Mentre il governo giallo-fucsia ci racconta che per aumentare di poco i salari agli insegnanti dovremmo tassare merendine, bibite e biglietti aerei, mentre ci dicono che l’unico modo per affrontare il problema ambientale è concentrarsi sull’aspetto climatico, pagare nuove eco-tasse e comprare auto elettriche, la Banca Centrale Europea riprende le operazioni di QE al ritmo di 20 miliardi di euro al mese.
In Italia mancano milioni di dipendenti pubblici (almeno 2,5 rispetto a Francia e Inghilterra).
In Italia mancano quasi del tutto infrastrutture degne di un Paese civile, in tutto il centro-sud. Non c’è una rete autostradale degna di questo nome, sotto Roma. Della rete ferroviaria, meglio non parlare.
Non ci sono fabbriche e industrie a sufficienza nel Sud Italia.
Non c’è lavoro, nel Sud. E quando c’è, i salari sono indecenti.
Ecco perché ogni anno circa 250.000 giovani sono costretti a scappare dal Sud al Nord del Paese. Questo mentre altrettanti giovani del Nord sono costretti a scappare all’estero.
A volte a fare la fortuna di un Paese straniero, a volte a fare i lavapiatti, ma con la paura e la vergogna di tornare indietro dopo aver fallito. Quando a fallire è stata la classe politica che li ha costretti a fuggire.
Una insopportabile beffa che si aggiunge al danno di spendere milioni di euro per i nostri giovani, per il futuro del Paese, e lasciare poi che vadano a fare le fortune di altri Paesi. Perdendoci doppiamente.
L’aumento della produzione di energie rinnovabili, la riconversione di industrie e fabbriche, la drastica riduzione del trasporto merci via aerea e marittima (due, quelle sì, grandi cause di inquinamento atmosferico), l’aumento esponenziale, di linee e di mezzi, del trasporto pubblico nei grandi centri abitati per combattere davvero i danni dell’inquinamento atmosferico laddove necessario.
Avremmo da fare per le prossime 5 generazioni, almeno. Avremmo gli uomini, le competenze, le materie per costruire un nUovo Paese, finalmente unito. Da Nord a Sud.
Unito con le autostrade, unito con i treni, ma soprattutto unito nei salari e nel benessere.
Ci dicono, da anni, da troppi anni, che tutto questo non sia possibile per mancanza di soldi.
Perché il debito dello Stato è troppo alto. Perché, in fondo, abbiamo per decenni vissuto al di sopra delle nostre possibilità.
Hanno progressivamente cancellato ogni traccia di lotta di classe per sostituirla con una guerra generazionale fratricida. Stano aizzando i giovani contro i loro genitori e i loro nonni.
E lo stanno facendo portando avanti questa assurda narrazione della scarsità. Una scarsità, però, non reale ma auto-indotta.
E così, da 27 anni, guidato dalla peggior classe politica che si sia mai vista, lo Stato italiano ci toglie più di quanto ci dia: si chiama avanzo primario. È lo Stato che da protettore dell’uguaglianza e della popolazione si fa invece boia e strozzino.
Mentre la BCE continua a emettere, dal nulla, 20 miliardi di euro al mese. Venti miliardi di euro. Ogni maledettissimo mese. Più di un miliardo di euro ogni due giorni.
Quella della mancanza di soldi è la scusa più vecchia del mondo. È quella che usano per giustificare il nostro progressivo impoverimento mentre loro aumentano indegnamente la percentuale di ricchezza sul totale.
È una balla che non si regge più sulle gambe. Una balla che era già stata smontata decenni fa.
Gilberto Trombetta
diseguaglianza
Harvard è più ricca della metà dei Paesi del mondo… perché qualcuno deve mantenere lo status quo
In un recente rapporto si afferma che l’Università di Harvard ha più soldi a disposizione della ricchezza di 109 Paesi, e non è l’unica scuola ad avere più denaro della maggior parte delle nazioni. Per i ricchi, mantenere lo status quo non è economico.
Di Helen Buyniski, giornalista e commentatrice politica statunitense
“Il sistema scolastico pubblico americano potrebbe essere nei guai, tranne le sue migliori università”, afferma un articolo di Stacker, che paragona le dotazioni multimiliardarie di 50 college americani alla “ricchezza totale” delle nazioni del mondo, come stimato dal Credit Suisse.
L’elenco ha visto cinque università – tra cui Princeton, Stanford, Yale e l’Università del Texas System – battere oltre la metà delle 195 economie mondiali. In cima alla lista con la sua enorme dotazione di 38,3 miliardi di dollari è posizionata Harvard.
Forse più degli altri college della Ivy League, Harvard vende più di una laurea. Un’istruzione ad Harvard fornisce l’ingresso in ambienti esclusivi popolati da persone molto ricche e molto influenti, e la scuola si impegna molto per coltivare questa reputazione. La qualità dell’istruzione di Harvard è in qualche modo diminuita negli ultimi dieci anni, occupando ora il sesto posto secondo le classifiche del The Times Higher Education World University, ma la stessa azienda ha invariabilmente classificato la reputazione dell’istituzione come incontaminata, segnando un perfetto 100 sia per la ricerca che per insegnamento.
Mentre gli insegnanti di tutto il Paese organizzavano scioperi per i bassi salari ed i costi sanitari, le tasse universitarie sono aumentate quando Wall Street iniziava ad impacchettare i debiti dei prestiti agli studenti come prima impacchettava i debiti derivanti da mutui. Da quando sono stati introdotti gli “SLABS” (titoli garantiti da attività di prestito studentesco), l’ammontare totale del debito studentesco detenuto dagli studenti americani è raddoppiato.
Le scuole della Ivy League sono rimaste al sicuro dalla svalutazione dei diplomi accademici perché gli ex-alunni che occupano le posizioni di potere hanno concordato che le lauree devono rimanere preziose, un bene a prova di recessione per le persone benestanti comprensibilmente schizzinose in un’economia incerta. Proprio come il valore dell’arte moderna si basa sulle case d’aste che le vendono per milioni di dollari, le lauree della Ivy League hanno valore a causa del puro potere finanziario a sostegno delle istituzioni che le conferiscono. Continua a leggere
Lo Stato confiscato e la riconquista della sovranità
Il paradosso del Robin Hood trasposto e l’egemonia finanziaria
La cosa veramente bizzarra, ma che bizzarra non è solo se ci soffermiamo un secondo, é quella di chiederci come mai i paladini dell’austerità e del rigore, i seguaci fedeli dello spread, gli ossessionati del debito pubblico e dall’inflazione, quelli del contenimento e della parsimonia, sono gli stessi che vivono in una condizione non di semplice agio, ma in uno sfarzo sfrenato senza pudore, senza uguali in nessuna corte d’altri secoli.
Ci viene detto che manca il lavoro, anzi no, é che manca il denaro e quindi di conseguenza il lavoro.
E sì, perché il lavoro a guardarci intorno ce ne sarebbe d’ogni tipo e in gran misura. Pubblico o privato, hai voglia a faticare, ma come dice una pubblicità di prestiti “senza lillari non si lallera” e noi siamo in deflazione.
Mentre non si ha più rispetto per il lavoro e per chi lavora, diritti deregolamentati e salario di sussistenza, al denaro oramai ci approcciamo in modo dogmatico e riverente, quasi fosse una manna dal cielo che cade a volte sì e a volte no, per ragioni che a noi comuni mortali non è dato sapere. Il suo comparire è come se dipendesse solo dal potere di un dio onnipotente e capriccioso che ne sfarina una manciata a suo gradimento.
Ma il denaro un tempo non era un elemento neutro, senza alcun valore naturale? Una misura equivalente al valore di un bene? La sua esistenza e dignità non dipendeva forse dal nostro saperlo riconoscere e accettarlo come tale misura? Ed ancora, la sua massa non era la rappresentazione fenomenica solo del nostro creare che si ottiene con il lavoro?
Immaginiamo un naufrago, il buon Crusoe su di un isola deserta, che abbia con sé tutte le sue carte di credito e un baule di banconote. Come potrà usarle al fine della sua sopravvivenza? Nella migliore delle ipotesi, le carte di credito potrebbero essere utili per raschiare pelli da concia e le banconote per avviare il fuoco.
Il denaro è solo una convenzione accettata che trasporta in sé un valore convenzionale e nient’altro, questo dovremmo tenerlo sempre bene a mente.
Con queste riflessioni, Ezra Pound ebbe a dire che la mancanza di denaro è una follia perché è come dire che non si possono costruire le strade perché mancano i chilometri.
L’economia, quella fondata sul lavoro, che ebbe già antichi nemici e approfittatori nei seguaci della crematistica, é stata ora completamente disumanizzata avendo rimosso per intero l’uomo e le sue attività. La disciplina economica della finanza ha preso il suo posto, ed il monetarismo espressione del tutto e del niente, novello apeiron, governa. Il denaro, cartaceo o anche di più il virtuale, esiste prima di tutto, a prescindere, addirittura senza lavoro. Non serve più il controvalore aureo, neanche più la carta per la sua stampa. La massa monetaria nella sua totalità non ha limiti ma neanche più pudori.
La ricchezza non ha più il senso della misura, ma di rimando neanche la povertà; come scrive il professor Fusaro, il nostro è un tempo in cui abbiamo perso il “metro”.
La distribuzione della ricchezza mai come in questi ultimi anni ha visto una polarizzazione così sfrenata, mai come in questi tempi l’indice di Gini tende in modo crescente verso l’unità. Alla concentrazione della ricchezza segue la concentrazione del potere nelle stesse poche mani. Malgrado tutto, alla violenza economica viene risparmiata ogni critica, perché ci viene detto che il problema non è in questo sistema imposto e fallimentare, ma in noi che lo subiamo. Una crisi dettata da quel famoso debito pubblico che grava come un senso di colpa già dalla nascita, una colpa da espiare ed espiabile solo tendenzialmente, perché il debito oltre ad appartenere a tutti come l’aria che respiriamo, si é eternizzato con gli interessi, pertanto ripianarlo è impossibile. Abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità e la stretta é una condizione dovuta, necessaria e riparatoria. Se prima lavorando onestamente potevamo vivere permettendoci di acquistare una casa e far studiare i figli, ora lavorando di più, magari in due, non basta, dobbiamo avere meno per restituire di più, riconsegnare il maltolto ai legittimi proprietari, fosse anche solo per gli interessi. Dobbiamo imparare a vivere facendo sacrifici perché il denaro è poco e il rimedio al problema é proprio permanere nella sua rarità; questo è ciò a cui l’establishment ci ha educato, insieme alla funzione pedagogica del mercato.
Certamente una disaffezione dal denaro è un nobile principio quando è un’aspirazione morale ed etica, e fintantoché le condizioni di contorno sono tali da limitarne il bisogno.
Ma qui si apre una voragine pericolosissima perché ciò che un tempo era garantito da uno Stato Sociale, oggi con la spending review e il pareggio di bilancio, viene messo tutto in discussione, quando non soppresso, quindi ci troviamo nella contraddizione fatale di non aver più disponibilità economica da un lato, mentre dall’altro siamo costretti a pagare servizi o diritti.
Questa doppia tenaglia, scarsità di reddito da una parte e rimozione di una rete pubblica di protezione dall’altra, produce un processo di polarizzazione agli estremi. Ulteriore aggravio é il fatto che l’ascensore sociale è bloccato, il sistema é rigido e monolitico, castale e fortemente impersonale, non facilmente identificabile ma blindato.
Mentre il mantra ossessivamente ci ricorda che i debiti vanno onorati, chi ha meno deve far sacrifici per chi ha di più.
Anche lo Stato non deve fare eccezioni.
L’abominio più grande é il declassamento dello Stato. Il confronto e il contrasto tra pubblico e privato non viene risolto in modo armonico: quando i ruoli non sono deliberatamente invertiti – il privato che si appropria di ciò che é pubblico, mentre al pubblico viene lasciata la sola intimità morbosa del privato – l’aporia viene rimossa con la soppressione del primo termine. Ciò coincide con il derubricare lo Stato a soggetto privato, svuotandolo del suo aspetto costitutivo, quello pubblico. Lo Stato confiscato, trattato come un qualunque privato, deve rimettere i suoi debiti senza eccezioni, pena il fallimento, piani di risanamento e il commissariamento più forte di ogni democrazia.
Cosi come Marx nella critica agli economisti classici, Smith e Ricardo, intravvede come questi, nel riconoscere nel capitale circolante il giusto recupero del capitale anticipato, nascondano invece come il valore, cioé il plusvalore, nasca dal lavoro non retribuito, dallo sfruttamento, allo stesso modo possiamo ritenere come oggi le Banche Centrali, il FMI, le agenzie di rating, nella loro narrazione di rigore monetario, indicando nel debito il giusto dovuto, nascondano l’espropriazione ai danni degli Stati e dei popoli di ogni libertà politica e civile.
Anche se la conseguenza antropologica della finanziarizzazione dell’economia é stata quella del funambolo, l’uomo sospeso che ha perso ogni sua certezza se non la sua condizione precaria, avanza gradatamente la percezione dell’inganno paradossale e il desiderio per l’uomo di riconquistare la sua centralità e sovranità, così come per lo Stato la sua Res-Pubblica, ma questa è già storia dei nostri giorni.
Lorenzo Chialastri
Aggiornato il 14/12/2018