché valuta di riserva), come farebbero gli USA a finanziare le spese militari e le basi all’estero?
Su posizioni opposte, è ovviamente la democratica Hillary Clinton, la candidata di quelle oligarchie finanziarie che siedono ai vertici dell’impero e scandiscono i tempi dell’economia statunitense con un crack borsistico dopo l’altro: può la favorita di Goldman Sachs avanzare l’ipotesi di una ristrutturazione del debito pubblico o di un’inflazione a due cifre che spazzi via i debiti (ossia i crediti nel portafoglio delle banche) mentre le riserve mondiali migrano verso lo yuan, il rublo e l’oro? Certo che no.
L’unica soluzione che rimane ad Hillary Clinton per evitare che il tracollo di Wall Street trascini con sé l’impero ed il dollaro, è quindi l’azzardata scommessa di una guerra preventiva contro Mosca e Pechino: l’eliminazione degli sfidanti all’egemonia mondiale, il congelamento del debito pubblico statunitense in mano ai cinesi (possibile con la stessa norma che permise a Bush Junior di bloccare gli investimenti delle “organizzazioni terroristiche”), e l’inflazione bellica, sono gli unici strumenti per scongiurare l’inevitabile collasso.
Si parla di Aleppo, di Siria, di Russia e di guerra, ma il motore è sempre la grande finanza: dopo aver trascinato gli USA nel baratro nel 2008, questa volta mammona si prepara a trascinare negli inferi il mondo intero.”

Da La Siria, la Russia e l’elefante nella stanza: la bolla di Wall Street, di Federico Dezzani.

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Have a Brexit!

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“Si avvicina così la fatidica data del 23 giugno e l’eventualità del Brexit è più concreta che mai: nonostante i sondaggi segnalino un vantaggio del “Remain” nell’ordine dei dieci punti percentuali (52% vs 43%)*, è ormai assodato che queste rilevazioni servano ad influenzare più che a sondare l’opinione pubblica, come testimoniato dalla clamorosa vittoria del no al referendum greco sulle condizioni della Troika, dato per perdente da quasi tutti i sondaggi pubblicati prima della consultazione.
Chi ovviamente è deciso a scongiurare l’eventualità di un Brexit, con effetti esplosivi sulla tenuta complessiva della UE, è la City di Londra (con la solita stampa annessa, dal Financial Times al The Economist), che si spende per l’integrazione europea sin dai primi decenni del secolo scorso: Goldman Sachs e JP Morgan Chase sono tra i maggiori finanziatori della campagna per il “sì” alla permanenza in Europa (“Goldman Sachs makes large donation to pro-EU campaign” scrive il Financial Times) ed i maggiori nomi della finanza e dell’industria inglese (Shell, BAE Systems, BT, Rio Tinto, etc. etc.) si sono schierate compatte a fianco di David Cameron per restare nella UE (“Big business backs Cameron’s push to keep Britain in the EU. Bosses of about half of 100 largest companies to sign letter of support for In campaign” titola ancora il Financial Times).
Come nel caso del referendum ellenico ( ad ulteriore testimonianza di quanto sia alta la probabilità del Brexit) scatta poi la consueta campagna intimidatoria che pronostica le dieci piaghe d’Egitto nel caso in cui i cittadini votino contro la UE: sterlina in avvitamento, PIL in contrazione, costi annui nell’ordine delle 4.000 sterline per famiglia, mercati chiusi per le esportazioni (ma non esiste il WTO?), etc. etc..
I rischi che le oligarchie finanziarie corrono nel caso che Londra esca dall’Unione Europea sono sinteticamente riassunti nell’articolo apparso il 27 febbraio su The Economist col titolo “The real danger of Brexit. Leaving the EU would hurt Britain—and would also deal a terrible blow to the West”, di cui merita di essere riportato uno stralcio:
“Europe would be poorer without Britain’s voice: more dominated by Germany; and, surely, less liberal, more protectionist and more inward-looking. Europe’s links to America would become more tenuous. Above all, the loss of its biggest military power and most significant foreign-policy actor would seriously weaken the EU in the world. The EU has become an increasingly important part of the West’s foreign and security policy, whether it concerns a nuclear deal with Iran, the threat of Islamist terrorism or the imposition of sanctions against Russia. Without Britain, it would be harder for the EU to pull its global weight—a big loss to the West in a troubled neighbourhood, from Russia through Syria to north Africa. It is little wonder that Russia’s Vladimir Putin is keen on Brexit—and that America’s Barack Obama is not. It would be shortsighted for Eurosceptics to be indifferent to this. A weakened Europe would be unambiguously bad for Britain, whose geography, unlike its politics, is fixed.”
Gli argomenti sono gli stessi già impiegati da William Hague: Londra è il garante della natura atlantica dell’Unione Europea, è la cancelleria che tiene Bruxelles nell’orbita di Washington, è la potenza che ha imposto al resto dei 28 membri le sanzioni all’Iran ed alla Russia (spalleggiata da Angela Dorothea Kasner, alias “Merkel”), è il baluardo degli interessi angloamericani nella UE, intesa in termini geopolitici come la “testa di ponte” di Washington sul continente euroasiatico. Non c’è quindi da meravigliarsi che Barack Obama si spenda pubblicamente contro il Brexit (intervenendo a gamba tesa negli affari di un Paese terzo), a differenza di Vladimir Putin che, in privato, tiferà quasi sicuramente per il Brexit e la sua conseguente implosione della UE.
Già, perché sono basse le probabilità che la City e Wall Street risparmino l’Unione Europea nel caso di un addio inglese: sarebbe troppo grande il rischio la UE si evolva in nuovo “blocco continentale” napoleonico, egemonizzato dalla Germania, oppure, ancor peggio, in quell’Europa “dall’Atlantico agli Urali” preconizzata da Charles De Gaulle, il vero incubo strategico delle potenze marittime anglosassoni. Sarebbe più concreto invece lo scenario di un Brexit seguito a ruota dall’assalto speculativo che infligga il colpo di grazia alla già debilitata eurozona, sancendo così l’implosione dell’Unione Europea: il pericolo di un blocco continentale a guida tedesca sarebbe così scongiurato e si tornerebbe alla tradizionale politica dell’equilibrio tra potenze con cui Londra ha gestito per secoli gli affari europei, magari nella cornice del TTIP per ostacolare lo scivolamento dell’Europa verso est.
Concludendo, il 23 giugno sarà probabilmente la prima tappa dello smantellamento formale della UE (quello sostanziale risale alle restrizioni sui movimenti dei capitali adottate a Cipro nel 2013): sommando altre emergenze, come l’atteso picco migratorio, il rigurgito della Grexit, la riedizione delle elezioni spagnole ed i probabili sconquassi borsistici di accompagnamento, l’estate 2016 si preannuncia la più bollente degli ultimi decenni.”

Da Brexit: tutto finirà là dove tutto è cominciato?, di Federico Dezzani.

*Precisazione importante: l’articolo è stato pubblicato il 21 aprile u.s..


Intervento di Paolo Maddalena, già presidente di sezione presso la Corte dei conti e vice-presidente della Corte Costituzionale, in occasione della manifestazione No TTIP del 7 maggio 2016 a Roma.

La saga delle riforme-non riforme

unnamed“La politica dovrebbe aiutarci ad uscire da un guado in cui rischiamo di rimanere ma anch’essa è più ridondante di slogan che di idee innovative e coraggiose in grado di rispondere ad un mondo nuovo, una sfida che non possiamo affrontare con la retorica ma con il pensiero. Non si sente un politico fare un pensiero compiuto che abbia un suo senso espositivo ed una sua logica strutturale; alcuni di questi farebbero fatica a superare un test di ammissione all’asilo se ci fosse. In questa confusione non si riesce più a capire cosa è giusto e cosa no, cosa e come fare e cosa e come non fare e tutto finisce nel dramma delle inutili e dannose accuse reciproche.
Così siamo eternamente nella saga delle riforme-non riforme, tutte eteree e lontane dal risolvere i problemi, pressati dall’urgenza di fare alla svelta, ma pensare costa fatica, tempo e non paga subito e allora via con il nulla e con il gioco delle tre carte.
Abbiamo subìto un modello fatto di contatti fulminei, virtuali con un numero limitatissimo di parole, fatto di twitter, facebook, selfie e tutto l’armamentario che allontana dal pensiero vero. Questa non-cultura scivola sull’onda, come un «surf», più velocemente del tempo che sarebbe necessario per andare in profondità e provare a capire chi siamo, da dove veniamo e dove e come vogliamo andare così si perde la bussola e si diventa prigionieri di giochi più alti ed esterni a noi.
Ancora una volta, infatti, si affrontano i problemi a valle e non quelli a monte rischiando di andare in loop per l’asimmetria creata tra Paese reale e quello istituzionale continuando a ragionare sui mezzi quando è giunto il tempo di mettere in discussione i fini. Paradossalmente, nonostante il «rigore» imposto dal novembre 2011 ad oggi, il debito è cresciuto del 25%, nonostante le «lacrime e sangue», il crollo degli interessi sul debito grazie allo spread-chewingum con un peggioramento complessivo. Le agenzie di rating che ci avevano colpito ai quei tempi per l’inadeguatezza della tenuta politica oggi, che tutto è peggiorato, vedono meglio il nostro futuro con un opportunismo strumentale che ci fa capire quanto siamo ostaggio di interessi superiori e dimostra quanto la razionalità dei mercati da tempo sia solo «mitologia».
È lecito o no domandarsi se c’è qualcosa che non va nel modello di governance del Paese e nella sua classe dirigente o dobbiamo ignorarlo presi dalla frenesia del cambiare senza capire dove ci stanno spingendo? È necessario smettere di perdere tempo in un dibattito inutile ed ozioso sul funzionamento tecnico delle istituzioni che non sposta i termini del problema; non staremo meglio con un senato elettivo, non elettivo, senza senato, con due senati se non ci sono gli uomini. Con una classe dirigente responsabile, onesta, di buon senso le riforme istituzionali non sono un problema. Il dibattito sulle eventuali riforme deve ripartire da un serio ed approfondito esame di «autocoscienza» sui valori fondanti una società.”

Da Un sistema economico assopito che non pensa più, di Fabrizio Pezzani.

Ucraina 2013-2016