Vinti ma di sicuro non peggiori dei vincitori

“Il 27 gennaio ultimo scorso, data dell’arrivo dell’Armata Rossa ai cancelli di Auschwitz, si è celebrato, come ogni anno, con grandissima partecipazione di congiunti, sopravvissuti, media e autorità, il “Giorno della Memoria”. Il 10 febbraio, poi, ci si è accapigliati sul “Giorno del Ricordo”, quello delle Foibe, nelle quali un sacco di strabici, dal Quirinale in giù, vogliono vedere sepolte solo vittime di Tito fiumane o triestine. Infine, Il 14 febbraio i fidanzati, gli sposi ancora in buona, gli amanti ancora entusiasti, si sono fatti gli auguri e i pensierini di San Valentino. Per il “Giorno della Rimembranza” che qui, seduta stante, proclamo e inauguro, siccome sono solo e resteremo pochini, voglio rifarmi a San Valentino, interpretata come giornata di chi si vuole bene.
A sfida delle zanne dei morsicatori del pensiero non unico, anzi, controverso, dichiaro che, insieme all’Italia, della quale mi auguro la difesa dell’identità millenaria e il ricupero della sovranità popolare e nazionale, voglio molto bene alla Germania, per la quale formulo gli stessi auguri. E’ in massima parte a questo paese, vindice, insieme ad altre nazioni, della grande civiltà europea (tagliando via guerre e colonialismi), terra di pensatori senza uguali, esploratori dell’animo umano, terra di grandi foreste integre e di grandi fiumi andati a fare le vene d’Europa, che dedico il “Giorno della Rimembranza”. Se non altro perché è il giorno dei vinti e, di conseguenza, non se lo fila nessuno. E’ a dispetto di questo cielo di soli artificiali, che vanno sostituendo quello naturale e la sua giusta luce, che certe storie, certi crimini, certe sofferenze, vanno ricuperate, riscritte, scolpite nella Storia accanto a quelle accettate e consacrate. Non sempre a ragione. Con almeno uguale dignità. E i negazionisti, quelli che negano il diritto a studiare, rivedere e riscrivere la Storia, peste li colga.
Il mio “Giorno della Rimembranza”, coincide – guarda il caso! – con le 48 ore, dal 13 al 14 febbraio 1945, in cui migliaia di carnefici in volo, della RAF e dell’USAAF, spediti da Churchill, hanno cancellato dalla faccia della Terra Dresda, il più prezioso gioiello barocco d’Europa. E poi anche Lipsia e Berlino e Amburgo e Monaco…. Forse questo mio “Giorno della Rimembranza” è balenato anche a quelli che recentemente in Germania Est, belli o brutti che fossero, non hanno votato come si converrebbe. Come sarebbe andata bene alle signore e ai signori del vero e del giusto, dei sacrosanti giorni della memoria e del ricordo, dalla Merkel alla Von der Leyen, da Macron a Mattarella, da Stoltenberg (NATO) al “manifesto”. E, dunque, senza nemmeno andare a vedere cosa dicono e cosa vogliono, e perché siano tanti e crescano, e per quali regioni detestino il governo che li ha annessi e colonizzati, questi depravati sono stati sotterrati sotto una slavina di “fascisti”, “neonazisti”, “razzisti”.
Io mi riservo di studiare chi e perché stia vincendo elezioni in Germania Est, mentre ho già un’ideuzza del perché vadano scemando i voti operai e proletari di SPD e CDU, forze di un capitalismo cannibale nei confronti dei propri fratelli, anche se meno esplosivo e incendiario degli aerei alleati. Forze predatrici che di una DDR, in cui nessuno aveva troppo e nessuno troppo poco, hanno distrutto, rubato, devastato tutto e quel che restava l’hanno portato via. Proprio come certi compari dall’URSS-Russia al tempo di Eltsin.
Detto questo per placare eventuali indignazioni, spiego perché alla Germania, ai tedeschi voglio bene. Non è questione di sangue. Miei avi paterni della Savoia e materni di origine francese ugonotta, poi trapiantati sul Reno, non c’entrano niente. C’entra che io, al tempo di Dresda immolata, insieme a centinaia di città, paesi, borghi, in Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, con una potenza di fuoco e di esplosivo ad altissimo potenziale, mai visto in nessuna guerra, da quelle parti c’ero. Piccolino, ma c’ero, vedevo, capivo. Mio padre era sotto le armi e fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’8 settembre. Il resto della famiglia, madre, sorella, io, era scampata nelle Alpi Bavaresi dai bombardamenti su Napoli. Anche per stare vicino a mio padre, detenuto a Wiesbaden. Ma gli Italiani erano passati da mercenari di Hitler, a mercenari di Churchill e Roosevelt. Perdemmo lo stato di alleati e assumemmo quello di nemici. E fummo costretti al domicilio coatto, poi molto alleggerito. Mio padre fu rilasciato dopo nove mesi di agiata prigionia in un hotel di Wiesbaden e rimandato in Italia. Noi no.
(…)
Con 11 anni, a Dresda non c’ero. Ma ne ho assaporato la carne bruciata. Più o meno negli stessi giorni, sul paese dove eravamo stati confinati, calavano gli Spitfire a mitragliare la gente. Di soldati non ce n’erano più. Raccoglievamo nei campi le loro armi abbandonate. E neanche di uomini tra i 14 e i 65 anni. Tutti richiamati per l’estrema, assurda, difesa, noi bambini delle Medie facevamo da Protezione Civile: a secchiate spegnavamo gli incendi e a braccia raccoglievamo feriti e morti. Così anche, nell’insediamento di baracche tirate su per i rifugiati dalle bombe su Duesseldorf e mitragliate pochi minuti prima, un mio compagno di classe di 11 anni. Col ventre squarciato e gli occhi spalancati sul cielo. Un altro mio compagno volò in cielo col ponte sul Meno fatto saltare da uno scellerato comandante tedesco in ritirata.
Questo “Giorno della Rimembranza” per civili tedeschi senza lapidi e senza onoranze vale anche per tutte le altre città tedesche, perlopiù, come Dresda, completamente prive di significato e presenza militare. Non si trattava di distruggere una Wehrmacht ormai allo sbando. Io, in molte di quelle altre città sono capitato mentre venivano rase al suolo dagli esplosivi, o rese macabri scheletri dalle bombe incendiarie. Non avremmo mai più rivisto il gotico, il neoclassico, il Biedermeyer, il rococò, il liberty, di Francoforte, Magonza, Koblenza, Colonia, Monaco, Wuerzburg, quella con la reggia affrescata dal Tiepolo. La Germania raccontata da Goethe, E.T.A Hoffmann, Brentano, Heine…non l’avrebbe più vista nessuno. Vedevamo le bombe scendere a grappolo, a stormi, a migliaia. Mia madre evitava i rifugi: “Meglio morire all’aria aperta, piuttosto che lì sotto, come topi”. E dopo ogni bombardamento ci trascinava via, verso luoghi “più sicuri”, che poi non lo erano. Ricordo una strada in centro, pochi minuti dopo che la sirena aveva suonato il cessato allarme. Era attraversata da voragini e fiancheggiata da macerie, palazzi con finestre che parevano gli occhi vuoti delle maschere greche, ancora fiamme qua e là ad arrossare interni, cavalli con le pance squarciate al lato della strada, sempre con quegli occhi enormi, vivi, che non capiscono.
(…) Prendevo lezioni private di Inglese da un giovane ebreo, si chiamava Ludwig Haas. Era sempre preoccupato, si muoveva con circospezione, ma nessuno nel paese gli ha mai torto un capello. Lo coprivano. Altrove era diverso, si sa. Avevamo la tessera annonaria, come tutti, ma quella per stranieri, più avara, da mera sopravvivenza. Mia madre ci portava in campagna a scambiare un suo vestito di seta con due panetti di burro e sei uova. Si friggeva con i resti del surrogato di caffè. Si mangiavano ortiche colte al lato della strada. Il calo delle difese immunitarie causava epidemie. Il tifo lo presi anch’io, come tanti, anche nei campi di concentramento. Mi salvai perché gli Americani, a fine 1946, dopo averci trattenuti per oltre un anno, sempre in regime di fame, più qualche chewing gum (che io mi rifiutavo di accettare dai GIs), perché, stranamente, considerati non badogliani, ma mussoliniani, finalmente ci permisero di rimpatriare.
Ma la gente del posto ci diede un’abitazione per pochissimi soldi. Un imprenditore del mobile ce la arredò gratis. I libri di scuola mi venivano regalati da compagni più avanti. Con qualcuno mi picchiai perché mi urlavano dietro “Badoglio!” Ma c’era tanta amicizia ed escursioni nei boschi e sul fiume. Le secche zitelle verduraie vicino a casa mia ci regalavano pomodori e cetrioli e mi insegnarono a coltivarli in un pezzetto del loro vivaio. La panettiera, grande, grossa, rubizza e tenera, ci dava sempre qualche panino in più, oltre la tessera annonaria. Così il salumiere dei Wuerstel. E il lattaio, un po’ matto, finchè ce n’era. Poi se lo portò via il “Volkssturm”, l’ultima chiamata alle armi, dei vecchi e dei ragazzini. Il mio “Giorno della Rimembranza” lo dedico anche a questi miei “concittadini”. Vittime, come tutti noi. E vinti. Ma di sicuro non peggiori dei vincitori.”

Da Mi faccio il “Giorno della Rimembranza”. Il giorno della memoria dei vincitori, 365 giorni dell’oblio dei vinti, di Fulvio Grimaldi.

Ipocrisia anglo-americana

“Tanto più odioso appare l’inferno di fuoco scatenato dall’aviazione britannica, per il fatto che due settimane dopo lo scoppio della guerra il primo ministro inglese Chamberlain aveva dichiarato: «Indipendentemente dal punto dove altri potranno giungere, il governo di Sua Maestà non farà mai ricorso all’attacco deliberato contro donne e bambini per fini di mero terrorismo». In realtà i piani per bombardamenti indiscriminati e terroristici avevano cominciato a prender forma nel corso del Primo conflitto mondiale: mentre esso si trascinava senza giungere alla conclusione, Churchill «aveva previsto per il 1919 un attacco di mille bombardieri su Berlino». Tali piani continuano ad essere sviluppati dopo la vittoria. E cioè, si potrebbe dire imitando lo sbrigativo modo di argomentare degli ideologi oggi alla moda, il paese-guida in quel momento dell’Occidente liberale programmava un nuovo “genocidio” mentre portava a termine quello iniziato il 1914. In ogni caso, proprio l’Inghilterra diventa la protagonista della distruzione sistematica inflitta alle città tedesche ancora sul finire della Seconda guerra mondiale (si pensi in particolare a Dresda), una distruzione programmata e condotta con l’obiettivo dichiarato di non lasciare via di scampo alla popolazione civile, inseguita e inghiottita dalle fiamme, bloccata nel suo tentativo di fuga dalle bombe a scoppio ritardato, e spesso mitragliata dall’alto.
Queste pratiche appaiono tanto più sinistre se si pensa alla dichiarazione fatta da Churchill nell’aprile del 1941: «Ci sono meno di 70 milioni di unni malvagi. Alcuni (some) di questi sono da curare, altri (others) da uccidere». Se non al vero e proprio genocidio, come ritiene Nolte, è chiaro che qui si pensa comunque ad uno sfoltimento massiccio della popolazione tedesca. È in questa prospettiva che possiamo collocare la campagna di bombardamenti strategici: «Nel 1940-45, Churchill liquidò gli abitanti di Colonia, Berlino e Dresda come fossero unni». Non meno spietato si rivelò il primo ministro britannico nel ritagliare la zona d’influenza di Londra e nel liquidare sistematicamente le forze partigiane considerate ostili o sospette. Eloquenti sono le disposizioni impartite al corpo di spedizione inglese in Grecia: «Non esitate ad agire come se vi trovaste in una città conquistata in cui si fosse scatenata una rivolta locale». E ancora: «Certe cose non si devono fare a metà».
Veniamo ora alla Guerra fredda. Qualche tempo fa “The Guardian” ha rivelato che tra il 1946 e il 1948 la Gran Bretagna approntò in Germania campi dove erano destinati ad essere rinchiusi comunisti o elementi sospettati di simpatie per il comunismo, vere o presunte spie sovietiche: «Le immagini mostrano le facce stravolte e sofferenti di giovani uomini dal fisico scheletrico, sottoposti per mesi alla privazione del cibo e del sonno, bastonati ripetutamente ed esposti a bassissime temperature. Trattamenti disumani che provocarono la morte di alcuni detenuti». Ad esservi rinchiuse «furono anche dozzine di donne cui non fu risparmiata la tortura». Per metterla in atto venivano utilizzati strumenti talvolta ereditati dalla Gestapo; in effetti, si tratta di campi «degni dei lager nazisti». Come si vede, emerge di continuo il confronto tra le pratiche messe in atto nel Novecento dalla Gran Bretagna e le pratiche care al Terzo Reich.
A risultati non diversi giungiamo allorché ci occupiamo degli Stati Uniti. In questo caso l’ipocrisia che abbiamo visto caratterizzare Chamberlain raggiunge il suo apice. Subito dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale è Franklin D. Roosevelt a condannare come contrari ai sentimenti di «ogni uomo e donna civile» e alla «coscienza dell’umanità», e come espressione di «disumana barbarie», i bombardamenti aerei che colpiscono la popolazione civile. Successivamente, a dar prova di una «disumana barbarie» ancora più accentuata è per l’appunto la macchina da guerra statunitense, che procede alla distruzione sistematica e terroristica delle città giapponesi e partecipa attivamente all’analoga operazione messa in atto contro le città tedesche. Non vanno neppure sottovalutati i bombardamenti che si abbattono sull’Italia, che mirano anch’essi a colpire la popolazione civile e a minarne il morale. A metterlo in evidenza è lo stesso F. D. Roosevelt: «Faremo assaggiare agli italiani il gusto di un vero bombardamento, e sono più che certo che essi non resteranno in piedi sotto una pressione come questa». La campagna di bombardamenti terroristici culmina, sotto l’amministrazione Truman, nel ricorso all’arma nucleare contro un paese ormai allo stremo. È da aggiungere un particolare ulteriormente raccapricciante: è stato fatto notare che per lo meno l’annientamento della popolazione civile di Hiroshima e Nagasaki, più che il Giappone vicino alla capitolazione, aveva di mira l’Unione Sovietica, cui veniva lanciato un pesante avvertimento. Dunque: siamo in presenza di due atti di terrorismo su larghissima scala e per di più trasversale: si massacrano decine e decine di migliaia di civili inermi del vecchio nemico (anzi dell’ex nemico che ci si appresta a trasformare in alleato) al fine di terrorizzare l’alleato, già preso di mira quale nuovo nemico e quale nuovo bersaglio delle pratiche genocide appena sperimentate!
Ma la guerra in Asia si presta a ulteriori considerazioni. Ormai è largamente accolta negli Stati Uniti la tesi secondo cui l’attacco di Pearl Harbor è stato ben previsto (e in realtà provocato con un embargo petrolifero che lasciava al Giappone ben poche alternative). Ma, una volta che l’attacco si verifica, la guerra è condotta da Washington all’insegna di un’indignazione morale certamente ipocrita, alla luce di quello che ora sappiamo, ma tanto più micidiale. Non si tratta solo della distruzione delle città. Si pensi alla mutilazione dei cadaveri e persino alla mutilazione del nemico che ha ancora gli ultimi sussulti di vita, in modo da ricavarne souvenir, spesso ostentati in modo tranquillo od orgoglioso. È soprattutto significativa l’ideologia che presiede a queste pratiche: i giapponesi sono bollati in quanto «subumani», col ricorso ad un categoria centrale del discorso nazista. E a questo discorso siamo di nuovo condotti allorché vediamo F. D. Roosevelt accarezzare l’idea della «castrazione» da infliggere ai tedeschi. Questi, a guerra finita, vengono rinchiusi in campi di concentramento dove, per puro sadismo o per puro spirito di vendetta, sono costretti a subire la fame, la sete e privazioni e umiliazioni di ogni genere, mentre sul popolo sconfitto nel suo complesso aleggia lo spettro della morte per inedia.
Sempre a proposito dello statista che forse più di ogni altro è stato stilizzato quale campione della libertà: egli non modifica la politica tradizionalmente seguita da Washington in America Latina, e nel 1937 giunge al potere in Nicaragua, grazie alla Guardia Nazionale messa in piedi dagli USA, un dittatore sanguinario quale Anastasio Somoza. Sul piano interno: le città costruite sotto l’amministrazione di F. D. Roosevelt continuano ad escludere esplicitamente gli afroamericani; anzi, «gli alloggi per i lavoratori impegnati nella difesa, costruiti o finanziati dal governo durante la Seconda guerra mondiale, furono deliberatamente sottoposti ad una segregazione più rigida persino di quella in vigore negli alloggi delle comunità circostanti». Peraltro, «anche le forze armate mantennero una rigida segregazione durante la guerra». C’è di più: nonostante la sollecitazione di settori del partito repubblicano, «il presidente non spinse mai per un progetto di legge contro i linciaggi», i quali continuarono nel sud ad essere inscenati come spettacolo per una massa di uomini, donne e bambini che si godevano la visione delle umiliazioni e delle torture più sadiche e del supplizio inflitto alla vittima, un supplizio lento, prolungato il più possibile, interminabile (intra, pp. 302-3).
Infine, dopo aver celebrato nel gennaio 1941 gli Stati Uniti come il paese che evolve incessantemente e in modo pacifico, «senza campi di concentramento», subito dopo lo scoppio della guerra, a questa istituzione totale F. D. Roosevelt fa ricorso per privare sovranamente e collettivamente della libertà, senza distinzioni di età o di sesso, la comunità statunitense di origine giapponese.”

Da Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, di Domenico Losurdo, Carocci editore, pp. 250-253.
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