Populisti, ancora uno sforzo!


L’ondata populista che attualmente imperversa sull’Europa presenta due caratteristiche principali. La prima è che si tratta innanzitutto di una forza negativa. Benché titolari del potere costituente, oggi i popoli fanno uso soltanto del loro potere destituente: il populismo è soprattutto un “dimissionismo”. Ne sono vittime i grandi partiti tradizionali, che affondano uno dopo l’altro per essere rimpiazzati da nuove formazioni. Questi vecchi partiti erano i vettori della contrapposizione destra-sinistra, mentre quelli nuovi si posizionano sulla base di altre contrapposizioni. È qui che il “momento populista” mostra di corrispondere anche ad un periodo di transizione.
L’altra caratteristica del populismo è che esso non reca intrinsecamente con sé alcun programma particolare. La ragione di ciò è che non esiste un’ideologia populista, ma solo uno stile populista, che può combinarsi con quasi tutte le ideologie. L’eventualità peggiore, da questo punto di vista, sarebbe che il risultato fosse una semplice combinazione di nazionalismo sciovinista, ritorno all’ordine morale e liberalismo economico. Si sarebbe tentati di suggerire ai populisti di dar prova di un po’ d’immaginazione. Facendo uno sforzo, per esempio, in almeno quattro domini differenti.
Populisti, per cominciare, ancora uno sforzo per non prendere posizione “contro l’Europa”! Quando la gente oggi parla dell’”Europa”, in genere vuol parlare dell’Unione Europea. Ora, il principale rimprovero che si può fare all’Unione Europea è di avere screditato ogni idea di costruzione europea. L’Europa è una cosa del tutto diversa. È al contempo una storia, uno spazio e una civiltà, che sono tra loro indissociabili (non esiste un’”Europa-mondo”: l’Europa non è l’Occidente). Tutti i Paesi europei appartengono a questa civiltà europea che è oggi globalmente minacciata. Di fronte a un’Unione Europea che è simultaneamente impotente e paralizzata, il ripiegamento nazionale non può essere altro che una strategia provvisoria. Le nazioni ormai detengono soltanto delle briciole di sovranità, le frontiere non sono più una barriera. Davanti alle minacce ed alle sfide planetarie, è più che mai importante ragionare in termini di “grandi spazi”, cioè anche in termini di civiltà.
Ancora uno sforzo, poi, per non trascurare l’ecologia! Come l’Unione Europea ha screditato l’Europa, così i “partiti verdi” hanno screditato l’ecologia, che tuttavia dovrebbe essere la prima delle preoccupazioni. Il rispetto per gli ecosistemi non è un lusso di radical-chic e gli scompensi climatici, con buona pace dei “climatoscettici”, non sono invenzioni della propaganda “mondialista”. Il mondo naturale non è un semplice scenario delle nostre esistenze, ma è una delle condizioni sistemiche della vita. La decisione di Donald Trump e di altri Bolsonari di ritirarsi dall’accordo di Parigi sul clima è perciò totalmente irresponsabile. Idem per tutte le decisioni che aggravano la situazione in nome delle esigenze del produttivismo e dello “sviluppo”. Logicamente l’ideologia dominante, la quale cerca di far scomparire tutto ciò che nell’uomo proviene dalla natura, attacca la natura stessa. La logica del profitto ha condotto all’esaurimento delle risorse naturali, alla trasformazione della Terra in un mercato-discarica. Una crescita materiale infinita è in realtà impossibile in uno spazio finito. Di qui la necessità di ristabilire quel rapporto di coappartenenza alla natura che è prevalso per secoli, finché non si è imposto un mondo-oggetto che potrebbe essere sottoposto al principio di ragione.
Ancora uno sforzo anche per non cedere alle sirene del liberalismo economico! I populismi fanno riferimento al popolo. Ora, nel sistema liberale i popoli semplicemente non esistono, perché esso vede nelle società e nelle comunità solo dei semplici aggregati di individui. Per i liberali, l’individuo si trova al primo posto, la società soltanto al secondo. D’altronde il liberalismo non ha niente da obiettare al mondialismo, perché esso cerca di sottomettere la politica all’economia, il che significa rifiutare ogni forma di sovranità, e perché esige la “libera circolazione delle persone, dei beni e dei capitali”. Fondando il suo individualismo e il suo economicismo su una concezione dell’uomo in cui l’uomo è visto come un essere desideroso soltanto di massimizzare il suo vantaggio materiale, il liberalismo rompe con ogni morale sostanziale. In un mondo in cui il supremo potere di decisione spetta ai mercati finanziari e la logica del capitale si fonda più che mai sulla soppressione di tutti i limiti, il liberalismo economico è diventato il nemico principale. I populisti farebbero bene a rendersene conto.
Ancora uno sforzo, infine, per adottare posizioni coerenti in materia di politica internazionale! Innanzitutto occorre prendere in considerazione le leggi della geopolitica. L’Europa è una potenza della Terra, ragion per cui essa privilegia tutto ciò che si riferisce ai territori, a cominciare dalla sfera del politico. Essa può solo opporsi alla potenza del Mare, la quale ignora le frontiere fisse e, come il commercio, conosce soltanto flussi e riflussi. Per questa ragione, gl’interessi europei non coincideranno mai con gl’interessi americani. La caduta del Muro di Berlino ha chiarito le cose: la Terra non si divide più tra l’impero dei Soviet e un preteso “mondo libero”. Come la contrapposizione sinistra-destra, anche quest’altra è diventata obsoleta. Ormai, da una parte c’è il mondo atlantista, dall’altra il mondo continentale europeo. Gli Stati Uniti si chiedono apertamente se possono strumentalizzare i populismi europei facendoli aderire all’asse Washington-Riyad-Tel Aviv, nella speranza di controbilanciare l’asse Mosca-Damasco-Teheran. È un allettamento evidente. Ma l’avvenire dell’Europa è dalla parte del Sole che sorge.
Alain de Benoist

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Un sicuro antidoto contro l’indifferenza

Giancarlo Paciello, con il libro edito da Petite Plaisance No alla globalizzazione dell’indifferenza, offre al lettore un testo singolare, per struttura e per respiro, coinvolgendolo in un percorso impegnativo e stimolante che spazia dalla storia all’economia, alla filosofia, al diritto, all’ecologia. Un invito a leggere il mondo contemporaneo, nelle sue diverse articolazioni e nella sua unità di fondo, con la lente critica di un pensiero forte che continua ad interrogarsi sulla storia e sulla condizione dell’uomo, un’ agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche che, oggi più che mai, offuscano la realtà brutale dei rapporti di produzione capitalistici e che non rinuncia ad indicare possibili vie d’uscita a chi non crede che questo sia “il migliore dei mondi possibili”.
Il libro è costruito attorno ad una ricchissima, per quantità e qualità, rete di riferimenti testuali che fanno di questo saggio non solo uno strumento prezioso per chiunque aspiri ad una comprensione profonda, attenta ai fondamenti storici e filosofici, della società attuale, ma anche una via maestra di accesso alle ricerche e alle teorie di tanti, significativi studiosi. Non solo: la varietà degli ambiti conoscitivi in cui si dispiegano la curiosità intellettuale e la visione universalistica dell’autore permettono al lettore di costruirsi un suo proprio percorso, approfondendo certe tematiche e scoprendo relazioni non scontate tra fenomeni apparentemente distanti. Operazione legittima , a patto di non rinunciare a scoprire l’unità dell’insieme che può sfuggire ad una lettura frettolosa. E’ l’autore stesso, nella pagina iniziale, a fornirci la bussola da utilizzare in questo viaggio: con materiale di grande valore, cucito con il filo rosso della storia e della filosofia, ha messo a punto una “coperta dell’umanità”.
Afflato universalistico, dunque: e proprio qui, nell’appassionata rivendicazione di un “universalismo universale” fondato su una comune natura umana, pur nel riconoscimento delle diversità culturali, si esercita la critica dissolvente di Giancarlo Paciello che prende le distanze dall’ideologia dominante dei “diritti umani”, ricondotti alla loro precisa matrice storica (la Rivoluzione americana e quella francese) e demistificati in quanto espressione di una fasulla ed ipocrita universalità dietro la quale si celano interessi molto, troppo particolari – politici, militari, economici – che coincidono con quelli dell’Occidente liberista.
La visione universalistica si sviluppa, invece, in tutta la sua grandezza, e urgenza, nell’attenzione posta nella necessità di un ritrovato, armonioso equilibrio tra l’uomo e la natura: l’ecologia occupa un posto centrale nella riflessione di Paciello, fa da collante tra le diverse parti del suo lavoro, tesse richiami tra ambiti differenti dell’attività umana, istituisce uno sguardo alternativo sull’economia e disegna una prospettiva di uscita dalle secche dall’attuale sistema socio-economico.
Una “ecologia integrale” non può che scontrarsi con la voracità onnivora del “capitalismo assoluto” dei nostri tempi: sostenuto dalle argomentazioni di pensatori di grande rilievo (basti qui citare Aristotele, Marx, Preve) e dalle ricerche di storici, economisti e sociologi (Hobsbawm, Bontempelli, Bevilacqua, Polanyi, Wallerstein, Michéa, Nebbia, Livi Bacci e tanti altri) l’autore fa tabula rasa di una “mitologia” capitalistica contrabbandata come incontrovertibile verità scientifica, stabilmente installata nell’immaginario contemporaneo: l’economia neoclassica, riportata alla sua natura di crematistica, accumulazione di denaro fine a se stessa, la costruzione dell’individuo “razionale”, calcolatore della teoria liberale, l’idea di un progresso infinito che disconosce il limite, l’ imbroglio ecologico” che ha occultato le radici capitalistiche della violenza contro una natura rimossa dalla sua dimensione storica, l’universalismo “farlocco” a stelle e strisce delle guerre “umanitarie”.
Sfatare il mito del progresso, cui siamo tutti devoti da almeno duecento anni, è operazione che richiede una buona dose di coraggio intellettuale, anche perché implica fare i conti, in modo maturo e talora doloroso, con la tradizione ideale e l’esperienza politica della sinistra. La riflessione di Paciello, alimentata dalle tesi di Larsch, Michéa e Orwell, apre, qui, un terreno ancora in gran parte, almeno nel nostro Paese, da dissodare e che potrebbe essere foriero sia di un’ adeguata interpretazione in sede storica, nonché politica di diversi fenomeni, sottraendoli innanzitutto alla categoria inconsistente e fuorviante del “tradimento”, sia di una progettualità alternativa che sappia prendere le distanze da quanto in quella tradizione conteneva le premesse per la sua resa al modello economico e culturale dominante.
E’, questo, un libro che ha il pregio di rispondere a molte domande essenziali del nostro tempo, ma, contemporaneamente, di suscitarne sempre di nuove, di fare il punto in modo rigoroso ed appassionato su numerosi temi e di dischiuderne altri. Il ruolo della dottrina sociale della Chiesa, cui l’attuale Pontefice è particolarmente attento, è sicuramente, per chi scrive, uno di questi. Pur non disconoscendo l’elemento di rottura rispetto ai suoi predecessori rappresentatato da papa Bergoglio, né la bellezza e la grande umanità dell’Enciclica Laudato si’ (ampi stralci della quale sono proposti nella parte seconda) e pur comprendendo il carattere universale, come sottolinea Giancarlo Paciello, di un messaggio rivolto alle “persone di buona volontà”, interessate alla “cura della casa comune”, due sono le questioni aperte dalla scelta di dare una tale centralità all’Enciclica. La prima è piuttosto scontata, ma non perciò da accantonare: il divario tra l’accorata denuncia papale dello strapotere del denaro e la decisa presa in carico della sofferenza dei poveri stridono drammaticamente con l’effettiva potenza economica dello Stato del Vaticano e dell’istituzione religiosa, sì da prestarsi a confermare, nelle nuove circostanze, la giustezza del famoso detto di Marx sull’oppio dei popoli. La seconda, pur nella consapevolezza del debito storico e culturale verso l’universalismo cristiano, si interroga sul rischio, davanti allo sfacelo culturale, politico, sociale ed antropologico della tarda modernità, di un ritorno all’indietro, nell’alveo rassicurante di una comunità che trova nelle forme della religione uno dei suoi fondamenti, nonché un baluardo da opporre allo sradicamento devastante del capitalismo assoluto. Rischio di cui è ben consapevole Giancarlo Paciello il quale, pur auspicando un dialogo tra scienza, religione e filosofia in merito alle sorti dell’umanità e alla necessità di una comune battaglia contro una “Divinità….falsa e bugiarda, l’Economia”, rivendica, nel solco di Preve, la centralità della filosofia, distanziandosi ancora una volta dal conformismo culturale-accademico che riconosce solo l’alternativa tra scienza e religione, dopo avere delegittimato la filosofia, per sua natura poco disposta a piegarsi davanti alla nuova divinità economica che non teme la scienza di cui, anzi, si serve in funzione tecnologica, né la religione che supplisce all’insensatezza sociale creata dalla produzione illimitata di merci. Un’insensatezza che si alimenta della stessa indifferenza – al saccheggio dell’ambiente, a diseguaglianze sociali insostenibili, alla mercificazione di ogni ambito dell’esistenza – che produce e contro la quale questo libro costituisce un sicuro antidoto.
Fernanda Mazzoli

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In dialogo con Giancarlo Paciello

Proponiamo ai nostri lettori le risposte fornite dall’amico Giancarlo Paciello a quattro domande che gli abbiamo sottoposto a seguito della pubblicazione del suo No alla globalizzazione dell’indifferenza, presso l’editrice Petite Plaisance.
Buona lettura!

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Caro Federico, a tener conto dei punti interrogativi mi poni quattro domande. Le domande che mi fai sono decisamente di più. Ripercorrerò perciò il tuo testo e cercherò di rispondere, cercando di includere tutto, ove possibile, nel quadro della riflessione che mi ha spinto a scrivere No alla globalizzazione dell’indifferenza.
La genesi del libro, come si legge nella premessa, da te molto gentilmente pubblicata nel tuo blog, è la richiesta esplicita di mia figlia, che dopo aver letto le mie considerazioni sull’assassinio di Gheddafi nell’ottobre del 2011, mi sollecitava ad esporre le mie convinzioni universalistiche chiaramente inconciliabili con una teoria dei diritti umani del tutto prona agli interessi dell’imperialismo statunitense. Certo di poter contare sul sostegno del mio amico, ma soprattutto grande filosofo, Costanzo Preve, accettai la sfida.
Ma, l’uomo propone e … dio dispone!
Il 23 novembre del 2013, Costanzo, provato da tutta una serie di vicissitudini ospedaliere, ci ha lasciato e io mi sono trovato, da solo, di fronte al problema. Il compito restava dei più difficili, anche se la collaborazione con Costanzo, sulla base prevalente di una corrispondenza epistolare e qualche mia scappata a Torino, dove vive mia figlia, mi aveva però permesso di gettare le basi per un solido saggio di risposta alla sollecitazione filiale.
Ho riordinato le idee e pazientemente ho affrontato uno studio sull’universalismo, che faceva comunque parte del mio bagaglio culturale. Senza mai allontanarmi dalla storia, e recuperando i termini di una polemica filosofica di oltre duemila e cinquecento anni. L’intento dichiarato era quello di gettare un ponte fra la mia cultura, formatasi all’interno della Guerra Fredda e quella di mia figlia e dei suoi coetanei, che si era andata determinando all’interno della globalizzazione. Due cicli storici a dir poco antitetici, il secondo dei quali, quello che stiamo vivendo, caratterizzato da un individualismo sfrenato.
E il capitolo iniziale “Da un ciclo storico all’altro” costituisce la struttura portante di tutta l’argomentazione del libro, anticapitalistica e anticrematistica in senso assoluto, contro un capitalismo che ha raggiunto livelli di pericolosità per la specie umana che neanche la follia delle bombe di Hiroshima e Nagasaki potevano far ipotizzare. Continua a leggere

Giù le mani dall’Amazzonia!

Ecologia imperialista

Periodicamente ritorna l’adagio circa una confusa proposta di “internazionalizzazione” della foresta Amazzonica. Il pretesto per sottrarre questo grandioso monumento naturale alla legittima sovranità del Brasile è il ruolo ecologicamente fondamentale che riveste per tutto il mondo. L’Amazzonia costituisce un polmone per la Terra e se la sua capacità di ossigenare l’atmosfera venisse a mancare o fosse gravemente compromessa, le conseguenze per l’inquinamento e la temperatura sarebbero dannosissime.
Ma come sempre dietro i fini apparentemente nobili coi quali l’Occidente autocertifica le proprie azioni vi è una totale mancanza di logica, di razionalità e di etica. E giustamente i brasiliani non solo rispediscono al mittente la proposta ma si preparano a difendere l’integrità nazionale, come vedremo in seguito.
Alla pretesa occidentale di rendere internazionale l’Amazzonia possiamo opporre tre argomenti.
In primo luogo, l’ipocrita filantropia degli europei e degli americani rivela ancora una volta l’errore -in cui perseverano imperterriti- di attribuire agli altri colpe e difetti che sono invece loro propri e in proporzioni ben peggiori. Tanto l’Europa quanto gli Stati Uniti hanno infatti ricevuto in dono la gioia di vedere le proprie terre percorse da centinaia di migliaia di chilometri quadrati di boschi e foreste. Ma allo scopo di massimizzare lo sviluppo economico, l’europeo e l’americano hanno dilapidato questo dono, radendolo letteralmente al suolo e compromettendo così la qualità dell’ambiente e la propria salute. Ora che il problema si è fatto globale proprio per colpa in larga parte degli occidentali, ecco che si vorrebbe negare obtorto collo al Brasile il diritto a gestire al meglio il proprio patrimonio naturale. Senza contare peraltro che ad oggi quel paese, pur non avendo fatto molto per proteggere l’Amazzonia, non l’ha nemmeno sommariamente giustiziata come avvenuto con le foreste europee e nordamericane. Il succo del discorso è: “cari brasiliani, poiché noi abbiamo abbattuto i nostri alberi per accrescere il nostro progresso, voi dovete restare in miseria per salvare l’Amazzonia a nostro beneficio”.
In secondo luogo, nulla lascia supporre che un consorzio internazionale saprebbe tutelare l’Amazzonia meglio di quanto abbiano finora fatto i governi di Brasilia. Come anticipato al punto precedente, abbiamo già avuto modo di sperimentare la sensibilità ecologica e olistica dei francesi, dei tedeschi, degli italiani, dei britannici, degli statunitensi e mettiamoci pure i russi e i cinesi. Perché mai queste persone che già hanno massacrato l’ambiente nelle proprie patrie, che non sanno tutelare quanto di natura è rimasto nei loro confini, che ancor meno sanno promuovere poltiche di equilibrata riforestazione e blocco della cementificazione, dovrebbero essere in grado di gestire in modo illuminato la grande Amazzonia? Non è forse lecito pensare, visti i precedenti e la consuetudine occidentale, che un consorzio internazionale farebbe solo ed esclusivamente il gioco di potentati petroliferi e minerari, continuando a deforestare e coprendo tutto allo stesso tempo con rumorose campagne mediatiche di tutela, mostrando l’impegno a riforestare un chilometro quadrato, dopo averne spianati dieci? E magari ostentando l’alta tecnologica eco-compatibile di una nuova città mineraria, quando non vi sarebbe alcun bisogno di tecnologia eco-compatibile nel momento cui nemmeno vi fosse una città mineraria?
Terzo luogo, se dobbiamo imporre il principio secondo cui un territorio globalmente rilevante deve essere messo sotto amministrazione internazionale, allora detto principio deve valere per tutti i luoghi con questa caratteristica. E quindi vengano internazionalizzati i deserti del medio oriente e della penisola arabica, poiché la ricchezza rappresentata dal petrolio e l’impatto ambientale dell’estrazione hanno rilevanza globale. Vengano internazionalizzate le pianure nordamericane della corn belt, perché se ben impiegate possono costituire un granaio per il mondo. Vengano internazionalizzati il Nilo, il Danubio, il Volga, il Mississipi e tutti i fiumi maggiori del mondo perché la loro acqua e il loro potenziale idroelettrico vada a beneficio di tutta l’umanità.
Ma naturalmente il Brasile non resta a guardare e non solo rivendica la propria esclusiva sovranità sul suo territorio ma si prepara a difenderla, rispondendo così anche all’ignobile campagna americana che permette la pubblicazione di testi geografici in cui l’Amazzonia è già rappresentata come zona internazionale, e mostra i propri super eroi dei fumetti a fianco dei nativi della foresta nel difenderla dalla speculazione dei petrolieri brasiliani (per contro si sa che negli USA, così come in Europa, in Russia e Cina, non vi sono aziende petrolifere…).
Le forze armate brasiliane sono le migliori dell’America Indiolatina e tra le prime dieci al mondo, e nonostante questo difficilmente potrebbero resistere a un’invasione delle forze NATO. E’ per questo che i vertici militari di Brasilia stanno studiando come opporsi al nemico in uno scenario di “guerriglia silvana” nel cuore della grande Amazzonia, limitando lo scontro frontale con le forze convenzionali e attirando piuttosto il nemico su un terreno ostile per logorarlo in perfetto stile Vietnam… o stile Iraq, stile Afghanistan…
Simone Boscali

Fonte: arcadianet.blogspot.com

Il peggior inquinatore del Pianeta

Il ruolo del Pentagono nella catastrofe globale: aggiungere la devastazione climatica ai crimini di guerra, di Sara Flounders per Global Research

Tirando le somme della Conferenza di Copenhagen dell’ONU sul cambiamento climatico – con più di 15.000 partecipanti da 192 Paesi, compresi oltre 100 Capi di Stato, così come 100.000 manifestanti in piazza – è importante chiedersi: com’è possibile che il peggior inquinatore del Pianeta riguardo l’anidride carbonica ed altre emissioni tossiche non sia al centro di alcuna discussione della conferenza o proposta di restrizioni?
Sotto ogni rilevamento, il Pentagono è il maggiore fruitore istituzionale di prodotti petroliferi e di energia in generale. Eppure il Pentagono ha un esonero totale in tutti gli accordi internazionali sul clima.
Le guerre del Pentagono in Iraq ed Afghanistan; le sue operazioni segrete in Pakistan; il suo dislocamento su più di mille basi statunitensi nel mondo; le sue 6.000 infrastrutture negli USA; tutte le operazioni NATO; i suoi trasporti aerei, i jet, i test, l’addestramento e le vendite di armamenti non saranno calcolati nei limiti statunitensi riguardanti i gas serra o inclusi in alcun conteggio.
Il 17 febbraio 2007 il Bollettino Energetico calcolò il consumo di petrolio solo per aerei, navi, veicoli terrestri ed infrastrutture del Pentagono, che lo rendono il principale consumatore individuale di idrocarburi al mondo. All’epoca, la Marina statunitense aveva 285 navi da combattimento e da supporto e circa 4.000 velivoli operativi. L’Esercito statunitense aveva 28.000 mezzi corazzati, 140.000 veicoli multifunzionali su ruote ad alta mobilità, più di 4.000 elicotteri da combattimento, diverse centinaia di velivoli ad ala fissa ed un parco macchine pari a 187.493 veicoli. Eccezion fatta per 80 fra sommergibili e velivoli aerei a propulsione nucleare, i quali diffondono inquinamento radioattivo, tutti i loro altri veicoli sono alimentati con petrolio.
Perfino secondo le graduatorie dell’Annuario Mondiale CIA del 2006, solamente 35 Paesi (fra i 210 al mondo) consumano più carburante al giorno del Pentagono.
Le forze armate statunitensi usano ufficialmente 320.000 barili di petrolio al giorno. Comunque, questa somma non comprende la benzina consumata dai contractors o in strutture appaltate o privatizzate. Neppure comprende l’enorme quantità di energia e le risorse usate per produrre e mantenere il loro equipaggiamento apportatore di morte o le bombe, granate o missili che vengono sparati.
Steve Kretzmann, direttore di Oil Change International, riferisce: “La guerra in Iraq è stata responsabile di almeno 141 milioni di tonnellate decimali di diossido di carbonio equivalente da marzo 2003 a dicembre 2007… La guerra emette più del 60% di tutti i Paesi… quest’informazione non è disponibile alla lettura… perché le emissioni militari all’estero sono esenti dai rilevamenti del rapporto nazionale sotto la legge statunitense e dalla Convenzione Quadro dell’ONU sul Cambiamento Climatico.” (www.naomiklein.org, 10 dicembre 2009). La maggioranza degli scienziati condanna le emissioni di biossido di carbonio con riferimento ai gas dell’effetto serra ed al cambiamento climatico.
Bryan Farrell nel suo nuovo libro, La zona verde: i costi ambientali del militarismo, afferma che “il maggior singolo assalto all’ambiente, a tutti noi nel mondo, proviene da un agente… le Forze Armate degli Stati Uniti”.
Allora il Pentagono come fa ad essere esentato da tutti gli accordi sul clima? Al tempo dei negoziati per i Protocolli di Kyoto, gli USA chiesero come condizione per sottoscriverli che tutte le loro operazioni militari nel mondo e tutte le operazioni cui partecipano con l’ONU e/o la NATO venissero completamente escluse da rilevamenti o riduzioni.
Dopo aver ottenuto quest’enorme concessione, l’amministrazione Bush rifiutò in seguito di sottoscrivere gli accordi.

Nell’articolo del 18 maggio 1998 intitolato Istanze di sicurezza nazionale e di politica militare coinvolte nel trattato di Kyoto, il dottor Jeffrey Salmon delineò la posizione del Pentagono. Egli cita quindi il rapporto annuale 1997 del Segretario alla Difesa William Cohen al Congresso: “Il Dipartimento della Difesa raccomanda fortemente che gli Stati Uniti insistano su un’esenzione per la sicurezza nazionale nel Protocollo sul cambiamento climatico che ora stanno negoziando”. (www.marshall.org)
Secondo Salmon, quest’esenzione della sicurezza nazionale era stata portata avanti in una bozza che richiedeva “la completa esenzione militare dai limiti delle emissioni dei gas serra. La bozza include operazioni multilaterali così come azioni avvallate dalla NATO e dall’ONU, ma comprende pure attività connesse assai marginalmente con la sicurezza nazionale, che sembrerebbe comprendere tutte le forme di azioni militari unilaterali e l’addestramento per siffatte azioni”.
Salmon cita anche il Sottosegretario di Stato Stuart Eizenstat, che guidava la delegazione statunitense a Kyoto. Eizenstat riferiva che “ogni richiesta, che il Dipartimento della Difesa ed i militari in uniforme che erano a Kyoto al mio fianco dicevano di volere, la ottenevano. Vale a dire legittima difesa, peacekeeping, operazioni umanitarie”.
Benché gli Stati Uniti avessero già ricevuto queste assicurazioni nei negoziati, il Congresso statunitense approvò un provvedimento che esplicitamente garantiva l’esenzione militare americana. L’Inter Press Service riportava il 21 maggio 1998: “I legislatori statunitensi, nel più recente colpo agli sforzi internazionali per fermare il riscaldamento globale, oggi hanno esentato le operazioni militari statunitensi dall’accordo di Kyoto che definisce gli impegni vincolanti per ridurre le emissioni di “gas serra”. La Camera dei Rappresentanti ha approvato un emendamento alla legge di autorizzazione militare (ovverosia la legge che annualmente autorizza gli stanziamenti finanziari per la “difesa” – ndr) dell’anno prossimo che “proibisce l’assoggettamento delle forze armate al Protocollo di Kyoto”.”
Oggi a Copenaghen gli stessi accordi e guide linea sui gas serra destano ancora attenzione. Tuttavia è estremamente difficile trovare una sola menzione di questa clamorosa omissione.
Secondo la giornalista ambientale Johanna Peace, le attività militari continueranno ad essere esentate da un ordine esecutivo firmato dal Presidente Barack Obama che chiede alle agenzie federali di ridurre le loro emissioni di gas serra entro il 2020. La Peace calcola che “l’esercito costituisce un buon 80% delle domanda energetica del governo federale”. (www.solveclimate.com, 1 settembre)
L’esclusione totale delle operazioni globali del Pentagono fa apparire le emissioni statunitensi di diossido di carbonio minori di quanto in realtà siano. Tuttavia pur senza considerare il Pentagono, gli Stati Uniti hanno le maggiori emissioni di diossido di carbonio al mondo.

Più che emissioni
Oltre ad emettere diossido di carbonio, le operazioni militari statunitensi rilasciano altri materiali estremamente tossici e radioattivi nell’aria, nell’acqua e nel suolo.
Le munizioni statunitensi fatte con uranio impoverito hanno sprigionato decine di migliaia di libbre di microparticelle di scarto radioattivo ed altamente tossico nel Medio Oriente, in Asia Centrale e nei Balcani.
Gli USA vendono mine terrestri e bombe a grappolo che sono la principale causa di esplosioni ritardate, le quali mutilano e rendono invalidi specialmente contadini e popolazioni rurali in Africa, Asia ed America Latina. Per esempio, Israele disseminò più di un milione di bombe a grappolo fornite dagli USA in Libano durante la sua invasione del 2006.
La guerra americana in Vietnam lasciò enormi aree così contaminate con l’erbicida Agente Arancio che oggi, a più di 35 anni di distanza, la contaminazione da diossina è da 300 a 400 volte più alta dei livelli “sicuri”. Gravi difetti alla nascita ed elevati casi di cancro conseguenti alla contaminazione ambientale stanno manifestandosi nella terza generazione.
La guerra statunitense del 1991 in Iraq, seguita da 13 anni di pesantissime sanzioni, l’invasione americana del 2003 e l’occupazione che continua, hanno trasformato la regione – la quale ha una storia di 5.000 anni come paniere del Medio Oriente – in una catastrofe ambientale. La terra arabile e fertile dell’Iraq è diventata un deserto devastato in cui il più semplice venticello alza una tempesta di sabbia. Una volta esportatore di prodotti alimentari, oggi l’Iraq importa l’80% del suo cibo. Il Ministro iracheno dell’Agricoltura calcola che il 90% del territorio stia subendo una grave desertificazione.

La guerra ambientale in casa
Inoltre, il Dipartimento della Difesa si è costantemente opposto alle disposizioni dell’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA) relative alla bonifica delle basi statunitensi contaminate (Washington Post del 30 giugno 2008). Le basi militari del Pentagono sono in vetta alla lista di Superfund dei luoghi maggiormente inquinati, giacché agenti contaminanti filtrano nelle falde acquifere e nel suolo.
Il Pentagono ha anche combattuto gli sforzi dell’EPA per fissare nuovi livelli di inquinamento riguardo due agenti chimici tossici trovati in gran misura nei siti militari: il perclorato, trovato nel propellente di razzi e missili; ed il tricloroetilene, uno sgrassante per parti metalliche.
Il tricloroetilene è il più diffuso contaminante dell’acqua nelle campagne, poiché s’infiltra nelle falde acquifere in California, a New York, in Texas, Florida e altrove. Più di 1.000 siti militari negli Stati Uniti sono contaminati dall’agente chimico. Le comunità più povere, specialmente le comunità di colore, sono le più duramente colpite da quest’avvelenamento.
I test statunitensi di armi nucleari negli Stati del sud-ovest e sulle isole del Pacifico meridionale hanno contaminato enormi quantità di terra e acqua con radiazioni. Montagne di scarti di uranio radioattivo e tossico sono state lasciate nei territori dei Nativi del sud-ovest. Più di 1.000 mine di uranio sono state abbandonate nelle riserve Navajo in Arizona e Nuovo Messico.
In giro per il mondo, in basi sia vecchie sia ancora operanti a Portorico, nelle Filippine, in Corea del Sud, Vietnam, Laos, Cambogia, Giappone, Nicaragua, a Panama e nell’ex Jugoslavia, bidoni arrugginiti di agenti chimici e solventi e milioni di contenitori di munizioni sono stati abbandonati in maniera criminale dal Pentagono.
Il modo migliore per pulire in maniera radicale l’ambiente è abbattere il Pentagono. Ciò che serve per combattere il cambiamento climatico è una modifica totale del sistema.

Traduzione a cura di L.Salimbeni
[grassetti nostri]