Il gruppo di intelligence militare da “film di spionaggio” al centro dell’offensiva per il passaporto vaccinale in USA

Di Jeremy Loffredo e Max Blumenthal per The Grayzone, 26 Ottobre 2021

Descritta come “l’organizzazione più importante di cui non avete mai sentito parlare”, MITRE fa soldi a palate con enormi contratti statali per la fornitura di servizi per la sicurezza facendo da pioniere nella tecnologia di spionaggio invasiva. Ora è alla base di una campagna per implementare i passaporti vaccinali digitali.

Mentre i passaporti vaccinali sono stati commercializzati come una manna per la salute pubblica, promettendo sicurezza, riservatezza e convenienza per coloro che sono stati vaccinati contro il Covid-19, il ruolo cruciale che sta svolgendo un’ambigua organizzazione di intelligence militare nella spinta all’implementazione del sistema in forma digitale ha sollevato serie preoccupazioni per le libertà civili.

Conosciuta come MITRE, l’organizzazione è una società senza scopo di lucro guidata quasi interamente da professionisti dell’intelligence militare e sostenuta da ragguardevoli contratti con il Dipartimento della Difesa, l’FBI e il settore della sicurezza nazionale.

Lo sforzo “per espandere i passaporti vaccinali con codice QR al di là di Stati come la California e New York” ruota ora attorno a una partnership pubblico-privata nota come Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini (Vaccine Credential Initiative, VCI). E il VCI ha riservato a MITRE un ruolo determinante nella sua coalizione

Descritto da Forbes come un “laboratorio misterioso [di ricerca e sviluppo]” che è “l’organizzazione più importante di cui non avete mai sentito parlare”, MITRE ha sviluppato alcune delle tecnologie di sorveglianza più invasive usate ad oggi dalle agenzie di spionaggio statunitensi. Fra i suoi prodotti più innovativi c’è un sistema creato per l’FBI che cattura le impronte digitali delle persone dalle immagini inserite sulle piattaforme delle reti sociali.

La coalizione paravento per il COVID-19, di cui fa parte la stessa Mitre, include In-Q-Tel, il ramo finanziario della CIA, e Palantir, un’azienda di spionaggio privata macchiata da scandali.

Elizabeth Renieris, il direttore fondatore dei laboratori di etica per la tecnologia di Notre Dame e della IBM, ha avvertito che “sebbene le società tecnologiche e di sorveglianza che dominano i mercati” come MITRE “perseguano nuovi flussi di ricavi nei servizi sanitari e finanziari… essendo di proprietà privata e avendo operato sui sistemi di identificazione digitale con modelli di business tesi alla massimizzazione dei profitti minacciano la riservatezza, la sicurezza e altri diritti fondamentali degli individui e delle comunità”.

Infatti, il coinvolgimento dell’apparato di intelligence militare nello sviluppo di un sistema di passaporto vaccinale digitale è l’ennesima indicazione del fatto che dietro la parvenza delle preoccupazioni per la salute pubblica, lo Stato di sorveglianza degli Stati Uniti potrebbe avere in programma di aumentare il suo controllo su una popolazione sempre più recalcitrante.

L’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini, un veicolo neoliberista consigliato da professionisti dell’intelligence militare

Come dettagliato nella prima puntata di questa serie, gli  oligarchi dell’alta tecnologia come Bill Gates e centri nevralgici per la politica capitalista a livello globale come il World Economic Forum hanno mandato avanti sistemi  di identificazione digitale  e di  valuta elettronica in tutto il Sud del mondo per raccogliere dati e profitti da popolazioni che in precedenza erano fuori portata.

L’avvento dei passaporti vaccinali che forniscono accesso all’occupazione lavorativa e alla vita pubblica è diventato il vettore chiave per accelerare la loro agenda in Occidente. Come la  società di consulenza finanziaria, Aite-Novarica, dichiarò questo settembre, i passaporti  vaccinali digitali per il COVID-19 “espandono  gli argomenti a favore del sistema di identificazione digitale  oltre la sola vaccinazione COVID-19 e potenzialmente servono sia come sistema di identificazione  digitale che come fonte più completa e universale di informazioni sull’identità…”.

Sebbene i passaporti vaccinali escludano milioni in tutto l’Occidente, suscitando proteste furiose e scioperi selvaggi, il World Economic Forum sta lavorando con i suoi partner per implementarli in forma digitale.

Guidato dall’economista tedesco Klaus Schwab, che dice di essere propugnatore di una “Quarta rivoluzione industriale” che sta cambiando il modo in cui le persone “vivono, lavorano e si relazionano gli uni agli altri”, il World Economic Forum (Forum Economico Mondiale) è una rete internazionale di alcuni dei più ricchi e politicamente potenti individui del pianeta. Con sede a Davos, in Svizzera, il World Economic Forum si posiziona come punto di riferimento del capitalismo globale.

A Gennaio del 2021, diversi partner del World Economic Forum,  compresi Microsoft, Oracle, Salesforce e altre multinazionali, annunciarono una coalizione per lanciare l’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini (Vaccine Credential Initiative, VCI), che mira a istituire passaporti vaccinali basati su codice QR negli Stati Uniti.

L’obiettivo dichiarato dell’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini è quello di implementare un’unica “tessera sanitaria SMART” che possa essere riconosciuta “oltre i confini organizzativi e giurisdizionali”.

Negli USA, alcuni Stati stanno già distribuendo tessere digitali sanitarie SMART sviluppate dall’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini. Queste tessere sanitarie SMART hanno posto le basi per uno standard nazionale di fatto riguardante le credenziali sui vaccini.

Un’organizzazione no-profit istituita dalla Rockfeller Foundation e denominata The Commons Project sta guidando la campagna di lobbying per le smart card digitali attraverso l’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini che ha co-fondato. E si dà il caso che il direttore generale di Commons Project, Paul Meyer, sia stato allevato nell’ambito del World Economic Forum come un “giovane leader”.

In qualità di volto pubblico dell’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini, Meyer propugna l’agenda della campagna di lobbying nel linguaggio dell’inclusione progressista, martellando costantemente su temi come la “responsabilizzazione” nelle comunicazioni pubbliche.

“L’obiettivo dell’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini è facilitare alle persone   l’accesso digitale ai registri sul loro status vaccinale in modo che possano usare strumenti come Common Pass per tornare in sicurezza a viaggiare, lavorare, ad andare a scuola e alla loro vita, proteggendo al contempo la riservatezza dei loro dati”, sosteneva Meyer.

In un comunicato stampa che annunciava la creazione dell’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini, MITRE faceva eco al linguaggio preoccupato di Meyer, dichiarando di aver aderito alla partnership “per garantire che le popolazioni svantaggiate abbiano accesso a questo tipo di verifica sul vaccino digitale.”

Ma cos’è MITRE, e perché un’organizzazione nota per la sorveglianza di massa e la tecnologia militare potrebbe essere al centro di un’iniziativa che offre la possibilità di un monitoraggio senza precedenti della popolazione globale? L’organizzazione non ha risposto alle domande inviate via e-mail da The Grayzone sulla sua partecipazione all’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini, comunque, la sua storia documentata genera inquietanti pensieri.

Collaborazione nelle guerre al Vietnam e alla marijuana, sviluppo di tecnologia di spionaggio “straordinariamente agghiacciante”

Con sede nel nord della Virginia, MITRE è un think tank di esperti di intelligence militare finanziato per 2 miliardi di dollari l’anno da agenzie governative USA, compreso il Dipartimento della Difesa. È guidato quasi interamente da ex funzionari del Pentagono ed ex agenti dei servizi segreti.

MITRE fu fondato nel 1958 come progetto congiunto della US Air Force (Aeronautica militare statunitense) e del Massachusetts Institute of Technology (MIT) per sviluppare sistemi di “comando e controllo” per la guerra nucleare e convenzionale, come la rivista Science and Revolution metteva in evidenza.

Nel 1963, MITRE selezionò un giovane brillante linguista del MIT chiamato Noam Chomsky, per assistere allo “sviluppo di un programma per formare un linguaggio naturale che avesse funzione di linguaggio operativo per il comando e il controllo”. Dopo alcuni anni di lavoro su progetti come questi, Chomsky disse: “Non potevo più guardarmi allo specchio” e si lanciò nell’attivismo contro la guerra.

Alla fine degli anni ‘60, MITRE disse che “stava impegnando quasi un quarto delle sue risorse totali per i sistemi di comando, controllo e comunicazione necessari alla condotta del conflitto in Vietnam.”

La società finanziata da fonti militari venne presa di mira dagli attivisti contro la guerra quando sviluppò una “recinzione elettronica” composta principalmente di acustica e sensori progettati per localizzare i movimenti dei Vietcong e delle truppe nordvietnamite in modo tale che i militari statunitensi potessero prenderli di mira per distruggerli.

Inoltre alla fine degli anni ‘60, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America stipulò un contratto con MITRE per condurre una campagna di sradicamento aereo della cannabis in Messico. MITRE consigliò agli agenti statunitensi di spruzzare ampi tratti della campagna messicana con un erbicida tossico chiamato paraquat, che veniva descritto come sicuro sulla base di una discutibile interpretazione dei test sugli animali. Quando il Dipartimento di Stato perseguì la strategia consigliata da MITRE, le coltivazioni alimentari divennero contaminate e la salute delle comunità contadine locali fu messa in pericolo.

Nel frattempo, la marijuana cominciò ad arrivare nelle strade americane inzuppata di paraquat, innescando una causa legale contro il Dipartimento di Stato da parte della Organizzazione Nazionale per la Riforma delle Leggi sulla Marijuana la quale sosteneva che l’erbicida avesse causato malattie respiratorie fra i fumatori di marijuana. Quando il Dipartimento di Stato perse la causa, accordò a MITRE un contratto di 255.211 dollari per produrre uno studio d’impatto sull’irrorazione di paraquat che in conclusione consigliava i fumatori di marijuana di mitigare gli effetti dell’erbicida consumandola con pipe ad acqua o sotto forma di dolcetti.

In anni recenti, MITRE ha progettato tecnologia di sorveglianza per l’FBI che raccoglie impronte umane dalle piattaforme delle reti sociali come Facebook, Instagram, e Twitter. Ha anche fornito assistenza all’FBI per istituire un sistema di Identificazione di Prossima Generazione, a quanto si dice il più grande database di informazioni biometriche del mondo, nonché il Database per l’Intelligence Modernizzato dell’agenzia federale.

Secondo l’ex vicedirettore dell’FBI William Bayse, il Database di Intelligence Modernizzato dell’FBI consentiva ai programmatori della polizia di collegare gli attivisti alle loro cause politiche, ai loro colleghi, datori di lavoro, alle loro fedine penali, foto segnaletiche e impronte, alle loro abitudini d’acquisto e persino ai loro dati fiscali.

Mediante centinaia di richieste basate sul Freedom of Information Act (FOIA) e interviste con attuali e precedenti funzionari di MITRE, Forbes è venuta a sapere che MITRE ha progettato “uno strumento prototipo che può violare smartwatch, fitness tracker e termometri da parete per scopi di sicurezza nazionale interna… e uno studio per determinare se la puzza di sudore di qualcuno possa rivelare che sta mentendo.”

MITRE è anche sede dello “ATT&CKProgram”, un modulo di sicurezza informatica che la società descrive come “una base di conoscenza accessibile globalmente di tattiche avversarie e tecniche di intelligence basate su osservazioni dal mondo reale”. Adam Pennington, capo del progetto ATT&CK di MITRE, “ha speso più di dieci anni con MITRE a studiare e predicare l’uso dell’inganno per la raccolta di informazioni”.

Il procuratore legale di ACLU (The American Civil Liberties Union), Nate Wessler, ha definito i progetti di sorveglianza di MITRE “straordinariamente agghiaccianti”, lanciando l’avvertimento che essi “sollevano seri problemi di riservatezza.”

Da parte sua, il materiale promozionale dell’appaltatore militare sembra vantarsi del suo lascito di innovazione nel settore della sorveglianza: “Potreste non saperlo ma MITRE entra nelle vostre vite ogni giorno.”

Mesi dopo che la pandemia per il nuovo coronavirus fu dichiarata nel marzo 2020, MITRE fece leva sulla sua competenza nel monitorare le popolazioni per produrre il sistema di tracciamento dei contatti Sara Alert. Un video pubblicitario di MITRE spiega come il sistema permetta alle autorità sanitarie pubbliche di tracciare gli utenti: “Le persone che sono contagiate dalla malattia saranno messe in isolamento a casa… Per le persone che sono esposte alla malattia ma non mostrano sintomi, Sara Alert li segue mentre sono in quarantena per 14 giorni”.

Il Sara Alert di MITRE entrò in uso in una manciata di Stati, con iscrizioni limitate. Se fosse stato implementato a livello nazionale, avrebbe potuto costringere una sostanziale parte di popolazione statunitense ad andare in autoquarantena su basi continue, persino se le persone non avessero presentato sintomi.

Come il Brookings Institute faceva notare in un articolo accademico mettendo in discussione l’utilità di app come Sara Alert, “Una persona lo può sopportare per una volta o due, ma dopo alcuni falsi allarmi e l’eccessivo inconveniente di autoisolamento protratto, prevediamo che molti ignoreranno gli avvertimenti”.

MITRE ha anche lavorato per sopprimere le narrative che potessero minare l’agenda delle agenzie governative che lo finanziano. L’applicazione del plugin per il browser detta SQUINT dell’appaltatore, per esempio “consente una rapida consapevolezza situazionale della disinformazione sulle reti sociali relativa al COVID-19 per i funzionari della sanità pubblica mediante una copertura basata su fonti collettive”, secondo il relativo materiale promozionale.

MITRE sta ora lavorando per implementare i passaporti vaccinali digitali negli Stati Uniti D’America, e non solo.

Società private di spionaggio e un’azienda della CIA fra le società facenti parte della coalizione di MITRE per il COVID-19

Come membro del gruppo direttivo al governo dell’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini (VCI), MITRE gestisce la sua propria “Coalizione Sanitaria per il COVID-19” mentre si descrive come “un partner affidabile di lunga data per le comunità di intelligence e di difesa”.

Fra i membri della coalizione per il COVID-19 della stessa MITRE c’è Palantir, un’azienda privata di intelligence fondata nel 2003 da Peter Thiel, cofondatore di Paypal. Palantir si è consolidata come una società leader nei programmi di sorveglianza predittiva e faceva soldi a palate in lucrosi contratti con la CIA. L’azienda una volta partecipò in una campagna diffamatoria proposta contro attivisti contrari allo strapotere delle multinazionali e contro critici giornalistici, compreso Glenn Greenwald.

Avril Haines, l’attuale Direttore dell’Intelligence Nazionale e precedente Vicedirettore della CIA fu pagata 180.000 dollari come consulente per Palantir – un lavoretto cancellato dalla sua biografia.

Haines fu anche fra i principali partecipanti alla simulazione pandemica denominata “Event 201” avvenuta nell’Ottobre 2019 e sponsorizzata dalla Gates Foundation, dal World Economic Forum, e dal John Hopkins Center for Health and Security. Durante tale esercitazione, funzionari della salute pubblica e dell’intelligence nonché uomini d’affari simularono una ipotetica epidemia di coronavirus che avrebbe ucciso 65 milioni di persone nel mondo.

Haines enfatizzò ai colleghi relatori il bisogno di controbattere alle critiche rivolte alla gestione ufficiale della pandemia tramite “l’inondazione dello spazio informativo con fonti fidate” dei media e degli opinionisti “al fine di cercare di amplificare il messaggio che si vuole trasmettere”.

Palantir ha anche fornito la tecnologia per il tracciamento dei dati sul Covid al Ministero della Sanità del Regno Unito, insieme a Microsoft, Google e Amazon. Lo stratega politico britannico conservatore, Dominic Cummings, che gode di collegamenti con Palantir e fornì all’azienda un accesso speciale al gabinetto del Primo Ministro, ha consigliato Boris Johnson e il Gruppo Consultivo Scientifico per le Emergenze sulle politiche da attuare per la gestione del Covid.

Tornando a parlare degli Stati Uniti, Palantir è stato il fornitore per il Dipartimento della Sicurezza Nazionale e il Centro per il Controllo delle Malattie di varie tecnologie correlate al Covid.

L’azienda finanziaria della CIA, In-Q-Tel, è anche nella lista delle società facenti parte della Coalizione Sanitaria per il Covid-19 di MITRE.

Lo scorso settembre, il Vicepresidente del personale tecnico di In-Q-Tel, Dan Hanfling, fu citato dal Washington Post per aver sostenuto che alle persone non vaccinate dovrebbe essere negata l’assistenza sanitaria retrocedendole nel sistema di priorità al pronto soccorso: “Quel gruppo di persone che volontariamente hanno scelto di non vaccinarsi, per ragioni illegittime, sarebbe corretto metterli in fondo alla linea d’attesa”, ha asserito Hanfling….

Il Washington Post non fece notare l’affiliazione di Hanfling con la CIA; invece lo descrisse semplicemente come un “medico di pronto soccorso”.

In-Q-Tel non è affatto l’unica società collegata ai servizi di intelligence fra quelle che fanno parte dell’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini. C’è anche Oracle, membro fondatore della stessa iniziativa, che nacque come un progetto della CIA.

Uno sguardo al gruppo dirigente di MITRE mostra come l’organizzazione sia strettamente connessa con il più ampio settore dell’intelligence militare.

Falchi”, spie e fantasmi guidano MITRE

Il Presidente del consiglio di amministrazione di MITRE, Donald Kerr, è l’ex Vicedirettore principale dell’intelligence nazionale. Prima di questo ruolo, Kerr era stato Vicedirettore per la scienza e tecnologia presso la CIA, dove ricevette l’Illustre Medaglia CIA per alti servizi resi all’intelligence statunitense.

Il Vicepresidente del consiglio di amministrazione di MITRE, Mike Rogers, è l’ex Presidente repubblicano del comitato permanente di selezione sull’intelligence della Camera degli Stati Uniti. Prima di servire al Congresso, il signor Rogers era un ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti e un agente speciale dell’FBI.

Essendosi distinto al Congresso come uno dei più schietti oppositori della riservatezza digitale, accusando le comunicazioni crittografate di gravi attacchi terroristici, Rogers fu il conduttore e produttore esecutivo di una serie televisiva in sei parti intitolata “Desegretato: storie inedite di spie americane per la CNN”. Il programma era una pubblicità virtuale per l’apparato di intelligence degli Stati Uniti, “accurata descrizione di casi importanti, missioni e operazioni degli agenti dell’intelligence americana”, secondo la CNN.

Rogers è anche un illustre membro dell’Hudson Institute, un think tank neoconservatore con sede a Washington DC finanziato da Northrop Grumman, Lockheed Martin, gruppi farmaceutici impegnati in attività di lobbying e società tecnologiche supportate dalla CIA come Oracle.

Nei ruoli direttivi in MITRE ci sono ex funzionari di alto livello dell’intelligence e del Pentagono come Robert Work, che servì come Vice Segretario alla Difesa sotto tre diversi Segretari prima di passare attraverso la porta girevole al consiglio di amministrazione di Raytheon che è un gigante dell’industria degli armamenti.

Il membro del consiglio di amministrazione di MITRE Paul Kaminski è il Direttore Generale di Technovation, Inc., un’azienda di consulenza che “promuove l’innovazione, lo sviluppo del business e le strategie di investimento relative alla tecnologia della difesa”. Kaminski fu Sottosegretario alla Difesa per l’acquisizione e la tecnologia dal 1994 al 1997 e fu due volte Presidente del comitato del Consiglio Scientifico della Difesa che collabora col Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.

A Kaminski di Mitre è stato assegnato il “Premio di Direttore dell’Intelligence Centrale” che è dato a coloro che “incoraggiano l’obiettivo di un’eccezionale raccolta di intelligence umana e la segnalazione di informazioni di valore significativo per la comunità di intelligence degli Stati Uniti.”

L’amministratore delegato di MITRE è Jason Providakes. Secondo la sua biografia ufficiale fornita da MITRE, la carriera di Providakes “ha origine nella ricerca scientifica a sostegno della sicurezza nazionale”. Prima di diventare amministratore delegato, Providakes era stato Direttore Esecutivo per la “Divisione Tecnologica e Sistemi di Armamento” di MITRE, dove svolse un ruolo fondamentale per la trasformazione dell’esercito nel “digitalizzare il campo di battaglia”.

Gli intimi legami fra MITRE e l’apparato di intelligence militare degli Stati Uniti si estendono al lavoro della società sul COVID-19.

Il “borsista tecnico” di MITRE, Jay Crossler, è una guida dei dati esecutivi per la Coalizione Sanitaria sul COVID-19, definita quale “risposta collaborativa dell’industria privata” al Covid. Secondo MITRE, Crossler fra l’altro “progettò, costruì, schierò e mise in funzione il portale che il generale Stanley McChrystal aveva usato per gestire l’invasione dell’Afghanistan”.

Peraltro il Direttore Sanitario di MITRE, Jay Schnitzer, era stato in precedenza il direttore di Scienze della Difesa presso DARPA, l’unità di ricerca notoriamente segreta del Dipartimento della Difesa.

Dal discreditato e distruttivo modello di letalità per il COVID-19 all’offensiva per il passaporto digitale

Il 17 marzo 2020, praticamente poche ore dopo la dichiarazione di una pandemia globale da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la divisione per il contrasto alle armi di distruzione di massa del Dipartimento della Sicurezza Nazionale stipulò un contratto con MITRE per “coinvolgere, informare e guidare” sindaci, governatori e funzionari impiegati nelle emergenze sulla risposta al COVID-19. Secondo Forbes, il Centro per il Controllo delle Malattie firmò pure un contratto da 16,3 milioni di dollari per stabilire “una durevole capacità nazionale di contenere il Covid-19”.

Un giorno dopo aver firmato il contratto con la divisione per il contrasto alle armi di distruzione di massa del Dipartimento della Sicurezza Nazionale, MITRE sfornò un “libro bianco” che delineava l’impatto previsto del COVID-19 sulla popolazione degli Stati Uniti e forniva raccomandazioni per i funzionari locali e federali su una risposta alle emergenze.

Il documento di MITRE affermava in modo sicuro che il COVID-19 rappresentava “un’epidemia pericolosa all’incirca quanto l’influenza spagnola che infettò 500 milioni di persone e ne uccise 50 milioni in tutto il mondo”. Durante l’epidemia del 1918, quando la popolazione degli Stati Uniti era inferiore a 1/3 di quella che è oggi, morirono circa 675.000 americani. MITRE quindi sopravvalutò il bilancio delle vittime del 2020 di sei volte tanto.

Con il suo modello ormai screditato come giustificazione, MITRE chiese alle autorità di ridurre del 90% i contatti sociali tra i membri della popolazione statunitense, di imporre rigidi confinamenti, di chiudere praticamente tutte le attività commerciali, di sigillare i confini e “di mettere in quarantena negli hotel o in altre strutture, uno per stanza, con personale ridotto all’osso, i cittadini di ritorno” dall’estero.

Molti Stati degli USA seguirono una qualche versione di questo modello estremo, innescando una catastrofe sociale ed economica dalla quale la popolazione potrebbe non riprendersi mai del tutto.

Ora che i confinamenti sembrano essere finiti, MITRE è al centro dell’offensiva per i passaporti vaccinali digitali per mezzo dell’Iniziativa per le Credenziali sul Vaccino. Tuttavia l’influente organizzazione di intelligence militare rimane dietro le quinte, per lo più sconosciuta a un pubblico statunitense le cui vite potrebbero essere radicalmente alterate da uno dei suoi più importanti progetti.

Per leggere la prima puntata di questa serie sui passaporti vaccinali digitali a cura di Jeremy Loffredo and Max Blumenthal, cliccare qui.

(Traduzione a cura della redazione)

La NATO culturale

Di Federico Roberti

Nel pieno della Guerra Fredda, il governo degli Stati Uniti destinò grandi risorse ad un programma segreto di propaganda culturale rivolto all’Europa occidentale, messo in atto con estrema riservatezza dalla CIA. L’atto fondamentale fu l’istituzione del Congress for Cultural Freedom (Congresso per la libertà della cultura), organizzato dall’agente Michael Josselson tra il 1950 ed il 1967. Al suo culmine, il Congresso aveva uffici in trentacinque Paesi (alcuni extraeuropei) ed a libro paga decine di intellettuali, pubblicava una ventina di prestigiose riviste, organizzava esposizioni artistiche, organizzava conferenze internazionali di alto livello e ricompensava musicisti ed altri artisti con premi e riconoscimenti vari. La sua missione consisteva nel distogliere gli intellettuali europei dall’abbraccio del marxismo, a favore di posizioni più compatibili con l’american way of life, facilitando il conseguimento degli interessi strategici della politica estera statunitense.

I libri di alcuni scrittori europei furono promossi nel mercato editoriale come parte di un esplicito programma anticomunista. Fra questi, in Italia, “Pane e Vino” di Ignazio Silone, il quale registrò così la prima di molte apparizioni sotto l’ala del governo statunitense. A dire il vero, durante il suo esilio svizzero in tempo di guerra, Silone era stato un contatto di Allen Dulles, allora capo dello spionaggio statunitense in Europa e nel dopoguerra ispiratore di Radio Free Europe, altra creazione CIA sotto la maschera del National Committee for a Free Europe; nell’ottobre 1944, Serafino Romualdi, un agente dell’OSS (Office of Strategic Services, il precursore della CIA), fu inviato sul confine franco-svizero con il compito di introdurre clandestinamente Silone in Italia.
Silone, insieme ad Altiero Spinelli e Guido Piovene, rappresentò l’Italia alla conferenza fondativa del Congresso tenutasi a Berlino nel 1950, per la quale Michael Josselson era riuscito ad ottenere un finanziamento di $ 50.000 dalle risorse del Piano Marshall. Essa fu sconfessata pubblicamente da Jean-Paul Sartre ed Albert Camus che, invitati, si rifiutarono di parteciparvi.

Inizialmente, fra i presidenti onorari del Congresso, tutti filosofi rappresentanti di un nascente pensiero euro-atlantico, accanto a Bertrand Russell troviamo Benedetto Croce. Egli, ad ottant’anni di età, era riverito in Italia come padre nobile dell’antifascismo avendo sfidato apertamente Mussolini. Sicuramente, all’epoca dello sbarco alleato in Sicilia, era stato un utile contatto per William Donovan, allora il massimo responsabile dell’intelligence statunitense.

La sezione italiana del Congresso, denominata Associazione italiana per la libertà della cultura, fu istituita da Ignazio Silone alla fine del 1951 e divenne il centro propulsivo, anche e soprattutto sotto il profilo logistico ed economico, di una federazione di circa cento gruppi culturali quali l’Unione goliardica nelle università, il Movimento federalista europeo di Altiero Spinelli, i Centri di Azione democratica, il movimento Comunità di Adriano Olivetti e vari altri.
Essa pubblicò la prestigiosa rivista “Tempo Presente” diretta dallo stesso Silone e da Nicola Chiaromonte, ed altre non meno conosciute come “Il Mondo”, “Il Ponte”, “Il Mulino” e, più tardi, “Nuovi Argomenti”. Nel suo gruppo dirigente, accanto a laici come Adriano Olivetti e Mario Pannunzio, figurava anche Ferruccio Parri, il padre della sinistra indipendente. Poi, in posizione più defilata, uomini politici di estrazione azionista e liberaldemocratica come Ugo La Malfa.
Uno degli uffici del Congresso era stato aperto a Roma nel palazzo Pecci-Blunt, dove Mimì, la padrona di casa, animava uno dei salotti più esclusivi e meglio frequentati della capitale. A due passi dalla storica dimora di palazzo Caetani che, prima di divenire tragicamente celebre per avere visto, sotto le sue finestre, l’ultimo atto del rapimento Moro, vedeva regnare un’altra regina dei salotti, la mecenate statunitense legata agli ambienti del Congresso Marguerite Chapin Caetani. Ella, con la sua rivista “Botteghe oscure”, promosse non pochi grandi nomi della letteratura e poesia italiana del Novecento. Suo genero era, guarda caso, Sir Hubert Howard, ex ufficiale dei servizi segreti alleati specializzato nella guerra psicologica ed in rapporti di fraterna amicizia con il nipote del presidente Roosevelt, quel Kermit Roosevelt che dapprima nell’OSS e poi, reclutato dalla CIA, fu tra i più convinti fautori del programma di guerra psicologica.
Una delle più strette collaboratrici della Caetani era Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto, il cui marito Raimondo Craveri, agente dei servizi segreti partigiani, dopo la Liberazione indicava all’ambasciata statunitense i politici di cui fidarsi. Elena invece selezionava gli uomini di cultura con cui valeva la pena parlare. Nella loro casa si potevano intrecciare le relazioni più cosmopolite, incontrandovi Henry Kissinger così come il futuro presidente FIAT Gianni Agnelli, ma su tutti dominava il magnate della finanza laica italiana, fondatore di Mediobanca, (don) Raffaele Mattioli. Gli Americani si fidavano a tal punto del commendator Mattioli che nel 1944, a guerra evidentemente ancora in corso, avevano già discusso con lui i programmi per la ricostruzione. Oltre a finanziare abbondantemente la cultura, don Raffaele prestò le sue non disinteressate, pur se discrete, attenzioni anche al PCI, con il quale aveva canali aperti già durante il Ventennio.
Ecco, dunque, che in Italia, oltre alla P2 e Gladio, esisteva anche un anticomunismo altrettanto tenace ma illuminato, progressista e persino di sinistra. La rete del Congresso ne costituiva la facciata pubblica o, se si preferisce, presentabile.

Le risorse per la propaganda culturale euro-atlantica furono reperite in modo davvero geniale. Nei primi tempi del Piano Marshall, ciascun Paese beneficiario dei fondi doveva contribuire depositando nella propria banca centrale una somma equivalente al contributo americano. Poi un accordo bilaterale tra il Paese in questione e gli Stati Uniti permetteva che il 5% di tale somma diventasse proprietà statunitense: era proprio questa parte dei “fondi di contropartita” (circa 10 milioni di dollari all’anno su un totale di 200) che furono messi a disposizione della CIA per i suoi progetti speciali.
Così circa $ 200.000 di tali fondi, che già avevano giocato un ruolo cruciale nelle elezioni italiane del 1948, furono destinati a finanziare i costi amministrativi del Congresso nel 1951. La filiale italiana, ad esempio, riceveva mille dollari mensili che venivano versati sul conto di Tristano Codignola, dirigente della casa editrice La Nuova Italia.

La libertà culturale non venne a buon mercato. Nei diciassette anni successivi alla fondazione, la CIA avrebbe pompato nel Congresso ed in progetti collegati ben dieci milioni di dollari. Una caratteristica della strategia di propaganda culturale fu la sistematica organizzazione di una rete di gruppi privati “amici” in un consorzio ufficioso: si trattava di una coalizione di fondazioni filantropiche, imprese e privati che lavorava in stretto collegamento con la CIA per dare a quest’ultima copertura e canali finanziari al fine di sviluppare i suoi programmi segreti in territorio europeo. Nello stesso tempo, l’impressione era che questi “amici” agissero unicamente di propria iniziativa. Mantenendo il loro status di privati, essi apportavano il capitale di rischio per la Guerra Fredda, un po’ quello che fanno da un certo tempo a questa parte le ONG sostenute dall’Occidente in giro per il mondo.

L’ispiratore di questo consorzio fu Allen Dulles, che già nel maggio 1949 aveva diretto appunto la formazione del National Committee for a Free Europe, apparentemente iniziativa di un gruppo di privati cittadini americani, in realtà uno dei più ambiziosi progetti della CIA. “Il Dipartimento di Stato è molto lieto di assistere alla formazione di questo gruppo” annunciò il segretario di Stato Dean Acheson. Questa pubblica benedizione serviva ad occultare le vere origini del Comitato e che operasse sotto il controllo assoluto della CIA, che lo finanziava al 90%. Ironia della sorte, lo scopo specifico per il quale era stato creato, cioè fare propaganda politica, era categoricamente escluso da una clausola dell’atto costitutivo.
Dulles era ben cosciente che il successo del Comitato sarebbe dipeso dalla sua capacità “di apparire come indipendente dal governo e rappresentativo delle spontanee convinzioni di cittadini amanti della libertà”.

Il National Committee poteva vantare un insieme di iscritti di grandissimo rilievo pubblico, uomini d’affari ed avvocati, diplomatici ed amministratori del Piano Marshall, magnati della stampa e registi: da Henry Ford II, presidente della General Motors, alla signora Culp Hobby, direttrice del Moma; da C.D. Jackson della direzione di “Time-Life” a John Hughes, ambasciatore presso la NATO; da Cecil De Mille a Dwight Eisenhower. Tutti costoro erano “al corrente”, ossia appartenevano consapevolmente al club. Il suo organico, già al primo anno, contava più di 400 addetti, il suo bilancio ammontava a quasi due milioni di dollari.
Un bilancio separato di 10 milioni fu riservato alla sola Radio Free Europe, che nel giro di pochi anni avrebbe avuto 29 stazioni di radiodiffusione e trasmesso in 16 lingue diverse, fungendo anche da canale per l’invio di ordini alla rete di informatori presente al di là della Cortina di Ferro.

Il nome della sezione incaricata di reperire fondi per il National Committee era Crusade for Freedom e ne era portavoce un giovane attore di nome Ronald Reagan…

L’uso delle fondazioni filantropiche si rivelò il modo più efficace per far pervenire consistenti somme di denaro ai progetti della CIA, senza mettere in allarme i destinatari sulla loro origine. Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nella fondazioni: durante il periodo 1963-1966, delle 700 donazioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni durante lo stesso periodo nel campo delle attività internazionali.
Si riteneva che le fondazioni prestigiose, quali Ford, Rockfeller e Carnegie, assicurassero “la migliore e più credibile forma di finanziamento occulto. Questa tecnica risultava particolarmente opportuna per le organizzazioni gestite in modo democratico, dato che devono poter rassicurare i propri membri e collaboratori ignari, come pure i critici ostili, di essere in grado di contare su forme di finanziamento privato, autentico e rispettabile – sottolineava uno studio interno della stessa CIA risalente al 1966.
Addirittura, all’interno della Fondazione Ford venne istituita un’unità amministrativa specificamente addetta a curare i rapporti con la CIA, che avrebbe dovuto essere consultata ogni volta che l’agenzia avesse voluto usare la fondazione come copertura o canale finanziario per qualche operazione. Essa era formata da due funzionari e dal presidente della fondazione stessa, John McCloy il quale era già stato segretario alla Difesa e presidente, nell’ordine, della Banca Mondiale, della Chase Manhattan Bank di proprietà della famiglia Rockfeller e del Council on Foreign Relations, nonché legale di fiducia delle Sette Sorelle. Un bel curriculum, non c’è che dire.

Uno dei primi dirigenti della CIA ad appoggiare il Congresso per la libertà della cultura fu Frank Lindsay, veterano dell’OSS che nel 1947 aveva scritto uno dei primi rapporti interni in cui si raccomandava agli Stati Uniti di creare una forza segreta per la Guerra Fredda. Negli anni fra il 1949 ed il 1951, come vicedirettore dell’Office of Policy Coordination (OPC), dipartimento speciale creato all’interno della CIA per le operazioni segrete, Lindsay divenne responsabile dell’allestimento dei gruppi Stay Behind in Europa, meglio conosciuti in Italia come Gladio. Nel 1953 passò alla Fondazione Ford, senza per ciò perdere i suoi stretti contatti con gli ex colleghi dell’intelligence.

Quando, nel 1953, Cecil DeMille accettò di diventare consigliere speciale del governo statunitense per il cinema al Motion Picture Service (MPS), si recò all’ufficio di C.D. Douglas, il quale avrebbe poi scritto di lui: “ E’ completamente dalla nostra parte ed (…) è ben consapevole del potere che i film americani hanno all’estero. Ha una teoria, che condivido pienamente, secondo cui l’uso più efficace dei film americani si ottiene non con il progetto di un’intera pellicola che affronti un determinato problema, ma piuttosto con l’introduzione in un’opera “normale” di un certo dialogo appropriato, di una battuta, un’inflessione della voce, un movimento degli occhi. Mi ha detto che ogni volta che gli darò un tema semplice per un certo Paese o una certa regione, troverà il modo di trattarlo e di introdurlo in un film”.
Il Motion Picture Service, sommerso dai finanziamenti governativi tanto da diventare una vera e propria impresa di produzione cinematografica, dava lavoro a registi-produttori che venivano preventivamente esaminati ed assegnati al lavoro su film che promuovevano gli obiettivi degli Stati Uniti e che avrebbero dovuto raggiungere un pubblico sul quale bisognava agire attraverso il cinema. L’MPS forniva consulenze ad organismi segreti sulle pellicole appropriate per una distribuzione sul mercato internazionale; si occupava, inoltre, della partecipazione statunitense ai vari festival che si svolgevano all’estero e lavorava alacremente per escludere i produttori statunitensi ed i film che non sostenevano la politica estera del Paese.

Il principale gruppo di pressione per sostenere l’idea di un’Europa unita strettamente alleata agli Stati Uniti era il Movimento Europeo, cui facevano capo molte organizzazioni, e che copriva una serie di attività dirette all’integrazione politica, militare, economica e culturale. Guidato da Winston Churchill in Gran Bretagna, Paul Henri Spaak in Belgio ed Altiero Spinelli in Italia, il movimento era attentamente sorvegliato dall’intelligence statunitense e finanziato quasi interamente dalla CIA attraverso una copertura che si chiamava American Committee on United Europe. Braccio culturale del Movimento Europeo era il Centre Européen de la Culture, diretto dallo scrittore Denis de Rougemont. Fu attuato un vasto programma di borse di studio ad associazioni studentesche e giovanili, tra cui la European Youth Campaign, punta di diamante di una propaganda pensata per neutralizzare i movimenti politici di sinistra.
Per quanto poi riguarda quei liberali internazionalisti fautori di un’Europa unita intorno ai propri principi interni, e non conforme agli interessi strategici statunitensi, a Washington essi non erano considerati migliori dei neutralisti, anzi portatori di un’eresia da distruggere.

Nel 1962, la notorietà del Congresso per la libertà della cultura calamitò anche attenzioni tutt’altro che desiderate dai suoi ispiratori.
Durante un programma televisivo della “BBC”, That Was The Week That Was, il Congresso fu oggetto di una penetrante e brillante parodia ideata da Kenneth Tynan. Essa iniziava con la battuta: “E’ ora, le novità della Guerra Fredda nella cultura”. Poi continuava mostrando una mappa rappresentante il blocco culturale sovietico, dove ogni cerchietto indicava una postazione culturale strategica: basi teatrali, centri di produzione cinematografica, compagnie di danza per la produzione di missili “ballettistici” intercontinentali, case editrici che lanciano enormi tirature di classici a milioni di lettori schiavizzati, insomma dovunque si guardasse un massiccio indottrinamento nel suo pieno sviluppo. E si chiedeva: noi, qua in Occidente, abbiamo un’effettiva capacità di risposta?
Sì, era la risposta, c’è il buon vecchio Congresso per la libertà della cultura sostenuto dal denaro americano che ha allestito un certo numero di basi avanzate, in Europa e nel mondo, funzionanti come teste di ponte per rappresaglie culturali. Basi mascherate con nomi in codice, come “Encounter” – la più conosciuta delle riviste patrocinate dal Congresso – che è l’abbreviazione, si ironizzava, di Encounterforce Strategy.
Entrava allora in scena un portavoce del Congresso, con un mazzo di riviste che rappresentavano a suo dire una sorta di NATO culturale, il cui obiettivo era il contenimento culturale, cioè mettere un recinto intorno ai rossi. Con missione storica quella di raggiungere la leadership mondiale dei lettori, succeda quel che succeda, “noi del Congresso sentiamo come nostro dovere tenere le nostre basi in allarme rosso, ventiquattro ore su ventiquattro”.
Una satira mordace ed impeccabilmente documentata, che provocò notti insonni a Michael Josselson, organizzatore del Congresso.

Durante l’estate del 1964, sorse una questione assai preoccupante.
Nel corso di un’inchiesta parlamentare sulle esenzioni fiscali alle fondazioni private, diretta da Wright Patman, si verificò una fuga di notizie che identificava otto di queste come coperture della CIA. Esse sarebbero state nient’altro che buche per lettere cui corrispondeva solo un indirizzo, approntate dalla CIA per ricevere denaro dalla stessa, in modo apparentemente legale. Una volta che i soldi arrivavano, le fondazioni facevano una donazione ad un’altra fondazione largamente conosciuta per le sue legittime attività. Contributi, questi ultimi, che venivano debitamente registrati secondo la normativa fiscale vigente nel settore no profit, sui moduli denominati 990-A. L’operazione si concludeva infine con il versamento del denaro all’organizzazione che la CIA aveva previsto dovesse riceverlo.
Le notizie filtrate dalla commissione Patman aprirono, seppure solo per un breve momento, uno squarcio sulla sala macchine dei finanziamenti segreti. Alcuni giornalisti particolarmente curiosi, ad esempio quelli del settimanale “The Nation”, riuscirono a mettere insieme i pezzi del puzzle, chiedendosi se fosse legittimo che la CIA finanziasse, con questi metodi indiretti, vari congressi e conferenze dedicate alla “libertà culturale” o che qualche importante organo di stampa, sostenuto dall’agenzia, offrisse lauti compensi a scrittori dissidenti dell’Europa orientale.
Sorprendentemente (sorprendentemente?), non un solo giornalista pensò di indagare ulteriormente. La CIA eseguì una severa revisione delle sue tecniche di finanziamento, ma non ritenne opportuno riconsiderare l’uso delle fondazioni private come veicoli per il finanziamento delle operazioni clandestine. Anzi, secondo l’agenzia, la vera lezione da apprendere in seguito allo scandalo suscitato dalla commissione Patman era che la copertura delle fondazioni per erogare i finanziamenti doveva essere usata in maniera più estesa e professionale, innanzitutto sborsando fondi anche per i progetti realizzati sul suolo degli Stati Uniti.
Michael Josselson, dalla fine di quel anno, tentò di proteggere la sua creatura dalle rivelazioni, considerando pure di mutarne il nome, e cercò persino di recidere i legami economici con la CIA sostituendoli in toto con un finanziamento della Fondazione Ford.
Tutto ciò non valse a nulla se non a posticipare un esito ormai segnato. Il 13 maggio 1967 si tenne a Parigi l’assemblea generale del Congresso per la libertà della cultura che ne sancì la sostanziale fine, pur se le attività si trascinarono, stancamente ed in tono assai minore, fino alla fine degli anni settanta.

Era infatti successo che la rivista californiana “Ramparts”, nell’aprile 1967, aveva pubblicato un’inchiesta sulle operazioni segrete della CIA, nonostante una campagna di diffamazione lanciata a suo danno nel momento in cui l’agenzia era venuta a conoscenza del fatto che la rivista era sulle tracce delle sue organizzazioni di copertura. Le scoperte di “Ramparts” furono prontamente rilanciate dalla stampa nazionale e seguite da un’ondata di rivelazioni, facendo emergere le coperture anche al di fuori degli Stati Uniti, a cominciare dal Congresso e le sue riviste.
Già prima delle denunce di “Ramparts”, il senatore Mansfield aveva chiesto un’indagine parlamentare sui finanziamenti clandestini della CIA, alla quale il presidente Lyndon Johnson rispose istituendo una commissione di soli tre membri. La commissione Katzenbach, nella sua relazione conclusiva emessa il 29 marzo 1967, sanzionava ogni agenzia federale che avesse segretamente fornito assistenza o finanziamenti, in modo diretto od indiretto, a qualsiasi organizzazione culturale statale o privata, senza fini di lucro. Il rapporto fissava la data del 31 dicembre 1967 come limite per la conclusione di tutte le operazioni di finanziamento segreto della CIA, dandole così l’opportunità di concedere un certo numero di sostanziose assegnazioni finali (nel caso di Radio Free Europe, questo importo le avrebbe permesso di continuare a trasmettere per altri due anni).
In realtà, come si evince da una circolare interna poi emersa nel 1976, la CIA non vietava le operazioni segrete con organizzazioni commerciali statunitensi né i finanziamenti segreti di organizzazioni internazionali con sede in Paesi stranieri. Molte delle restrizioni adottate in risposta agli eventi del 1967, più che rappresentare un significativo ripensamento dei limiti alle attività segrete dell’intelligence, appaiono piuttosto misure di sicurezza volte ad impedire future rivelazioni pubbliche che potessero mettere a repentaglio delicate operazioni della stessa CIA.

Ne vogliamo riparlare?

N.B.: la fonte principale delle informazioni presentate in questo articolo è il libro “Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale” di Frances Stonor Saunders, pubblicato per la prima volta nel Regno Unito nel 1999 ed in traduzione italiana da Fazi Editore nel 2004 nella collana “Le terre” e nel 2007 in quella “Tascabili saggi”.

La Santa Democrazia


“Il principale nemico dell’umanità negli ultimi decenni non è stato il terrorismo ma la Santa Democrazia. Così si potrebbe dire, se si credesse davvero nella Santa Democrazia e non la si ritenesse una maschera e un pretesto.
Questa maschera e questo pretesto sono stati utilizzati per condurre le guerre dell’Impero, quelle palesi e quelle occulte. Sono stati utilizzati per giustificare embarghi e boicottaggi e distruggere l’economia dei Paesi refrattari all’Impero e il benessere dei loro popoli; per bombardarli e invaderli; per condurre in tutto il mondo campagne di propaganda contro gli Stati che cercavano di sottrarsi alla colonizzazione occidentale e alla rapina delle loro risorse.
Dall’Irak allo Zimbabwe, dal Congo al Sudan, dalla Jugoslavia all’Iran, da Cuba alla Birmania, dalla Cina alla Russia all’Afganistan, chiunque rifiutasse il dominio delle multinazionali occidentali, e che fosse dominio incondizionato senza limiti né regole, diventava uno “Stato canaglia” e veniva fatto oggetto, prima di un vero e proprio linciaggio mediatico, poi di guerra vera, dichiarata o non ma con morti veri, stragi, distruzioni, assassinii, quando non stermini senza limiti.
Non importava e non importa che tipo di Paese sia, come sia organizzato, se sia o no democratico nel senso capitalista del termine, cioè se ci sia la possibilità di fondare partiti che facciano l’interesse dei padroni e che si presentino alle elezioni e stampino giornali e abbiano televisioni. Non importa, a meno che quei partiti non vincano le elezioni e si insedino al governo e offrano il paese alle orde multinazionali.
“Democrazia” è diventata ormai una parola vuota ma una minaccia piena d’orrore. Come fu per “eresia” in secoli non così lontani.
La Russia di Eltsin, che faceva bombardare il parlamento ma lasciava rapinare allegramente il proprio Paese da multinazionali e mafie, era un Paese democratico. La Russia di Putin e Medvedev, che mantengono lo stesso ordinamento politico ma che hanno riportato nelle mani dello Stato l’economia del Paese, diventa automaticamente “un regime autoritario”.
I paladini della Santa Democrazia passano il loro tempo a ordire e organizzare colpi di Stato, assassinii politici, attentati terroristici, in tre quarti del mondo. Organizzano eserciti di mercenari criminali, che una volta chiamavamo “squadroni della morte” ma che oggi, a furia di progredire, chiamiamo “contractors”, per torturare, massacrare, trucidare, terrorizzare popolazioni inermi, al solo scopo di demoralizzare la resistenza di quei popoli o di destabilizzare governi e Stati che fanno qualche passo verso l’indipendenza economica e politica dall’Impero, verso un ordinamento sociale un po’ meno capitalista. In Nicaragua negli anni ottanta i contras, addestrati, armati, comandati dagli USA, lottavano per la democrazia.
Uccidendo in tre anni ottomila civili e novecentodieci funzionari statali. Gli ottomila civili erano sindacalisti, attivisti politici, famiglie di sindacalisti e attivisti politici, contadini di tutte le età e i sessi, villaggi interi di contadini compresi i bambini. I funzionari statali erano maestri, medici, infermieri mandati dal governo nei villaggi contadini, spesso volontari che volevano dare il proprio contributo alla crescita umana e culturale del Paese in cui vivevano.
Lottavano, i contras, contro il governo sandinista, e uccidevano nei modi più efferati per creare e diffondere panico e terrore, demoralizzazione, paura. Quella paura continua e totale che fa preferire la schiavitù alla libertà.
Ma non voglio e non posso fare un elenco dei crimini della Santa Democrazia. William Blum, ex funzionario del Dipartimento di Stato USA, ci ha provato, limitandosi appunto alla politica USA e utilizzando solo i documenti CIA dissecretati, e gli è venuto un libro di settecento pagine.
Il problema più grave oggi, però, per noi popoli dei Paesi santamente democratici, è che il mito della Santa Democrazia è ormai diffuso tra tutti noi. Grazie all’informazione e ai suoi mezzi, siamo diventati tutti paladini della Santa Democrazia. Un tempo invece molti di noi avrebbero lottato a fianco dei Paesi attaccati dall’Impero. Un tempo molti di noi avrebbero subito rizzato le orecchie, sentendo i giornali e le televisioni dell’Impero iniziare a sbraitare monotonamente e senza tregua contro il governo di un Paese non in linea con gli interessi dell’imperialismo.
Come una volpe rizza le orecchie al latrare dei cani e al corno del cacciatore, sapendo che è l’inizio della caccia e che, se anche quel giorno non toccherà a lei, toccherà a una sua simile.
Forse è solo questo il problema: non ci sentiamo più simili ai popoli sfruttati, né a quelli che rifiutano di essere sfruttati dai nostri Paesi, o meglio dai nostri padroni.
Forse ci sentiamo più simili al cacciatore. O almeno ai cani.”

Da Scemi di guerra, di Sonia Savioli, Edizioni Punto Rosso, pp. 195-196.

Cosa succederebbe se il mondo iniziasse ad usare la logica degli USA nelle sue relazioni con l’America?

Sei stato sanzionato! Sei stato bombardato! Sei stato invaso! Gli USA hanno una sfilza di punizioni pronte per gli Stati che secondo loro si stanno comportando male. Ma cosa succederebbe se il resto del modo adottasse gli stessi metodi con gli Stati Uniti?

Lo scorso giovedì è stato un giorno abbastanza strano. Gli USA non hanno imposto nuove sanzioni a qualcuno. A meno che non me ne sia accorto mentre ero disteso sul divano con la tendinite (curata in un giorno, sono lieto di dirlo, da mia moglie con la chiropratica).
Allo stato attuale gli USA utilizzano programmi attivi di sanzioni contro quasi 20 Paesi: dalla Bielorussia allo Zimbabwe. E sapete cosa? In linea di massima le ragioni che gli USA adducono per sanzionare questi Paesi potrebbero essere quasi ugualmente usate per sanzionare gli stessi USA.
Guardiamo le sanzioni recentemente reimposte all’Iran, alcune delle quali sono entrate in vigore il 6 Agosto, con altre valide dal 4 Novembre. Le punizioni finanziarie non colpiscono solo l’Iran. Con una tattica bullista particolarmente odiosa, sullo stile dei campetti scolastici esse colpiscono anche Paesi ed istituzioni finanziarie straniere che commerciano con l’Iran. La Repubblica Islamica è accusata di “comportamento maligno”. Di essere il leader, chiedo scusa, “LO Stato leader mondiale quale sponsor del terrore”.
In verità il crimine di Teheran è stato l’aiutare a sconfiggere il terrorismo, eufemisticamente descritto come “attività ribelle”, sostenuto dagli USA e i suoi alleati regionali in Siria.
Se le sanzioni dovessero essere imposte per “comportamento maligno” e per essere uno “sponsor del terrore” allora sarebbero gli USA a dover essere sanzionati, e non l’Iran. Inoltre, se noi seguiamo la logica statunitense, anche i Paesi e le istituzioni finanziarie che fanno affari con l’America dovrebbero essere colpiti. Provate solo a immaginare le proteste di Washington se l’Iran avesse annunciato lo stesso tipo di misure complessive contro aziende e banche che fanno affari con gli USA che gli Stati Uniti hanno annunciato contro aziende e banche che fanno affari con Teheran. Ma esse sarebbero giustificate, se seguissimo il modo di ragionare del Dipartimento di Stato. Continua a leggere

“Una strategia fallita ma che ha lasciato un effetto duraturo”

L’intervento del dott. Guido Salvini, magistrato presso il Tribunale di Milano, presentato al convegno “La rete eversiva di estrema destra in Italia e in Europa (1964-1980)”, svoltosi a Padova l’11 novembre 2016.

“Il quinquennio 1969-1974 rappresenta il periodo cruciale e più sanguinoso, l’apice di quella che è stata chiamata la strategia della tensione: in Italia si verificano ben cinque stragi, un’altra mezza dozzina di stragi almeno, soprattutto su linee ferroviarie, falliscono per motivi tecnici perché l’ordigno non esplode o il convoglio riesce a superare il tratto di binario divelto, vi è il tentativo di colpo di Stato del principe Valerio Borghese seguito da altri progetti che durano fino al 1974, vi è infine un attentato in danno dei Carabinieri quello di Peteano, con tre vittime, del maggio ‘72 caratterizzato, come vedremo, da una propria specificità.
Già l’anno 1969 in Italia anno è denso di avvenimenti politici.
In quel momento il governo è un debole monocolore guidato dall’on. Rumor che si muove in una situazione incandescente per il rinnovo dei più importanti contratti e la mobilitazione quindi di centinaia di migliaia di operai; inizia la protesta studentesca nei licei e nelle università con un anno di ritardo rispetto al 1968 francese. Sono poi in discussione in quella fase politica riforme decisive sul piano strutturale e culturale come lo Statuto dei Lavoratori, l’approvazione del sistema delle Regioni, la legge sul divorzio.
Nixon è presidente gli Stati Uniti e sono gli anni della dottrina Kissinger, quella secondo cui i governi italiani e i partiti politici di centro dovevano respingere ogni ipotesi di accordo e di compromesso con il PCI e le forze di sinistra, scelta facilitata in passato, come ha ricordato anche Aldo Moro nel suo memoriale scritto dalla prigionia, da continui flussi di finanziamenti distribuiti nascostamente dall’amministrazione americana a partiti e organizzazioni di centrodestra talvolta tramite il SID del gen. Miceli. Il 27 febbraio 1969 il presidente della Repubblica americano fa una visita in Italia ed incontra al Quirinale il presidente Saragat. Vi è stata da poco la scissione del PSI e attorno al PSDI, cui Saragat appartiene, si radunano le correnti più determinate in senso filo-atlantico e più contrarie al mantenimento dell’esperienza di centro-sinistra.
Secondo un dossier contenuto negli archivi di Washington e desecretato il Presidente italiano concorda con quello americano sul “pericolo comunista” e afferma che agli occhi degli italiani il PCI si fa passare per un partito rispettabile ma è dedito agli interessi del Cremlino.
Il giorno della visita del presidente Nixon a Roma la città è blindata e scoppiano gravissimi incidenti tra la polizia ed extraparlamentari di sinistra cui seguono nell’Università scontri tra questi ultimi e militanti dell’estrema destra: vi è la prima vittima di quell’anno Domenico Congedo, uno studente anarchico, Congedo che durante un attacco dei fascisti alla facoltà di Magistero precipita da una finestra.
Del resto a livello internazionale la situazione è critica per il blocco occidentale in quanto molti Paesi afro-asiatici sotto la spinta della decolonizzazione entrano nell’orbita dei Paesi socialisti e alcuni passaggi di campo vengono impediti solo attraverso guerre civili o colpi di Stato molto sanguinosi da quello in Indonesia nel 1965 a quello in Cile nel 1973.
Non sembra un caso che la stagione delle stragi si collochi all’interno di questo quadro internazionale e coincida quasi perfettamente con la durata della presidenza Nixon e declini nel 1974 dopo la crisi del Watergate e lo sfaldarsi dei regimi dittatoriali in Europa, la Grecia, la Spagna, il Portogallo con il conseguente venir meno dell’ipotesi di un colpo di Stato anche in Italia che s’ispiri a quelle esperienze.”

Gli anni 1969-1974 in Italia: stragi, golpismo, risposta giudiziaria continua qui.

Forze ed operazioni militari USA in Africa – una rassegna

Di Benjamin Cote in esclusiva per SouthFront

L’importanza delle Forze Militari in Africa
Il 4 ottobre 2017, forze nigerine e Berretti Verdi americani sono stati attaccati da militanti islamici durante una missione di raccolta di intelligence lungo il confine con il Mali. Cinquanta combattenti di una affiliata africana dello Stato Islamico hanno attaccato con armi di piccolo calibro, armi montate su veicoli, granate lanciate con razzi e mortai. Dopo circa un’ora nello scontro a fuoco, le forze americane hanno fatto richiesta di assistenza. I jet Mirage francesi hanno fornito uno stretto supporto aereo e i militanti si sono disimpegnati. Gli elicotteri sono arrivati per riportare indietro le vittime per l’assistenza medica.
Quando la battaglia finì quattro Berretti Verdi sono risultati uccisi nei combattimenti e altri due furono feriti. I sergenti maggiori Bryan Black, Jeremiah Johnson, Dustin Wright e il più pubblicizzato di tutte le vittime il sergente La David Johnson sono stati uccisi in missione. Il presidente Trump si è impegnato in uno scontro politicizzato con la vedova di Johnson e la deputata della Florida Federica Wilson in merito alle parole da lui usate in una telefonata consolante.
La battaglia politica sui commenti del Presidente Trump ha avuto l’effetto non intenzionale di spostare l’attenzione della nazione sulle attività americane in Africa. In precedenza il pubblico americano, e buona parte dell’establishment politico, mostrava scarso interesse o conoscenza delle missioni condotte dai dipartimenti di Stato e della Difesa all’interno delle nazioni africane in via di sviluppo. Il 5 maggio, un Navy SEAL era stato ucciso vicino a Mogadiscio mentre assisteva le forze somale nel combattere al-Shabaab. Questa morte è arrivata un mese dopo che l’amministrazione Trump aveva revocato le restrizioni sulle operazioni di antiterrorismo nelle regioni della Somalia.
Certamente l’evento non ha registrato la stessa attenzione del mainstream come la polemica circa il sergente Johnson; tuttavia, tutto rivela come l’Africa stia lentamente diventando un’area di interesse nazionale cruciale per gli Stati Uniti. Le questioni concernenti le nazioni africane riguardanti le minacce terroristiche sia esterne sia interne, così come i loro problemi economici, servono a garantire che i responsabili politici degli Stati Uniti si concentrino sul continente. Iniziative globali come la Combined Joint Task Force for Operation Inherent Resolve coinvolgono diverse nazioni africane fondamentali per combattere l’ascesa dell’estremismo islamico radicale. L’ascesa di gruppi estremisti coesi insieme all’espansione degli investimenti economici nell’Africa post-coloniale ha comportato un aumento dei dispiegamenti militari stranieri e americani nella regione. Continua a leggere

I diritti umani in USA visti dalla Cina

“Ogni anno il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti pubblica un rapporto sullo stato dei diritti umani nel mondo, sorvolando puntualmente sulla propria preoccupante situazione interna. A redigerlo è la superpotenza militare e tecnologica che elevandosi a tutore mondiale degli stessi, dal 1990 non ha esitato a scatenare guerre di aggressione, disintegrando interi Paesi e seminando morte.
Ma non solo: questo autoproclamato “sceriffo” ha partorito – come rivelato dal gruppo Wikileaks sotto la sigla “Vault 7” – un piano di controllo globale – avrebbe senso l’utilizzo della parola “totalitario” – per intromettersi nella vita privata di cittadini di Paesi amici e nemici senza distinzione sfruttando (si pensi al caso europeo con il consolato americano a Francoforte operante come base CIA per l’hackeraggio) anche la propria capillare presenza militare.
Fortunatamente non tutti sono ancora disposti a subire in silenzio l’irrevocabile giudizio e l’imposizione di una concezione assai ristretta dei diritti in oggetto; non tutti sono inclini ad accettare un “bombardamento dell’indignazione” – nuova espressione della vecchia “missione di civiltà” dell’Occidente colonialista – chiamato a giustificare embarghi e nuovi interventi militari; c’è chi replica ad una operazione politica che ha il chiaro compito di delegittimare Paesi considerati avversari od ostacoli allo spiegamento del disegno di dominio imperiale.
Da qualche anno a questa parte, l’Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese, basandosi su fonti statunitensi e in generale occidentali, stende un proprio rapporto che racconta un quadro desolante, in continuo peggioramento – “catastrofico” – della situazione dei diritti umani nel Paese che da secoli si arroga l’imperiale diritto di esportare civiltà e democrazia. Un rapporto, quello relativo al 2016, che ha il pregio di allargare la propria analisi sull’impatto globale in termini di diritti umani delle politiche statunitensi, con speciale riferimento alla cosiddetta guerra al terrorismo. Inoltre, nel rispetto di una tradizionale visione dei comunisti cinesi, il campo dei diritti umani è allargato al terreno economico e sociale. Ne consigliamo, quindi, una puntale lettura, paragrafo per paragrafo.
Qui ci limitiamo a dare risalto ad alcuni aspetti che disegnano – come anticipato – un ritratto impetuoso della “Città sulla collina”.”

Esporta ma viola: lo sceriffo globale ha grossi problemi…di diritti umani, di Diego Bertozzi continua qui.

Molto, molto pericoloso

moscow-weather“L’intervento della Russia nel conflitto siriano, a partire da settembre 2015 (esattamente un anno dopo che gli Stati Uniti avevano iniziato a bombardare obiettivi ISIL nel paese), destinato a puntellare lo Stato siriano contro un’opposizione intessuta di ciò che gli Stati Uniti ritengono la “opposizione moderata”, è stato un cambio di gioco. L’entrata in campo, su richiesta del governo siriano (che, bisogna ripeterlo, è il governo di una repubblica laica, costituzionale riconosciuta diplomaticamente dalle Nazioni Unite e ha rapporti cordiali con la Russia, l’Iran, la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica, le Filippine, Argentina, Tanzania, Cuba, Egitto, Iraq, Algeria, Oman e molti altri Paesi, nonostante gli sforzi di Washington per isolarla e rovesciarla), questo intervento è legale, mentre quello degli Stati Uniti non lo è.
La stampa statunitense ha praticamente ignorato i successi russi nel favorire l’esercito siriano distruggendo i convogli di petrolio che si dirigevano dal territorio controllato dai terroristi in Turchia per la vendita illegale e per aver sottratto Palmira alla crudeltà dell’ISIL che aveva distrutto il Tempio di Bel. Invece, facendo eco al Dipartimento di Stato, semplicemente si accusava Mosca di sostenere il governo riconosciuto a livello internazionale contro i ribelli che gli Stati Uniti vogliono far vincere.
Le azioni russe, rafforzando ulteriormente la posizione del regime e indebolendo quelli ufficialmente considerati da Washington e Mosca come terroristi, costrinsero gli Stati Uniti a rispondere positivamente agli appelli russi per un’azione comune contro questi ultimi. Il 9 settembre Kerry e Lavrov concordarono un piano per un cessate il fuoco di una settimana (che il governo siriano ha accettato) tra le forze di Stato e l’opposizione “legittima” (appoggiata dagli Stati Uniti). Durante questo periodo, questi ultimi si sarebbero separati da al-Nusra per evitare di essere essi stessi bombardati.
Queste misure dovevano essere seguite da azioni russo-americane coordinate contro i terroristi, mentre i colloqui di pace riprendevano a Ginevra. Purtroppo gli Stati Uniti sono stati incapaci o riluttanti a convincere i suoi numerosi protetti nel conflitto a separarsi da al-Nusra. (Questo è ciò che veramente ha condannato la trattativa, l’incapacità degli Stati Uniti di riconoscere la propria fine.) Alcuni clienti con rabbia rifiutarono e si rivolsero ai loro consulenti statunitensi. Il 16 settembre (presumibilmente per errore) gli Stati Uniti e parecchi suoi alleati hanno bombardato una base dell’esercito siriano uccidendo 62 soldati impegnati in combattimenti con l’ISIL. Infuriata, la Siria ha ripreso il bombardamento di Aleppo est, che è controllata da al-Nusra (Fatah al-Sham). Gli americani hanno accusato la Siria o la Russia per il bombardamento, ancora inspiegabile, di un convoglio di aiuti delle Nazioni Unite, facendo 20 morti tre giorni dopo, e ha sospeso i negoziati con la Russia.
In altre parole, avendo temporaneamente ammesso la necessità di cooperare con la Russia alleata della Siria per risolvere un conflitto che gli Stati Uniti avevano deliberatamente aggravato, con risultati terribili, gli Stati Uniti hanno sabotato i colloqui. E dopo averlo fatto, improvvisamente sono scivolati in una condotta al vetriolo senza precedenti; osservate le prestazioni dell’ambasciatrice alle Nazioni Unite Samantha Power il 18 settembre, dove lei con rabbia ha respinto la morte dei soldati siriani come un dettaglio minore in una guerra, e rimproverò l’ambasciatore russo per aver chiamato una riunione del Consiglio di Sicurezza per discutere sulla Siria una “bravata”. ( Lei, ovviamente, era stanca dell’ostinato rifiuto della Russia di concedere alla “nazione eccezionale” il futuro del suo alleato.)
Intanto Hillary Clinton di recente, il 9 ottobre, ha ribadito nel “dibattito” con Trump che (ancora) sostiene una no-fly zone. Anche se i suoi pezzi grossi le hanno detto che questo significherebbe lo spiegamento di decine di migliaia di soldati degli Stati Uniti in una guerra con la Siria e la Russia. Lei è tenuta a galla da quel molto insolito promemoria di dissenso firmato lo scorso giugno da 51 attuali funzionari del Dipartimento di Stato che non considerano l’ISIL l’epicentro ed esigono un cambio immediato di regime in Siria. Lei sa che il Dipartimento di Stato è più aggressivo rispetto al Pentagono, ma che il Pentagono è anche sospettoso di ogni cooperazione con la Russia, dovunque, come ad esempio Lavrov ha più volte proposto. Lei sa che i mezzi di informazione in questo Paese hanno fatto credere che la Russia, attraverso il suo sostegno a un brutale dittatore, è responsabile per il genocidio in Aleppo est, mentre gli Stati Uniti si siedono in disparte e non fanno nulla!
Lei è ansiosa di nominare Michèle Flournoy (precedentemente il civile situato al terzo livello del Pentagono sotto Obama) come suo Segretario della Difesa. Flournoy ha anche chiesto una “no-fly zone” sulla Siria e “una coercizione militare limitata” per rimuovere Assad dal potere. Lei ha effettivamente proposto il dispiegamento di truppe di terra statunitensi contro l’esercito arabo siriano.
L’8 ottobre la Francia ha proposto una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che vieta il bombardamento siriano o russo di Aleppo est controllato da al-Nusra, mentre tace sul bombardamento illegale della Siria condotto dagli USA e dai suoi alleati. Una barzelletta assurda, contrastata da Cina e Russia, che hanno posto subito il veto. Lo scopo era diffamare ulteriormente il governo siriano e la Russia.
Non è ovvio? L’opinione pubblica si sta preparando per un’altra guerra per il cambio di un regime. La più alta posta in gioco questa fino ad oggi, perché potrebbe portare alla terza guerra mondiale.
Ed è appena anche un argomento di conversazione in questa elezione truccata, che sembra progettato per non solo presentare un guerrafondaio, ma per sfruttare al massimo la rozza russofobia in corso. Il punto per Hillary non è solo salire al potere, a qualunque costo, ma preparare il popolo per altri Afghanistan, Iraq e Libia. Il punto è quello di cullare il popolo nell’amnesia storica, impedirgli di vedere il primato di Hillary nel militarismo spericolato alla maniera di Goldwater, sfruttare la mentalità da Guerra Fredda persistente tra i più arretrati e ignoranti, e assicurare che l’elettorato il quale, mentre in genere deplora il risultato delle elezioni truccate nel mese di novembre, si radunerà ben presto dietro la corrotta Hillary non appena lei troverà un pretesto per fare la guerra.
Molto, molto pericoloso.”

Da Un’informazione urgente sulla Siria, di Gary Leupp (docente di Storia presso la Tufts University).

Di male in peggio: la Clinton pone le premesse per relazioni sempre più ostili con la Russia

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Cerchiamo di essere onesti: Hillary Clinton e Vladimir Putin non sono esattamente grandi amici. Ma la Clinton sembra essere intenzionata a fare peggiore una brutta situazione – e tutto pur di segnare alcuni punti politici a proprio favore.

Il rapporto con la Russia è tale che la Clinton dovrebbe prenderlo molto sul serio. Se ella conquisterà la presidenza nel mese di novembre, le relazioni tra Washington e Mosca continueranno ad essere una delle principali priorità della politica estera. Esse hanno già toccato il minimo da 25 anni a questa parte. Dovrebbe andare da sé, allora, che quando si tratta di Russia, la Clinton farebbe meglio a moderare il linguaggio.
Come una donna che ha trascorso quattro anni come capo della diplomazia del suo Paese, la Clinton dovrebbe far di meglio che insultare pubblicamente il leader di un Paese con il quale dovrà lavorare a stretto contatto. Eppure sembra che ciò sia del tutto sfuggito alla sua consapevolezza. Invece, ella ha scelto di incrementare la paranoia anti-Mosca al punto che non sarebbe troppo sorprendente se la sua campagna annunciasse che stanno pubblicando una versione aggiornata di Canali Rossi – un opuscolo del 1950 che nominava e svergognava personaggi pubblici sospettati di essere simpatizzanti del Cremlino. Continua a leggere

Libia, la grande spartizione

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Petrolio, immense riserve d’acqua, miliardi di fondi sovrani. Il bottino sotto le bombe

«L’Italia valuta positivamente le operazioni aeree avviate oggi dagli Stati Uniti su alcuni obiettivi di DAESH a Sirte. Esse avvengono su richiesta del Governo di Unità Nazionale, a sostegno delle forze fedeli al Governo, nel comune obiettivo di contribuire a ristabilire la pace e la sicurezza in Libia»: questo il comunicato diffuso della Farnesina il 1° agosto.
Alla «pace e sicurezza in Libia» ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma gli stessi che, dopo aver destabilizzato e frantumato con la guerra lo Stato libico, vanno a raccogliere i cocci con la «missione di assistenza internazionale alla Libia». L’idea che hanno traspare attraverso autorevoli voci. Paolo Scaroni, che a capo dell’ENI ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è oggi vicepresidente della Banca Rothschild, ha dichiarato al Corriere della Sera che «occorre finirla con la finzione della Libia», «Paese inventato» dal colonialismo italiano. Si deve «favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi», spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi regionali, eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo. Intanto «ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche», presenti in Tripolitania e Cirenaica.
È la vecchia politica del colonialismo ottocentesco, aggiornata in funzione neocoloniale dalla strategia USA/NATO, che ha demolito interi Stati nazionali (Jugoslavia, Libia) e frazionato altri (Iraq, Siria), per controllare i loro territori e le loro risorse. La Libia possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che ottenevano prima dallo Stato libico. Per di più, eliminando lo Stato nazionale e trattando separatamente con gruppi al potere in Tripolitania e Cirenaica, possono ottenere la privatizzazione delle riserve energetiche statali e quindi il loro diretto controllo.
Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche.
Agli odierni raid aerei USA in Libia partecipano sia cacciabombardieri che decollano da portaerei nel Mediterraneo e probabilmente da basi in Giordania, sia droni Predator armati di missili Hellfire che decollano da Sigonella. Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi «autorizza caso per caso» la partenza di droni armati USA da Sigonella, mentre il ministro degli esteri Gentiloni precisa che «l’utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al Parlamento», assicurando che ciò «non è preludio a un intervento militare» in Libia. Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi – confermano il Telegraph e Le Monde – operano da tempo segretamente in Libia per sostenere «il governo di unità nazionale del premier Sarraj».
Sbarcando prima o poi ufficialmente in Libia con la motivazione di liberarla dalla presenza dell’ISIS, gli USA e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Infine, con la «missione di assistenza alla Libia», gli USA e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti.
Parte dei fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi, venne investita per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana. USA e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – decisero di bloccare «il piano di Gheddafi di creare una moneta africana», in alternativa al dollaro e al franco CFA. Fu Hillary Clinton – documenta il New York Times – a convincere Obama a rompere gli indugi. «Il Presidente firmò un documento segreto, che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino a poco prima classificati come terroristi, mentre il Dipartimento di Stato diretto dalla Clinton li riconosceva come «legittimo governo della Libia». Contemporaneamente la NATO sotto comando USA effettuava l’attacco aeronavale con decine di migliaia di bombe e missili, smantellando lo Stato libico, attaccato allo stesso tempo dall’interno con forze speciali anche del Qatar (grande amico dell’Italia). Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia.
Manlio Dinucci

Fonte

Né non-governative né caritatevoli

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“Dato il grande successo delle rivoluzioni colorate negli anni 2000 in diversi Paesi in Europa orientale o repubbliche ex-sovietiche, sono state identificate le missioni politiche di molte ONG (Organizzazioni Non Governative). Sotto il falso pretesto di esportare democrazia, diritti umani e libertà di espressione, tali organizzazioni, in sostanza delle GO (organizzazioni governative), seguono gli ordini degli strateghi della politica estera dei Paesi occidentali. In quest’ambito, il premio va sicuramente agli Stati Uniti per l’elevata potenza assoluta, difficile da eguagliare. In effetti, il Paese dello Zio Sam ha un’ampia gamma di organizzazioni politiche e di beneficenza specializzate nella destabilizzazione non violenta dei Paesi considerati “non-friendly” o “non-vassalli”. Tali organizzazioni hanno quadri politici prescelti, risorse materiali colossali e finanziamenti regolari. Agendo metodicamente, le tecniche utilizzate sono estremamente efficaci soprattutto contro Paesi autocratici o con gravi problemi socio-economici. Le agenzie d’esportazione della democrazia più note sono USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale), NED (National Endowment for Democracy), IRI (International Republican Institute), NDI (National Democratic Institute), Freedom House e OSI (Open Society Institute). Tranne l’ultima, tali organizzazioni sono finanziate dal governo degli Stati Uniti. L’OSI, nel frattempo, fa parte della Fondazione Soros, dal nome del fondatore George Soros, miliardario e illustre speculatore finanziario statunitense. Inutile dire che Soros e la sua fondazione collaborano con il dipartimento di Stato degli Stati Uniti per la “promozione della democrazia”. E la lista delle conquiste è eloquente: Serbia (2000), Georgia (2003), Ucraina (2004), Kirghizistan (2005) e Libano (2005). Nonostante certi gravi errori, Venezuela (2007) e Iran (2009), il successo è stato ancora una volta raggiunto con l’impropriamente denominata “primavera” araba (2011). Il coinvolgimento delle agenzie degli Stati Uniti nell’”esportare” la democrazia è stata chiaramente dimostrata nelle rivolte che hanno scosso i Paesi arabi “prioritari”, Tunisia ed Egitto, e quelli con una guerra civile ancora in corso, Libia, Siria e Yemen. L’efficienza relativa con cui furono destabilizzati e l’apparente spontaneità riflettono il ruolo di cavallo di Troia di tali “ONG”, sostenute da una rete di attivisti indigeni adeguatamente addestrati da enti specializzati.”

ONG: Organizzazione Non Grata di Ahmed Bensaada continua qui.

Kerry non si tocca più nemmeno con un cartello

A TRIPOLI, A TRIPOLI !

Perché un’azione è fallita

“DAESH, figlio delle vostre guerre, del vostro denaro e delle vostre armi”
“Siria, Libia, Iraq, Yemen: le vostre vittime”
“Arabia Saudita, Stati Uniti, Turchia: Stati sponsor del terrorismo”.

Dicevano tutto questo i cartelli gialli bifronte in inglese che avremmo voluto mostrare, azione diretta ai media del mondo, al segretario di Stato USA, John Kerry e al suo omologo italiano Paolo Gentiloni, alla conferenza stampa affollatissima che concludeva i “lavori” dello “Small Group”ossia la Coalizione antiDAESH. Lo “Small Group” contiene tutti i compagni di merende che negli anni hanno fatto crescere il Nuovo Califfato: Arabia Saudita, USA, Turchia, Qatar, la NATO e il Golfo nel suo complesso. Certo non sarebbe stato epico come la scarpa del giornalista iracheno a Bush, ma sarebbe servito.
Questa conferenza stampa rappresentava una grossa occasione per dire la verità in faccia al sovrano e davanti a moltissimi media, altrimenti irraggiungibili.
Giorni prima era stato proposto a vari mediattivisti di entrare per un’azione di gruppo, ma così non è stato. Senza entrare nel merito, è un fatto che se in conferenza stampa dieci, o anche cinque persone sparse in sala avessero per lo meno provato ad estrarre ed esporre cartelli, vi sarebbe stato un grande impatto, quindi l’azione sarebbe comunque un successo. Un’occasione mancata.
Finalmente la conferenza stampa del sovrano con il seguito ha inizio. Dopo il racconto di Kerry sulle magnifiche gesta antiDAESH e le non-domande pre-concordate (seguirà un resoconto) di giornalisti USA e italiani (Washington Post, Corsera e Ansa), malgrado la mano ripetutamente alzata per chiedere di fare una domanda capiamo che non c’è spazio per altro: tutto sta finendo con i saluti e baci. Arriva dunque il momento di agire.
In altre due occasioni (pre attentati di Parigi) le azioni erano tecnicamente riuscite, con domande ed esibizione di cartello: Roma, 28 febbraio 2013 conferenza stampa degli “Amici della Siria” con Kerry, Terzi (l’allora ministro degli Esteri) e l’oppositore siriano Khatib; conferenza stampa di Trident Juncture NATO, a Trapani, il 19 ottobre scorso.
Dagli attentati di Parigi però tutto è cambiato. Non appena mettiamo mano ai cartelli già pronti per essere aperti, carabinieri e Digos in divisa e in borghese ci saltano addosso e ce li scippano.
Nemmeno il tempo di tirarli su per un secondo. Una rapidità ed efficienza inusitate.
Strappano i cartelli per evitare che chiunque li possa leggere e ci portano via. Per lo stupore, solo sulla soglia mi viene in mente infine di urlare, e riesco a dire: “You created DAESH”, quando ormai Kerry stava purtroppo uscendo indenne e mentre la gran parte dei giornalisti non capisce nulla di quel che sta accadendo.
Marinella Correggia – Stefania Russo

Alle origini del sub normale: Mike Bongiorno

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Caro Mike, è da tempo ormai che ti seguo alla “Voce dell’America”.
Grazie direttore ma… guardi che io mi chiamo Michael.
Mike! Suona meglio… no?
(Dialogo tra Mike Bongiorno e Vittorio Veltroni, l’allora responsabile del giornale radio RAI, 1953)

Nacque a New York da padre italo-americano, noto avvocato e presidente della potente Associazione Sons of Italy in America, e madre italiana il 26 maggio 1924. Il suo vero nome era Michael Nicholas Bongiorno ma era chiamato Mickey. Quando Mickey era giovanissimo, la madre, che si era separata dal marito, si trasferì in Italia a Torino, portandolo con lei. Qui egli frequentò le scuole fino al liceo, iniziando a lavorare per la pagina sportiva de La Stampa.
Dopo l’8 settembre 1943, si unì a gruppi della Resistenza, prodigandosi come staffetta tra i partigiani e gli Alleati di stanza in Svizzera.
Il 20 aprile del 1944, fu intercettato e arrestato e quindi condotto nel carcere di San Vittore a Milano dove ebbe modo di conoscere e fraternizzare con Indro Montanelli, detenuto nello stesso carcere.
Dopo questo periodo di reclusione, passò attraverso vari campi di concentramento, arrivando alla fine del 1944 a Spittal, in Germania, dove rimase sino al gennaio 1945, per poi essere protagonista di un poco usuale scambio di prigionieri tra Stati Uniti e Germania. Lo ritroviamo a New York dove riprese l’attività giornalistica, collaborando a Voice of America, emittente radiofonica emanazione del Dipartimento di Stato.
Tornò in Italia solo nel 1952, realizzando alcuni documentari sulla ricostruzione del Paese. Successivamente il funzionario RAI Vittorio Veltroni, padre del più noto Walter, gli offrì un contratto di collaborazione per il Radiogiornale. Realizzò servizi e radiocronache sportive, entrando poi in pianta stabile nella neonata TV di Stato italiana e divenendo il primo presentatore della stessa.
Una lunghissima carriera, quella di Bongiorno, interrotta solo dalla morte avvenuta nel 2009, dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana e l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica, conferitagli nel 2004 dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Federico Roberti

Democrazia negata: gli USA trasformano Haiti nell’ennesimo Stato vassallo

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Robert Baer ha fatto un’ammissione incredibilmente importante, che per me comunque arriva troppo tardi ma comunque buona a sapersi. L’ex funzionario della CIA ammette di aver ricevuto milioni di dollari che ha poi usato per corrompere i politici dell’ex Jugoslavia perché tradissero gli interessi del Paese. Robert Baer descrive come gli Stati Uniti hanno portato la democrazia in Jugoslavia, distruggendola.
Naturalmente questa politica finanziata con i dollari delle mie tasse, non porta alcun beneficio a me od al mio vicino di casa; ma alcuni individui sia negli Stati Uniti che nell’ex Jugoslavia hanno avuto notevoli benefici dall’operazione. Oops, troppo spiacente per quelle centinaia di migliaia di vite; oops, troppo spiacente per Srebrenica. Quindi, adesso, Robert Baer sta provando a fare ammenda, in qualche modo, rendendo pubblica l’intera questione.
Quindi, è con questo contesto in mente che voglio scoprire come la politica statunitense può colpire moltitudini di persone, beneficiare una piccola cricca ed essere comunque definita “di successo”. La politica statunitense in Jugoslavia ha letteralmente cancellato il Paese dalla carta geografica. Se non si è una persona a favore della pace e della giustizia, si può dire che la politica statunitense per distruggere quel Paese è stata efficace e di successo, nonostante la tremenda perdita di vite umane che ne è conseguita. E adesso, gli Stati Uniti stanno tentando di portare “democrazia” ad Haiti. Continua a leggere

Venezuela: un bilancio

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Lo sapevo da almeno sei anni che sarebbe finita così, eppure la maggioranza ottenuta dalla destra alle elezioni legislative in Venezuela mi ha sorpresa per le sue dimensioni. Ho frequentato la rivoluzione bolivariana per quasi dieci anni, anno dopo anno, l’ho vista crescere in tutta la sua straordinaria potenza e poi declinare rapidamente, mangiata dall’interno anche dagli stessi uomini che avevano contribuito a realizzarla. Come ha fatto il tumore con il presidente. Ho avuto l’ardire di dire a Chávez che sarebbe andato tutto a rotoli, e non sono stata la sola. Ma lo sapeva anche lui evidentemente. Non so perché non abbia potuto fare nulla. Forse erano troppo eterogenee le forze che l’hanno appoggiato. Forse la contraddizione insita nell’arma a doppio taglio del petrolio (il cui maggior compratore erano gli stessi USA) era insanabile fin dall’inizio. Da allora, da sei anni, ho perso interesse alle questioni venezuelane. Oggi per gli amici che con me hanno frequentato il processo bolivariano in Italia, in Venezuela e in tutto il mondo, e per me naturalmente, ho sentito la necessità di fare il punto su quello che ha funzionato e quel che no, per provare a trarne, se possibile insieme, qualche insegnamento. È solo uno scarno elenco di questioni che possiamo approfondire con chi lo vorrà. E in coda qualche osservazione.

PRINCIPALI CONQUISTE
E’ stato quasi totalmente sradicato l’analfabetismo che affliggeva la maggior parte della popolazione. Ciò grazie all’iniziale aiuto di Cuba, poiché al principio nessun venezuelano in grado di farlo voleva insegnare a “delle bestie”, così qualificavano la stragrande maggioranza della popolazione analfabeta, e Fidel mandò ingenti quantità di insegnanti cubani.
Milioni di cittadini hanno avuto accesso alla sanità pubblica, anche qui grazie all’iniziale aiuto dei medici cubani, per le stesse ragioni anzidette.
E’ stata definitivamente seppellita l’ALCA, concepita per ricolonizzare l’America indiolatina.
Le elezioni di Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador non sarebbero state possibili se Chávez non avesse dato l’impulso a svincolarsi dal ruolo, di fatto coloniale, nel quale si trovava al suo avvento l’America indiolatina.

PRINCIPALI SCONFITTE
Il PSUV, il partito di Chávez, che avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare il “socialismo del XXI secolo”, si è rivelato un fallimento per inadeguatezza e alto grado di corruzione.
La riforma agraria non ha funzionato.
L’industrializzazione del Paese non ha prodotto risultati significativi.

OSSERVAZIONI
Il Venezuela non ha mai smesso di essere un Paese fondamentalmente capitalista con una becerissima borghesia -acerrima nemica del processo bolivariano- che ha continuato a detenere il potere economico e controllare il commercio con l’estero.
Di fatto non si è mai riusciti a controllare la Banca Centrale e la caduta del prezzo del petrolio ha privato il governo dei mezzi per eseguire il progetto bolivariano.
E l’annosa domanda si affaccia: è possibile cambiare il sistema dal di dentro? Per il momento non risulta che qualcuno ci sia riuscito.
E adesso qualcosa che mi ha sempre procurato strali, ma che sono convinta essere “il problema” numero uno. Chávez era certamente un leader straordinariamente empatico e generoso, difficilmente sostituibile, ma designare Maduro -che ha come principale qualità la fedeltà- come continuatore del processo bolivariano, ha mostrato in tutta la sua crudezza quanto vuoto Chávez abbia lasciato dietro di sé (si potrebbe dire lo stesso di Fidel e la nomina del fratello a successore). I buoni maestri lasciano buoni alunni che non raramente li superano. Chi pensa in termini di leader (Chávez, Fidel, Evo… per restare solo in America indiolatina), si sbaglia di grosso. Nella migliore delle ipotesi, morto il leader morta la rivoluzione. Nella peggiore, il leader si trasforma in despota. Gli esempi non ci mancano.
Con Chávez le premesse erano altre, c’erano i circoli bolivariani che all’inizio funzionavano eccome, e la vera partecipazione cittadina, capillare, rione per rione, strada per strada, famiglia per famiglia. Quasi nessuno dei sostenitori di Chávez può dire di non avere materialmente fatto qualcosa per il processo bolivariano. Questo all’inizio. Cos’è accaduto poi?

COSA ACCADRA’ ADESSO?
La strada adesso si presenta molto ripida. Il maggior problema che vedo è quello delle Forze Armate che pure in Venezuela hanno appoggiato dall’inizio il processo bolivariano. Chávez stesso diceva che le Forze Armate venezuelane erano un po’ speciali perché avevano fatto -come lui- l’accademia Andrés Bello dove si studiavano Mao, Marx…
Fu grazie alle Forze Armate che durò solo 24 ore il golpe del 2002 (consiglio a chi non l’avesse visto il documentario del golpe girato in diretta dal palazzo presidenziale, da una troupe, credo belga, che casualmente si trovava all’interno di Palazzo Miraflores per intervistare il Presidente). In quell’occasione, Chávez fu portato in una base militare (dalla quale era previsto che lo trasferissero fuori dal Paese) da un aereo con matricola statunitense, che risultò essere di proprietà del gruppo venezuelano Cisneros, allora proprietario dell’emittente televisiva Venevisión e di Ediciones América.
Ora è da scommettere che gli USA e la vicina Colombia faranno di tutto per cambiare i rapporti di forza all’interno delle Forze Armate e potrebbero questa volta riuscire laddove fino ad ora hanno fallito.
Il Pentagono e il Dipartimento di Stato non hanno mai smesso di tessere trame in tutta l’America indiolatina per creare le condizioni che giustifichino un colpo di Stato, da attuarsi qualora gli oligarchi loro complici nei vari Paesi perdano le elezioni. Così come accadde in Venezuela per le consultazioni e i referendum realizzati nel 1998, 1999, 2000, 2004, 2005, 2006, 2008 e 2009. L’unica consultazione persa dal presidente venezuelano fu quella per la riforma costituzionale, nel 2008. E possiamo simbolicamente situare lì l’inizio del declino del processo bolivariano, e della salute del presidente.
Lo sconfortante risultato delle ultime elezioni, tra l’altro, si inserisce in un contesto latinoamericano fortemente compromesso, dove le forze conservatrici stanno riprendendo il potere dappertutto e, dove ancora resistono le forze progressiste, come in Bolivia, possiamo dire che non stanno molto bene. O meglio, che non stanno facendo molto bene.
Marina Minicuci

USA, che passione!

11407195_881859051887579_9097176594403591872_n“Tempo di vacanze per il mondo politico parmigiano.
Il sindaco Federico Pizzarotti da qualche giorno si trova negli Stati Uniti, dove visiterà gli Stati del sud, tra cui l’Oklahoma e il Mississipi. Il primo cittadino torna così negli USA a distanza di poco più di un mese dalla recente visita istituzionale, avvenuta su invito del governo americano per promuovere le nostre eccellenze. Pizzarotti è stato negli Stati Uniti anche lo scorso anno per visitare gli Stati del ‘West’, tra cui Nevada e Colorado. A confermare la passione del primo cittadino per gli USA è il suo portavoce. “Ogni anno nel periodo di ferie appena gli è possibile vola negli USA – spiega. Poco alla volta sta girando tutti gli Stati Uniti. Lo scorso anno ha visitato gli Stati del ‘West’ e in questo periodo quelli del sud. Gli rimane da visitare la zona del nord-ovest”.
Federico Pizzarotti dovrebbe tornare a Parma tra il 20 e il 22 agosto.”

Da Dagli Stati Uniti alla Turchia: i politici vanno in vacanza, di Luca Molinari, in “Gazzetta di Parma” del 12 agosto 2015, p. 12.

(Nella foto, il sindaco Pizzarotti posa sorridente insieme ad alcuni funzionari del Dipartimento di Stato USA durante il suo recente soggiorno a carattere “istituzionale”)

Crescere tra quelle righe

“Crescere tre le righe” è il convegno organizzato dall’Osservatorio Permanente Giovani-Editori, quest’anno giunto alla sua nona edizione, che vede come protagonisti il mondo italiano ed internazionale dell’editoria, gli studenti e le Istituzioni.
Esso “rappresenta un’occasione unica, nel panorama della comunicazione nazionale, per riunire attorno allo stesso tavolo tutti i protagonisti dell’informazione sia scritta che parlata, oltre ad autorevoli esponenti delle Istituzioni e gli studenti, per fare il punto della situazione sul rapporto tra giovani e informazione e per confrontarsi sul ruolo che questa può esercitare quale strumento per la crescita, nelle giovani generazioni italiane, di quel solido spirito critico indispensabile per garantire la convivenza civile e democratica del nostro Paese”.
Così recita il sito dedicato.
L’Osservatorio Permanente Giovani-Editori è presieduto dall’infaticabile Andrea Ceccherini, che ne è stato anche co-fondatore insieme a Cesare Romiti (allora presidente di RCS-Corriere della Sera) e Andrea Riffeser Monti (vice presidente e amministratore delegato del Gruppo Poligrafici Editoriale) nel giugno 2000.
Nell’estate del 2002, il Ceccherini è stato quindi invitato dal Dipartimento di Stato USA a “compiere un viaggio di studi incentrato sulla costruzione di relazioni internazionali nei campi dell’editoria e della politica”, riferisce la nota biografica sul sito dell’Osservatorio.
Successivamente, egli ha avuto il privilegio di essere ricevuto da Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, S.S. Papa Benedetto XVI, Cardinal Tarcisio Bertone, Papa Francesco.
Un importante alleato dell’Osservatorio Permanente Giovani-Editori sono i Gruppi Editoriali: la squadra che affianca l’Osservatorio nelle sue iniziative è composta dal primo giornale di opinione italiano, il Corriere della Sera, dal più importante quotidiano economico, Il Sole 24 Ore, e da alcune delle principali testate locali, La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino, L’Unione Sarda, l’Adige, Il Tempo, L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi, La Stampa, la Gazzetta di Parma, Il Gazzettino. A questi si sono aggiunti più di recente La Gazzetta dello Sport, il più diffuso quotidiano sportivo, e l’Osservatore Romano, il quotidiano ufficiale della Santa Sede.
L’Osservatorio Permanente Giovani-Editori collabora da diversi anni anche con il sistema delle Fondazioni di origine bancaria italiana, ed è affiancato da grandi aziende come Enel, Eni, Telecom Italia e Rai nonché dai tre principali istituti bancari italiani: Intesa Sanpaolo, Unicredit e MPS.
Tralasciando gli esponenti dei media nazionali -i soliti Vespa e insetti similari dell’informazione atlanticamente corretta di casa nostra- non resta dunque che elencare i rappresentanti di alcuni fra “i maggiori gruppi editoriali internazionali” che saranno ospiti al Borgo La Bagnaia, alle porte di Siena, i prossimi 22 e 23 Maggio:
Gerard Baker, Direttore The Wall Street Journal;
Dean Baquet, Direttore The New York Times;
Martin Baron , Direttore The Washington Post;
Jeff Bewkes, Amministratore Delegato Time Warner;
Richard Gingras, Senior Director dei prodotti News e Social Google;
Davan Maharaj, Direttore Los Angeles Times;
Mark Thompson, Presidente e Amministratore Delegato The New York Times.
Dulcis in fundo, è assicurata la presenza di John R. Phillips, Ambasciatore USA in Italia.
I viaggi studio negli Stati Uniti, promossi dal Dipartimento di Stato, hanno colpito ancora!
Federico Roberti

[Si vedano:
Le ragioni di François
Sedurre gli intellettuali per ammaestrare il popolo
La NATO culturale]

George Friedman è un whistleblower?

Se il giornalismo europeo non fosse asservito alla galassia di entità atlantiste di cui fa parte Stratfor, in un sussulto di dignità avrebbe già travolto questo discorso di Friedman come uno dei più disastrosi rovesci nella storia delle pubbliche relazioni. Invece zitti.
Ma chissà, potrebbero esserne invece capaci i lettori, se si scandalizzassero per via di tutta questa cinica strafottenza imperiale, e facessero sapere in ogni angolo del web, diffondendo questo video, cosa guadagniamo a stare con i padroni della NATO: soltanto il loro disprezzo assassino, e la promessa del ritorno della guerra nel nostro suolo.
Pino Cabras

Fonte

Lo strano interesse dell’UNESCO per il patrimonio culturale iracheno

bokovaLa nuova aggressione all’Irak ha portato ancora una volta all’attenzione dei media la questione della distruzione dell’immenso patrimonio culturale di questo Paese.
Ѐ dal 2003 che la storia dell’Irak viene bombardata. Il Museo Archeologico di Baghdad, uno dei musei archeologici più importanti del mondo, custodiva reperti che risalivano alle origini della civiltà mesopotamica, a cui dobbiamo, fra l’altro, l’origine della scrittura, risalente a oltre 5000 anni fa. All’epoca dell’aggressione esisteva un Ufficio per la ricostruzione e l’assistenza umanitaria (Orha). Lo scrisse il periodico britannico “Observer” il 20 aprile 2003. Secondo un memorandum dell’Orha sottoposto al Pentagono, tra le priorità che spettavano ai soldati USA c’era quella di proteggere il Museo, al secondo posto subito dopo la Banca nazionale irachena. Ma i soldati americani non fecero nulla per proteggerlo. Difesero solo il Ministero del Petrolio, che figurava invece al sedicesimo posto nella graduatoria delle priorità da difendere. La Biblioteca di Baghdad venne incendiata, sotto lo sguardo indifferente dei soldati occupanti, mentre la ziggurat della favolosa città reale di Ur veniva deturpata dai volgari graffiti dei soldati nordamericani.
Dopo oltre dieci anni di distruzioni e saccheggi, la preoccupazione dell’UNESCO per il futuro del patrimonio culturale iracheno suona quasi beffarda.

Ecco il testo dell’appello per salvare il patrimonio culturale dell’Irak, pubblicato di recente sul sito dell’Unesco.

30.09.2014 – UNESCOPRESS
Un appello per salvare il patrimonio culturale iracheno
Il patrimonio culturale dell’Irak è in pericolo ed ha urgente bisogno di protezione. Questa è stata la conclusione dei partecipanti al convegno tenutosi il 29 Settembre presso la sede dell’UNESCO a Parigi. L’evento è stato organizzato dalle delegazioni di Francia ed Irak all’UNESCO.

L’incontro è stato aperto da Irina Bokova, Direttore Generale dell’UNESCO e dagli Ambasciatori e Delegati Permanenti di Francia e Irak all’UNESCO, rispettivamente Philippe Lalliot e Mahmoud Al-Mullakhalaf. Essi hanno esaminato lo stato del patrimonio culturale iracheno prima di aprire la discussione sul modo migliore di proteggerlo.
L’urgenza dell’azione è di primaria importanza. I siti culturali iracheni, come la Tomba di Giona a Mosul, i Palazzi Assiri, le chiese ed altri monumenti sono distrutti e saccheggiati. Cresce la preoccupazione che i beni saccheggiati possano diventare oggetto del traffico internazionale. Proteggere questo patrimonio, anche nel corso di un conflitto, è un imperativo, hanno insistito i partecipanti.
“Potremmo sentirci a disagio nel denunciare i crimini contro il patrimonio culturale quando orribili atti di violenza vengono commessi contro la gente. Ѐ giusto essere preoccupati per la distruzione culturale quando i morti vengono contati a decine di migliaia? Sì, assolutamente,” ha affermato l’Ambasciatore Lalliot. “Perché la distruzione del patrimonio culturale che porta con sé l’identità di un popolo e la storia di un Paese non può essere considerata un danno collaterale o secondario da sottovalutare. Ha la stessa importanza della distruzione della vita umana.”
Il conflitto in corso è anche un conflitto contro la cultura e, per estensione, contro l’identità di un popolo.
“Il patrimonio culturale islamico, cristiano, curdo ed ebreo, fra gli altri, viene intenzionalmente distrutto o attaccato in quella che è chiaramente una forma di pulizia culturale”, ha avvertito Irina Bokova. “Siamo seriamente preoccupati per la quantità del traffico di beni culturali, a causa del quale l’Irak ha già tanto sofferto negli ultimi dieci anni.”
Non ci sono statistiche su questo traffico. Tuttavia, si teme che molte statue ed altri oggetti possano essere già caduti nelle mani di pochi mercanti d’arte senza scrupoli.
Qais Hussein Rashied, Direttore del Museo di Baghdad, ha confermato che uno dei gruppi estremisti islamici in Irak “ha intrapreso scavi per vendere (oggetti) in Europa e in Asia attraverso intermediari in Paesi vicini.” “Queste vendite stanno finanziando il terrorismo ,” ha detto, aggiungendo che alcune opere di inestimabile valore – spesso hanno più di 2.000 anni – hanno già lasciato il Paese.
“Proteggere il patrimonio culturale iracheno deve essere parte dello sforzo per consolidare la pace,” ha detto Mahmoud Al-Mullakhalaf, che si è rivolto a tutti gli Stati membri delle Convenzioni dell’UNESCO, tra cui la Convenzione del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, la Convenzione del 1970 sul traffico illecito dei beni culturali, e la Convenzione sul Patrimonio Mondiale del 1972 “per combattere il terrorismo, per sconfiggerlo e per aiutarci a ripristinare il nostro patrimonio.”
I partecipanti hanno concordato che è necessaria una risposta concertata per affrontare le minacce. Hanno accolto con favore le iniziative intraprese nel corso degli ultimi mesi dall’UNESCO per mettere in allerta le autorità e il pubblico sulla minaccia che sta di fronte al patrimonio culturale dell’Irak e per mobilitare la comunità internazionale.
In collaborazione con le autorità irachene, l’UNESCO ha chiesto la massima vigilanza da parte dei grandi musei del mondo, del mercato dell’arte, dell’Interpol e delle altre organizzazioni partner nella lotta contro il traffico illecito ed ha condiviso rilevanti informazioni sul patrimonio culturale dell’Irak con tutte le parti coinvolte negli attacchi aerei.
L’UNESCO ha inoltre chiesto che il Consiglio di Sicurezza adotti una risoluzione che vieti ogni commercio di beni culturali iracheni e siriani.
La scorso 17 Luglio, l’UNESCO ha riunito i maggiori esperti e partner per lanciare un Piano di Azione per la Salvaguardia del patrimonio culturale dell’Irak.
Infine, lo scorso 22 Settembre, il Direttore Generale, insieme al Segretario di Stato USA John Kerry, ha partecipato a un evento tenutosi presso il Metropolitan Museum di New York dal titolo “Minacce al Patrimonio Culturale in Irak e in Siria”, dove ha messo in evidenza gli sforzi compiuti per proteggerlo.

(Traduzione e introduzione a cura di Marcella Guidoni)

La falsità è il ​​segno distintivo del moderno imperialismo statunitense

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“La falsità è allora il ​​segno distintivo del moderno imperialismo statunitense.
L’attuale impero USA è un progetto più subdolo dell’impero britannico – perché almeno allora i Britannici riconoscevano apertamente di avere un impero.
Ma gli Stati Uniti non riconoscono mai la costruzione del proprio impero – non solo ciò, i propagandisti imperiali hanno la faccia tosta di accusare falsamente altri di espansionismo territoriale e di cercare di costruire i loro propri imperi – ad esempio sostenendo che il leader jugoslavo Slobodan Milosevic voleva costruire una “Grande Serbia” o che la Russia ha “invaso” l’Ucraina.
E’ chiaro, da qualsiasi valutazione oggettiva, che l’imperialismo USA è la principale causa di instabilità nel mondo di oggi e lo è da molti anni. La più grave minaccia alla pace globale certamente non era Milosevic, Ahmadinejad, Assad, o uno qualsiasi degli altri “Nuovi Hitler” emersi negli ultimi trenta anni – ma l’aggressore seriale che mette nel mirino i loro Paesi.
Il sorgere dello Stato Islamico (IS) e la crescita di gruppi jihadisti in generale è direttamente causata dalle aspirazioni egemoniche degli Stati Uniti in Medio Oriente – e la loro decisione di colpire i governi secolari, dalla mentalità indipendente come quelli in Irak e Siria, che erano baluardi contro il fondamentalismo islamico.
Mentre in Europa, la sponsorizzazione USA di un “cambio di regime” in Ucraina – al ritmo di 5 miliardi di dollari – e i tentativi di portare il Paese nel suo impero, ha contribuito a causare una crisi umanitaria, in cui più di 2.000 persone hanno perso la vita e oltre 100.000 sono diventate profughi, secondo le Nazioni Unite.
“I nostri Paesi”, allora. Quanto sangue ancora verrà versato nei piani espansionistici di Washington? Quanti Paesi saranno ancora distrutti? E per quanto tempo ancora ci dovremo aspettare che l’esistenza stessa dell’Impero USA venga negata?”

Da “I nostri Paesi” – il piccolo lapsus così rivelatore, di Neil Clark (traduzione nostra).

Verso l’apocalisse?

CRETINETTE ITALIANo, se basta ignorare la Storia.

Adunque. L’Italia e l’Europa tutta in recessione. Guerre e stragi in Ucraina, in Siria, a Gaza, in Irak, in Libia e ovunque un marine USA abbia lasciato le sue impronte: persino Don Camillo Bergoglio dall’alto soglio pontificio intravede il terzo conflitto mondiale. Epperò nessuno sul convoglio che deraglia pensa a frenare, a cambiare binario, a sostituire il conducente, visto che non si può saltar giù su un pianeta devastato dai cambiamenti climatici. Ma Gaia, il pianeta vivente, sopravviverà – ha scritto Kurt Vannegut – perché eliminerà le sue tossine, gli esseri umani. Che è una gran bella soddisfazione.
Davanti all’apocalisse è d’uopo tornare al latino di Cicerone per smentirlo. “Mendaci neque quum vera dicit creditor.” Non è vero, perché il mentitore ormai non può essere creduto a prescindere, in quanto la verità non la dice neppure per sbaglio.
Eppure c’è qualcuno che gli crede, magari per disperazione, perché non sa più a quale santo votarsi, perché il falso è sempre meglio del vuoto spinto dove è scomparsa la sinistra. Già. Parliamo del Bel Paese che sta rapidamente diventando brutto a sua insaputa, sempre più piccolo ogni qual volta viene definito grande dalla sua classe cosiddetta dirigente. Parliamo del Bimbo di Pontassieve, come viene chiamato alle ‘ascine e a San Frediano, mezzo bischero e mezzo becero, reincarnazione di Michele di Lando del tumulto de’ Ciompi, che andò a ciompare, a rottamare le grandi corporazioni , finì con l’accordarsi con esse e venne “ciompato”. Nulla di male che cianci dalla mattina alla sera, che faccia promesse da realizzare in 60 giorni, poi in sei mesi, poi in tre anni.
Ha avuto predecessori più famosi ed infausti, come l’altro cavaliere del ventennio che parlava di otto milioni di baionette mentre non si arrivava a quella cifra con le forchette e i coltelli da tavola. Ma gli italiani sconfitti con quei coltelli da cobelligeranti si convinsero di aver vinto la guerra. Fino a due mesi fa avevano creduto agli ottanta sghei di Renzi, che poi sono scesi a sessanta e, tra quattro mesi, non lasceranno traccia nelle loro tasche o nell’economia nazionale perché privi di copertura. (Sì, meniamo gran vanto di appartenere a quella specie di uccelli della saggezza che sono i gufi).
I problemi veri per la nostra gente non sono le promesse mancate del consocio di Berlusconi, i problemi veri sono quelli dei guasti già apportati al sistema Italia, alla sua democrazia, al suo futuro.
Dalle riforme istituzionali, prima fra tutte quella del pasticciaccio brutto del senato, all’Italicum che con le modifiche in fieri al Nazareno va peggiorando di giorno in giorno, a quella della giustizia che già si delinea pro domo sua, e cioè di Silvio. E dopo mesi e mesi di silenzio sulla politica estera assistiamo ad un improvviso, vorticoso presenzialismo del Presidente del Consiglio su tutte le piazze; due ore a Bruxelles, dieci minuti al Cairo, venti minuti a Bagdad. Certo dal primo luglio dovrebbe rappresentare – andiamoci piano – anche l’Europa, ma cosa ci sta mettendo di suo Matteo Renzi? Poco o nulla che si discosti di un millimetro dal mattinale dello Italian Desk, State Department, USA: migliaia di vecchi mitragliatori sovietici confiscati nell’ex-Jugoslavia ai Kurdi, aviogetti da addestramento e da combattimento Aer-Macchi ad Israele, un contributo tutto italiano alle stragi dei civili a Gaza (nessuna risposta in parlamento all’interpellanza SEL sulla necessità di sospendere queste ed altre forniture di armi per un valore di ottocento milioni di dollari al governo di tel Aviv). E poi un’adesione incondizionata alla guerra finanziaria e commerciale scatenata dagli Stati Uniti contro la Russia che costerà al nostro paese decine di migliaia di posti di lavoro. Gran Bretagna e Germania hanno aderito a queste sanzioni, ma dilazionandole nel tempo e dopo dibattiti ai Comuni e al Bundestag sui loro costi reali che diventeranno astronomici se colpiranno il settore energetico.
Silenzio invece nel nostro parlamento su questo tema, lo stesso silenzio che sta accompagnando una apparente preliminare adesione italiana al TTIP, il trattatato commerciale transatlantico discusso in questi giorni a Bruxelles, fortemente voluto dagli Stati Uniti, e destinato ad apportare il colpo di grazia alla vacillante economia del nostro paese.
Basta tutto questo ad evocare incubi da apocalisse? Lo temiamo, perché se si ripete in farsa, la storia, ignorata, si trasforma in tragedia. Alla fine dell’ottocento il neo-liberismo, l’abbattimento delle tariffe, il prepotere delle importazioni dagli USA, gli accordi sottoscritti da primi ministri britannici, da Bismark e da Cavour – “Jesus Christ is free trade, and Free Trade is Jesus Christ” – portarono alla disoccupazione di massa, alla recessione ed alla prima guerra mondiale. Negli anni venti l’ossessione per il pareggio dei bilanci, e non le guerre commerciali, produsse il crash del 1929 – 1930 e il tardivo ricorso a Keynes non bastò a risollevare completamente l’America di Roosevelt dalla recessione. Bastò invece lo sforzo bellico che accompagnò l’entrata in guerra degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale.
Sarebbe bello, da smemorati di Collegno, affidarsi alla farsa e non credere alla tragedia.
Lucio Manisco

Il Don Giovanni delle politiche internazionali dell’Occidente

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Hadani Ditmars per rt.com

Dopo aver partecipato a Vancouver alla serata di apertura dell’opera “Don Giovanni” nella fine settimana, ho realizzato come ci fosse qualcosa di vagamente familiare con quel protagonista libertino.
L’impertinente psicopatico che fa conquiste a migliaia e che rimane indifferente al dolore e alle sofferenze che ha causato, non mi ha ricordato solo il mio ex fidanzato.
No, c’era qualcosa in più nella sua orgogliosa tracotanza, nel suo appetito irrefrenabile, qualcosa che richiamava il dramma che sta avvenendo al di fuori del teatro, in Medio Oriente, in America Latina e nell’Europa dell’Est.
E poi mi è balenato in mente: la tecnica predatoria di seduzione e abbandono di Don Giovanni non è niente di meno che il modus operandi della politica estera degli USA.
Come i politici abbandonati –da Noriega allo Scià di Persia a Saddam Hussein – possono testimoniare, l’unica cosa peggiore di essere un nemico degli USA è esserne un ex alleato.
E ancora, la cosa divertente è che, proprio come con il seducente Don, le persone cominciano a cedere per le solite vecchie frasi: “Penso tu sia davvero speciale, e ti voglio liberare. Naturalmente non sono solo interessato ai tuoi giacimenti petroliferi. Il tuo popolo merita uno Stato autonomo.” E non dimentichiamo il classico “Sono qui per portarti libertà e democrazia, tesoro.”
Perché così tante persone – dal Libero Esercito Siriano ai “ribelli” ucraini – sono felici di cantare “Là ci darem la mano” con il loro bel pretendente diretti verso il suo scintillante palazzo, nonostante i colpevoli precedenti?
Mentre le conquiste di Don Giovanni, come Leporello dice alla sua amante, lasciata con disprezzo, Donna Elvira nel famoso “Madamina, il catalogo è questo” include “640 in Italia, 231 in Germania, 100 in Francia, 91 in Turchia, ma in Spagna, 1003” lui continua imperterrito, facendo preda donne di ogni forma, taglia e nazionalità.
Ad oggi, come il professore Zoltan Grossman nota, nel suo “Storia degli interventi militari degli USA dal 1890”, da Wounded Knee al Cile, all’Iraq, dall’Afghanistan alla Libia, gli USA hanno un mucchio di spiegazioni da dare.
Sicuramente infransero un sacco di cuori a Budapest nel 1956, a Praga nel 1968 e nell’Iraq del Sud tanto per nominarne qualcuno. E ancora, proprio come il risoluto incosciente Don Giovanni, gli USA, apparentemente in amnesia, continuano a vendere se stessi come i romantici salvatori dei Paesi non amati del mondo.
Da Segretario di Stato, John Kerry ha recentemente detto dell’invasione russa dell’Ucraina, “Non ci si comporta nel XXI secolo alla stregua di come si faceva nel XIX secolo, occupando un altro Paese sulla base di pretesti completamente inventati”.
So di non essere l’unica ad essersi ricordata dell’Iraq mentre guardava il Don Giovanni. Lo so perché l’anno scorso la Pittsburgh Irish & Classical Theatre ha prodotto una versione del “Don Giovanni torna dalla guerra” come “Don Giovanni torna dall’Iraq”.
L’opera originale del 1939, scritta da Odon von Horvath e adattata dallo sceneggiatore britannico Duncan Macmillan evoca la Berlino del primo dopoguerra, mentre l’adattamento Pittsburgh Irish & Classical Theatre è la storia di una fantasiosa rivincita femminile che rimugina sul tormentone “amale e lasciale” di un donnaiolo. Come un critico l’ha descritto, “alternativamente egli prova a reclamare la sua reputazione e come grande seduttore e sforzandosi di essere una brava persona, riuscendo a fallire in entrambe le cose. La città che era il teatro delle sue conquiste adesso è piena di donne sedotte e abbandonate che hanno perso i loro mariti, padri, figli e che vedono adesso il loro momento di lanciarsi.”
Se dovessi mettere in scena una produzione del Don Giovanni oggi, mi divertirei molto con il casting. Sicuramente vedo bene Julian Assange o Edward Snowden – se fosse loro mai permesso di viaggiare nuovamente – nel ruolo di Donna Elvira che –guidata dalla voglia di vendetta- prova ad avvisare dei tradimenti e degli inganni del Don Giovanni le prossime vittime che nulla sospettano.
Leporello, lo sfortunato servo di Don Giovanni – potrebbe essere interpretato dallo straordinario mercenario Erik Prince.
Potrei vedere Kerry nel ruolo principale, che canta la sua canzone di seduzione persuadendo che sia tutto amore, chiunque è fedele solo ad esso è crudele verso tutti gli altri.
Potrei rinominare il Commendatore come “Generale Blowback” e vestirlo o come Saddam Hussein o come un comandante talebano.
Mentre la versione di Vancouver ha principalmente celebrato la violenta fine del Don, forse la versione del 2011 della Scala è stata più realistica. La prima scena vedeva il bel protagonista aprire il sipario per svelare uno specchio gigante che rifletteva le facce del pubblico- tra cui l’allora Primo Ministro Mario Monti, appena salito al potere dopo gli scandali di Berlusconi.
Nella scena finale, mentre le parti offese stanno parlando con giudizio della morte del Don, questi appare dietro di loro perfettamente acconciato e vestito in maniera immacolata, fumando una sigaretta con calma, ridendo compiaciuto.
Nel mondo reale sembra che non ci sia mancanza di entusiasti amanti pronti a saltare nel letto insieme alla seducente visione della Pax Americana – che sopravvive nonostante la sua scioccante infedeltà.
Così “Là ci darem la mano” cari, Don Giovanni è vivo e vegeto e pronto a liberarvi presto.

[Traduzione di M. Janigro]

Dio lavora per la CIA?

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Eric Draitser per rt.com

L’arresto e l’incarcerazione in Corea del Nord del cittadino statunitense Kenneth Bae solleva ancora una volta la questione dell’uso della religione e dell’umanitarismo come mezzi impliciti per rafforzare l’egemonia USA.
La controversia riguardante “la diplomazia cestistica” dell’ex stella della NBA Dennis Rodman è centrata sul suo apparente rifiuto di “parlare a favore” di Kenneth Bae, un cittadino statunitense imprigionato in Corea del Nord per ciò a cui Pyongyang si è riferito quali “crimini contro lo Stato”. Naturalmente, la versione dei media occidentali sul caso Bae è che egli sarebbe un devoto cristiano che semplicemente ha infranto le leggi nordcoreane sulla religione e le prassi religiose.
Come riferito dal The Telegraph, Bae e il suo gruppo stavano usando la propria agenzia turistica come mezzo per diffondere le loro convinzioni cristiane nel Paese stridentemente ateista. I membri del gruppo di Bae hanno ammesso di aver distribuito bibbie nel Paese, intonato canzoni cristiane e, in riferimento alla storia biblica di Gerico, “aver pregato ché i muri crollino”. Anche se si può non essere d’accordo con la criminalizzazione di un ideologia religiosa, è un fatto indiscutibile che Bae e i suoi gruppi hanno commesso quello che Pyongyang considera essere un crimine molto serio.
Mentre l’incarcerazione di un americano in Corea del Nord è già una storia, il suo arresto ha sollevato sospetti in certi circoli internazionali che Bae, come tanti altri prima di lui, stesse nei fatti lavorando con la CIA o un’altra agenzia di intelligence statunitense. Benché sia impossibile dire con certezza se Bae stesse facendo un legittimo viaggio d’affari in Corea del Nord, o stesse semplicemente utilizzando l’occasione come copertura di attività di spionaggio, l’incidente ci ricorda ancora la durevole, sporca relazione tra la comunità dell’intelligence USA e i gruppi e le istituzioni religiose/umanitarie. Continua a leggere

La disinformazione e la formazione del consenso attraverso i media

9788887826920.1114a14e1910c4b919c437ae511c26c698La co­stru­zio­ne del Nuovo Or­di­ne Mon­dia­le posta in es­se­re dagli in­ter­es­si pri­vatl le­ga­ti alie mul­ti­na­zio­na­li oc­ci­denta­li, agli is­ti­tuti fi­nan­zi­a­ri sov­ra­na­zio­na­li, al com­ples­so mi­li­t­are in­dus­tria­le ed al Tesoro degli Stati Uniti pre­sup­po­ne l’ac­qui­si­zio­ne del con­sen­so da parte dell’opi­nio­ne pubb­li­ca dei paesi oc­ci­den­ta­li. I padro­ni del mondo non hanno ris­par­mia­to mezzi per ma­ni­po­la­re le co­sci­en­ze at­tra­ver­so il con­trol­lo dei mezzi d’in­for­ma­zio­ne e dei cen­tri di de­ci­sio­ne po­li­ti­ca. Da un lato essi si av­val­go­no di una co­or­te di gior­na­lis­ti mer­ce­na­ri, e dall’altra si sono as­si­cu­ra­ti la piena com­pli­cità dei part­i­ti po­li­ti­ci di de­s­tra, di cen­tro e di “si­nis­tra”. Per chi non si desse per vinto esis­te semp­re la mi­n­ac­cia del brac­cio ar­ma­to della NATO, che per il mo­men­to si li­mi­ta a s­pe­ri­men­ta­re le nuove tec­no­lo­gie di gu­er­ra in “cor­po­re vili”, in Pa­lesti­na, in Af­gha­nis­tan e in Siria.
Secondo le intenzioni dell’autore, questa inchiesta è la prima parte di una trilogia avente per tema la disinformazione: i prossimi due volumi riguarderanno la propaganda di guerra e il caso italiano.

La disinformazione e la formazione del consenso attraverso i media.
Vo­lu­me 1: La dis­in­for­ma­zio­ne strategica.​ Caratteri pe­cu­li­a­ri del feno­me­no e ana­li­si del caso la­ti­no­ame­ri­ca­no

di Paolo Borgognone
Zambon, 2013, € 12

Balle megagalattiche e tentazioni militari

La pace per il nostro tempo?
Obama non è Chamberlain e Assad non è Hitler, ma la balla dei gas è megagalattica e permane forte la tentazione di seppellirla sotto nuove macerie.

“Peace for our time… Go home and get a nice sleep”. Così Neville Chamberlain di ritorno da Monaco entrò nella storia come pavido sostenitore dello “appeasement” nei confronti di Hitler, la pace fu di brevissima durata e il sonno degli inglesi venne interrotto dalle bombe della Luftwaffe.
L’analogia tra l’allora primo ministro britannico e il presente presidente degli Stati uniti, tracciata dai soliti falchi di Washington, non è solo insultante, ma insensata: fin troppo ovvio che Obama non è Chamberlain e Assad non è il Fuhrer. Certo è che il discorso del Capo dell’Esecutivo nel giardino delle rose è stato a dir poco ambiguo e contraddittorio: ha ribadito la sua determinazione di attaccare la Siria ma a differenza di quanto fatto per la Libia ha chiesto l’autorizzazione del Congresso; se non ha cambiato idea e la Camera dei rappresentanti, se non il Senato, voterà contro l’intervento che doveva essere posto in atto tra il 31 agosto e il 1° settembre e verrà rinviato di qualche settimana (“Peace for the next few weeks”) Barack rischierà un “impeachment”? E se ha rinunziato a lanciare qualche centinaio di missili “Tomahawk-Cruise” contro i comandi delle forze armate siriane perché continua a scatenare il Segretario di Stato Kerry, certo il coltello meno affilato nella cucina della Casa Bianca, in proclami bellicisti ad oltranza? E’ stato Kerry a paragonare Assad a Hitler. E lo ha paragonato anche a Saddam Hussein, un passo falso perché ha richiamato alla memoria le menzogne sulle armi di distruzione di massa che motivarono la prima e la seconda guerra all’Iraq.
A tradire l’ambiguità, le contraddizioni e l’imbarazzo nel discorso del giardino delle rose di un presidente noto per la sua eloquenza ciceroniana se non tacitiana è stata la sua lunghezza, più di quarantacinque minuti. Nella nuova voce del dizionario Oxford 2013 un discorso del genere viene definito “T.L.-D.R.”: “too long – didn’t read”, “troppo lungo, non decifrabile”.
Più indicativa invece l’asprezza con cui Obama ha criticato l’inutilità delle Nazioni Unite e l’irrilevanza del verdetto dei suoi osservatori sull’uso dei gas in Siria: ha così tenuto presente non solo l’inevitabile veto russo e cinese nel Consiglio di Sicurezza, ma anche il mandato dello “United for peace”, la risoluzione secondo cui con la maggioranza di due terzi l’Assemblea Generale potrebbe confermare quel veto. Due terzi e rotti del pianeta, da 130 a 150 su 191 nazioni che proclamerebbero la violazione della Carta e l’illegittimità di un attacco USA al paese mediorientale.
Barack Obama non può ignorare che il presunto impiego di gas nervino o di altro tipo da parte del Governo di Damasco è una balla megagalattica suggerita dall’Arabia Saudita, dagli Emirati, dalla Francia di Hollande e dalla Gran Bretagna di Cameron prima e dopo il voto contrario della Camera dei Comuni e tradotta in realtà dai ribelli siriani per provocare l’intervento armato statunitense.
Ne sono convinti non solo Putin, ma molti servizi segreti occidentali, gran parte dei generali del Pentagono e del Ministero della Difesa britannico.
Sorvoliamo sul terreno tecnico delle prove troppo labili o inesistenti: non si tratta solo di constatare la presenza di sostanze tossiche sul terreno ed il loro effetto letale su centinaia di civili, ma anche e soprattutto di identificare in loco i frammenti dei vettori impiegati e cioè dei “proiettili binari” di artiglieria contenenti i gas (il rapporto preliminare degli osservatori al segretario generale dell’ONU, secondo le indiscrezioni che circolano al Palazzo di Vetro, confermerebbe l’assenza di tracce di questi vettori).
Soffermiamoci invece sugli aspetti razionali, cioè irrazionali, delle responsabilità attribuite al regime siriano.
Adunque: Bashaar al-Assad, seguendo l’esempio del padre, può essersi dimostrato un dittatore sanguinario nel reprimere la ribellione senza curarsi di decine di migliaia di vittime civili, ma non è un pazzo incline al suicidio: tra marzo e luglio riconquista il controllo su quattro quinti del territorio nazionale ed è certo che la vittoria sui ribelli sia imminente. E’ anche consapevole del monito sulla linea rossa da non superare con l’impiego di armi chimiche rivoltogli un anno fa dal Presidente USA. E cosa fa? Con una superiorità in mezzi corazzati, aerei, artiglieria e truppe ben addestrate, decide di sparare proiettili di gas nervino contro un sobborgo di Damasco ancora in mano ad un gruppo di ribelli a quattordici chilometri dall’albergo che ospita gli osservatori dell’ONU. In altri termini provoca deliberatamente l’intervento militare della superpotenza: mondiale. E cioè, nel vernacolo napoletano, “se n’è gghiuto e’capa”. Ipotesi questa altamente improbabile.
Resta da vedere cosa accadrà tra due o tre settimane. Non disponiamo di una sfera di cristallo, ma per aver seguito come giornalista gran parte delle guerre degli Stati Uniti nel mondo degli ultimi decenni possiamo contenere, ma non eliminare del tutto il nostro pessimismo: Obama “painted himself in a corner”, si è messo da solo con le spalle al muro, ne va del suo prestigio e di quello del Grande Impero d’Occidente soprattutto per quanto riguarda i futuri interventi militari in Medio Oriente o altrove. Quindi darà il via – un incidente si trova sempre – ad un’ammazzatina in Siria, limitata nei mezzi, nella durata e senza truppe di terra. Forse più limitata di quanto originariamente programmato, cento invece di duecento missili Cruise in una sola salve di poche ore.
Da premio Nobel per la pace seguirà un suo nuovo manuale di più moderate regole di ingaggio in materia di bagni di sangue.
Lucio Manisco

Fonte

Il curriculum di Reginald Bartholomew

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“Ci fu poi un altro contesto che riguarda ciò che avvenne tra Cosa Nostra, gli apparati della guerra clandestina contro il comunismo, che erano stati organizzati durante la guerra fredda e i loro referenti, non solo interni, italiani, ma anche e forse soprattutto internazionali, e cioè gli anglo americani con cui avevano stretto un patto ferreo durante la guerra, un patto che era durato fino alla caduta del muro di Berlino e alla fine della guerra fredda.
Nel libro c’è un lungo capitolo basato su una testimonianza inedita, che io registrai nel 1998 per un altro libro, era dell’ambasciatore Reginald Bartholomew il quale mi diede la sua testimonianza su quella fase critica dell’Italia e sul suo ruolo anche personale nel nostro Paese.
Bartholomew mi raccontò la sua storia e la ragione per cui Bill Clinton, appena eletto Presidente degli Stati Uniti aveva deciso di mandarlo in Italia, lui era ambasciatore americano alla NATO a Bruxelles, stava per lasciare quell’incarico, aveva ricevuto un’altra destinazione, Israele, aveva già presentato le sue credenziali al governo Israeliano, ma all’ultimo momento Clinton lo chiamò e gli disse lei non va più in Israele, lei va in Italia.
Quando Bartholomew chiese “Ma perché proprio io e perché in Italia”, si sentì rispondere perché data la situazione che si è creata in Italia a Roma ci serve un professionista come lei, un diplomatico di carriera con il suo curriculum. Allora quando io gli chiesi “Ma ambasciatore che curriculum ha lei?” lui chiamò la sua segretaria e fece portare un elenco di cose che aveva fatto, di operazioni a cui aveva partecipato, di missioni che aveva compiuto per conto della amministrazione americana, era stato dal Libano alla Bosnia, della Cina di Piazza Tienanmen alla crisi iraniana, al Golfo Persico, era stato in tutti i teatri di guerra civile con il compito di rimettere le cose a posto e di salvaguardare gli interessi americani. Lo stesso compito che aveva ricevuto da Clinton per l’Italia. Lui si insediò nella ambasciata americana a Roma con il compito di stabilizzare la situazione italiana così difficile e così drammatica. E questo fece.”

Da La lunga trattativa Stato-Mafia, intervista a Giovanni Fasanella.
(I collegamenti inseriti sono nostri – ndr)

Operazione Ajax, 19 Agosto 1953

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New York, 19 agosto – Il 19 agosto 1953 è una data fondamentale nella storia recente dell’Iran, perché fu portato a termine il colpo di Stato che depose il primo ministro, Mohammed Mossadegh. Sei decenni dopo, la CIA ha ammesso ufficialmente di aver partecipato all’operazione, da sempre addebitata ai servizi segreti statunitensi e britannici, e denominata ‘Operazione Ajax’. Il ruolo degli Stati Uniti nel colpo di Stato è tuttora considerato tra le cause della radicalizzazione del sentimento antiamericano, che ha accompagnato la rivoluzione islamica del 1979 e provocato la ‘crisi degli ostaggi’ tra i due Paesi alla fine di quell’anno. Il National Security Archive ha ottenuto una versione del rapporto interno “La battaglia per l’Iran”, redatto a metà degli anni ’70, grazie alla legge federale sulla libertà d’informazione, il Freedom of Information Act. La sezione che descrive il colpo di Stato è ancora in parte coperta da segreto, ma le informazioni pubblicate rendono formalmente pubblica, per la prima volta, la partecipazione della Central Intelligence Agency all’operazione. “Il colpo di Stato militare che ha deposto Mossadegh e il governo del Fronte nazionale – si legge – fu condotto sotto la direzione della CIA come un atto di politica estera statunitense”, per evitare che l’Iran “si aprisse all’aggressione sovietica” e per mantenere il controllo sul petrolio iraniano.
Il rapporto era in parte stato pubblicato nel 1981, dopo una precedente richiesta di accesso alle informazioni, ma le parti riguardanti l’Operazione Ajax erano state cancellate. L’Operazione Ajax, condotta con collaboratori locali, si sviluppò attraverso vari passaggi, fondamentali per creare le condizioni per il colpo di Stato: bisognava usare la propaganda per indebolire politicamente Mossadegh, indurre lo Scià a cooperare, corrompere membri del Parlamento, organizzare le forze di sicurezza e dare il via a manifestazioni di piazza. Il primo tentativo fallì, ma al secondo, il 19 agosto, il colpo di Stato fu portato a termine. Mossadegh fu processato e tenuto in carcere per tre anni; passò poi il resto della sua vita agli arresti domiciliari ad Ahmadabad, dove morì nel 1967.
(TMNews)

Il collegamento alla relativa pagina del sito del National Security Archive è qui.
Ora, per gli storici, c’è davvero di che sbizzarrirsi…

Una, cento, mille di queste chiusure!

Sostegno totale a una “grande opera” di disinquinamento ambientale

Washington, 2 agosto – Domenica prossima alcune ambasciate e consolati americani rimarranno chiusi o dovranno sospendere le loro attività. Una misura, ha precisato la portavoce del dipartimento di Stato americano Marie Harf, citata dalla stampa locale, che gli Stati Uniti hanno deciso a seguito di alcune “informazioni”, ma in via del tutto precauzionale, per “abbondanza di cautela”. Harf non ha riferito quali o quante ambasciate verranno chiuse, né quali siano state le informazioni ricevute, ma ha chiarito che il provvedimento si potrebbe prolungare, “dipende dalle nostre analisi”.
Un alto funzionario del dipartimento di Stato ha detto a Nbc News che tutte le ambasciate che generalmente sono aperte la domenica, soprattutto quelle in Israele e nei Paesi musulmani, dove la domenica è un normale giorno lavorativo, saranno chiuse il 4 agosto, per, ha ribadito anche lui, “un’abbondanza di cautela”. I funzionari, scrive ancora Nbc News, sostengono che la minaccia sembra avere avuto origine dal Medio Oriente, che sia legata ad al-Qaeda e che riguarderebbe le sedi oltremare, ma non quelle interne agli USA.
Domenica sarà il 52esimo compleanno del presidente Obama, ma sarà anche il giorno in cui giurerà il nuovo presidente dell’Iran, Hassan Rowhani. I funzionari citati da Nbc News hanno però detto di non avere sentito nulla per potere affermare che la chiusura possa dipendere da uno di questi motivi.
(Adnkronos)

Spiare il mondo intero per pura autodifesa

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“Nel corso della sua vita professionale nel mondo della sicurezza nazionale, Edward Snowden deve aver affrontato numerose interviste d’indagine, esami con la macchina della verità ed estremamente dettagliati controlli personali, così come la compilazione di infiniti moduli accuratamente progettati per catturare ogni tipo di menzogna o incoerenza. Il Washington Post  (10 giugno) ha riferito che “alcuni funzionari hanno detto che la CIA ora, senza dubbio, inizierà a rivedere il processo con cui Snowden è stato assunto, cercando di determinare se fossero stati trascurati dei segnali che un giorno avrebbe tradito i segreti nazionali.”
Sì, c’era un segnale che hanno ignorato, Edward Snowden aveva qualcosa dentro di lui, una forma di coscienza, soltanto in attesa di una causa. E’ stato lo stesso per me. Andai a lavorare presso il dipartimento di Stato, allo scopo di diventare un funzionario del servizio esteri, con le migliori, le più patriottiche, intenzioni, facendo del mio meglio per uccidere la bestia della Cospirazione Comunista Internazionale. Ma poi l’orrore quotidiano di ciò che gli Stati Uniti facevano al popolo del Vietnam entrò a casa mia tramite ogni tipo di media, e ciò mi addolorava. La mia coscienza aveva trovato la sua causa, e nulla di ciò che risposi all’intervista di pre-assunzione avrebbe allertato i miei interrogatori del possibile pericolo che ponevo, perché non lo sapevo io stesso. Nessuna domanda dei miei amici e parenti avrebbe suscitato il minimo accenno del radicale attivista contro la guerra che sarei diventato. I miei amici e parenti dovevano essere sorpresi quanto lo ero io di esserlo. Non c’era alcun modo per l’ufficio di sicurezza del dipartimento di Stato di sapere che non avrei adottato e celato un tale segreto.
Così cosa può farci un povero Stato di Sicurezza Nazionale? Beh, potrebbe prendere in considerazione il proprio comportamento. Smettere di fare tutte le cose terribili che rattristano persone come me, Edward Snowden e Bradley Manning, e tanti altri. Fermare i bombardamenti, le invasioni, le guerre infinite, le torture, le sanzioni, i golpe, il sostegno alle dittature, il sostegno assoluto ad Israele, fermare tutte le cose che rendono gli Stati Uniti tanto odiati, creando tutti questi terroristi anti-americani che costringono lo Stato di Sicurezza Nazionale, per pura autodifesa, a spiare il mondo intero.”

Edward Snowden e altri “spifferatori” degli USA, di William Blum continua qui.

Ameriqua

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Quanto sono belli, buoni e simpatici gli americani…
Non fanno certo eccezione i dipendenti dell’ambasciata di via Vittorio Veneto a Roma, anche se questa -vista dall’esterno- pare più una cittadella fortificata che la sede di una rappresentanza diplomatica.
Tutto ciò ce lo insegna “Ameriqua”, film da poco uscito nelle sale, interpretato da un rampollo di casa Kennedy protagonista di un pellegrinaggio per l’italica penisola che si conclude, forse non a caso, a Bologna dove il saputello troverà persino l’amore.
Un film dal punto di vista recitativo così tristemente anonimo da far dubitare seriamente delle capacità dei funzionari del Dipartimento di Stato, ex USIA, in servizio oggi a Villa Taverna.
Ah, i bei tempi di Clare Boothe Luce!