All’incirca dal mese di novembre, sto scrivendo ripetutamente che il senso politico ultimo della pandemia si è ormai palesato, ch’è visibile a chiunque tranne alla massa di zombie assoggettati alla narrazione dominante.
La pandemia, ho scritto a più riprese, è il terreno su cui si sta giocando la partita dell’ingresso diretto delle multinazionali nella governance tanto globale quanto delle singole nazioni.
Non più influenza e potere d’indirizzo come nei decenni scorsi, ma diretta funzione amministrativa e normativa della sfera pubblica. Tutto questo è ravvisabile nelle trattative in corso fra Stati-nazione e corporation intorno ai vaccini, intorno al tracciamento biometrico, intorno ai social media.
Ed è riscontrabile, altresì e nella formulazione più esplicita possibile, in saggi teorico-strategici quali COVID 19 – The Great Reset di Klaus Schwab.
E questo – ho scritto sempre in questi mesi – è infine il motivo per cui le corporation, fin dall’inizio dell’emergenza ovvero da quasi un anno, stanno ripetendo in maniera martellante, tramite i loro opinion leader e tramite spot pubblicitari, che “non si tornerà più al mondo di prima”, ovvero che il distanziamento sociale rimarrà per sempre.
Infatti, tutte le trattative economico-normative fra governi nazionali e aziende multinazionali volte a far sì che le seconde possano amministrare la società attraverso i propri strumenti tecnologici, sono ancora aperte. Un’eventuale soluzione sanitaria dall’emergenza, manderebbe all’aria tutto.
La necessità di portare avanti la strategia d’ingresso diretto delle corporation nella governance della società, fa dunque sì che l’emergenza debba essere permanente. Questo obiettivo viene perseguito dalle èlite economiche attraverso tre strumenti:
a) attraverso il possesso dei media tradizionali, tutti allineati a costruire una narrazione altamente allarmistica, volta a minimizzare i costi sociali ed economici dei lockdown, impegnata nella criminalizzazione di ogni pensiero dissenziente bollato come “negazionismo”;
b) attraverso il possesso dei social media, volti a tenere sotto controllo e quando è il caso reprimere le posizioni avverse;
c) attraverso la casta dei tele-virologi, ovvero figure tecniche che, facendo da consulenti dei governi e avendo garantita una presenza onnipervasiva sui media, svolgono intermediazione a favore delle corporation e stimolano l’opinione pubblica ad accettare la prospettiva del distanziamento permanente.
Partecipando al World Economic Forum – una partecipazione peraltro anomala e il cui senso politico andrebbe quindi decifrato – Vladimir Putin ha esposto una lettura pressoché identica a quella sopra esposta.
“Ci sono alcuni giganti economici che sono già, de facto, in competizione con gli Stati. Dov’è il confine tra un business globale di successo, servizi richiesti e consolidamento dei big data – e tentativi di governare la società in modo aspro e unilaterale, sostituire istituzioni democratiche legittime, limitare il diritto naturale delle persone di decidere da soli come vivere, cosa scegliere? quale posizione esprimere liberamente?”
Oltre a mettere a fuoco il problema delle multinazionali, Putin ha altresì tracciato un quadro allarmante sostenendo di “sperare che una guerra mondiale non sia possibile in linea di principio” ma che i rischi di uso unilaterale della forza militare sono in aumento e che sussiste dunque il rischio di “un collasso dello sviluppo globale che potrebbe sfociare in una guerra di tutti contro tutti.”
Il discorso di Putin non esprime una prospettiva contro la globalizzazione in quanto tale o anti-liberista bensì manifesta, esattamente come nel caso di Trump, una visione politica che vorrebbe far ancora coesistere paradigma neoliberale e sovranità nazionali.
Il punto è che questa coesistenza, oggi, è probabilmente impossibile.
Per questo, a mio parere, figure come Trump o Putin possono essere ascoltate con interesse in quanto forze ostacolanti e rallentanti determinati processi del capitalismo globalista, ma non essere viste – come spesso accade – come i latori di un’autentica prospettiva di alternativa sociale e sistemica.
Ad ogni modo, un discorso così apertamente contrapposto alla narrazione dominante nei Paesi occidentali, fa inevitabilmente tornare alla memoria un’altra esternazione del presidente russo, ovvero quella pronunciata in occasione del Forum di Valdai nel settembre 2013. In quel contesto, infatti, Putin delineò una visione alternativa ai capisaldi del liberalismo occidentale quali multiculturalismo e superamento degli Stati-nazione.
Pochi mesi dopo quel discorso, gli Stati Uniti e l’Unione Europea promossero la sommossa anti-russa in Ucraina capeggiata dalle formazioni neonaziste e incrementarono i finanziamenti al terrorismo jihadista in Siria, facendo così tornare il mondo alla Guerra Fredda e al riarmo nucleare.
Pertanto, senza bisogno di pensare a una relazione diretta causa-effetto col discorso di Davos, è lecito supporre che, analogamente a quanto accaduto nel 2014, nei prossimi mesi vedremo incrementarsi la campagna dei media occidentali a favore del fascista xenofobo e antisemita Navalny e, soprattutto, assisteremo al preoccupante spettacolo delle fiamme della guerra in Siria che tornano a divampare.
Contrastare in tutti i modi la propaganda anti-russa dei governi e dei media occidentali, dunque, non implica considerare Putin e il sistema di governo russo come un modello da seguire (come invece pensano i cerebrolesi della sinistra o, per ragioni opposte, i rossobruni affascinati dall’autoritarismo).
Significa, invece, comprendere che le stesse èlite che vogliono sottomettere la nuda vita alla tecnologia e gettare fuori dal mercato del lavoro un terzo della popolazione, sono le stesse che vogliono incendiare il mondo con la guerra.
Il campo atlantista occidentale – e soprattutto la parte ideologicamente progressista di quest’ultimo – rappresenta la più grande minaccia per l’umanità dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
E spetta ai popoli che ci vivono – oggi tenuti reclusi e privati dei loro diritti costituzionali – il compito di abbatterlo.
Riccardo Paccosi
donald trump
Il bipolarismo tecnologico
”
“Quando il 6 dicembre 2018 la direttrice finanziaria del gigante cinese Huawei, Meng Wanzhou, figlia del fondatore Ren Zhengfei, venne arrestata a Vancouver, in Canada, in base a un mandato di arresto emesso dagli Stati Uniti per una presunta violazione delle misure di embargo economico all’Iran, il genio uscì definitivamente dalla lampada. La guerra commerciale decretata dall’amministrazione Trump è stata l’utile foglia di fico con cui gli Stati Uniti hanno coperto un ben più cogente obiettivo geopolitico: isolare gradualmente la Cina, frenare l’ascesa tecnologica dell’Impero di Mezzo, ritardarne la scalata in terreni dalle applicazioni decisive per i futuri assetti di potere del pianeta. Vistasi indietro nella gara, Washington ha sdoganato le armi a disposizione: sanzioni commerciali, moniti agli alleati, non a caso divenuti sempre più espliciti poco prima dell’arresto di Meng, a non utilizzare tecnologie cinesi , sfruttamento delle armi del geodiritto, richiamo alla sbandierata “comunità di destino” contro la minaccia posta dalla Cina comunista.
Lo spartiacque del caso Huawei è decisivo, perché da un lato rappresenta il momento in cui lo scontro USA-Cina si fa realmente nuovo bipolarismo e dall’altro rende palese la valenza geopolitica dello scontro al resto del mondo, costringendo, d’altro canto, Washington a rendere palese ciò che negli apparati di potere era già noto, a far cadere la presunta immaterialità e neutralità dei colossi digitali della Silicon Valley, in realtà da sempre intrinseci alle logiche del potere globale statunitense. I campioni nazionali statunitensi sono stati rapidamente arruolati nella guerra a Huawei e al resto dei rivali cinesi. Il mondo della tecnologia, abdicando alla mitologia del paradiso libertario californiano, non può negare il suo sostegno ai programmi governativi, che rappresentano una fetta considerevole dei suoi introiti. La Casa Bianca, per irreggimentare i campioni nazionali statunitensi in una fase di confronto con la Cina, ribadisce la logica della scelta di campo, rilanciando con decisione la matrice statunitense della rete supposta come globale. Invitando i grandi del digitale a una nuova collaborazione con solidi argomenti economici, sotto forma di appalti dal valore di decine di miliardi di dollari e sconti fiscali a tutto campo, il governo federale aggiunge solidi argomenti alla focalizzazione sulla sicurezza nazionale.
(…) Nella tecnologia stiamo dunque parlando di un vero e proprio scenario di matrice bellica, di un conflitto sotterraneo ma continuo che amplifica gradualmente la faglia tra Stati Uniti e Cina, provocando da un lato la costruzione di paradigmi tecnologici paralleli a mano a mano che l’innovazione avanza in forma divergente sulle due sponde del Pacifico; e, dall’altro, producendo un contesto caotico che vede Washington estrarre su scala globale rendite di posizione dall’attuale egemonia dei suoi colossi digitali (Google, Amazon, Facebook e Apple gestiscono ancora l’80% dei dati su scala globale) e Pechino creare, gradualmente, i più efficaci standard del futuro.”
Dall’omonimo articolo a firma di Andrea Muratore, in Eurasia. Rivista di studi geopolitici n. 4/2020, pp. 123-125.
Trump, la bioetica e un affare chiamato Guantanamo
18 anni dopo la sua apertura, il più infame dei “Luoghi Oscuri” e delle carceri infernali che gli USA possiedono nel mondo, è ancora aperto e Donald Trump promette di riportarlo alla sua “gloria” di un tempo e riempirlo di “cattivi soggetti”. Per questo il presidente USA ha eliminato, nel 2017, l’Ufficio dell’Inviato Speciale per la Chiusura di Guantanamo creato da Obama, e nel 2018 ha firmato un ordine esecutivo per mantenerlo aperto.
“Io ci farei qualcosa di molto peggio che il ‘sottomarino’ [l’annegamento simulato]…. Non ditemi che non funziona, la tortura funziona .. e anche se non funzionasse, se la meritano in ogni modo, per quello che ci stanno facendo” disse Trump quando era candidato, e una volta presidente nominò la coordinatrice delle sessioni di tortura in uno di questi “luoghi” statunitensi in Thailandia, la signora Gina Haspel, a capo della CIA. Continua a leggere
Missione compiuta
Il dibattito tra Trump e Biden ha finalmente attestato che la missione è compiuta: il degrado della politica democratica – anche ai suoi massimi livelli internazionali – è giunta ad un livello finora ignoto alle scimmie antropoidi.
Il dibattito, che da tempo era ridotto a una performance teatrale con copioni stantii e attori di terza scelta, ora è passato d’un tratto allo stadio di un litigio prescolare tra bambini non troppo brillanti.
E naturalmente in ciò non c’è niente di casuale.
Si tratta dell’esito di una combinazione di fattori esaminabili a tavolino, e presenti in tutte le democrazie avanzate.
1) Idiocrazia.
La rinuncia definitiva degli Stati democratici al tentativo di portare il popolo sovrano all’altezza dei problemi del proprio tempo sta al primo posto.
Siccome per affrontare una questione del genere bisognerebbe impiegare vaste risorse, economiche e di ingegno, per implementare un sistema di educazione pubblica permanente, la soluzione economicamente ottimizzante è stata invece dichiarare che il popolo non aveva bisogno di nessuna educazione, e che chi dice il contrario è uno sciagurato paternalista antidemocratico.
Come ovvio e necessario risultato la ‘semplificazione per venire incontro al popolo’ non ha nessun pavimento, nessun livello terminale, e procede fino alla totale abolizione di ogni contenuto.
2) Mediocrazia.
In secondo luogo, – dipendente dal primo – il peso crescente delle attività propagandistiche basate sull’immagine, che hanno il vantaggio dell’immediatezza comunicativa, dell’estensione numerica massiva e di non richiedere come controparte soggetti capaci di leggere, scrivere e far di conto.
Si tratta di un sistema che quando funziona al meglio delle proprie capacità seleziona guitti dalla battuta pronta. (Ma raramente funziona al meglio, perché anche per riconoscere un buon attore ci vuole uno spettatore decente.)
3) Plutocrazia.
In terzo luogo, – dipendente dal secondo – la necessità, per competere nella contesa pubblicitaria e mediatica, di poter contare su poderosi finanziamenti. Ciò garantisce che chiunque si presenti a competere sia necessariamente lì in prioritaria rappresentanza di potenti interessi economici (personali e/o di lobby).
L’insieme di queste tre principali condizioni garantiscono con matematica certezza che la democrazia contemporanea si spenga ignominiosamente, ridotta in definitiva ad una contesa rabbiosa e caotica tra una moltitudine di gruppi di pressione economici. Un passo indietro rispetto alle più ottuse oligarchie.
Andrea Zhok
L’”Apocalypse Now” di Hollywood
I ricchi e famosi stanno fuggendo a frotte poiché i politici liberali ed il coronavirus trasformano la Città dei Sogni in un letamaio invaso da tossicodipendenti e violenti criminali
Di Caroline Graham per The Mail On Sunday, 15 agosto 2020
La palestra “Gold’s Gym” è diventata sinonimo del Sogno di Hollywood.
Situata a pochi metri dall’oceano nella soleggiata Venice Beach, Los Angeles, la palestra Gold’s Gym faceva da sfondo per Pumping Iron, il documentario del 1977 che seguiva un giovane sconosciuto culturista austriaco chiamato Arnold Schwarzenegger durante la sua preparazione alla gara di Mister Universo.
Il film lo proiettò a un successo immediato. Sarebbe poi diventato una superstar globale, sposato una donna del clan Kennedy, ed eletto governatore della California.
Ma oggi la palestra “Gold’s Gym” è nel mezzo di scene post apocalittiche che si sono consumate per lo più a Los Angeles, trasformando la Città dei Sogni in un incubo urbano dal quale la gente sta fuggendo a frotte.
Una città di tende improvvisate fatte di teloni sventolanti e scatoloni di cartone circonda la palestra da tutti i lati.
Tossicodipendenti e senzatetto, molti dei quali chiaramente malati mentali camminano come zombie lungo le strade fiancheggiate da palme – il tutto a pochi isolati dalle case multimilionarie con vista sul Pacifico.
Biciclette rubate sono ammucchiate a pile sui marciapiedi disseminati di siringhe rotte.
I telegiornali sono pieni di storie dell’orrore da tutta la città, di donne che sono attaccate mentre la mattina fanno jogging o di residenti che ritornando a casa si ritrovano degli estranei che defecano nel loro giardino.
Oggi, Los Angeles è una città sull’orlo del precipizio. Cartelli con scritto “In vendita” sono a quanto pare disseminati su ogni strada periferica poiché le classi medie, in particolare quelle con famiglia, fuggono verso sobborghi più sicuri, con molte che scelgono di lasciare del tutto Los Angeles. Continua a leggere
Millie Weaver e lo Shadow Gate
Con le accuse di furto e violenza domestica, la documentarista statunitense di area conservatrice Millie Weaver e suo marito sono stati arrestati lo scorso 14 agosto, poche ore prima della prevista pubblicazione di Shadow Gate, nel quale ella mostra gli elementi di una manovra orchestrata dai partiti Democratico e Repubblicano per destituire il presidente Donald Trump.
Il video del documentario-bomba è consultabile ai seguenti collegamenti:
– bigchute.com
– brighteon.com
– banned.video
Aggiornamento del 19 agosto 2020
Millie Weaver è stata rilasciata senza pagamento di cauzione, lunedì 17, come risulta dagli atti giudiziari.
Causa dell’arresto subito sarebbe stata una lite con la madre risalente alla scorsa primavera, durante la quale quest’ultima, temporaneamente ospitata dalla figlia dopo la chiusura del proprio posto di lavoro per l’emergenza sanitaria, avrebbe subito violenza.
Allo stato attuale, quindi, non risultano oggettivi legami dell’arresto con l’attività politico-culturale svolta dalla Weaver.
Il suo documentario è comunque stato rimosso dai canali YouTube e Facebook dove era stato inizialmente reso disponibile, in quanto considerato “hate speech”.
Oltre la sudditanza psicologica
“La dismisura, il gigantismo della tecnica che sovrasta e schiaccia la natura, la violenza predatoria, sono i fondamenti della società nordamericana. Dunque, non dovrebbero affatto sorprendere i metodi utilizzati dalle forze di polizia per garantire un ordine che si fonda sul monopolio dell’uso della violenza. Non dovrebbe neanche sorprendere il sistema del “due pesi due misure” con il quale i mezzi di informazione ed i vertici politici dell’“Occidente” a guida nordamericana si rapportano alle manifestazioni di protesta negli Stati Uniti o a quelle di Hong Kong, così come in qualsiasi altro Paese “non allineato”.
Uno degli effetti indubbiamente più deleteri degli oltre sette decenni di occupazione militare dell’Europa da parte di Washington è senza ombra di dubbio quello status mentale che porta a considerare ciò che avviene nel centro pseudoimperiale come qualcosa di determinante anche per la sua periferia. La sudditanza psicologica nei confronti degli Stati Uniti è arrivata ad un punto tale da scatenare vere e proprie tifoserie che sostengono le parti opposte nello spettacolo elettorale della democrazia americana, nella speranza che la vittoria dell’una o dell’altra possa per lo meno garantire un qualche miglioramento nella comunque ben accetta condizione di sottoposto.
Tale condizione ha subito un forte processo di estremizzazione nel corso delle elezioni presidenziali del 2016, che hanno portato alla vittoria del magnate Donald J. Trump, arrivata comunque in un momento di declino per la potenza talassocratica.
In questo contesto non si vuole in alcun caso riportare l’ormai stucchevole spettacolarizzazione propagandistica della lotta tra il Presidente ed il cosiddetto “deep state”. Chiunque abbia un minimo di familiarità con i meccanismi di potere nordamericani sa perfettamente che esiste un complesso industriale-politico-militare che persegue delle finalità geopolitiche e si muove in determinate direzioni, a prescindere da chi stia al vertice dell’impianto. Lo stesso processo di privatizzazione del Pentagono ha creato un sistema di contrattazione militare privata che si nutre di conflitto, ricavando da questo immani profitti. Basti pensare che, in piena pandemia, Washington ha votato contro una risoluzione ONU per il congelamento dei conflitti e delle sanzioni.
In questo senso l’attuale costruzione di una nuova retorica bipolare (in cui la Cina è presentata come un nuovo impero del male), oltre a garantire a Washington quel ruolo di guida democratica del “mondo libero” che gli USA non potrebbero permettersi di assumere in una condizione di multipolarità, serve essenzialmente a mantenere tale sistema in costante tensione.
Viene spesso enfatizzato il fatto che l’amministrazione Trump non ha scatenato alcun nuovo conflitto. Questa affermazione non trova alcun riscontro nella realtà geopolitica. In primo luogo, è un dato di fatto che le “guerre commerciali” sono guerre a tutti gli effetti e spesso rappresentano il preludio a più articolate azioni militari. In secondo luogo, ciò che ha impedito nuove azioni militari non è stata l’elezione di Trump, ma il rafforzamento dell’alleanza strategica tra Mosca e Pechino (fattore che aveva già spaventato la precedente amministrazione), la quale ha da subito lasciato intendere le sue posizioni, ad esempio, nel caso venezuelano e in quello iraniano. Lo stesso trumpismo, tra l’altro, non è affatto estraneo all’istinto eccezionalista che vorrebbe modellare il mondo a immagine e somiglianza degli USA. Si pensi, a questo proposito, al progetto di matrice bannoniana della New Federal China: ovvero l’idea di fare della Cina, liberata dal governo del PCC, una sorta di nuova CSI (la Comunità di Stati Indipendenti che soppiantò l’URSS dopo il suo crollo).
Quella che è stata definita come violenza predatoria (il saccheggio delle risorse petrolifere in Siria, ad esempio) è, di fatto, ciò che continua a garantire agli Stati Uniti una forza egemonica sufficiente per mantenere il dominio coloniale su un’Europa che ha rinunciato da tempo tanto alla volontà quanto alla decisione. Aspetti che hanno invece caratterizzato la sua tradizione politica prima del totale asservimento all’“Occidente”.
Ora, se l’Europa, in uno slancio di ritrovata autostima, volesse provare a riconquistare la propria sovranità, il primo passo da compiere sarebbe necessariamente l’identificazione del proprio nemico esistenziale e geopolitico. Questo nemico è l’America.”
Da Il nemico è l’America, di Daniele Perra.
Gli “zii d’America”
“Pochi casi più della presente convergenza sulla Cina aiutano a capire quanto la presunta incompatibilità tra Soros e Bannon sia una narrazione strumentale: i due rappresentano le principali manifestazioni della proiezione oltre Atlantico degli interessi strategici USA.
Soros, da un lato, protagonista già a partire dagli anni Ottanta di assidue campagne di finanziamento volte a erodere il terreno ai regimi comunisti dell’Est Europa, è portavoce e capofila dell’ala liberal-progressista del mondo a stelle e strisce. Un’ala, con relativi apparati, gruppi d’influenza e cordate politiche, favorevole a difendere lo status quo e la narrazione della globalizzazione in quanto estremamente favorevole al mantenimento della supremazia e della centralità statunitense nel mondo. Capace di portare avanti un’agenda ideologica (in cui l’apertura delle frontiere al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali sono molto spesso sottovalutate rispetto al più visibile sostegno alla libera circolazione degli uomini) che ha preso piede soprattutto nella Sinistra europea in cerca di punti di riferimento dopo la caduta del Muro e l’avvio della globalizzazione.
Bannon, invece, rilancia in tono “sovranista” la narrazione che aveva già animato l’azione degli Stati Uniti ai tempi dell’egemonia dei gruppi neoconservatori nell’epoca di George W. Bush. Dunque: occidentalismo spinto, esaltazione del legame con alleati come Israele contro un mondo, quello islamico, ritenuto compatto nella sua incompatibilità con l’Occidente; critica formale alla globalizzazione in nome del primato dell’interesse americano (il famoso “America First” di Trump) senza la sostanziale volontà di stravolgere la governance mondiale; rilancio delle culture wars contro la presunta egemonia dell’ideologia del “politicamente corretto”; sdoganamento dell’ideologia economica neoliberista. Un’ideologia che Pietrangelo Buttafuoco ha definito una “minestra revotata dei neo-con occidentalisti”.
Soros e Bannon rappresentano dunque due diverse anime degli apparati di potere americani, in certi momenti estremamente duri nel loro confronto e nella loro dialettica (la fase attuale non fa eccezione), ma concordi sul nocciolo duro dell’interesse nazionale statunitense, ovvero il mantenimento del controllo geopolitico sull’Europa e la lotta contro qualsiasi forma di potere esterno capace di sfidare l’egemonia americana nel mondo. La comune critica alla Cina segnala la salda convinzione dei decisori strategici di Washington che sia arrivato il tempo di iniziare a capire come regolare i conti con Pechino. E in questa campagna gli USA hanno bisogno dell’Europa come alleato fedele, non tentato da cedimenti all’Impero di Mezzo.
(…) Soros e Bannon sono gli “zii d’America” che hanno offerto al mondo politico europeo fondi, propulsione ideologica e organizzazione per strutturare una nuova dialettica. Nel caso di Bannon il risultato è stato addirittura più radicato, in quanto l’ex consigliere di Donald Trump è riuscito a impiantare in Europa un’ideologia che ha, nelle sue priorità, diverse assonanze con l’interesse nazionale dell’amministrazione USA: essa, infatti, dal sovranismo incassa la destabilizzazione dell’Unione Europea, nell’ottica del divide et impera, un avvicinamento all’asse costruito in Medio Oriente con Israele e Arabia Saudita e, ora, la dura e profonda critica alla Cina. Condivisa da Soros, che nell’evoluzione in senso gradito a Pechino della globalizzazione avrebbe da perdere in influenza assieme alla sua ala politica di oltre Atlantico.
Il problema di fondo è la debolezza politica dell’Europa: continente incapace di produrre spinte ideologiche o politiche propulsive, sviluppi innovativi o idee da portare al grande dibattito mondiale, ma anche di esercitare la minima influenza sui decisori dell’ordine mondiale. Soros o Trump, Bannon o Xi che sia, l’Europa è sempre vista come oggetto, e non come soggetto, delle dinamiche internazionali. E questo certifica più di ogni altra considerazione il declino del Vecchio Continente.”
Da Come mai Soros e Bannon la pensano uguale sulla Cina?, di Andrea Muratore.
La battaglia esistenziale per gli Stati Uniti
“I turbolenti anni venti sono iniziati con il botto dell’assassinio mirato del generale iraniano Qasem Soleimani.
Eppure un botto più grande ci attende per tutto il decennio: la miriade di declinazioni del Nuovo Grande Gioco in Eurasia, che mette gli Stati Uniti contro la Russia, la Cina e l’Iran, i tre principali nodi dell’integrazione dell’Eurasia.
Ogni atto rivoluzionario in geopolitica e geoeconomia nel prossimo decennio dovrà essere analizzato in relazione a questo epico scontro.
Lo Stato profondo e i settori cruciali della classe dirigente americana sono assolutamente terrorizzati dal fatto che la Cina stia già superando economicamente la “nazione indispensabile” e dal fatto che la Russia abbia superato militarmente gli USA. Il Pentagono designa ufficialmente i tre nodi eurasiatici come le principali minacce “minacce”.
Le tecniche di guerra ibrida – che portano alla demonizzazione integrata del 24/7 – prolifereranno con l’obiettivo di contenere la “minaccia”, l ‘”aggressione” russa e la “sponsorizzazione del terrorismo” dell’Iran. Il mito del “libero mercato” continuerà ad affogare sotto l’imposizione di una raffica di sanzioni illegali, eufemisticamente definite come nuove “regole” commerciali.
Eppure questo non sarà abbastanza per far deragliare il partenariato strategico Russia-Cina.
(…) Il colonnello in pensione dell’esercito americano Lawrence Wilkerson, capo di Stato Maggiore di Colin Powell dal 2001 al 2005, si lancia all’inseguimento: “L’America esiste oggi per fare la guerra. In che altro modo interpretiamo 19 anni consecutivi di guerra e senza fine in vista? Fa parte di quello che siamo. Fa parte delle caratteristiche dell’impero americano.
Mentiremo, imbrogliamo e ruberemo, come sta facendo Pompeo in questo momento, come sta facendo Trump in questo momento, come sta facendo Esper in questo momento… e una miriade di altri membri del mio partito politico, i Repubblicani, stanno facendo proprio ora. Mentiremo, imbrogliamo e ruberemo per fare qualunque cosa dobbiamo fare per continuare questo complesso bellico”, come loro stessi hanno affermato. Questa è la verità. E questa è la sofferenza
Mosca, Pechino e Teheran sono pienamente consapevoli della posta in gioco. Diplomatici e analisti stanno lavorando alla tendenza, per il trio, di sviluppare uno sforzo concertato per proteggersi l’un l’altro da tutte le forme di guerra ibrida – sanzioni incluse – lanciate contro ognuna di esse.
Per gli Stati Uniti, questa è davvero una battaglia esistenziale – contro l’intero processo di integrazione dell’Eurasia, le Nuove strade della seta, il partenariato strategico Russia-Cina, quelle armi ipersoniche russe mescolate con una diplomazia flessibile, il profondo disgusto e la rivolta contro le politiche statunitensi in tutto il Global South, il quasi inevitabile crollo del dollaro USA. Quel che è certo è che l’Impero non andrà tranquillamente nella notte. Dovremmo essere tutti pronti per la battaglia dei secoli.”
Da Gli Stati Uniti sono in una battaglia epocale per fermare l’integrazione dell’Eurasia, di Pepe Escobar.
Buone vacanze a tutti
“A meno di eventi eccezionali al momento del tutto imprevedibili, Matteo Salvini diventerà prima o poi presidente del Consiglio con una maggioranza di destra, Lega, Fratelli d’Italia e frattaglie di Forza Italia. Non essendoci in campo, né all’orizzonte, neppure l’ombra di un’attendibile opzione alternativa, Salvini può aumentare i suoi consensi pescando in tutti i bacini elettorali: a destra come a sinistra, fra i pro-euro e gli anti-euro, fra la tradizionale Lega secessionista del Lombardo-Veneto che vuole più “autonomia” cioè danè, schei, e la nuova Lega clientelare sudista, fra coloro che desiderano tanti immigrati per abbassare sempre più il costo del lavoro e quelli che vorrebbero invece fermare l’invasione…
Insomma, Salvini è in una botte di ferro, magistratura consentendo e nonostante le contraddizioni del composito blocco sociale che lo sostiene. E questo accade perché può godere di un vitalizio politico infinito, frutto della coglionaggine dei suoi “avversari”, la cosiddetta “opposizione” che è diuturnamente impegnata a fornirgli incredibili assist. I più indefessi attivisti leghisti stanno proprio a “sinistra”, e infatti educatamente, con un sorriso, Salvini sovente li ringrazia mandando “bacioni” a chi lo insulta o lo contesta dandogli del “fascista, nazista, razzista, populista, xenofobo …”. Afferma Marco Travaglio: “Ogni volta che si accosta Salvini a Mussolini gli si fa un favore perché l’unico che avrebbe piacere a essere scambiato per Mussolini è Salvini” (Tagadà, 13 giugno). E, come hanno sommessamente notato anche il sociologo Domenico De Masi e l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli, ogni ONG che forza il blocco e sbarca immigrati in Italia nel tripudio della “sinistra” regala un punto percentuale in più nei sondaggi alla Lega. Per fermare almeno temporaneamente l’avanzata di Salvini non resta ormai che seguire le previsioni meteo e sperare che il maltempo freni le partenze dalle coste africane.
(…) L’immigrazione non è “un’arma di distrazione di massa”, come si sostiene ancora oggi a “sinistra”, di cui si serve Salvini per nascondere la corruzione nel suo partito, per distogliere l’attenzione dai temi economici e dalle inchieste della magistratura sui finanziamenti alla Lega. Non c’è più bisogno di sotterfugi. Ormai il popolo italiano si è assuefatto all’illegalità, anzi ognuno nel suo piccolo ci sguazza, ha imparato a convivere con la corruzione, con le varie mafie, o con quelle che pudicamente vengono declassate a lobby; non gli importa nulla se i partiti si finanziano con rubli o dollari. Con la fame di lavoro e di salario che c’è, il popolo italiano non sta neppure a sottilizzare se il lavoro creato con fondi pubblici è utile al Paese o no. L’illegalità, la corruzione e le mafie sono il principale motore di sviluppo del Paese. L’avventura di Virginia Raggi a Roma dimostra che inimicandosi le mafie la macchina municipale stenta a funzionare, s’inceppa, fra boicottaggi, piccole e grandi truffe ai danni dell’amministrazione, bandi che vanno deserti , l’esercito che presidia qualche sito della monnezza e la stampa tutta di proprietà delle lobby che spinge per far tornare in Comune i cari vecchi partiti da sempre loro complici. Gli scandali che colpiscono la Lega, dove le varie lobby hanno già spostato i loro uomini, non scalfiscono minimamente la sua lenta, ma inesorabile avanzata nei sondaggi.
L’immigrazione, assieme al lavoro e al welfare, è da tempo, volenti o nolenti, il tema dei temi, non solo in Italia. Le tre materie sono fra loro strettamente collegate. Non sono venute per caso le vittorie del repubblicano Trump negli USA o di Farage (Brexit Party) in Gran Bretagna che, al contrario della “sinistra” che a ogni latitudine vuole accogliere tutti i migranti, promettevano di proteggere la manodopera autoctona. Interessante il caso della Danimarca dove il 5 giugno scorso si è votato per il rinnovo del Parlamento. Un risultato sorprendente, in controtendenza: i cosiddetti “populisti” (Partito del Popolo Danese) perdono la metà dei voti. Vincono i socialdemocratici che in campagna elettorale promettono però “una linea meno permissiva sui migranti”. La vincitrice Mette Frederiksen dichiara: “Al primo posto rimetteremo il welfare, il clima, l’educazione, i bambini, il futuro”; in netto contrasto con le ragioni fondative dell’Europa di Maastricht nata invece per adeguare il capitalismo europeo a quello USA, innanzitutto con il ridimensionamento o l’abolizione del welfare.
Questo rovesciamento della rappresentanza dei ceti sociali – la destra che difende gli interessi dei lavoratori autoctoni (ad esempio Marine Le Pen in Francia), mentre tutta la sinistra (partiti, centri sociali e troika sindacale) è allineata sulle posizioni di mafie e lobby, ne sposa le esigenze di manodopera schiavile a basso costo partecipando attivamente in vario modo alla deportazione dall’Africa – non è una novità delle ultime tornate elettorali.
(…) Se, invece, si pensa che il fenomeno migrazioni merita complessivamente un giudizio negativo, se si ritiene che la globalizzazione capitalista non è irreversibile, che le migrazioni non sono inarrestabili, che da questi fenomeni c’è chi ci guadagna, ma la stragrande maggioranza delle popolazioni ne esce sconfitta, più povera, allora si aprono praterie politiche sconfinate, territori inesplorati soprattutto per una sinistra che volesse collocarsi a sinistra. Si prenda ad esempio il Mezzogiorno d’Italia, da sempre terra di emigranti, dove oggi si assiste a una fuga di massa soprattutto dei suoi giovani: “Così radicale, estesa, imponente la fuga da poter essere considerata la terza ondata migratoria dopo quella dei primi del ‘900 verso le Americhe, del secondo dopoguerra verso la Germania e Milano del miracolo economico o Torino di mamma FIAT (…) Non più solo cervelli in fuga, la cui formazione è comunque costata 30 miliardi di euro alle casse pubbliche, ma anche camerieri in fuga, dentisti in fuga, tubisti, saldatori, operai generici, infermieri, insegnanti delle elementari, autisti, baristi, pizzaioli. Un intero popolo scomparso così folto che gli arrivi degli immigrati, o di coloro che ritornano a casa, non riescono a compensare. Il saldo demografico è paurosamente negativo. 783.511 italiani (che sono parte di quei quasi due milioni di migranti) che hanno avviato le pratiche per i cambi di residenza o nuovi passaporti, di cui 218.771 in possesso della laurea. Dal Sud è fuggita, persa ai radar, la meglio gioventù: mezzo milione di giovani (564.796 per la precisione) di cui 163.645 laureati. (Antonello Caporale, Quasi due milioni via dal Meridione, e mezza Italia sta diventando un deserto, Millennium, novembre 2018). Un Paese che costringe i suoi giovani più preparati a fuggire all’estero per trovare un lavoro e uno stipensio che consenta di vivere, ma che ha bisogno di importare raccoglitori di pomodori a due euro l’ora, è una colonia, un Paese fallito.
Prosegue Caporale, che si basa sul rapporto SviMez dell’agosto 2018: “Oltre il Garigliano i paesi cadono come foglie in autunno. Scompaiono silenziosamente e nell’indifferenza, il conto lo tiene l’ISTAT che stila periodicamente la lista dei morituri: a oggi sono più di 1.650 i Comuni colpiti da un abbandono che s’annuncia definitivo, una morte triste e non più lenta che nei prossimi anni si gonfierà di altre vittime e presto certificheremo la desertificazione. (…) Un quinto dei Comuni italiani è infatti in cammino verso il nulla, un sesto della superficie nazionale resterà disabitata. Mura cadenti, pietre rotolate giù e rovi, solo rovi. Sarà il cimitero la nuova dimensione di questo svuotamento che infragilisce fino a consumarla tutta la colonna vertebrale del Paese, la linea montuosa centrale costellata fino a due decenni fa di villaggi, di comunità, insomma di vita, che invece cederà alla morte per via della fame che l’attanaglia. (…) Né capannoni né vacche, né sviluppo industriale né agricoltura sostenibile. Né strade, né treni. Tolti, tagliati, inutilizzati più di 6.000 km di ferrovia, il treno, da vettore economico e popolare, si è via via trasformato nel costoso ed efficiente connettore dell’Italia ricca, nella direttrice verticale tra le grandi città. Il Frecciarossa è il simbolo di un’Italia che ha scelto non due, ma una sola velocità. Biglietti alti, ma puntualità quasi sempre garantita per quelli che ce la fanno. Poi la seconda classe nel resto del Paese, specialmente al Nord, un reticolo di tratte per i pendolari mal tenute e mal gestite, mentre al Sud – terza classe – semplicemente il nulla”.
Come facilmente si intuisce, le migrazioni sono un furto. Perpetrato da tutti i Nord del mondo ai danni dei Paesi eternamente in via di sviluppo che permarranno sempre tali se rapinati continuamente delle loro risorse naturali, se privati soprattutto delle migliori risorse umane di cui dispongono. Da decenni l’Africa produce i migliori atleti, i migliori calciatori del mondo di statura fisica e tecnica eccezionale, ai quali però lo Stato colonizzatore offre subito la naturalizzazione: la nazionale francese di calcio è diventata campione del mondo di calcio nel 2018 con più della metà dei titolari di origine africana naturalizzati o diventati francesi attraverso lo ius soli. E così nessun Paese africano, nonostante i suoi ottimi calciatori, è mai riuscito a diventare campione del mondo. Non riesco ad immaginare che succederebbe in Africa se ciò accadesse.
Negli anni 60 e 70 dello scorso secolo c’erano i cosiddetti “movimenti terzomondisti” che appoggiavano le lotte anticoloniali di liberazione nazionale dei popoli del cosiddetto “Terzo Mondo”. Erano l’anima della sinistra. Oggi invece nel pantheon della “sinistra” ci sono Carola e le ONG. Oltre che democristiani, ho la certezza che moriremo anche leghisti. Buone vacanze a tutti.”
Da Salvini per sempre, di Cesare Alllara.
Trump e i guerrafondai della NATO proclamano la pace
Finian Cunningham per rt.com
Durante la ricorrenza del 75° anniversario dell’assalto degli Alleati alla Francia occupata dai nazisti, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e gli altri leader della NATO hanno emesso un “Proclama del D-Day”. In suo nome, si sono impegnati a “non ripetere mai più l’orrore della seconda guerra mondiale”.
Gli Stati Uniti e altre 15 nazioni, tra cui Gran Bretagna, Francia e Canada, hanno anche dichiarato il loro impegno a “risolvere pacificamente le tensioni internazionali”.
Se il cosiddetto annuncio del D-Day suona come un carico di sciocchezze, è perché lo è.
Appare evidente che sia stato frettolosamente messo insieme a scopo rasserenante mentre Trump e gli altri commemoravano l’Operazione Overlord al suono di una banda di ottoni dell’esercito e l’inno dei tempi della guerra di Vera Lynn “We’ll meet again”. I nobili sacrifici di soldati e civili nella sconfitta del nazifascismo avrebbero dovuto ricevere qualche segno di decoro sotto forma di un proclama di pace, così sembra.
Tuttavia, la proclamazione di Trump e della sua banda di guerrafondai della NATO deve essere considerata nient’altro che una cinica adesione di facciata. Continua a leggere
Ci venderanno la moto ma non ci lasceranno mai salire sui loro yachts
“Sono passati 24 anni dalla prima edizione del libro Come ci vendono la moto (sottotitolo “Informazione, concentramento e potere dei media”, n.d.t.) di Noam Chomsky e Ignacio Ramonet. Il giorno per giorno continua a dimostrarci insistentemente che l’industria di vendita di moto truccate è sempre in auge e che ha molti acquirenti.
Il caso della Repubblica Bolivariana del Venezuela è solo uno in più nell’universo della distorsione dell’informazione. In effetti i messaggi che annunciatori, opinionisti, politici, governi e altri rappresentanti della borghesia stanno riversando in questi giorni non sorprendono per nulla. Fanno arrabbiare, ma non sono niente di nuovo. Devono vendere la loro moto, il loro prodotto, in questo caso la re-instaurazione di un modello neoliberista al servizio del capitale, avvolto nella carta della democrazia e della libertà.
Preoccupano di più, invece, la maggioranza disposta a comprare questo prodotto e a fare propaganda gratuita per esso, cercando di convincere i suoi simili della necessità e della bontà della moto truccata, ripetendo all’infinito gli slogans pubblicitari della casa commerciale. E, più ancora, quando queste persone si dicono progressiste e preoccupate dei problemi della società e del mondo.
L’acquirente di moto truccate parla del regime di Maduro, del suo governo autoritario e dittatoriale, e ripete senza fine che sono necessarie elezioni libere. Ma non si è scomodato a verificare come si sono svolti i processi elettorali in Venezuela negli ultimi vent’anni e come il chavismo abbia vinto 19 competizioni elettorali ed un referendum revocatorio e ne abbia perso solo due, alla presenza di osservatori internazionali che hanno garantito tali processi elettorali.
Non si è scomodato neppure a verificare la percentuale di appoggio ottenuto nelle elezioni del 2018 da Maduro tra i votanti (67,8%) e sui votanti in totale (44,5%); percentuali maggiori di quelle di Trump (46,09% e 27,2%), Duque – Colombia (54,0% e 28,7%), Macri – Argentina(51,3% e 40,4%), Bolsonaro – Brasile (55,13% e 39,23%), Rajoy – Spagna (33,0% e 21,7%) o Urkullu – Spagna (37,36% e 22,3%), nelle loro rispettive ultime elezioni.
Il fatto è che informarsi esige di disturbarsi a farlo, ed è sempre più facile e comodo ripetere frasi semplicistiche. Conoscere la realtà, cercare di informarsi al di là degli slogans di 20 secondi, dei messaggi di Twitter o dei video di provenienza sconosciuta distribuiti dalle reti social, mette allo scoperto nuovi aspetti da considerare, genera dubbi e mette in discussione letture categoriche.
E’ più comodo, produce meno contraddizioni e meno insicurezza far partire la moto truccata e circolare con essa, nonostante non si sappia bene chi ce l’ha venduta, se le caratteristiche tecniche sono realmente quelle che ci hanno detto e se ci porterà dove dobbiamo andare.”
Venezuela: compratori di discorsi altrui, di Iñaki Etaio continua qui.
#WeAreMADURO
“L’investitura di Nicolas Maduro, il 10 gennaio, provoca turbolenze politiche e mediatiche. Ri-eletto il 20 maggio del 2018, il presidente del Venezuela affronta un’operazione pianificata e concertata dagli Stati Uniti e i suoi alleati. Prendendo come pretesto iniziale le condizioni elettorali che hanno portato alla vittoria di Maduro, un pugno di governi, dipintosi per l’occasione come “comunità internazionale”, attraverso le multinazionali della comunicazione, hanno deciso di aumentare la pressione sul Venezuela Bolivariano.
Come da consuetudine nel caso del Venezuela, gran parte della comunicazione su larga scala si impegna felicemente in false notizie dimenticandosi del vero significato dell’etica giornalistica.
È opportuno per il lettore scrupoloso e desideroso di separare la verità dal falso, esporre i fatti e tornare alle condizioni dell’elezione di Maduro, analizzando la strategia di Washington per punire un popolo che, da 20 anni, è stato giudicato troppo ribelle e scomodo.”
Capire la nuova offensiva contro il Venezuela, di Romain Migus continua qui.
Verità e sovranità
Da quando Donald Trump è divenuto presidente degli Stati Uniti, la destra italiana si è riscoperta «sovranista», facendo intendere che vuole difendere la sovranità nazionale senza, però, specificare da chi.
Non lo può dire perché il «sovranismo» è la mera reiterazione dello slogan di Donald Trump, è quindi l’ennesima dimostrazione di sudditanza psicologica e politica della destra nei confronti dell’alleato-padrone.
Invece, la sovranità nazionale è l’obiettivo primo di quanti si propongono di restituire l’Italia agli Italiani è per raggiungerlo l’ostacolo primo da rimuovere è rappresentato dalla politica coloniale degli Stati Uniti nei nostri confronti.
Come può l’Italia riacquistare la propria sovranità nazionale?
In un modo solo: uscire dopo 73 anni dal tunnel della sconfitta militare del 1945.
Sul finire del 2018, possiamo prendere atto che la classe politica dirigente imposta dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale all’Italia sconfitta è quasi scomparsa per un fisiologico ricambio generazionale, così che diviene possibile confrontarsi con la storia nazionale post-bellica.
Non sarà agevole perché non ci sono segnali da parte della classe politica italiana della volontà di percorrere a ritroso il cammino fatto dall’Italia sotto il dominio assoluto degli Stati Uniti per comprendere che siamo ancora una colonia americana.
Si può prendere coscienza di questa amara realtà ristabilendo la verità storica su quanto è accaduto nel nostro Paese perché è dalla sua affermazione che sarà possibile, per tutti gli Italiani, riconoscere che la prima conseguenza della sconfitta militare è stata proprio la perdita della sovranità nazionale, della dignità nazionale, della libertà di tutti e di ognuno a prescindere dallo schieramento ideologico nel quale si sono trovati a militare.
La verità è una sola, senza aggettivi, perché non può esistere una verità giudiziaria, una storica, una politica.
La verità si può raggiungere sia attraverso le indagini su episodi specifici svolte dalla magistratura, sia per mezzo delle ricerche fatte dagli storici ma tocca ai dirigenti politici – i soli che ne hanno i mezzi – la decisione di aprire gli archivi segreti dello Stato e di imporre a ufficiali, funzionari, dirigenti dei vari ministeri chiave (Esteri, Difesa, Interni) e della presidenza del Consiglio di dire quello che sanno.
In questo modo si potrà leggere la storia italiana senza ricorrere ai «distinguo» che la costellano per mantenere separati i fatti come se fossero avulsi dal loro contesto.
Non si possono, difatti, presentare le stragi di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 e quella di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974, come ispirate a una logica diversa da quella di un anticomunismo che si era preposto di utilizzare ogni mezzo per bloccare la lenta ma inesorabile avanzata elettorale del PCI, ritenuto nel 1947 e nel 1974 la «quinta colonna sovietica» in Italia.
Non sarà più possibile non collegare il piano predisposto nel giugno del 1964 per una manifestazione indetta a Roma dalle forze anticomuniste, primo il Movimento Sociale Italiano, destinata a degenerare in sanguinosi incidenti per fornire ai politici del tempo il pretesto per far intervenire le Forze armate e i Carabinieri, con quello poi attuato nel mese di dicembre del 1969 che prevedeva, dopo le stragi del 12 dicembre, una manifestazione missina a Roma con l’identico fine del giugno 1964.
Sappiamo che nell’estate del 1964 fu il generale Giovanni De Lorenzo a opporsi al piano che trova implicita ma chiara conferma nelle parole dette alla moglie al rientro a casa dopo la riunione presso l’abitazione del senatore Tommaso Morlino: «Volevano fare di me un nuovo Bava Beccaris, ma non ci riusciranno».
Nel mese di dicembre del 1969 non sappiamo se, viceversa, c’era un «nuovo» Bava Beccaris perché a vietare le manifestazioni sul territorio nazionale, compresa quella indetta a Roma il 14 dicembre dal MSI, fu il presidente del Consiglio Mariano Rumor.
Sarà anche possibile, finalmente, chiedere conto all’alleato-padrone della morte del presidente dell’ENI Enrico Mattei, del sabotaggio dell’aereo «Argo 16», della morte del generale Enrico Mino, del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, fine all’uccisione del questore Nicola Calipari.
L’affermazione della verità, pertanto, non è fine a se stessa, non è circoscritta alla conoscenza dei nomi di esecutori e mandanti, viceversa è il mezzo più idoneo per riconquistare la sovranità nazionale.
Nelle tragiche pagine della storia italiana post-bellica, difatti, non ci sono responsabilità esclusivamente nazionali ma anche – e soprattutto – internazionali.
L’adesione alla NATO è stata un’operazione liberticida e suicida da parte della classe politica dirigente perché ha vincolato il Paese a una guerra alla quale, restando neutrale, poteva evitare di prendere parte.
Non conosciamo i protocolli segreti, le intese multilaterali e bilaterali stipulate con la potenza egemone e i suoi alleati, ma sappiamo con certezza assoluta che in questo Paese hanno agito con libertà d’azione e con totale impunità tutti i servizi segreti dei Paesi occidentali e che i servizi di sicurezza italiani sono ancora mero strumento di quelli americani.
Una condizione di servaggio che nessuno osa denunciare, che nessuno chiede di modificare perché nessuno osa scrivere la storia per quella che essa è stata.
La storia in Italia non rappresenta un problema politico, non è oggetto di dibattiti parlamentari né di esami sul piano governativo che dovrebbero concludersi con provvedimenti legislativi finalizzati a rivendicare l’indipendenza del Paese.
Nell’Italia dei rinnegati al potere, abbiamo assistito perfino alla richiesta, avanzata dal governo diretto dall’ex comunista Massimo D’Alema a quello americano, di non rendere pubblici i documenti desecretati della CIA sulle elezioni politiche del 1948.
Non risulta che i governi successivi abbiano revocato la richiesta perché temono che emerga la verità sui fatti che risalgono a 70 anni fa.
Non è che un esempio, questo, di tutto quello che hanno fatto nel tempo i governi italiani contro la verità.
Non si può sperare, oggi, che si possa invertire la tendenza quando al governo siedono i rinnegati della Lega Nord complici da un trentennio di ogni infamia perpetrata contro la verità e chi se ne è fatto portatore.
I Salvini passano, l’Italia resta.
Quando l’Italia firmò a Parigi il Trattato di Pace, le campane di tutte le chiese suonarono a morto per segnalare che era un giorno di lutto nazionale.
Può ancora arrivare il giorno in cui potranno suonare a festa per dire agli italiani che hanno ritrovato libertà, indipendenza e sovranità.
Il mezzo c’è e ha un nome breve: verità.
Vincenzo Vinciguerra
La cartina di tornasole, i conti non tornano ancora
Nulla ci vieta di fare alcune osservazioni critiche al governo in carica anche se consapevoli del fatto che l’unica alternativa sarebbe il Partito Democratico e/o Forza Italia, entrambi nemici di classe e del popolo sovrano.
Non sappiamo se la manovra economica del governo del cambiamento sarà veramente efficace, non abbiamo la certezza se questo governo sia veramente del cambiamento o avrà il tempo per tentar di cambiar le cose. Non sappiamo se riuscirà a risolvere il problema della povertà e rialzare il PIL. Non sappiamo neanche se basterà l’ottimismo o il deficit fissato al 2,4% per ridurre il coefficiente di Gini, quello che misura le disuguaglianze della ricchezza. Non sappiamo neppure se riuscirà a liberare la vita reale dallo spettro dello spread. Non sappiamo se avrà la forza morale per bandire quei tassi d’interesse da usurai che spezzano il popolo. L’economia, ed ancor meno la finanza, non sono una scienza esatta, anzi non sono neanche una scienza, anche se a questo mirano per sedersi poi sul trono dell’indiscutibilità divina.
Certo il governo definito populista e sovranista qualche grattacapo all’Europa delle banche lo ha creato, producendo un pericoloso precedente.
E’ bastato solo che qualcuno dal fondo degli ultimi banchi della classe reclamasse, anche se con aria un po’ sommessa a volte timida, che i compiti dati dai maestri erano insostenibili, e questi subito sono andati su tutte le furie, una lesa maestà, una bestemmia impensabile, ed allora giù con anatemi, richiami e strali avvelenati.
Certamente la sovranità di un nazione si raggiunge attraverso un percorso di grande difficoltà, ma con un po’ di coraggio bisognerà pur partire da qualche parte. Tutto sta però nello stabilire quale è il paradigma di riferimento e cosa noi consideriamo per sovranità. Negli ultimi decenni si è assunto come naturale un assurdo disumano che di naturale non ha nulla, un’insana perversione che ha scandito il tempo della nostra esistenza, capace di orientare ogni cosa che facciamo al fine di non irritare ed innervosire i mercati, mentre questi, i mercati, hanno potuto tranquillamente a loro piacimento, per vendetta o per capriccio, portare sul baratro una nazione sana, indipendentemente dalla sua operosità. Guardando le cose alla radice possiamo affermare sicuramente che la sovranità vera non può prescindere da quella monetaria. Il potere della moneta per l’esistenza di un nazione è così forte ed indispensabile che viene riconosciuto da chiunque sia in buona fede, indipendentemente dal suo orientamento politico o economico.
“Datemi il controllo della moneta e non mi importa chi farà le sue leggi”, scriveva Rothschild, così come il problema fu sentito nella stessa misura da Lenin, per non parlare di Ezra Pound.
Lasciamo stare questo gravoso problema della sovranità monetaria che, nel solo chiederci a chi spetta la proprietà dell’euro, produrrebbe una crisi d’astinenza ai poveri euroinomani, altro che piano B. Non chiediamoci allora a quale entità antidemocratica sono state affidate le chiavi di casa, della zecca in questo caso. Cosa rimane quindi come misura della nostra presunta sovranità se non la nostra visione in termini di geopolitica? Attraverso questa abbiamo l’opportunità, anzi l’obbligo di dichiarare al mondo chi siamo e cosa vogliamo. La politica estera è la cartina di tornasole per chi si batte per la propria e l’altrui sovranità. Chi crede in questa forma d’autogoverno, non può in questo ambito che affermare la propria multipolarità da contrapporre a chi della unipolarità ha fatto una ragione storica, il suo destino manifesto, e che dopo la caduta del muro di Berlino ha colto un segno della provvidenza per la sua realizzazione.
Dal suo insediamento con toni chiari il governo giallo-verde ha tenuto a sottolineare la sua vicinanza geostrategica agli USA, troncando ogni speranza a chi avrebbe voluto un disimpegno magari graduale dalla NATO, non solo per risparmiare quei 70 milioni di euro al giorno di spese militari, ma proprio per liberarsi da un alleato troppo ingombrante e premuroso.
E’ anche vero che si é parlato di revocare le sanzioni alla Russia, novità sul nostro piano politico, ma in questi giorni mentre gli USA hanno deciso di riprendere unilateralmente le sanzioni contro l’Iran (colpevole di esistere come la Siria o la Palestina) e tutti i suoi alleati saranno allora costretti a non acquistare più petrolio iraniano per non incorrere nelle medesimi sanzioni, nessuna flebile voce s’è levata contro un’altra guerra commerciale alla quale ossequiosamente ci accoderemo ancora una volta.
Si ha l’impressione che se riusciamo a parole (finalmente) ad alzar la voce contro la Troika, il senso di riconoscimento nei confronti degli Americani a stelle e strisce é ancora così grande che non ci permette neanche di dubitare mai del loro altruismo e della loro bontà. Riusciamo solo ad annuire, o quando pronunciamo parola é solo per promettere fedeltà eterna, foss’anche quella del premier Conte a Trump per sfavorire la Russia a vantaggio del gasdotto TAP.
Per non parlare di Bolsonaro, dove si chiude il cerchio in cui “di notte tutte le vacche sono nere” e sovraniste. Certamente gli entusiasmi e le congratulazioni sono state fatte a titolo privato da uno dei due vice premier. Comunque si è dimostrato soltanto o la propria malafede sovranista o peggio ancora di non rendersi conto della storia dei fatti per ignoranza o superficialità. Quale è la presunta sovranità che spinge a stare con chi ha nostalgia della più classica delle dittature sudamericane? Pur ammettendo che anche le dittature possono essere sovraniste, pensiamo a Cuba, è da sottolineare che molto peggio sono quelle che lavorano per la spoliazione del Paese per conto terzi. A quel tipo di dittatura, sempre incoraggiata sul piano militare e logistico dagli USA, è sempre seguito il più sfacciato programma di privatizzazioni sul modello dettato dai Chicago boys. Chi svende la propria Patria non sarà mai libero ne starà mai dalla parte del popolo, non basta vincere le elezioni.
I sovranisti in Sud America hanno avuto la tempra di una Evita Duarte Peron, di un Hugo Chavez, di un Ernesto Guevara, di un Salvador Allende, hanno nazionalizzato nell’interesse della propria terra per difendersi dal quel maledetto vicino. Bolsonaro è evidentemente dall’altra parte, vicino a Pinochet, a Faccia d’Ananas Noriega ed a Milton Friedman, questo un vicepremier sovranista lo dovrebbe sapere perché altrimenti i conti, non quelli della manovra ma quelli che valgono veramente per il bene del popolo, perché autentici valori, non tornano.
Lorenzo Chialastri
Khrushchev in America: “Nessuna zuppa di cavolo acido per queste persone”
Nel settembre del 1959, Nikita Khrushchev divenne il primo leader sovietico a visitare l’America. Fu un evento straordinario e un momento fondamentale nella Guerra Fredda.
Nato nel 1894, figlio di contadini poveri in Russia, la vita di Khrushchev descrive quello che è probabilmente il periodo più drammatico della storia russa, a cavallo tra la Prima Guerra Mondiale, le rivoluzioni di Febbraio e Ottobre 1917, la guerra civile 1918-1922 che seguì, gli sconvolgimenti degli anni ’20, seguiti dai piani quinquennali e dalle epurazioni degli anni ’30.
Comprende anche la Seconda Guerra Mondiale e il periodo post-staliniano, un periodo in cui Khrushchev fu personalmente e politicamente centrale con il suo famigerato “discorso segreto” del 1956 al 20° Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) a Mosca.
Per un leader la cui carriera politica era strettamente legata a quella di Stalin, il discorso fu considerato da alcuni un atto di tradimento – un cinico tentativo di calmare la propria coscienza prendendo le distanze dai brutali eccessi del suo predecessore. Altri considerarono il discorso coraggioso e necessario, iniziando il disgelo di una cultura politica sclerotica all’interno delle alte sfere del Partito e del governo che era incompatibile con i tempi, permettendo così al Paese e alla sua gente di respirare più facilmente.
A prescindere dai perché e dai percome, ciò che non può essere smentito è che l’educazione contadina e lo stile casalingo di Khrushchev smentivano un leader che era disposto a rischiare a casa e anche sul palcoscenico internazionale. Egli comprendeva bene la cruciale distinzione tra purezza dottrinale che sembra buona sulla carta e politiche che superano la prova più importante di essere applicabili alle condizioni del mondo reale, assicurando che non potesse mai essere accusato di essere prigioniero di posizioni ideologiche fisse.
I frutti di tale visione del mondo non furono mai più evidenti che in una politica estera definita dall’obiettivo di una pacifica convivenza con l’Occidente. Ed è qui che torniamo ad un affascinante episodio della storia della Guerra Fredda, quando il premier sovietico, su invito del presidente Eisenhower, intraprese un tour di due settimane negli Stati Uniti il 15-27 settembre 1959. Continua a leggere
Euroinomani
Dieci anni di crisi economica sembrano aver distrutto il mito positivo dell’Europa, alimentando l’insofferenza verso Bruxelles, la rigidità dei trattati e la soffocante leadership tedesca.
Ma com’è stato possibile che i partiti populisti e sovranisti siano arrivati, in Italia, a raccogliere il 50% dei consensi?
Questo clamoroso successo si deve in larga parte ai cosiddetti “euroinomani”. Così Alessandro Montanari definisce tutti quei politici, quegli economisti e quei giornalisti che per troppi anni si sono rifiutati di riconoscere l’oggettiva anomalia dell’euro, ostinandosi a negare il sostanziale fallimento dell’austerità espansiva e sposando acriticamente il nuovo ordine della globalizzazione.
Brexit, la vittoria di Trump e le elezioni italiane dimostrano però che i popoli stanno invertendo la Storia.
Quella che è iniziata infatti non è una protesta, ma una rivolta: contro la disuguaglianza crescente, contro l’impoverimento del lavoro, contro la finanziarizzazione dell’economia, contro le delocalizzazioni predatorie e, soprattutto, contro il dominio delle élite.
Un testo prezioso per vedere la realtà in modo diverso.
Euroinomani
Come l’euro ha ucciso l’Europa – Il risveglio dei popoli contro le élite
di Alessandro Montanari
Uno editori, pp. 260
Alessandro Montanari, giornalista e autore televisivo, ha lavorato per le più importanti televisioni nazionali.
Al fianco di Gianluigi Paragone dai suoi esordi professionali nelle tv locali, firma i programmi Lultimaparola (Rai 2) e La Gabbia (La7) che per primi in Italia sdoganano il dibattito sull’euro e sui vincoli dei trattati europei, dando voce alle vittime della crisi e raccontando la crescita dei movimenti anti-establishment.
Ora è a Rete 4, nella squadra della trasmissione Stasera Italia. “Euroinomani” è il suo saggio d’esordio.
La foglia di fico
Il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman ha affermato ieri che Israele non rispetterà alcun divieto e violerà lo spazio aereo siriano ogni qual volta lo riterrà necessario.
“We will maintain total freedom of action. We will not accept any limitation when it comes to the defense of our security interests.”
Solo alcuni giorni prima Nikki Haley, ambasciatrice USA presso le Nazioni Unite, affermava con arroganza nel corso di un Consiglio di Sicurezza che gli Stati Uniti avrebbero ignorato le decisioni dell’ONU se contrarie ai propri intenti, riducendo di fatto a carta straccia lo statuto delle Nazioni Unite ed il diritto internazionale.
“The US will act against the Syrian government with or without a UN blessing”.
Sono forse i due interventi che mi hanno maggiormente fatto riflettere in questi giorni, più ancora delle false flag, dei lanci di missili su palazzi inutilizzati, della retorica roboante delle cancellerie europee, delle giravolte dei servi sciocchi, dei tweet deliranti di Trump.
Perché di specchietti per allodole come questi è ricca la storia sia recente che antica.
Ogni impero, da che mondo è mondo, ha sempre rispettato solo la legge del più forte, aggredendo, invadendo, distruggendo chiunque gli si parasse davanti, cogliendo al volo ogni occasione o creandola se necessario.
Ignorando o aggirando accordi e trattati e svilendo le costituzioni vigenti.
Ma sempre nascondendo la menzogna, la truffa, l’inganno sotto una misericordiosa foglia di fico ad uso e consumo di chi ancora non sa che ogni impero si regge sulla violenza e la sopraffazione.
Sempre usando la neo-lingua, vale a dire utilizzando definizioni etiche per giustificare l’aggressione (intervento umanitario, difesa delle minoranze, favorire la democrazia etc.).
“Quando si vuole ottenere un determinato risultato nel mondo, risultato che deve rappresentare l’opposto della regolare direzione dell’evoluzione dell’umanità, ebbene, allora gli si dà, per così dire, un nome che significa il contrario. L’umanità deve imparare a non credere ciecamente ai nomi”. (Rudolf Steiner)
Diceva già sei secoli or sono il grande Niccolò Machiavelli: “Sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare” ma almeno si salvavano le apparenze.
Persino a seguito della spregevole messa in scena delle (inesistenti) armi di distruzione di massa di Saddam Hussein con un Colin Powell che agitava una provetta piena verosimilmente di borotalco all’Assemblea delle Nazioni Unite si ritenne necessario ottenere il via libera dell’ONU – con la vergognosa Risoluzione 1441- all’aggressione ad uno Stato sovrano come l’Iraq.
Ma ora sembra che della foglia di fico l’impero possa fare a meno, tanta è la pervasività della propaganda e del lavaggio accurato dei cervelli che ha messo in campo.
Affermazioni come quelle di Lieberman e della Haley che, sino a pochi anni or sono, sarebbero apparse quello che sono, vale a dire l’espressione della spietata hybris del potere, oggi vengono accolte con indifferenza, quasi come qualcosa di scontato, cui si è ormai rassegnati.
Ecco, questo a mio avviso è l’aspetto più inquietante del momento attuale.
Come ben sintetizzava Rudolf Steiner cent’anni fa: “Sulle onde della civiltà presente galleggia non solo la mistificazione delle frasi fatte, ma la menzogna vera e propria. Si riversa nella vita – e, come menzogna, intacca la vita”.
Piero Cammerinesi
Uno scontro epocale, un momento pericoloso
Mentre tutti i giornali e le TV nostrane sono impegnati sulle modeste vicende politiche di casa nostra fatte di patteggiamenti di basso livello, veti incrociati, piccoli ricatti, false promesse, a molti sfugge la drammaticità del contesto internazionale dove assistiamo ad uno scontro epocale dai risvolti molto pericolosi.
Le potenze nord-atlantiche, guidate dagli USA, puntano in modo sempre più aggressivo sulla Russia di Putin, rea di non inchinarsi agli interessi imperiali statunitensi come ai bei vecchi tempi di Gorbaciov ed Eltsin. Contemporaneamente cercano di far fronte alla perdurante stagnazione economica occidentale, ed ai continui pericoli di nuove crisi, cercando di tamponare l’ascesa impetuosa di concorrenti politici ed economici, tra cui si distingue la Cina. Questo grande ex-Paese coloniale, un tempo preda privilegiata di imperialismi occidentali e giapponesi, non solo ha da tempo superato gli USA in termini di produzione globale (espressa in termini reali, cioè tenuto conto dei prezzi interni), ma ormai supera gli USA anche in settori tecnologici di avanguardia come quello dei supercomputer e della computazione quantistica.
Dopo le ridicole mai provate accuse lanciate agli hacker russi che avrebbero determinato la sconfitta della povera Clinton, ora la campagna denigratoria è stata lanciata dagli Inglesi, capeggiati dal borioso ministro degli Esteri Boris Johnson. Il cattivo Putin in persona è accusato di aver fatto avvelenare col gas Sarin (perbacco! Lo stesso che sarebbe stato usato anche in Siria!) una ex-spia di basso livello ormai in tranquilla pensione in Inghilterra da otto anni. Questa follia sarebbe stata commessa da Putin giusto alla vigilia delle elezioni presidenziali russe e dei Campionati di Calcio in Russia cui quel Paese teneva moltissimo come rilancio di immagine. Un vero autogol! Peccato che gli Inglesi, pur di fronte alle argomentate richieste russe, non abbiano fornito alcuna prova. Continua a leggere
L’illegale soggiorno americano in Siria
Non dovrebbe sorprendere nessuno che l’amministrazione di Donald Trump abbia recentemente affermato di avere il perfetto diritto legale di rimanere in Siria finché vuole perché combatte il terrorismo. L’argomento è più o meno questo: il Congresso ha approvato un disegno di legge che consente all’esercito statunitense di cercare e distruggere Al-Qaeda e gruppi associati ovunque si trovino. Fa parte di ciò che viene indicato come Autorizzazione all’Uso della Forza Militare (acronimo AUFM). Secondo la Casa Bianca, un gruppo associato, lo Stato Islamico in Siria (ISIS), rimane attualmente attivo in Siria e la presenza militare degli Stati Uniti è quindi legale fino a quando il gruppo non sarà completamente eliminato, non richiedendo ulteriori leggi o autorità per rimanere nella nazione siriana.
La conclusione legale di Trump è stata spiegata in due lettere diffuse dai sottosegretari per la politica presso i Dipartimenti di Stato e della Difesa. Erano in risposta alle richieste del senatore Time Kaine della Virginia, che per diversi anni ha chiesto alla Casa Bianca sotto Barack Obama e Donald Trump di chiarire quale autorità legale ha permesso loro di dispiegare 2.000 soldati americani in Siria senza alcuna dichiarazione di guerra, qualsiasi autorizzazione delle Nazioni Unite o qualsiasi invito da parte del governo legittimo di Bashar Al-Assad a Damasco. Kaine ha citato le restrizioni imposte dal War Powers Act del 1973, che consente a un presidente di usare la forza militare in una situazione di emergenza ma dopo 60 giorni è necessario andare al Congresso per l’approvazione.
La lettera del Dipartimento di Stato ha accentuato l’ambiguità della posizione degli Stati Uniti con la sua spiegazione che “gli Stati Uniti non cercano di combattere il governo della Siria o dell’Iran o gruppi sostenuti dall’Iran in Iraq o in Siria. Tuttavia, gli Stati Uniti non esiteranno a usare la forza necessaria e proporzionata per difendere gli Stati Uniti, la coalizione o le forze alleate…”.
Sorgono sono una serie di problemi con la giustificazione della Casa Bianca di rimanere in Siria, a cominciare dal fatto che Al-Qaeda e ISIS non sono in alcun modo associati e potrebbero essere meglio descritti come rivali o addirittura nemici, rendendo l’intero argomento AUFM irrilevante. Inoltre, la ragione per cui le forze americane si trovano in Siria è stata variamente descritta da alti funzionari dell’Amministrazione. Il Segretario di Stato Rex Tillerson è stato impegnato a sottolineare che è necessario un soggiorno prolungato per bloccare la rinascita dell’ISIS e anche per impedire al governo siriano di riconquistare le aree attualmente occupate da gruppi ribelli sostenuti dagli Stati Uniti. Descrive curiosamente tali aree fuori dal controllo del governo come “liberate”. Ha anche affermato che gli Stati Uniti rimarranno sul posto per fare pressione affinché Bashar Al-Assad si dimetta, cioè il cambio di regime.
Tillerson usa l’esempio della Libia per sostenere la sua tesi, osservando che la Libia non era occupata e “stabilizzata” dalle nazioni che si sono alleate per rovesciare il governo di Muammar Gheddafi. Ha anche citato la decisione del presidente Barack Obama di ritirare le forze statunitensi dall’Iraq come un fattore che contribuisce all’ascesa dell’ISIS, apparentemente inconsapevole che i militari americani sono stati costretti al ritiro dal governo iracheno.
Ma lo scorso venerdì il presidente Trump ha inviato un segnale diverso, affermando durante la conferenza stampa con il primo ministro australiano che “siamo lì per un motivo: mettere le mani sull’ISIS, sbarazzarsi dell’ISIS e andare a casa. Non siamo lì per nessun altro motivo e abbiamo ampiamente raggiunto il nostro obiettivo”. Questo rappresenta un notevole avvitamento da parte dell’Amministrazione a sostegno delle sue affermazioni. Ciononostante, si dovrebbe accettare che il regime siriano di Al-Assad è quasi universalmente riconosciuto come legittimo e sovrano nel proprio territorio, un fatto che è persino riconosciuto dagli Stati Uniti, che allo stesso tempo sostiene i ribelli che cercano di rovesciare quel governo. E l’intenzione degli Stati Uniti di mantenere una presenza costante al di fuori di ogni possibile minaccia di Al-Qaeda nel Paese è completamente illegale sia per il diritto interno sia per quello internazionale.
In breve, la continua presenza degli Stati Uniti in Siria reca tutti i tratti distintivi di un’altra politica statunitense avvolta in un’ambiguità di alto livello che è un fallimento ancora prima che inizi. Non solo illegale, è poco pratico, con 2.000 consiglieri statunitensi sparsi nel territorio e pochi sparuti sostenitori curdi che sono già fortemente impegnati a combattere i Turchi. Alla fine Washington stremata si stancherà e andrà via. Che quel giorno venga presto.
Philip M. Giraldi
Fonte – traduzione di C. Palmacci
Declino americano: vasche a cielo aperto piene di liquami fognari nel Paese più ricco del mondo
Di Rania Khalek per rt.com
Mentre i ricchi continuano ad erodere il Paese, la domanda non è se gli Stati Uniti smetteranno di offrire un tenore di vita decente al proprio popolo. Piuttosto è il numero di persone che verrà sacrificato durante il declino.
In America, la nazione più ricca del mondo quando misurata freddamente solo dal PIL, i bambini si ammalano poiché abitano vicino a vasche a cielo aperto piene di liquami fognari. Questa è stata una delle tante scioccanti conclusioni delle Nazioni Unite alla fine dello scorso anno, a seguito di un’indagine di due settimane sull’estrema povertà negli Stati Uniti.
Il rapporto delle Nazioni Unite è stato pubblicato lo scorso dicembre da un gruppo di investigatori che ha visitato la California, l’Alabama, la Georgia, Porto Rico, la Virginia dell’Ovest e Washington DC.
“Gli Stati Uniti sono uno dei Paesi più ricchi, potenti e tecnologicamente innovativi del mondo; ma né la sua ricchezza, né il suo potere, né la sua tecnologia vengono sfruttate per affrontare la situazione per cui 40 milioni di persone continuano a vivere in povertà “, ha scritto Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani.
Ha continuato: “Ho incontrato molte persone che sopravvivevano faticosamente a Skid Row presso Los Angeles, ho assistito a un poliziotto di San Francisco che diceva a un gruppo di senzatetto di andarsene ma non avendo risposta quando gli è stato chiesto dove potevano trasferirsi, ho sentito che migliaia di persone povere ricevono avvisi di infrazione minore che sembrano intenzionalmente progettati per causare rapidamente un debito non rimborsabile, incarcerazione e ricostituzione delle casse comunali. Ho visto fogne a cielo aperto in Stati i cui governi non considerano le strutture igienico-sanitarie di loro competenza, ho visto persone che hanno perso tutti i denti perché le cure dentistiche per adulti non sono coperte dalla stragrande maggioranza dei programmi disponibili per i più poveri, ho sentito parlare dell’aumento del tasso di mortalità e della distruzione di famiglie e comunità causata dagli oppioidi, e ho incontrato persone a Porto Rico che vivono accanto a una montagna di cenere di carbone completamente non protetta che piove su di loro portando malattie, invalidità e morte”.
Le fogne a cielo aperto sono state rinvenute in zone povere come la contea di Lowndes, in Alabama, dove molte persone non possono permettersi di installare fosse biologiche, facendo sì che i liquami si depositino presso le loro case. Questo rifiuto non trattato crea il potenziale per tutti i tipi di malattie. A Lowndes, ha provocato la proliferazione di anchilostoma, una malattia parassitaria dell’intestino che si trova comunemente nei Paesi in via di sviluppo più poveri del mondo.
La scoperta di livelli di povertà e malattia da terzo mondo nel Paese più ricco e più potente del globo, per quanto scioccante, è solo una parte della storia. Le conclusioni tratte dalle Nazioni Unite sono in linea con la parabola discendente dell’America. Continua a leggere
Venezuela, alle elezioni di aprile il popolo deve votare senza interventi esterni
Strana dittatura quella venezolana. Sembra in effetti lo Stato al mondo con la maggiore densità di appuntamenti elettorali negli ultimi vent’anni. E il prossimo sarà davvero decisivo. Eppure, bizzarramente, i paladini della democrazia che siedono a Washington o Bruxelles, non sono affatto contenti che all’inizio di aprile il popolo venezolano sia chiamato a decidere chi sarà il presidente del Paese nei prossimi quattro anni. Forse perché sanno che, con ogni probabilità, il prescelto sarà nuovamente Nicolas Maduro Moros. Una vecchia abitudine, questa di voler “manipolare” le elezioni altrui, ricordata per esempio nel bel film di Steven Spielberg attualmente in circolazione, The Post.
Ho avuto occasione di recarmi in Venezuela l’11 dicembre per le elezioni comunali e ho potuto riscontrare una situazione di tranquilla normalità. Ordine pubblico e pace sociale garantiti dopo il tentativo di insurrezione messo in scena dalla destra, che tuttavia è costato molte vittime, buona parte delle quali presunti sostenitori del governo, membri delle forze dell’ordine e ignari passanti. Mercati aperti e situazione dell’approvvigionamento migliorata grazie alle misure messe in atto che prevedono una più precisa disciplina per gli operatori economici al fine di evitare le speculazioni. Domenica pomeriggio ho visitato un quartiere popolare venuto in essere di recente con la costruzione di varie centinaia delle centinaia di migliaia di appartamenti costruiti dall’amministrazione chavista, verificando l’esistenza di un compatto ed entusiasta sostegno al governo Maduro tra la gente di quel quartiere, uguale a tanti altri del Venezuela.
Consenso del resto confermato dall’esito delle elezioni comunali che hanno visto la vittoria del PSUV in molte città e che in precedenza era stato espresso in occasione delle elezioni regionali e prima ancora di quelle per l’Assemblea costituente. Di fronte a questa sequela di vittorie del chavismo molti stanno letteralmente perdendo la testa. Innanzitutto ovviamente i dirigenti della destra venezolana antisistema (che paradossalmente sono quelli che ottengono più credito in Occidente), sempre più divisi fra di loro e brancolanti nel buio, e sempre più inferociti per la perdita dei loro enormi privilegi che non è certo finita con l’avvento del chavismo, ma si sta concretizzando sempre di più nell’inevitabile e giusta prospettiva di un autentico socialismo.
Poi, gli autentici padroni del circo, e cioè i governanti di Washington, con il “bullo” Trump che segue alla lettera le indicazioni del più lucido Rex Tillerson, che ovviamente non si rassegna alla perdita degli enormi giacimenti petroliferi del Paese, e minaccia l’intervento armato. Sanno del resto di avere, almeno apparentemente, recuperato qualche posizione in America Latina, con le “strategie” di attacco giudiziario (il processo Lula o contro l’ex vicepresidente ecuadoriano Glass) o sul piano elettorale (con l’elezione di Macri in Argentina) o golpista classico (con il sospetto di brogli elettorali in Honduras e le violenze su decine di manifestanti in pochi giorni) e vorrebbero oggi completare la normalizzazione del subcontinente neutralizzando il chavismo e facendo tornare il Venezuela nella sua storica condizione semicoloniale.
Non credo tuttavia che possano riuscirci. Lo dico a ragion veduta dopo aver visitato il Paese a dicembre. Va capito in questo senso che i risultati elettorali, che ovviamente hanno enorme importanza, sono solo il riflesso di una condizione di accresciuta consapevolezza e organizzazione di milioni di venezolani. Un’enorme forza tranquilla che non si farà certo mettere fuori gioco da un personaggio come Donald Trump e meno ancora dalle sue marionette locali. Se però si dovessero concretizzare le minacce di intervento armato potremmo trovarci di fronte a un nuovo Vietnam in America Latina, con tremende conseguenze sulla pace nel mondo, dato anche il netto schieramento di Russia, Cina ed altri in appoggio al legittimo governo venezolano. Intanto gli Stati Uniti, spalleggiati dai loro valletti europei, tentano la carta della destabilizzazione economica mediante sanzioni che non hanno alcun fondamento e rappresentano gravi violazioni del diritto internazionale.
Ne tengano conto gli sprovveduti governanti europei e italiani. L’Italia ha importanti interessi in Venezuela sia per la presenza di un’importante comunità di emigrati che per gli accordi di cooperazione in essere per lo sfruttamento delle risorse energetiche ed in altri settori. Sarebbe ora che gli italiani disponessero di un governo la cui politica estera fosse mirata alla difesa degli interessi nazionali e non a seguire gli sconnessi deliri del governo statunitense. Speriamo che anche da noi le elezioni del 4 marzo portino un qualche miglioramento da questo punto di vista.
Fabio Marcelli
Il falso allarme delle notizie false
Dalla Brexit all’elezione di Donald Trump per finire con il referendum sulla Costituzione italiana del 4 dicembre 2016, l’informazione indipendente ha battuto quella ufficiale ottenendo la fiducia e quindi il consenso degli elettori sulle proprie posizioni.
La reazione non poteva tardare e così, con il pretesto della lotta alle notizie false – le cosiddette “fake news” – è scattata un’articolata e imponente operazione di silenziamento e di vera e propria censura dell’informazione indipendente.
L’illuminante contributo di Enzo Pennetta.
Il vero libro esplosivo è a firma Trump
Tutti parlano del libro esplosivo su Trump, con rivelazioni sensazionali di come Donald si fa il ciuffo, di come lui e la moglie dormono in camere separate, di cosa si dice alle sue spalle nei corridoi della Casa Bianca, di cosa ha fatto suo figlio maggiore che, incontrando una avvocatessa russa alla Trump Tower di New York, ha tradito la patria e sovvertito l’esito delle elezioni presidenziali.
Quasi nessuno, invece, parla di un libro dal contenuto veramente esplosivo, uscito poco prima a firma del presidente Donald Trump: «Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti». È un documento periodico redatto dai poteri forti delle diverse amministrazioni, anzitutto da quelli militari. Rispetto al precedente, pubblicato dall’amministrazione Obama nel 2015, quello dell’amministrazione Trump contiene elementi di sostanziale continuità.
Basilare il concetto che, per «mettere l’America al primo posto perché sia sicura, prospera e libera», occorre avere «la forza e la volontà di esercitare la leadership USA nel mondo». Lo stesso concetto espresso dall’amministrazione Obama (così come dalle precedenti): «Per garantire la sicurezza del suo popolo, l’America deve dirigere da una posizione di forza».
Rispetto al documento strategico dell’amministrazione Obama, che parlava di «aggressione russa all’Ucraina» e di «allerta per la modernizzazione militare della Cina e per la sua crescente presenza in Asia», quello dell’amministrazione Trump è molto più esplicito: «La Cina e la Russia sfidano la potenza, l’influenza e gli interessi dell’America, tentando di erodere la sua sicurezza e prosperità».
In tal modo gli autori del documento strategico scoprono le carte mostrando qual è la vera posta in gioco per gli Stati Uniti: il rischio crescente di perdere la supremazia economica di fronte all’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali, anzitutto Cina e Russia le quali stanno adottando misure per ridurre il predominio del dollaro che permette agli USA di mantenere un ruolo dominante, stampando dollari il cui valore si basa non sulla reale capacità economica statunitense ma sul fatto che vengono usati quale valuta globale.
«Cina e Russia – sottolinea il documento strategico – vogliono formare un mondo antitetico ai valori e agli interessi USA. La Cina cerca di prendere il posto degli Stati Uniti nella regione del Pacifico, diffondendo il suo modello di economia a conduzione statale. La Russia cerca di riacquistare il suo status di grande potenza e stabilire sfere di influenza vicino ai suoi confini. Mira a indebolire l’influenza statunitense nel mondo e a dividerci dai nostri alleati e partner».
Da qui una vera e propria dichiarazione di guerra: «Competeremo con tutti gli strumenti della nostra potenza nazionale per assicurare che le regioni del mondo non siano dominate da una singola potenza», ossia per far sì che siano tutte dominate dagli Stati Uniti.
Fra «tutti gli strumenti» è compreso ovviamente quello militare, in cui gli USA sono superiori. Come sottolineava il documento strategico dell’amministrazione Obama, «possediamo una forza militare la cui potenza, tecnologia e portata geostrategica non ha eguali nella storia dell’umanità; abbiamo la NATO, la più forte alleanza del mondo».
La «Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti», a firma Trump, coinvolge quindi l’Italia e gli altri Paesi europei della NATO, chiamati a rafforzare il fianco orientale contro l’«aggressione russa», e a destinare almeno il 2% del PIL alla spesa militare e il 20% di questa all’acquisizione di nuove forze e armi.
L’Europa va in guerra, ma non se ne parla nei dibattiti televisivi: questo non è un tema elettorale.
Manlio Dinucci
Forze ed operazioni militari USA in Africa – una rassegna
Di Benjamin Cote in esclusiva per SouthFront
L’importanza delle Forze Militari in Africa
Il 4 ottobre 2017, forze nigerine e Berretti Verdi americani sono stati attaccati da militanti islamici durante una missione di raccolta di intelligence lungo il confine con il Mali. Cinquanta combattenti di una affiliata africana dello Stato Islamico hanno attaccato con armi di piccolo calibro, armi montate su veicoli, granate lanciate con razzi e mortai. Dopo circa un’ora nello scontro a fuoco, le forze americane hanno fatto richiesta di assistenza. I jet Mirage francesi hanno fornito uno stretto supporto aereo e i militanti si sono disimpegnati. Gli elicotteri sono arrivati per riportare indietro le vittime per l’assistenza medica.
Quando la battaglia finì quattro Berretti Verdi sono risultati uccisi nei combattimenti e altri due furono feriti. I sergenti maggiori Bryan Black, Jeremiah Johnson, Dustin Wright e il più pubblicizzato di tutte le vittime il sergente La David Johnson sono stati uccisi in missione. Il presidente Trump si è impegnato in uno scontro politicizzato con la vedova di Johnson e la deputata della Florida Federica Wilson in merito alle parole da lui usate in una telefonata consolante.
La battaglia politica sui commenti del Presidente Trump ha avuto l’effetto non intenzionale di spostare l’attenzione della nazione sulle attività americane in Africa. In precedenza il pubblico americano, e buona parte dell’establishment politico, mostrava scarso interesse o conoscenza delle missioni condotte dai dipartimenti di Stato e della Difesa all’interno delle nazioni africane in via di sviluppo. Il 5 maggio, un Navy SEAL era stato ucciso vicino a Mogadiscio mentre assisteva le forze somale nel combattere al-Shabaab. Questa morte è arrivata un mese dopo che l’amministrazione Trump aveva revocato le restrizioni sulle operazioni di antiterrorismo nelle regioni della Somalia.
Certamente l’evento non ha registrato la stessa attenzione del mainstream come la polemica circa il sergente Johnson; tuttavia, tutto rivela come l’Africa stia lentamente diventando un’area di interesse nazionale cruciale per gli Stati Uniti. Le questioni concernenti le nazioni africane riguardanti le minacce terroristiche sia esterne sia interne, così come i loro problemi economici, servono a garantire che i responsabili politici degli Stati Uniti si concentrino sul continente. Iniziative globali come la Combined Joint Task Force for Operation Inherent Resolve coinvolgono diverse nazioni africane fondamentali per combattere l’ascesa dell’estremismo islamico radicale. L’ascesa di gruppi estremisti coesi insieme all’espansione degli investimenti economici nell’Africa post-coloniale ha comportato un aumento dei dispiegamenti militari stranieri e americani nella regione. Continua a leggere
Il milite ignoto
La Casa Bianca ha omesso, da un rapporto preparato per il Congresso, il numero di truppe USA in stato di combattimento nel mondo, inclusi Afghanistan, Irak e Siria. Il dato espunto coincide con un rapporto del Pentagono che si riferisce alla collocazione di 44.000 soldati come “ignota”.
In accordo con la War Powers Resolution del 1973, l’amministrazione Trump ha consegnato al Congresso lunedì [11 dicembre u.s. – n.d.t.] un rapporto semestrale che contabilizza i soldati USA dispiegati all’estero. Benché i rapporti siano finalizzati a rendere il potere esecutivo più consapevole del dispiegamento militare degli Stati Uniti, il rapporto in questione omette il numero di truppe statunitensi operanti in Afghanistan, Irak, Siria, Yemen e Camerun.
L’amministrazione Trump ha affermato che il nascondere il numero dei soldati impedirebbe ai nemici dell’America di conseguire un vantaggio strategico. Comunque, in un rapporto precedente di giugno, la Casa Bianca elencava 8.448 Americani in servizio in Afghanistan, 5.262 in Irak, e 503 in Siria. L’ultimo ragguaglio per il Congresso non fornisce cifre per quelle zone di guerra o una ragione per la loro omissione.
Mentre la Casa Bianca ritiene i numeri dei militari troppo delicati da rivelare, la scorsa settimana il Pentagono aveva detto ai giornalisti che 5.200 Americani sono in servizio in Irak e altri 2.000 in Siria, circa quattro volte tanto rispetto a quanto comunicato precedentemente.
Il Pentagono aveva anche affermato di non poter rendere noti i luoghi nel mondo dove decine di migliaia di unità di personale sono stazionate.
Fonte – traduzione di F. Roberti
Intermarium, chi era costui?
“Dopo la guerra combattuta tra la Russia e la Polonia e conclusasi il 18 marzo 1921 col trattato di pace di Riga, il Maresciallo Józef Piłsudski (1867-1935), capo provvisorio del rinato Stato polacco, lanciò l’idea di una federazione di Stati che, estendendosi “tra i mari” Baltico e Nero, in polacco sarebbe stata denominata Międzymorze, in lituano Tarpjūris e in latino, con un neologismo poco all’altezza della tradizione umanistica polacca, Intermarium. La federazione, erede storica della vecchia entità politica polacco-lituana, secondo il progetto iniziale di Piłsudski (1919-1921) avrebbe dovuto comprendere, oltre alla Polonia quale forza egemone, la Lituania, la Bielorussia e l’Ucraina. È evidente che il progetto Intermarium era rivolto sia contro la Germania, alla quale avrebbe impedito di ricostituirsi come potenza imperiale, sia contro la Russia, che secondo il complementare progetto del Maresciallo, denominato “Prometeo”, doveva essere smembrata nelle sue componenti etniche.
Per la Francia il progetto rivestiva un certo interesse, perché avrebbe consentito di bloccare simultaneamente la Germania e la Russia per mezzo di un blocco centro-orientale egemonizzato dalla Polonia. Ma l’appoggio francese non era sufficiente per realizzare il progetto, che venne rimpiazzato dal fragile sistema d’alleanze spazzato via dalla Seconda Guerra Mondiale.
Una più audace variante del progetto Intermarium, elaborata dal Maresciallo tra il 1921 e il 1935, rinunciava all’Ucraina ed alla Bielorussia, ma in compenso si estendeva a Norvegia, Svezia, Danimarca, Estonia, Lettonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Grecia, Jugoslavia ed Italia. I due mari diventavano quattro, poiché al Mar Baltico ed al Mar Nero si venivano ad aggiungere l’Artico e il Mediterraneo. Ma anche questo tentativo fallì e l’unico risultato fu l’alleanza che la Polonia stipulò con la Romania.
L’idea di un’entità geopolitica centroeuropea compresa tra il Mar Baltico e il Mar Nero fu riproposta nei termini di una “Terza Europa” da un collaboratore di Piłsudski, Józef Beck (1894-1944), che nel 1932 assunse la guida della politica estera polacca e concluse un patto d’alleanza con la Romania e l’Ungheria.
Successivamente, durante il secondo conflitto mondiale, il governo polacco di Władisław Sikorski (1881-1943) – in esilio prima a Parigi e poi a Londra – sottopose ai governi cecoslovacco, greco e jugoslavo la prospettiva di un’unione centroeuropea compresa fra il Mar Baltico, il Mar Nero, l’Egeo e l’Adriatico; ma, data l’opposizione sovietica e la renitenza della Cecoslovacchia a federarsi con la Polonia, il piano dovette essere accantonato.
Con la caduta dell’URSS e lo scioglimento del Patto di Varsavia, l’idea dell’Intermarium ha ripreso vigore, rivestendo forme diverse quali il Consiglio di Cooperazione nel Mar Nero, il Partenariato dell’Est e il Gruppo di Visegrád, meno ambiziose e più ridotte rispetto alle varianti del progetto “classico”.
Ma il sistema di alleanze che più si avvicina allo schema dell’Intermarium è quello teorizzato da Stratfor, il centro studi statunitense fondato da George Friedman, in occasione della crisi ucraina. Da parte sua il generale Frederick Benjamin “Ben” Hodges, comandante dell’esercito statunitense in Europa (decorato con l’Ordine al Merito della Repubblica di Polonia e con l’Ordine della Stella di Romania), ha annunciato un “posizionamento preventivo” (“pre-positioning”) di truppe della NATO in tutta l’area che, a ridosso delle frontiere occidentali della Russia, comprende i territori degli Stati baltici, la Polonia, l’Ucraina, la Romania e la Bulgaria. Dal Baltico al Mar Nero, come nel progetto iniziale di Piłsudski.
Il 6 agosto 2015 il presidente polacco Andrzej Duda ha preconizzato la nascita di un’alleanza regionale esplicitamente ispirata al modello dell’Intermarium. Un anno dopo, dal 2 al 3 luglio 2016, nei locali del Radisson Blue Hotel di Kiev ha avuto luogo, alla presenza del presidente della Rada ucraina Andriy Paruby e del presidente dell’Istituto nazionale per la ricerca strategica Vladimir Gorbulin, nonché di personalità politiche e militari provenienti da varie parti d’Europa, la conferenza inaugurale dell’Intermarium Assistance Group, nel corso della quale è stato presentato il progetto di unione degli Stati compresi tra il Mar Baltico e il Mar Nero.
Nel mese successivo, i due mari erano già diventati tre: il 25-26 agosto 2016 il Forum di Dubrovnik sul tema “Rafforzare l’Europa – Collegare il Nord e il Sud” ha emesso una dichiarazione congiunta in cui è stata presentata l’Iniziativa dei Tre Mari, un piano avente lo scopo di “connettere le economie e infrastrutture dell’Europa centrale e orientale da nord a sud, espandendo la cooperazione nei settori dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni digitali e in generale dell’economia”. L’Iniziativa dei Tre Mari, concepita dall’amministrazione Obama, il 6 luglio 2017 è stata tenuta a battesimo da Donald Trump in occasione della sua visita a Varsavia. L’Iniziativa, che a detta del presidente Duda nasce da “un nuovo concetto per promuovere l’unità europea”, riunisce dodici paesi compresi tra il Baltico, il Mar Nero e l’Adriatico e quasi tutti membri dell’Alleanza Atlantica: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Austria, Slovenia, Croazia, Ungheria, Romania, Bulgaria.
Sotto il profilo economico, lo scopo dell’Iniziativa dei Tre Mari consiste nel colpire l’esportazione di gas russo in Europa favorendo le spedizioni di gas naturale liquefatto dall’America: “Un terminale nel porto baltico di Świnoujście, costato circa un miliardo di dollari, permetterà alla Polonia di importare Lng statunitense nella misura di 5 miliardi di metri cubi annui, espandibili a 7,5. Attraverso questo e altri terminali, tra cui uno progettato in Croazia, il gas proveniente dagli USA, o da altri Paesi attraverso compagnie statunitensi, sarà distribuito con appositi gasdotti all’intera ‘regione dei tre mari’” .
Così la macroregione dei tre mari, essendo legata da vincoli energetici, oltre che militari, più a Washington che non a Bruxelles ed a Berlino, spezzerà di fatto l’Unione Europea e, inglobando prima o poi anche l’Ucraina, stringerà ulteriormente il cordone sanitario lungo la linea di confine occidentale della Russia.”
Da Il cordone sanitario atlantico, editoriale di Claudio Mutti del n. 4/2017 di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.
Carthago intossicanda est
Il buon Trump qualche mese fa (nella notte fra il 6 e il 7 aprile, per la precisione) lavava l’onta dell’ennesimo attacco chimico del macellaio Assad deliziando il regno del male con un assaggio dei suoi “Tomauòc”, di cui peraltro una manciata raggiunse il bersaglio e il resto finì allegramente sparso nella sabbia del deserto circostante.
Giustificò poi questo attacco – con preavviso ai Russi per dar loro modo di sgomberare tutto meno che gli hangar – con un lungo spataffio presentato alle Nazioni Unite, al cui confronto sembravano verità rivelata i rapporti di Starsky & Hutch a fine puntata, col loro capo incazzato e con le bretelle fumanti che sempre chiosava, più sconsolato che perplesso: “E io mi devo bere tutto questo?” “Si, capo”.
Peccato che l’allegato 2, prova probante con nomi e cognomi registrati al pronto soccorso per intossicazione di gas chimico… smonta tutto l’impianto accusatorio.
Ammesso e non concesso che i Siriani bombardarono, ammesso e non concesso che lo fecero con armi chimiche, ammesso e non concesso ancora che il bombardamento iniziò alle 6:30 del mattino, come mai i poveri civili intossicati iniziarono a registrarsi al pronto soccorso già alle 6:00? E chi controllava all’epoca quel territorio, chi possedeva armi chimiche, chi ha rilasciato il gas PRIMA del bombardamento siriano?
Il buon Robert Parry chiude così il cerchio: “The JIM (Joint Investigative Mechanism) consigned the evidence of a staged atrocity, in which Al Qaeda operatives would have used sarin to kill innocent civilians and pin the blame on Assad” (vedi qui).
Conclude, a mio avviso, in maniera fin troppo benevola: “So, if it becomes clear that Al Qaeda tricked President Trump not only would he be responsible for violating international law and killing innocent people, but he and virtually the entire Western political establishment along with the major news media would look like Al Qaeda’s “useful idiots.”
Trump utile idiota di Al-Qaeda è come dire Messina Denaro utile idiota del primo picciotto ancora incensurato, a mio modesto parere.
E non si tratta neppure di un maldestro tentativo di infangare prove, come nel caso del funzionario russo che, qualche giorno fa, “sbagliò” a passare delle foto per la versione inglese ufficiale del Ministero della Difesa russo che denunciava la fuga di armi e munizioni di un’intera colonna in armi dell’ISIS da Albukamal verso ovest, in pieno territorio controllato dall’alto dalle forze aeree della “Coalizione” che, “inspiegabilmente”, si rifiutavano di bombardarle su segnalazione e richiesta russa perchè “prigionieri di guerra e quindi sotto la Convenzione di Ginevra”. Tutto documentato, stenogrammi e conversazioni registrate… peccato che il funzionario girava foto tratte da videogiochi (sic!) e filmati di anni precedenti. Peccato che appena un quarto d’ora dopo la messa in onda, si sarebbe detto un tempo, partiva la denuncia di “fake” con tutte le foto sbugiardate con relativi equivalenti, peccato che, non appena accortosi dell’errore, il Ministero provvedeva a diffondere sulla versione inglese le foto corrette (tutto ricostruito minuziosamente qui e qui). Nulla da fare, la macchina del fango era già partita… ma il tempo è galantuomo e i conti si faranno alla fine anche per questo (anzi, subito, nel caso del “collaboratore” che ha diffuso le foto e per cui penso che la mannaia sia calata in maniera non molto dissimile da qualche tempo fa, quando il Sette Novembre si festeggiava in maniera ufficiale).
Qui non siamo di fronte a un allegato sbagliato di fronte a una notizia giusta, ma al suo esatto contrario: un allegato giusto di fronte a una notizia sbagliata, una notizia per cui – come sottolinea Parry – non molto tempo fa partì la guerra di Bush; un costrutto falso, ma organicamente coerente di pagine e pagine messo in crisi da un semplice, inosservato dettaglio.
Carthago intossicanda est…
Paolo Selmi
Terrore Rosso colpisce ancora? Gli USA impongono la designazione di agenti stranieri sui media russi come ai tempi della seconda guerra mondiale
Di Robert Bridge per rt.com
Il McCarthyismo dell’epoca sovietica che ha imperversato in America alla metà del XX secolo è stato un semplice gioco da bambini rispetto all’isteria russofobica che ora sta attraversando gli USA, dove i media russi devono persino identificarsi con una designazione tipica dell’era nazista.
L’aspetto più inquietante della spettacolare esplosione delle relazioni USA-Russia nell’ultimo anno non è necessariamente la velocità fulminea con la quale si è verificata, ma che si tratta di un atto deliberato e premeditato di violenza politica assolutamente evitabile.
La massiccia campagna anti-Russia è arrivata con una ferocia così rapida e ingiustificata che nemmeno l’ultimo senatore americano Joseph McCarthy, il cui nome è praticamente sinonimo di caccia alle streghe, sarebbe arrivato a tanto. E proprio quando pensi di aver toccato il fondo nelle relazioni bilaterali, una botola si apre sotto i piedi, svelando un’altra caduta precipitosa.
In quello che sembra essere il motivo principale nelle relazioni mediatiche tra Stati Uniti e Russia, il Dipartimento di Giustizia statunitense ha fatto al ramo americano di RT [Russia Today] la richiesta oltraggiosa di registrarsi come “agente straniero” per continuare ad operare sul suolo statunitense.
Ciò che rende la richiesta degli USA particolarmente inaccettabile, se non del tutto ripugnante, è la storia dietro la Legge per la registrazione degli agenti stranieri del 1938, o FARA, creata per contrastare l’agitazione filo-nazista. Poche persone avrebbero potuto dimenticare quanto sangue, sudore e lacrime costarono alla Russia nel suo straordinario sforzo per respingere l’armata di Hitler dal suo territorio. Infatti, senza il sacrificio incomparabile della Russia, che ha spezzato la schiena della macchina da guerra nazista, sarebbe assolutamente inutile parlare oggi di “libertà mediatica”. Continua a leggere
Trump, Syriza & Brexit provano che il voto è solo una piccola parte della battaglia
Di Neil Clark per rt.com
Se il voto cambiasse qualcosa, l’avrebbero abolito. Potrebbe sembrare un po’ scontato ma considerate questi eventi recenti.
Nel gennaio del 2015, il popolo greco, malato e stanco di austerità e di un modello di vita frenetico, ha votato per Syriza, un partito radicale anti-austerità. La coalizione della sinistra, che era stata costituita solo undici anni prima, ha conseguito il 36,3% del voto e 149 dei 300 posti del Parlamento ellenico. Il popolo greco aveva ragionevoli speranze che il suo incubo di austerità finisse. La vittoria di Syriza è stata salutata dai progressisti in tutta Europa.
Ma cosa è successo?
E’ stata applicata dalla “Troika” pressione sulla Grecia per accettare condizioni onerose per un nuovo salvataggio. Syriza si è rivolto alla gente nel giugno 2015 per chiederle direttamente in un referendum nazionale se dovessero accettare i termini.
“Domenica non stiamo semplicemente decidendo di rimanere in Europa, stiamo decidendo di vivere con dignità in Europa”, dichiarò Alexis Tsipras, leader di Syriza. Il popolo greco ebbe doverosamente a concedere a Tsipras il mandato che aveva chiesto e respinse i termini del salvataggio con il 61,3% di ‘No.’
Tuttavia, poco più di due settimane dopo il referendum, Syriza accettò un pacchetto di salvataggio che conteneva tagli più alti delle pensioni e maggiori aumenti di imposta rispetto a quello offerto in precedenza.
Il popolo greco avrebbe potuto starsene comodamente a casa dato che il voto non ha fatto grande differenza.
Molti sostenitori di Donald Trump negli Stati Uniti la pensano senza dubbio allo stesso modo. Continua a leggere