La NATO culturale

Di Federico Roberti

Nel pieno della Guerra Fredda, il governo degli Stati Uniti destinò grandi risorse ad un programma segreto di propaganda culturale rivolto all’Europa occidentale, messo in atto con estrema riservatezza dalla CIA. L’atto fondamentale fu l’istituzione del Congress for Cultural Freedom (Congresso per la libertà della cultura), organizzato dall’agente Michael Josselson tra il 1950 ed il 1967. Al suo culmine, il Congresso aveva uffici in trentacinque Paesi (alcuni extraeuropei) ed a libro paga decine di intellettuali, pubblicava una ventina di prestigiose riviste, organizzava esposizioni artistiche, organizzava conferenze internazionali di alto livello e ricompensava musicisti ed altri artisti con premi e riconoscimenti vari. La sua missione consisteva nel distogliere gli intellettuali europei dall’abbraccio del marxismo, a favore di posizioni più compatibili con l’american way of life, facilitando il conseguimento degli interessi strategici della politica estera statunitense.

I libri di alcuni scrittori europei furono promossi nel mercato editoriale come parte di un esplicito programma anticomunista. Fra questi, in Italia, “Pane e Vino” di Ignazio Silone, il quale registrò così la prima di molte apparizioni sotto l’ala del governo statunitense. A dire il vero, durante il suo esilio svizzero in tempo di guerra, Silone era stato un contatto di Allen Dulles, allora capo dello spionaggio statunitense in Europa e nel dopoguerra ispiratore di Radio Free Europe, altra creazione CIA sotto la maschera del National Committee for a Free Europe; nell’ottobre 1944, Serafino Romualdi, un agente dell’OSS (Office of Strategic Services, il precursore della CIA), fu inviato sul confine franco-svizero con il compito di introdurre clandestinamente Silone in Italia.
Silone, insieme ad Altiero Spinelli e Guido Piovene, rappresentò l’Italia alla conferenza fondativa del Congresso tenutasi a Berlino nel 1950, per la quale Michael Josselson era riuscito ad ottenere un finanziamento di $ 50.000 dalle risorse del Piano Marshall. Essa fu sconfessata pubblicamente da Jean-Paul Sartre ed Albert Camus che, invitati, si rifiutarono di parteciparvi.

Inizialmente, fra i presidenti onorari del Congresso, tutti filosofi rappresentanti di un nascente pensiero euro-atlantico, accanto a Bertrand Russell troviamo Benedetto Croce. Egli, ad ottant’anni di età, era riverito in Italia come padre nobile dell’antifascismo avendo sfidato apertamente Mussolini. Sicuramente, all’epoca dello sbarco alleato in Sicilia, era stato un utile contatto per William Donovan, allora il massimo responsabile dell’intelligence statunitense.

La sezione italiana del Congresso, denominata Associazione italiana per la libertà della cultura, fu istituita da Ignazio Silone alla fine del 1951 e divenne il centro propulsivo, anche e soprattutto sotto il profilo logistico ed economico, di una federazione di circa cento gruppi culturali quali l’Unione goliardica nelle università, il Movimento federalista europeo di Altiero Spinelli, i Centri di Azione democratica, il movimento Comunità di Adriano Olivetti e vari altri.
Essa pubblicò la prestigiosa rivista “Tempo Presente” diretta dallo stesso Silone e da Nicola Chiaromonte, ed altre non meno conosciute come “Il Mondo”, “Il Ponte”, “Il Mulino” e, più tardi, “Nuovi Argomenti”. Nel suo gruppo dirigente, accanto a laici come Adriano Olivetti e Mario Pannunzio, figurava anche Ferruccio Parri, il padre della sinistra indipendente. Poi, in posizione più defilata, uomini politici di estrazione azionista e liberaldemocratica come Ugo La Malfa.
Uno degli uffici del Congresso era stato aperto a Roma nel palazzo Pecci-Blunt, dove Mimì, la padrona di casa, animava uno dei salotti più esclusivi e meglio frequentati della capitale. A due passi dalla storica dimora di palazzo Caetani che, prima di divenire tragicamente celebre per avere visto, sotto le sue finestre, l’ultimo atto del rapimento Moro, vedeva regnare un’altra regina dei salotti, la mecenate statunitense legata agli ambienti del Congresso Marguerite Chapin Caetani. Ella, con la sua rivista “Botteghe oscure”, promosse non pochi grandi nomi della letteratura e poesia italiana del Novecento. Suo genero era, guarda caso, Sir Hubert Howard, ex ufficiale dei servizi segreti alleati specializzato nella guerra psicologica ed in rapporti di fraterna amicizia con il nipote del presidente Roosevelt, quel Kermit Roosevelt che dapprima nell’OSS e poi, reclutato dalla CIA, fu tra i più convinti fautori del programma di guerra psicologica.
Una delle più strette collaboratrici della Caetani era Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto, il cui marito Raimondo Craveri, agente dei servizi segreti partigiani, dopo la Liberazione indicava all’ambasciata statunitense i politici di cui fidarsi. Elena invece selezionava gli uomini di cultura con cui valeva la pena parlare. Nella loro casa si potevano intrecciare le relazioni più cosmopolite, incontrandovi Henry Kissinger così come il futuro presidente FIAT Gianni Agnelli, ma su tutti dominava il magnate della finanza laica italiana, fondatore di Mediobanca, (don) Raffaele Mattioli. Gli Americani si fidavano a tal punto del commendator Mattioli che nel 1944, a guerra evidentemente ancora in corso, avevano già discusso con lui i programmi per la ricostruzione. Oltre a finanziare abbondantemente la cultura, don Raffaele prestò le sue non disinteressate, pur se discrete, attenzioni anche al PCI, con il quale aveva canali aperti già durante il Ventennio.
Ecco, dunque, che in Italia, oltre alla P2 e Gladio, esisteva anche un anticomunismo altrettanto tenace ma illuminato, progressista e persino di sinistra. La rete del Congresso ne costituiva la facciata pubblica o, se si preferisce, presentabile.

Le risorse per la propaganda culturale euro-atlantica furono reperite in modo davvero geniale. Nei primi tempi del Piano Marshall, ciascun Paese beneficiario dei fondi doveva contribuire depositando nella propria banca centrale una somma equivalente al contributo americano. Poi un accordo bilaterale tra il Paese in questione e gli Stati Uniti permetteva che il 5% di tale somma diventasse proprietà statunitense: era proprio questa parte dei “fondi di contropartita” (circa 10 milioni di dollari all’anno su un totale di 200) che furono messi a disposizione della CIA per i suoi progetti speciali.
Così circa $ 200.000 di tali fondi, che già avevano giocato un ruolo cruciale nelle elezioni italiane del 1948, furono destinati a finanziare i costi amministrativi del Congresso nel 1951. La filiale italiana, ad esempio, riceveva mille dollari mensili che venivano versati sul conto di Tristano Codignola, dirigente della casa editrice La Nuova Italia.

La libertà culturale non venne a buon mercato. Nei diciassette anni successivi alla fondazione, la CIA avrebbe pompato nel Congresso ed in progetti collegati ben dieci milioni di dollari. Una caratteristica della strategia di propaganda culturale fu la sistematica organizzazione di una rete di gruppi privati “amici” in un consorzio ufficioso: si trattava di una coalizione di fondazioni filantropiche, imprese e privati che lavorava in stretto collegamento con la CIA per dare a quest’ultima copertura e canali finanziari al fine di sviluppare i suoi programmi segreti in territorio europeo. Nello stesso tempo, l’impressione era che questi “amici” agissero unicamente di propria iniziativa. Mantenendo il loro status di privati, essi apportavano il capitale di rischio per la Guerra Fredda, un po’ quello che fanno da un certo tempo a questa parte le ONG sostenute dall’Occidente in giro per il mondo.

L’ispiratore di questo consorzio fu Allen Dulles, che già nel maggio 1949 aveva diretto appunto la formazione del National Committee for a Free Europe, apparentemente iniziativa di un gruppo di privati cittadini americani, in realtà uno dei più ambiziosi progetti della CIA. “Il Dipartimento di Stato è molto lieto di assistere alla formazione di questo gruppo” annunciò il segretario di Stato Dean Acheson. Questa pubblica benedizione serviva ad occultare le vere origini del Comitato e che operasse sotto il controllo assoluto della CIA, che lo finanziava al 90%. Ironia della sorte, lo scopo specifico per il quale era stato creato, cioè fare propaganda politica, era categoricamente escluso da una clausola dell’atto costitutivo.
Dulles era ben cosciente che il successo del Comitato sarebbe dipeso dalla sua capacità “di apparire come indipendente dal governo e rappresentativo delle spontanee convinzioni di cittadini amanti della libertà”.

Il National Committee poteva vantare un insieme di iscritti di grandissimo rilievo pubblico, uomini d’affari ed avvocati, diplomatici ed amministratori del Piano Marshall, magnati della stampa e registi: da Henry Ford II, presidente della General Motors, alla signora Culp Hobby, direttrice del Moma; da C.D. Jackson della direzione di “Time-Life” a John Hughes, ambasciatore presso la NATO; da Cecil De Mille a Dwight Eisenhower. Tutti costoro erano “al corrente”, ossia appartenevano consapevolmente al club. Il suo organico, già al primo anno, contava più di 400 addetti, il suo bilancio ammontava a quasi due milioni di dollari.
Un bilancio separato di 10 milioni fu riservato alla sola Radio Free Europe, che nel giro di pochi anni avrebbe avuto 29 stazioni di radiodiffusione e trasmesso in 16 lingue diverse, fungendo anche da canale per l’invio di ordini alla rete di informatori presente al di là della Cortina di Ferro.

Il nome della sezione incaricata di reperire fondi per il National Committee era Crusade for Freedom e ne era portavoce un giovane attore di nome Ronald Reagan…

L’uso delle fondazioni filantropiche si rivelò il modo più efficace per far pervenire consistenti somme di denaro ai progetti della CIA, senza mettere in allarme i destinatari sulla loro origine. Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nella fondazioni: durante il periodo 1963-1966, delle 700 donazioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni durante lo stesso periodo nel campo delle attività internazionali.
Si riteneva che le fondazioni prestigiose, quali Ford, Rockfeller e Carnegie, assicurassero “la migliore e più credibile forma di finanziamento occulto. Questa tecnica risultava particolarmente opportuna per le organizzazioni gestite in modo democratico, dato che devono poter rassicurare i propri membri e collaboratori ignari, come pure i critici ostili, di essere in grado di contare su forme di finanziamento privato, autentico e rispettabile – sottolineava uno studio interno della stessa CIA risalente al 1966.
Addirittura, all’interno della Fondazione Ford venne istituita un’unità amministrativa specificamente addetta a curare i rapporti con la CIA, che avrebbe dovuto essere consultata ogni volta che l’agenzia avesse voluto usare la fondazione come copertura o canale finanziario per qualche operazione. Essa era formata da due funzionari e dal presidente della fondazione stessa, John McCloy il quale era già stato segretario alla Difesa e presidente, nell’ordine, della Banca Mondiale, della Chase Manhattan Bank di proprietà della famiglia Rockfeller e del Council on Foreign Relations, nonché legale di fiducia delle Sette Sorelle. Un bel curriculum, non c’è che dire.

Uno dei primi dirigenti della CIA ad appoggiare il Congresso per la libertà della cultura fu Frank Lindsay, veterano dell’OSS che nel 1947 aveva scritto uno dei primi rapporti interni in cui si raccomandava agli Stati Uniti di creare una forza segreta per la Guerra Fredda. Negli anni fra il 1949 ed il 1951, come vicedirettore dell’Office of Policy Coordination (OPC), dipartimento speciale creato all’interno della CIA per le operazioni segrete, Lindsay divenne responsabile dell’allestimento dei gruppi Stay Behind in Europa, meglio conosciuti in Italia come Gladio. Nel 1953 passò alla Fondazione Ford, senza per ciò perdere i suoi stretti contatti con gli ex colleghi dell’intelligence.

Quando, nel 1953, Cecil DeMille accettò di diventare consigliere speciale del governo statunitense per il cinema al Motion Picture Service (MPS), si recò all’ufficio di C.D. Douglas, il quale avrebbe poi scritto di lui: “ E’ completamente dalla nostra parte ed (…) è ben consapevole del potere che i film americani hanno all’estero. Ha una teoria, che condivido pienamente, secondo cui l’uso più efficace dei film americani si ottiene non con il progetto di un’intera pellicola che affronti un determinato problema, ma piuttosto con l’introduzione in un’opera “normale” di un certo dialogo appropriato, di una battuta, un’inflessione della voce, un movimento degli occhi. Mi ha detto che ogni volta che gli darò un tema semplice per un certo Paese o una certa regione, troverà il modo di trattarlo e di introdurlo in un film”.
Il Motion Picture Service, sommerso dai finanziamenti governativi tanto da diventare una vera e propria impresa di produzione cinematografica, dava lavoro a registi-produttori che venivano preventivamente esaminati ed assegnati al lavoro su film che promuovevano gli obiettivi degli Stati Uniti e che avrebbero dovuto raggiungere un pubblico sul quale bisognava agire attraverso il cinema. L’MPS forniva consulenze ad organismi segreti sulle pellicole appropriate per una distribuzione sul mercato internazionale; si occupava, inoltre, della partecipazione statunitense ai vari festival che si svolgevano all’estero e lavorava alacremente per escludere i produttori statunitensi ed i film che non sostenevano la politica estera del Paese.

Il principale gruppo di pressione per sostenere l’idea di un’Europa unita strettamente alleata agli Stati Uniti era il Movimento Europeo, cui facevano capo molte organizzazioni, e che copriva una serie di attività dirette all’integrazione politica, militare, economica e culturale. Guidato da Winston Churchill in Gran Bretagna, Paul Henri Spaak in Belgio ed Altiero Spinelli in Italia, il movimento era attentamente sorvegliato dall’intelligence statunitense e finanziato quasi interamente dalla CIA attraverso una copertura che si chiamava American Committee on United Europe. Braccio culturale del Movimento Europeo era il Centre Européen de la Culture, diretto dallo scrittore Denis de Rougemont. Fu attuato un vasto programma di borse di studio ad associazioni studentesche e giovanili, tra cui la European Youth Campaign, punta di diamante di una propaganda pensata per neutralizzare i movimenti politici di sinistra.
Per quanto poi riguarda quei liberali internazionalisti fautori di un’Europa unita intorno ai propri principi interni, e non conforme agli interessi strategici statunitensi, a Washington essi non erano considerati migliori dei neutralisti, anzi portatori di un’eresia da distruggere.

Nel 1962, la notorietà del Congresso per la libertà della cultura calamitò anche attenzioni tutt’altro che desiderate dai suoi ispiratori.
Durante un programma televisivo della “BBC”, That Was The Week That Was, il Congresso fu oggetto di una penetrante e brillante parodia ideata da Kenneth Tynan. Essa iniziava con la battuta: “E’ ora, le novità della Guerra Fredda nella cultura”. Poi continuava mostrando una mappa rappresentante il blocco culturale sovietico, dove ogni cerchietto indicava una postazione culturale strategica: basi teatrali, centri di produzione cinematografica, compagnie di danza per la produzione di missili “ballettistici” intercontinentali, case editrici che lanciano enormi tirature di classici a milioni di lettori schiavizzati, insomma dovunque si guardasse un massiccio indottrinamento nel suo pieno sviluppo. E si chiedeva: noi, qua in Occidente, abbiamo un’effettiva capacità di risposta?
Sì, era la risposta, c’è il buon vecchio Congresso per la libertà della cultura sostenuto dal denaro americano che ha allestito un certo numero di basi avanzate, in Europa e nel mondo, funzionanti come teste di ponte per rappresaglie culturali. Basi mascherate con nomi in codice, come “Encounter” – la più conosciuta delle riviste patrocinate dal Congresso – che è l’abbreviazione, si ironizzava, di Encounterforce Strategy.
Entrava allora in scena un portavoce del Congresso, con un mazzo di riviste che rappresentavano a suo dire una sorta di NATO culturale, il cui obiettivo era il contenimento culturale, cioè mettere un recinto intorno ai rossi. Con missione storica quella di raggiungere la leadership mondiale dei lettori, succeda quel che succeda, “noi del Congresso sentiamo come nostro dovere tenere le nostre basi in allarme rosso, ventiquattro ore su ventiquattro”.
Una satira mordace ed impeccabilmente documentata, che provocò notti insonni a Michael Josselson, organizzatore del Congresso.

Durante l’estate del 1964, sorse una questione assai preoccupante.
Nel corso di un’inchiesta parlamentare sulle esenzioni fiscali alle fondazioni private, diretta da Wright Patman, si verificò una fuga di notizie che identificava otto di queste come coperture della CIA. Esse sarebbero state nient’altro che buche per lettere cui corrispondeva solo un indirizzo, approntate dalla CIA per ricevere denaro dalla stessa, in modo apparentemente legale. Una volta che i soldi arrivavano, le fondazioni facevano una donazione ad un’altra fondazione largamente conosciuta per le sue legittime attività. Contributi, questi ultimi, che venivano debitamente registrati secondo la normativa fiscale vigente nel settore no profit, sui moduli denominati 990-A. L’operazione si concludeva infine con il versamento del denaro all’organizzazione che la CIA aveva previsto dovesse riceverlo.
Le notizie filtrate dalla commissione Patman aprirono, seppure solo per un breve momento, uno squarcio sulla sala macchine dei finanziamenti segreti. Alcuni giornalisti particolarmente curiosi, ad esempio quelli del settimanale “The Nation”, riuscirono a mettere insieme i pezzi del puzzle, chiedendosi se fosse legittimo che la CIA finanziasse, con questi metodi indiretti, vari congressi e conferenze dedicate alla “libertà culturale” o che qualche importante organo di stampa, sostenuto dall’agenzia, offrisse lauti compensi a scrittori dissidenti dell’Europa orientale.
Sorprendentemente (sorprendentemente?), non un solo giornalista pensò di indagare ulteriormente. La CIA eseguì una severa revisione delle sue tecniche di finanziamento, ma non ritenne opportuno riconsiderare l’uso delle fondazioni private come veicoli per il finanziamento delle operazioni clandestine. Anzi, secondo l’agenzia, la vera lezione da apprendere in seguito allo scandalo suscitato dalla commissione Patman era che la copertura delle fondazioni per erogare i finanziamenti doveva essere usata in maniera più estesa e professionale, innanzitutto sborsando fondi anche per i progetti realizzati sul suolo degli Stati Uniti.
Michael Josselson, dalla fine di quel anno, tentò di proteggere la sua creatura dalle rivelazioni, considerando pure di mutarne il nome, e cercò persino di recidere i legami economici con la CIA sostituendoli in toto con un finanziamento della Fondazione Ford.
Tutto ciò non valse a nulla se non a posticipare un esito ormai segnato. Il 13 maggio 1967 si tenne a Parigi l’assemblea generale del Congresso per la libertà della cultura che ne sancì la sostanziale fine, pur se le attività si trascinarono, stancamente ed in tono assai minore, fino alla fine degli anni settanta.

Era infatti successo che la rivista californiana “Ramparts”, nell’aprile 1967, aveva pubblicato un’inchiesta sulle operazioni segrete della CIA, nonostante una campagna di diffamazione lanciata a suo danno nel momento in cui l’agenzia era venuta a conoscenza del fatto che la rivista era sulle tracce delle sue organizzazioni di copertura. Le scoperte di “Ramparts” furono prontamente rilanciate dalla stampa nazionale e seguite da un’ondata di rivelazioni, facendo emergere le coperture anche al di fuori degli Stati Uniti, a cominciare dal Congresso e le sue riviste.
Già prima delle denunce di “Ramparts”, il senatore Mansfield aveva chiesto un’indagine parlamentare sui finanziamenti clandestini della CIA, alla quale il presidente Lyndon Johnson rispose istituendo una commissione di soli tre membri. La commissione Katzenbach, nella sua relazione conclusiva emessa il 29 marzo 1967, sanzionava ogni agenzia federale che avesse segretamente fornito assistenza o finanziamenti, in modo diretto od indiretto, a qualsiasi organizzazione culturale statale o privata, senza fini di lucro. Il rapporto fissava la data del 31 dicembre 1967 come limite per la conclusione di tutte le operazioni di finanziamento segreto della CIA, dandole così l’opportunità di concedere un certo numero di sostanziose assegnazioni finali (nel caso di Radio Free Europe, questo importo le avrebbe permesso di continuare a trasmettere per altri due anni).
In realtà, come si evince da una circolare interna poi emersa nel 1976, la CIA non vietava le operazioni segrete con organizzazioni commerciali statunitensi né i finanziamenti segreti di organizzazioni internazionali con sede in Paesi stranieri. Molte delle restrizioni adottate in risposta agli eventi del 1967, più che rappresentare un significativo ripensamento dei limiti alle attività segrete dell’intelligence, appaiono piuttosto misure di sicurezza volte ad impedire future rivelazioni pubbliche che potessero mettere a repentaglio delicate operazioni della stessa CIA.

Ne vogliamo riparlare?

N.B.: la fonte principale delle informazioni presentate in questo articolo è il libro “Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale” di Frances Stonor Saunders, pubblicato per la prima volta nel Regno Unito nel 1999 ed in traduzione italiana da Fazi Editore nel 2004 nella collana “Le terre” e nel 2007 in quella “Tascabili saggi”.

Khrushchev in America: “Nessuna zuppa di cavolo acido per queste persone”

Nel settembre del 1959, Nikita Khrushchev divenne il primo leader sovietico a visitare l’America. Fu un evento straordinario e un momento fondamentale nella Guerra Fredda.

Nato nel 1894, figlio di contadini poveri in Russia, la vita di Khrushchev descrive quello che è probabilmente il periodo più drammatico della storia russa, a cavallo tra la Prima Guerra Mondiale, le rivoluzioni di Febbraio e Ottobre 1917, la guerra civile 1918-1922 che seguì, gli sconvolgimenti degli anni ’20, seguiti dai piani quinquennali e dalle epurazioni degli anni ’30.
Comprende anche la Seconda Guerra Mondiale e il periodo post-staliniano, un periodo in cui Khrushchev fu personalmente e politicamente centrale con il suo famigerato “discorso segreto” del 1956 al 20° Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) a Mosca.
Per un leader la cui carriera politica era strettamente legata a quella di Stalin, il discorso fu considerato da alcuni un atto di tradimento – un cinico tentativo di calmare la propria coscienza prendendo le distanze dai brutali eccessi del suo predecessore. Altri considerarono il discorso coraggioso e necessario, iniziando il disgelo di una cultura politica sclerotica all’interno delle alte sfere del Partito e del governo che era incompatibile con i tempi, permettendo così al Paese e alla sua gente di respirare più facilmente.
A prescindere dai perché e dai percome, ciò che non può essere smentito è che l’educazione contadina e lo stile casalingo di Khrushchev smentivano un leader che era disposto a rischiare a casa e anche sul palcoscenico internazionale. Egli comprendeva bene la cruciale distinzione tra purezza dottrinale che sembra buona sulla carta e politiche che superano la prova più importante di essere applicabili alle condizioni del mondo reale, assicurando che non potesse mai essere accusato di essere prigioniero di posizioni ideologiche fisse.
I frutti di tale visione del mondo non furono mai più evidenti che in una politica estera definita dall’obiettivo di una pacifica convivenza con l’Occidente. Ed è qui che torniamo ad un affascinante episodio della storia della Guerra Fredda, quando il premier sovietico, su invito del presidente Eisenhower, intraprese un tour di due settimane negli Stati Uniti il 15-27 settembre 1959. Continua a leggere

Ascoltatori italiani buonasera!

51e9Mf3qFOL._SX352_BO1,204,203,200_Voice of America e l’Italia 1942-1957
di Simona Tobia,
Libraccio Editore, 2014, pp. 216

Per quindici anni, a cavallo tra seconda guerra mondiale e Guerra Fredda, la Voce dell’America portò nelle case degli Italiani una versione della ‘verità’ confezionata dai propagandisti di Washington. Con un budget di svariati milioni di dollari, negli anni Cinquanta l’emittente arrivò a trasmettere in 45 lingue in tutto il mondo, e l’Italia fu da subito in cima alla lista dei Paesi nel mirino della diplomazia culturale delle amministrazioni Truman e Eisenhower.
Questo libro prende in esame tutto ciò che avveniva a microfoni spenti, dai legami tra intelligence, politiche governative statunitensi e radio italiana, fino ai network creati per conquistare i cuori e le menti degli ascoltatori della RAI. Una stretta collaborazione, che si realizzò nonostante la fiera resistenza di alcuni suoi dirigenti, permise alla RAI di trasmettere regolarmente programmi prodotti a New York e Washington dalle agenzie governative americane, e di lanciare quello che presto sarebbe diventato uno dei personaggi più importanti del broadcasting italiano: Mike Bongiorno.

[Dello stesso autore: Advertising America]

Requiem per una democrazia

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Non fa piacere vedere gli Stati Uniti, a lungo considerati il tempio della democrazia, assoggettarsi sempre più ai voleri imposti da potenti lobbies, o gruppi di pressione, che dominano ogni aspetto della vita del Paese. Per decenni la lobby degli espatriati cubani della Florida ha ricattato il governo di Washington, mettendolo di fronte all’alternativa di perdere un notevole numero di voti nel caso avesse riconosciuto il regime di Fidel Castro e, conseguentemente, eliminato l’embargo economico. Tali espatriati, tutti ferventi sostenitori del dittatore Fulgencio Batista, erano motivati dall’assurda speranza di ritornare un giorno nell’isola e di rientrare in possesso dei loro beni. Non sembrava neppure sfiorargli la mente il fatto che loro stessi erano stati la causa dell’avvento della rivoluzione cubana, avendo mantenuto gran parte della popolazione dell’isola in stato di semi schiavitù.
La rottura delle relazioni con l’isola e la relativa imposizione dell’embargo economico era stato decretato nel 1960 dall’allora presidente Eisenhower a seguito dell’atteggiamento castrista di fomentare la rivoluzione socialista nel mondo e di accordare protezione ai terroristi. Nonostante che tutte le nazioni avessero mantenuto normali relazioni con l’isola, gli Americani -sotto l’impulso della lobby degli espatriati della Florida- si erano rifiutati di mutare la loro posizione, malgrado che il regime castrista avesse abbandonato la sua politica rivoluzionaria. Spettava recentemente al presidente Obama di ignorare le pressioni della lobby dei fuoriusciti cubani e di dare l’avvio a un nuovo capitolo nella storia delle relazioni tra i due popoli.
Di gran lunga più potente doveva dimostrarsi la lobby destinata a opporsi a quello che viene giustamente considerato il fiore all’occhiello della politica estera di Obama, vale a dire l’accordo con l’Iran per convincere quel Paese a rinunciare alla costruzione di ordigni nucleari. In base a tale trattato, sostenuto da tutti i Paesi europei, l’Iran si impegnava a usare i suoi impianti nucleari per scopi esclusivamente pacifici, in cambio dell’eliminazione dell’embargo economico al quale era sottoposto da anni. Il più strenuo oppositore del trattato appariva il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che insisteva sulla tesi che l’Iran avrebbe dovuto rinunciare a tutte le sue installazioni nucleari, in quanto a lungo andare avrebbero potuto essere convertite per la produzione di armi atomiche. Anche se Netanyahu giustificava la sua richiesta con il fatto che l’Iran non accennava ad abbandonare la sua politica di inimicizia verso Israele, non si poteva negare che l’Iran, in qualità di Paese sovrano, avesse il diritto di usare l’energia nucleare per scopi non militari come tanti altri. A detta di molti osservatori, peraltro, ogni tentativo di imporre condizioni più stringenti sarebbe servito ad esacerbare ancor più le relazioni con quel Paese. La pretesa di Netanyahu di avere un Medio Oriente privo di armi nucleari, peraltro, non mostrava molta coerenza, dal momento che Israele disponeva di un grosso arsenale atomico, anche se si guardava bene dal confermarlo.
Il presidente Obama, da parte sua, pur rassicurando Israele che il trattato conteneva sufficienti disposizioni da garantire l’adempienza da parte dell’Iran, aveva ammonito che l’eventuale fallimento delle trattative avrebbe potuto sollevare lo spettro di un nuovo conflitto. A questo riguardo aveva accusato coloro che si opponevano al trattato di essere gli stessi che a suo tempo si erano schierati in favore della guerra in Irak, malgrado l’assenza di valide prove sull’esistenza di armi di distruzione di massa. Il trattato è ora all’esame del Congresso americano, dove si prevede incontrerà una forte opposizione data la profonda ostilità esistente tra l’organo legislativo, dominato dai Repubblicani, e quello esecutivo. In effetti, ogni iniziativa del presidente Obama, dal programma per assicurare una copertura medica a tutti gli Americani a quello per affrontare l’immigrazione illegale nel Paese, e ora al trattato nucleare con l’Iran, ha incontrato una indiscriminata e talvolta assurda opposizione.
Nel caso che il Congresso americano esprimesse parere sfavorevole sul trattato, al presidente non rimarrebbe che apporre il suo veto alla risoluzione parlamentare, ricorrendo al suo potere esecutivo. Ma non è finita qui. Il Congresso, a sua volta avrebbe ancora una possibilità di sbarazzarsi del trattato mettendo insieme due terzi di voti sfavorevoli in ciascuna camera per annullare il veto presidenziale. Le possibilità che il veto potesse essere superato, tuttavia, risultavano assai remote, dal momento che i Repubblicani da soli non avrebbero avuto i voti necessari.
In questo scenario era inevitabile che l’iniziativa fosse passata alla varie lobbies che avevano l’obiettivo di imporre le vedute di Netanyahu negli Stati Uniti, sovvenzionate in gran parte da miliardari americani favorevoli a Israele. L’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), la potente lobby creata all’indomani della nascita di Israele, in particolare, ha stanziato decine di milioni di dollari per allestire una imponente campagna sui vari media del Paese diretta a screditare l’operato di Obama e, principalmente, a fare affluire a Washington migliaia di simpatizzanti con lo scopo di fare pressione sui rappresentanti democratici dei vari Stati. Una importante vittoria di questa tattica è stata la recente defezione di Chuck Schumer, un influente senatore democratico di New York particolarmente legato a Israele, che ha deciso di opporsi a Obama e di unirsi ai Repubblicani per respingere il trattato.
Il presidente Obama si è affrettato ad accusare l’AIPAC di spargere voci tendenziose sul trattato al fine di falsarne il contenuto e di interferire in maniera inaccettabile sulla politica americana, accentuando ancor più la divergenza di opinioni con il primo ministro Netanyahu. Nel frattempo, in Israele non sono mancati coloro che hanno criticato la posizione intransigente del primo ministro, che avrebbe finito per mettere a dura prova le relazioni tra il loro Paese e gli Stati Uniti, sicuramente i più fedeli dei loro alleati.
Gian Carlo Treggi

(Fonte: Gazzetta di Parma dell’8/9/2015, p. 38)

Dello stesso autore: Gli sceriffi della domenica

Chi governa davvero l’America

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Mi capita spesso di pensare cosa direbbe Eisenhower se fosse ancora vivo oggi. L’Eisenhower che, con straordinario coraggio, nel 1961 denunciò il predominio « palese e occulto » del complesso militare-industria negli Stati Uniti. Temo che la situazione di oggi non gli piacerebbe affatto. Quel complesso esiste ancora e si è arricchito di un terzo protagonista: la finanza.
Eisenhower mi è venuto alla mente leggendo il saggio di Gianfranco Peroncini, La nascita dell’impero americano. 1934-1936: la Commissione Nye e l’intreccio industriale, militare e politico che ha governato il mondo, edito da Mursia, che, come molti bei libri non ha avuto finora la risonanza che merita. Tema difficile e in apparenza lontano da noi: a chi può interessare l’operato di una commissione parlamentare americana, composta da americani esemplari e idealisti, che ha esaminato le vere cause dell’entrata in guerra degli USA durante la Prima guerra mondiale? E invece il tema è più che mai attuale e non solo per la concomitanza col centenario dello scoppio della Grande Guerra. A colpire sono le straordinarie e amarissime similitudini con l’America di oggi; è scoprire che un fenomeno pericolosamente degenerativo ha radici ben più profonde di quanto immaginato.
Oggi il problema degli USA è il predominio quasi assoluto e pervicace delle lobby nelle istituzioni, nel governo, nel Congresso e persino nella Giustizia. Sono loro che comandano davvero gli Stati Uniti, come ben sanno i commentatori più coraggiosi e intellettualmente onesti. Il problema è che leggendo il bel saggio di Peroncini ci si accorge di come il problema non sia recente ma abbia radici lontanissime. Ovvero non risale a 50 ma a 100 anni fa. Già allora un tarlo pericolosissimo stava erodendo le fondamenta dell’America, preservandone – e non è un caso – la facciata. Oggi non c’è corrispondenza tra i suoi Valori più alti e le Sue istituzioni, che sono dominate da una classe politico-affaristica solo in apparenza rispettabile. Eppur onnipotente.
Marcello Foa

Fonte

Sedurre gli intellettuali per ammaestrare il popolo

L’ambasciatrice statunitense Clare Boothe Luce in Italia (1953-1956)

Con la fine della Seconda guerra mondiale, la rete dei servizi d’informazione USA sviluppata dall’Office of War Information (OWI) e dallo Psychological Warfare Branch (PWB) inizia a chiamarsi United States Information Service (USIS), in Italia come nel resto del mondo.
All’USIS, e all’emittente radiofonica La Voce dell’America, attiva in Italia già dal Febbraio 1942, viene affidato il compito di agire “nel campo dell’educazione e della formazione mentale degli italiani, per avviarli a una visione democratica della vita”, secondo le parole dell’ammiraglio Ellery Stone, capo della Commissione alleata di controllo in Italia.
Inizialmente le sedi dell’USIS sono cinque, presso l’ambasciata e i consolati americani a Roma, Milano, Firenze, Napoli e Palermo, mentre sale di lettura vengono progressivamente allestite anche a Genova, Torino, Bari e Bologna, come primo passo per la costituzione dell’USIS nei consolati di queste città.
Il Notiziario quotidiano per la stampa, prodotto a Roma sulla base di un bollettino che viene radiotelegrafato da New York e poi tradotto e distribuito gratuitamente ai giornali italiani, è l’organo principale di trasmissione delle notizie adottato dall’USIS. In Italia ne giunge un’edizione appositamente studiata per l’Europa occidentale, che riporta notizie riguardanti soprattutto la politica estera statunitense e vari approfondimenti, nonché i testi completi dei discorsi ufficiali di autorevoli personalità.
Dal 1949, l’USIS inizia a collaborare con la propaganda del Piano Marshall, gestita direttamente dall’ente che si occupa dell’erogazione degli aiuti, l’Economic Cooperation Administration (ECA). In quello stesso periodo, diventa sempre più importante anche la propaganda legata alla firma del Patto Atlantico, siglato formalmente il 4 Aprile 1949. Da quel momento in poi, i temi riguardanti la “sicurezza” e la “pace” occupano un posto di assoluto riguardo nella politica informativa dell’USIS, con una tendenza che si consolida a partire dalla nascita della NATO nel 1950.
Tutto il programma informativo dipende direttamente dall’ambasciatore e dal direttore dell’USIS, ruolo che dalla fine del 1950 è ricoperto da Lloyd A. Free, già docente all’università di Princeton e vicedirettore dell’Office of International information, con competenza su stampa, cinema e trasmissioni radiotelevisive, presso il Dipartimento di Stato.
A partire dal 1951, grazie all’aumento dei finanziamenti a disposizione, l’USIS Italia conosce una grande crescita, con 61 impiegati statunitensi e 237 italiani, per quasi la metà in servizio presso l’ambasciata di Roma e il resto distribuiti negli altri nove uffici presenti nel Paese.
Ma la scossa più grande al programma informativo e alla conduzione della politica estera americana in Italia doveva ancora arrivare, e ciò sarà per merito di una donna… Continua a leggere

C’era una volta l’USIA

Verso la fine degli anni Novanta scriveva John Kleeves, nel suo Divi di Stato. Il controllo politico su Hollywood, Edizioni Settimo Sigillo (pp. 100-104):

“Alla fine ci si rese conto che occorreva una entità centrale che presiedesse alla propaganda americana all’estero. Si trattava di controllare l’informazione che nasceva negli Stati Uniti, così uniformata ma “spontanea” e quindi con dei difetti, e di integrarla con altra appositamente prodotta. Quindi occorreva convogliare il tutto all’estero nei dovuti ed efficaci modi. All’estero bisognava coordinare tale informazione con quella prodotta, controllata e diffusa dalla CIA, la Central Intelligence Agency, che era stata istituita nel 1947 sull’impianto dell’OSS (Office of Strategic Services, il servizio segreto militare del periodo di guerra, mai smantellato). La CIA si occupava essenzialmente di spionaggio politico e di sovversioni, di neo-colonizzazioni, ed un suo normale strumento operativo era la propalazione di notizie false, sia sul “nemico” che sugli Stati Uniti, oltre che naturalmente su tante altre cose. Tale propaganda della CIA andava anche controllata, supportata e resa il più possibile omogenea con quella che proveniva dagli Stati Uniti. In poche parole occorreva una entità responsabile dell’immagine estera degli Stati Uniti, cui facessero capo tutte le attività controllabili dal governo americano che contribuivano a formarla. Niente di più logico: gli Stati Uniti, in fondo non sono una nazione, ma giusto una azienda privata di dimensioni abnormi e con un proprio esercito, e le occorreva un Ufficio Pubbliche Relazioni centralizzato.
II 1° agosto 1953, durante la presidenza di Ike Eisenhower, veniva così istituita la United States Information Agency, USIA. Il suo compito era:
“Influenzare le attitudini e le opinioni del pubblico estero in modo da favorire le politiche degli Stati Uniti d’America… e di descrivere l’America e gli obiettivi e le politiche americane ai popoli di altre nazioni in modo da generare comprensione, rispetto e, per quanto possibile, identificazione con le proprie legittime aspirazioni… e dimostrare e documentare di fronte al mondo i disegni di coloro che minacciano la nostra sicurezza e cercano di distruggere la libertà”.
(…)
Era una Agenzia simile alla CIA, pubblica nell’esistenza ma segreta nell’operatività. Dipendeva ovviamente dal Dipartimento di Stato, e cioè dal Ministero degli Esteri.
Venne rapidamente ad avere dimensioni gigantesche. Svolgeva le sue mansioni controllando le fonti dell’informazione interna; favorendo l’esportazione della più adatta; presiedendo agli scambi culturali fra gli Stati Uniti e gli altri Paesi, comprendendo con la dizione anche i settori dello spettacolo e dello sport; fungendo da consulente per la CIA all’estero; cercando di influenzare il maggior numero possibile di media esteri, nei vari Paesi. Per quest’ultimo scopo verso la metà degli anni Sessanta (quando si aprì una fortuita finestra sulle sue attività) gestiva quasi 250 centrali operative segrete all’estero, in più di 100 Paesi. Qui si pubblicavano dietro altre ragioni sociali svariate centinaia di periodici, fra grandi e piccoli, di ogni settore, dalla politica allo spettacolo allo sport ai fumetti; la tiratura totale annua era di 29 milioni di copie. Influenzava per mille vie e leveraggi un numero multiplo di insospettabili media esteri, fra Case cinematografiche e discografiche, reti televisive e radio, quotidiani e settimanali a diffusioni nazionali e locali. Influenzava la maggioranza delle agenzie di stampa internazionali, sicuramente quelle del “mondo libero”, tipo l’inglese Reuter, la francese France Press, l’italiana ANSA e così via. Gestiva poi in prima persona alcuni strumenti mediatici di grande potenza, fra cui spiccava la rete radiofonica mondiale Voice of America (VOA), che alla metà dei Sessanta diffondeva 790 ore di programmi alla settimana in moltissimi Paesi, e in qualche decina di lingue.
L’attività dell’USIA rientrava nello Smith-Mundt Act e quindi le sue creazioni non potevano essere diffuse negli Stati Uniti, comprese le trasmissioni della VOA. Anzi, stando sempre al suo statuto, l’USIA non potrebbe eseguire nessun tipo di attività nel territorio statunitense.
(…)
Occorre citare almeno l’attività di promozione all’estero di prodotti culturali americani adatti; eseguita in concerto con le Multinazionali interessate. Rientravano nell’ambito libri di qualunque genere, anche romanzi o gialli; dischi di musica leggera; film e cartoni animati. Veniva incoraggiata la traduzione di opere, resa allettante in più modi la loro stampa a grande tiratura; ad autori americani venivano fatti vincere premi all’estero. Cantanti americani erano indotti a compiere tournee all’estero anche se non abbastanza remunerative per loro. Non era difficile che tali tournee fossero organizzate in periodi elettorali, o di particolare tensione politica per i Paesi ospiti. Venivano premiati in mille modi gli organizzatori di spettacoli ed i presentatori dei vari Paesi che inserivano molto materiale americano e che lo trattavano con ammirazione. Le star di Hollywood venivano inviate a partecipare a trasmissioni televisive o a manifestazioni. Shirley Temple compì numerosissime visite all’estero, sin da quando era la bambina prodigio chiamata “riccioli d’oro”: serviva ad offrire un’immagine di grazia ed innocenza agli USA e fu mandata specialmente in Paesi africani. L’Italia fu sin da subito un Paese principe per tali attività dell’USIA. Gli italiani – un popolo con forti limiti intellettuali – si entusiasmavano per divi e dive di Hollywood, e per le rock star americane, e mai sospettarono di essere manipolati. Almeno un paio dei notissimi presentatori o presentatori-imitatori italiani traevano molti vantaggi dai loro contatti con l’USIA.
Accanto alla promozione dei propri prodotti c’era lo sbarramento da effettuare sulla concorrenza, che era sia commerciale che culturale, cioè nociva sia per le Multinazionali statunitensi (case cinematografiche, discografiche ed editoriali) che per l’USIA. Così nei vari Paesi esteri, dove si poteva, si ostacolava la diffusione di filmografie, musiche ed opere stampate non di origine statunitense. Questa azione fu molto più efficace di quanto non si riesca a sospettare: la diffusione nel mondo di certe filmografie, musicalità e letterature è molto inferiore a quanto meriterebbero e ciò è dovuto proprio all’azione combinata delle Multinazionali statunitensi e dell’USIA. Basti pensare alla musica sudamericana, alla filmografia italiana, alla letteratura francese.
(..)
L’USIA è ancora in attività. Attualmente la sede centrale è al 301 IV South West Street di Washington e il suo direttore si chiama Joseph Duffey, che risponde direttamente alla signora Madeleine Albright. La sua consistenza attuale non è nota ma varie indicazioni portano a dimensioni molto superiori a quelle degli anni Sessanta, che si possono fissare nell’attualità ad un budget sui 3 miliardi di dollari e ad un personale sulle 30.000 unità; le centrali estere sono attualmente quasi 300, distribuite in circa 120 Paesi (dopo il 1993 l’USIA ha dovuto sobbarcarsi l’onere della propaganda in molti Paesi “nuovi”, dell’Europa Orientale ed ex URSS).
(…)
Gli scopi statutari dell’USIA sono ancora esattamente quelli fissati dal Congresso nel 1953. Essi prevedevano di descrivere bene gli Stati Uniti e male i loro nemici, senza chiamarli per nome. Il crollo del Muro di Berlino del 1989 non ha cambiato tali scopi. Ha annullato la Guerra Fredda, eliminando la figura dell’URSS-Impero del Male. Però, a parte la Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno sempre bisogno di un Nemico Planetario, di qualcuno da combattere ogni dove e che fornisca la scusa di sovvertire il mondo, in particolare sempre il Terzo Mondo. Proprio in questi anni si sta studiando chi possa essere il Nemico Planetario del futuro. Si stanno esaminando il Terrorismo Internazionale ed il Traffico Internazionale di Droga (si, quello gestito in ultima analisi proprio dal governo americano), ma pare che non sia ancora stata scelta una via da seguire con decisione. La Cina andrebbe bene, ma non ha le caratteristiche di pericolosità mondiale che potevano essere attribuite all’URSS. Rimane certamente inalterata per l’USIA la funzione di descrivere gli Stati Uniti come Impero del Bene, il che è ciò che più interessa nel presente lavoro.
A scanso di equivoci è bene dire che anche oggigiorno le attività dell’USIA ricadono nello Smith-Mundt Act del 1948. Si può narrare in merito il seguente episodio. Nel 1985 un radioamatore dello Stato di Washington, tale Edwin A. Smith, captò una trasmissione della VOA intitolata “Africa in Print”. Sorpreso dal contenuto, che gli pareva inverosimile, una menzogna completa, chiese un trascritto della trasmissione, come in effetti aveva proposto a tutti gli interessati l’annunciatore alla fine della trasmissione. Il trascritto gli fu negato. Smith aveva in mente il Freedom of Information Act, una legge del Congresso che stabilisce il diritto di ogni cittadino americano ad ottenere qualunque documento del governo che non sia definito classified o top secret, e fece ricorso, Ebbene, un tribunale federale gli diede torto: il materiale propagandato dall’USIA all’estero può essere ottenuto solo da membri del Congresso, e dietro richiesta da valutare di volta in volta; per gli altri cittadini americani è anche reato tentare di captare le trasmissioni radio della VOA.”

Abbiamo rintracciato in rete The United States Information Agency: A Commemoration, volume autocelebrativo pubblicato all’indomani della sua integrazione con il Dipartimento di Stato, in virtù del Foreign Affairs Restructuring and Reform Act del 1998, che presenta una ricca fenomenologia dell’ingerenza diplomatica statunitense in ogni angolo del globo, attraverso i racconti e gli aneddoti dei funzionari USIA.
Qui, invece, si trova una guida generale sull’Agenzia, elaborata solo pochi mesi prima, con il dettaglio delle attività svolte.

[Se il video non risulta visibile, potete vederlo qui]

John Hopkins University, Bologna: studiare, e non solo

In questo articolo daremo qualche informazione sulla Paul H. Nitze School of Advanced International Studies (SAIS, Scuola di Studi Internazionali Avanzati) di Bologna, spesso identificata semplicemente come la “Johns Hopkins di Bologna”, ovvero la sezione italiana della SAIS della Johns Hopkins University di Washington.
Il ruolo e gli obiettivi “profondi” di questa istituzione “italiana” sono impliciti nelle vicende della sua storia e dei suoi protagonisti e nel modo in cui si è sempre posta  in relazione con l’ambiente esterno; crediamo che per i lettori di questo blog non sarà difficile riconoscerli.
La Johns Hopkins University è stata fondata nel 1876 negli USA. Dopo 130 anni di attività, essa si pone oggi come leader nell’insegnamento e nella ricerca in numerose discipline. Oltre alle relazioni internazionali, l’università ha altri corsi come quelli in medicina, economia, scienze naturali, ingegneria e musica. Le sedi di questi diversi dipartimenti si trovano tutti nell’area di Baltimora – Washington, compresa la sede del dipartimento che si occupa delle relazioni internazionali, la già citata Paul H.Nitze School of Advanced International Studies, la casa madre di quella italiana, che ha sede nell’area del Dupont Circle di Washington.
A differenza degli altri rami fondati a fine XIX ed inizio XX secolo, la nascita della SAIS è relativamente recente. Essa fu fondata come scuola autonoma nel 1943, durante la seconda guerra mondiale,  da due uomini di stato che faranno significative carriere nel governo statunitense, Christian A. Herter e Paul H. Nitze.
Dal primo prende nome il comitato (Herter Committee) che nel 1947 ha presentato la relazione dalla quale sono scaturite le proposte che hanno portato al Piano Marshall del presidente Truman e sarà, tra le altre cose, segretario di Stato sotto Eisenhower; il secondo coprirà importanti ruoli nella maggior parte dei governi USA del dopoguerra ed è il principale autore del significativo National Security Council Report 68 firmato dal presidente Truman nel 1950, un documento importante per il cambiamento generale della politica estera statunitense verso una strategia globale di contenimento dell’URSS e che fu confermata dalle amministrazioni successive. Sarà proprio Nitze a dare il nome alla scuola di studi internazionali. Continua a leggere