Le guerre illegali della NATO

Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, con l’istituzione nel 1945 delle Nazioni Unite allo scopo di mantenere la pace, la guerra è stata bandita dalla politica internazionale. Uniche due eccezioni a tale divieto: il diritto all’autodifesa o un’azione bellica su mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Tuttavia, la realtà è stata tragicamente ben diversa e la responsabilità è in massima parte dell’Occidente e del suo strapotere militare.
Come documenta con rigorosa chiarezza lo storico Daniele Ganser in questo libro, negli ultimi settant’anni sono stati i Paesi della NATO – la più grande alleanza militare del mondo, guidata dagli Stati Uniti – ad aver avviato in molti casi guerre illegali per garantire e ampliare il predominio dell’impero americano, ignorando il divieto dell’uso della forza stabilito dall’ONU e riuscendo sempre a farla franca.
Ganser, attraverso l’analisi puntuale di tredici di questi conflitti – Iran, Guatemala, Egitto, Cuba, Vietnam, Nicaragua, Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia, Ucraina, Yemen e Siria – e delle loro disastrose conseguenze per i popoli, evidenzia come la NATO abbia sistematicamente sabotato le regole delle Nazioni Unite, trasformandosi da alleanza locale con finalità difensive in un’alleanza aggressiva globale, fino a diventare un pericolo per la pace nel mondo.
«Se fosse lungimirante», scrive Carlo Rovelli nella prefazione, «l’Occidente, che è il mio mondo e a cui tengo, lavorerebbe – per il suo proprio bene – per la stabilità e la legalità internazionali, per un mondo multipolare dove gli interessi degli altri siano presi in considerazione e le soluzioni siano cercate nella politica e non nelle armi. Questo libro mostra in maniera inequivocabile che oggi non è così».
Rivelando le menzogne, le ipocrisie e i crimini delle guerre illegali della NATO, Ganser fornisce un contributo prezioso per costruire un futuro di pace.

Pandemia made in Sigonella?

“Bocche cucite tra le forze politiche di governo vecchie e nuove sul trasferimento a NAS Sigonella di uno dei reparti delle forze armate a cui il Pentagono affida ricerche e sperimentazioni su virus, batteri, vaccini e farmaci antivirali. Nel luglio 2019, il comando della Naval Medical Research Unit No.3 (NAMRU-3) di stanza al Cairo (Egitto) dalla Seconda Guerra Mondiale si è insediato nella grande base aeronavale siciliana occupando provvisoriamente l’edificio n. 318, in attesa che prendano il via i lavori di ristrutturazione e ampliamento del Building No. 303 a NAS 1 (la stazione più antica di Sigonella, ad uso esclusivo USA), individuato da US Navy come prossima sede logistica di NAMRU-3. Ad oggi non è possibile sapere se e quando il repentino trasloco sia stato autorizzato dall’esecutivo e come mai non è stato informato il Parlamento nonostante la rilevanza politico-strategica e “scientifica” dell’unità USA, direttamente dipendente dal Naval Medical Research Center di US Navy e del Corpo dei Marines.”

Misteri e certezze sui militari USA che da Sigonella inseguono le pandemie, di Antonio Mazzeo prosegue qui.

La Libia è un caso di studio

“Senza entrare nel merito come ha fatto magistralmente Perra, si deve sottolineare una questione di metodo: non ridurre allo schematismo, alla ricerca dei burattinai di Haftar. Il generale libico avrebbe dietro di sé come danti causa Russi e Americani, Sauditi ed Emiratini, Francesi ed Egiziani, attori non necessariamente in armonia tra loro quando non rivali o nemici ma sempre uniti nell’armare, finanziare e telecomandare il nostro. Più che analisi, partite di Risiko a causa delle quali non comprendiamo come il signore della guerra nordafricano non sia mosso dal desiderio di sconfiggere il fondamentalismo islamico o da alleanze permanenti bensì solo da interessi permanenti: i propri. Dietro Haftar azzardiamo a dire che ci sia solo Haftar, ennesima incarnazione del capo vicino-orientale che cerca alleati e si offre come alleato sul mercato geopolitico, come prima di lui i regnanti hashemiti, sauditi o pahlavi con Inglesi ed Americani, o mutatis mutandis capi militari o di partito come Al Bashir o Saddam Hussein.
Pensiamo proprio a Saddam: già esponente di vertice dell’ala destra anticomunista della branca irachena del Baath, non esitò tanto a cercare la collaborazione degli elementi più religiosi dentro all’Iraq e della CIA all’esterno per prendere il potere e reprimere i comunisti, instaurando al contempo un governo progressista per quanto riguarda l’istruzione di massa e la condizione femminile. Da sempre avverso al clero sciita, alla Siria pure baathista e all’Iran rivoluzionario, fu però vicino alla causa palestinese. Anticomunista ma in discreti rapporti con l’URSS, combatté l’Iran con il consenso americano per poi tornare a giocare la carta antimperialista quando fu aggredito dagli USA a sua volta, così come la carta dell’unità sunnita. Chi aveva dunque “dietro di sé” Saddam Hussein? La domanda ci appare in tutta la propria insensatezza realpolitica.
Se nel Vicino Oriente ci si muove, lo ripetiamo, per interessi permanenti e non per alleanze permanenti, una volta scopertolo bisognerebbe capire quali interessi siano i nostri: stabilità degli Stati, possibilmente non ad opera di governi eccessivamente repressivi o reazionari che alienino le proprie popolazioni, lotta al radicalismo religioso formatosi ai margini del mondo sunnita (quello sciita non costituisce un problema per l’Europa, piaccia o meno al signor Bannon), costruzione di Paesi il più possibile inclusivi nei confronti delle donne, delle minoranze etniche e religiose (si pensi alle popolazioni cristiane o ai Curdi che al contrario potrebbero rifugiarsi in un separatismo disgregativo ed antiarabo) e dai sistemi economici efficaci ed efficienti che evitino povertà, emarginazione e conseguenti ondate migratorie. Si noti: abbiamo iniziato a parlare di Europa, non più di “Occidente”, e questo perché non pensiamo affatto che gli interessi di Europa, Stati Uniti e movimento sionista coincidano. Gli ultimi due attori hanno piuttosto interesse a garantire la disgregazione degli Stati vicino-orientali lungo linee etniche, religiose e tribali, al fine di assicurarne il sottosviluppo, la soggiogabilità o quanto meno la non pericolosità. Haftar o Serraj quindi, in Libia? La questione, per come l’abbiamo posta, precede e prescinde la domanda.
Nel metodo, la soluzione potrà venire, ancora una volta, da una “ecologia delle potenze” interessate alla stabilità del teatro mediterraneo e da un dialogo tra queste (Italia, Russia, forse la Turchia e l’Egitto che comunque si detestano, un Qatar e una Francia che non possono essere lasciati fuori dalla porta). Il lavoro di dialogo e tessitura diplomatica è tutt’altro che banale ed è urgente che l’Italia se lo assuma.
Nel merito, le uniche forze dialoganti sul terreno possono essere le tribù libiche e cioè il popolo del Paese: i capi tribù sono gli unici veramente interessati al benessere ed alla sopravvivenza delle proprie genti, molto più che non il signore della guerra di Bengasi o il “sindaco di Tripoli” (per tacere degli islamisti di Misurata).”

Da Libia e Vicino Oriente: quello che l’Occidente non capisce, di Amedeo Maddaluno.

Forze ed operazioni militari USA in Africa – una rassegna

Di Benjamin Cote in esclusiva per SouthFront

L’importanza delle Forze Militari in Africa
Il 4 ottobre 2017, forze nigerine e Berretti Verdi americani sono stati attaccati da militanti islamici durante una missione di raccolta di intelligence lungo il confine con il Mali. Cinquanta combattenti di una affiliata africana dello Stato Islamico hanno attaccato con armi di piccolo calibro, armi montate su veicoli, granate lanciate con razzi e mortai. Dopo circa un’ora nello scontro a fuoco, le forze americane hanno fatto richiesta di assistenza. I jet Mirage francesi hanno fornito uno stretto supporto aereo e i militanti si sono disimpegnati. Gli elicotteri sono arrivati per riportare indietro le vittime per l’assistenza medica.
Quando la battaglia finì quattro Berretti Verdi sono risultati uccisi nei combattimenti e altri due furono feriti. I sergenti maggiori Bryan Black, Jeremiah Johnson, Dustin Wright e il più pubblicizzato di tutte le vittime il sergente La David Johnson sono stati uccisi in missione. Il presidente Trump si è impegnato in uno scontro politicizzato con la vedova di Johnson e la deputata della Florida Federica Wilson in merito alle parole da lui usate in una telefonata consolante.
La battaglia politica sui commenti del Presidente Trump ha avuto l’effetto non intenzionale di spostare l’attenzione della nazione sulle attività americane in Africa. In precedenza il pubblico americano, e buona parte dell’establishment politico, mostrava scarso interesse o conoscenza delle missioni condotte dai dipartimenti di Stato e della Difesa all’interno delle nazioni africane in via di sviluppo. Il 5 maggio, un Navy SEAL era stato ucciso vicino a Mogadiscio mentre assisteva le forze somale nel combattere al-Shabaab. Questa morte è arrivata un mese dopo che l’amministrazione Trump aveva revocato le restrizioni sulle operazioni di antiterrorismo nelle regioni della Somalia.
Certamente l’evento non ha registrato la stessa attenzione del mainstream come la polemica circa il sergente Johnson; tuttavia, tutto rivela come l’Africa stia lentamente diventando un’area di interesse nazionale cruciale per gli Stati Uniti. Le questioni concernenti le nazioni africane riguardanti le minacce terroristiche sia esterne sia interne, così come i loro problemi economici, servono a garantire che i responsabili politici degli Stati Uniti si concentrino sul continente. Iniziative globali come la Combined Joint Task Force for Operation Inherent Resolve coinvolgono diverse nazioni africane fondamentali per combattere l’ascesa dell’estremismo islamico radicale. L’ascesa di gruppi estremisti coesi insieme all’espansione degli investimenti economici nell’Africa post-coloniale ha comportato un aumento dei dispiegamenti militari stranieri e americani nella regione. Continua a leggere

Siria: la luce in fondo al tunnel

Articolo di Vincenzo Brandi, inserito nella nostra pagina FB.

I miliziani di Misurata che l’Italia va a curare sono criminali di guerra

13925802_1386246561403140_1978720815519632341_o

Libia. L’operazione italiana Ippocrate aprirà un ospedale militare per curare i feriti delle Brigate di Misurata, responsabili di abusi e violenze fin dal 2011

Chissà cosa pensano dell’«operazione Ippocrate» i libici di Tawergha. Cinque anni fa, i 40mila cittadini di pelle nera che popolavano questa città furono oggetto di pulizia etnica: parecchi uccisi e imprigionati, tutti gli altri deportati in massa proprio dalle milizie dichiaratamente razziste di Misurata che l’Italia va a soccorrere. In effetti dei molti gruppi armati libici ai quali l’operazione NATO «Unified Protector» nel 2011 fece da forza aerea, le Misrata Brigates – decine di migliaia di combattenti, già parte essenziale della compagine islamista Fajhr sostenuta dal Qatar – sono forse il peggio. Altro che gli «eroi in ciabatte», prima protagonisti della «rivoluzione» libica nel 2011, poi della «lotta contro DAESH a Sirte» nel 2016.
Dall’agosto 2011 Tawergha, in fondo un simbolo della «nuova Libia», è una città fantasma e semidistrutta. Gli abitanti fuggirono in massa mentre i «ribelli» vittoriosi uccidevano molti di loro, ne imprigionavano altri – accusandoli di stupri senza prove e chiamandoli mercenari – e davano fuoco alle case, con il pubblico consenso dell’appena insediato primo ministro libico Mahmoud Jibril, capo del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT). I fuggiaschi si rifugiarono nel sud della Libia e in campi profughi sparsi in diverse città oppure si spostarono in Tunisia ed Egitto. Da allora hanno condotto una vita grama.
Il 31 agosto scorso il rappresentante dell’ONU per la Libia Martin Kobler ha propiziato a Tunisi un accordo di riconciliazione fra Misurata e Tawergha che prevede fra l’altro il ritorno in condizioni di sicurezza degli sfollati, il ripristino a cura del governo libico di un minimo di servizi sociali – compresa la rimozione delle mine-, risarcimenti per gli uccisi e le proprietà danneggiate.
Non sarà facile rendere operativo ed equo un patto che risulta leonino fin dall’esordio: richiama infatti la dichiarazione del 23 febbraio 2012 con la quale «i leader delle tribù di Tawergha porgevano le scuse a Misurata per qualunque azione compiuta da qualunque residente di Tawergha». Nessuna scusa, invece, da parte degli autori della pulizia etnica.
Nel mirino dei misuratini, autori anche della cacciata di molte famiglie dall’area di Tamina, sono finiti poi un numero importante di cittadini non libici, africani subsahariani linciati o imprigionati senza processo né prove. La caccia al nero non è storia solo del 2011. L’inviato del New Statesman pochi mesi fa si è sentito rispondere dal guardiano dell’obitorio di Misurata che i corpi nella stanza erano di africani uccisi, magari per un telefonino.
Gli armati di Misurata hanno compiuto stragi di civili e attacchi indiscriminati anche durante l’assedio, nel 2012, alla città di Bani Walid accusata di ospitare sostenitori del passato regime. E al tempo dell’assedio di Sirte, con Misurata sempre in prima linea, fu impedito l’accesso alla Croce Rossa nella città. Nell’agosto 2014 fioccarono invano altre accuse di crimini: le milizie Fajr guidate da Misurata, nel prendere il controllo di Tripoli e delle aree circostanti avevano costretto alla fuga migliaia di civili distruggendone le proprietà.
Impunità assoluta per i «ribelli» di Misurata anche rispetto ai crimini compiuti nelle loro carceri autogestite, con maltrattamenti e torture all’ordine del giorno e nessuna garanzia di equo processo a carico di detenuti qualificabili come politici. E mentre l’UE chiudeva gli occhi per anni al traffico di armi verso le coalizioni jihadiste di Fajhr Libia, la città di Misurata rimane un hot spot, con ovvie complicità, in un altro traffico: quello di esseri umani.
Marinella Correggia

Fonte

Venti di guerra in Siria e Libia: l’imperialismo non demorde

13906776

L’intervento russo iniziato nel settembre 2015 aveva segnato un punto di svolta nella drammatica guerra in Siria. Finalmente si era vista una luce in fondo al tunnel in cui il Paese era stato spinto dalle spietate sanzioni, dal blocco economico-finanziario imposto dalle potenze della NATO, e dalla guerra indiretta scatenata, con l’uso strumentale di bande mercenarie, sia dai paesi occidentali che dalle potenze reazionarie locali (come la Turchia, l’Arabia Saudita ed il Qatar) tesa a rovesciare il governo legittimo del Presidente Assad.
A partire dal 2011-2012 nell’Est del paese hanno agito le bande jihadiste, poi raggruppatesi sotto la sigla dello Stato Islamico (o DAESH), sostenuto sotto banco da Arabia Saudita, Turchia, Qatar e all’inizio falsamente combattuto dagli USA, che anzi ne avevano favorito la nascita in funzione anti-Assad. Le bande dell’ISIS hanno in gran parte occupato le province di Raqqa e Deir-Es-Zor.
La provincia di Idlib nel Nord-Ovest è stata invece invasa da una coalizione di Al-Nusra (ramo siriano di Al-Queda), con Ahrar Al-Sham e altri gruppi minori, che si è data il nome di Esercito della Conquista (Jaish Al-Fatah), apertamente sostenuta dalla Turchia che faceva passare attraverso il confine rifornimenti e combattenti mercenari e fanatici provenienti da 90 paesi. La città di Aleppo, la più grande e ricca della Siria, era stata assediata dal 2012 e i jihadisti erano riusciti a penetrare in alcuni quartieri del centro.
La stessa capitale Damasco era bombardata con mortai dalle bande del Jaish Al-Islam, fedeli al Wahabismo saudita, la corrente più reazionaria dell’Islam, che erano riusciti ad infiltrarsi in alcuni sobborghi (Goutha occidentale ed orientale). Nel sud altre bande, in gran parte facenti capo ad Al-Nusra e ISIS, sostenute dalla Giordania ed Israele, agivano nelle province meridionali di Deraa, Quneitra e Sweda.
La controffensiva dell’esercito nazionale siriano, sostenuta dall’aviazione russa, aveva ottenuto importanti successi, come la riconquista della città storica di Palmyra (Tadmoor in arabo) e la liberazione di gran parte della zona intorno ad Aleppo, dove le bande che si erano infiltrate in alcuni quartieri della città, da cui bombardavano i quartieri “lealisti”, erano rimaste completamente circondate.
Ma invece di addivenire ad un accordo per un cessate il fuoco, che sembrava possibile, le varie potenze che hanno giurato di distruggere la Siria hanno rilanciato gli attacchi. Migliaia di mercenari potentemente armati sono affluiti dalla Turchia, attraverso la provincia di Idlib, unendosi ad Al-Nusra (che intanto ha cambiato nome in Failaq Al-Sham nel tentativo di far dimenticare di essere ufficialmente nell’elenco delle organizzazioni terroriste) ed attaccando Aleppo. Questa città martire, ormai priva di cibo, acqua, energia elettrica, è divenuta ancora una volta campo di battaglia, mentre la vergognosa propaganda di guerra dei mass media occidentali sfruttava la falsa immagine del bambino Omran per gettare al solito la colpa di tutti i presenti orrori sull’esercito di Assad e sui Russi.
Nel Nord le milizie curde, ormai divenute le truppe di terra di una coalizione diretta dagli USA, con la scusa di combattere l’ISIS, hanno “liberato” la città completamente araba di Manbij. Ma contemporaneamente i Curdi, scoprendo apertamente il loro doppio gioco, hanno attaccato la guarnigione dell’esercito siriano nell’importante città araba di Hassakeh. Gli aerei siriani non sono potuti intervenire perché esplicitamente minacciati di intervento dall’aviazione USA, cui i Curdi hanno concesso arbitrariamente l’uso di una base aerea su suolo siriano. E’ stata è così creata di fatto una “No Fly Zone” nel Nord della Siria.
Chi scrive ha appoggiato in passato le giuste rivendicazioni del popolo curdo recandosi anche nel Kurdistan varie volte, ma queste rivendicazioni non possono giustificare il fatto di mettersi al servizio – come mercenari – di potenze imperialiste che intendono distruggere i Paesi indipendenti del Vicino Oriente. L’avanzata curda ha provocato un nuovo disastro, quando le truppe turche, con l’aiuto di bande di mercenari turkmeni e jihadisti, con la scusa di combattere DAESH e contemporaneamente di frenare l’avanzata USA-curda, hanno invaso la Siria occupando la città di frontiera di Jarabulus. Si sta quindi realizzando il vecchio sogno di Erdogan di creare una fascia cuscinetto nella Siria del Nord occupata dall’esercito turco. E’ auspicabile che i Russi, cui Erdogan ha cercato di riavvicinarsi dopo lo strano tentativo di “colpo di Stato” subito fallito in Turchia, non si facciano turlupinare come fece l’ex-Presidente Medvedev nel 2011 nel caso dell’attacco della NATO alla Libia.
In quest’ultimo Paese – sempre con la scusa di combattere l’ISIS – proseguono le illegali operazioni militari, più o meno nascoste, di USA e Paesi UE (tra cui anche l’Italia), in realtà condotte allo scopo di rafforzare l’alleato “governo” Serraj di Tripoli, legato alla Fratellanza Musulmana, ed indebolire il governo laico di Tobruk, sostenuto dall’Egitto, che continua a non riconoscere Serraj e condanna tutti gli interventi militari stranieri.
D’altra parte proseguono su scala mondiale le grandi manovre contro chiunque cerchi di opporsi al predominio dell’imperialismo USA, del sub-imperialismo subordinato della UE, e dei loro alleati locali come l’orribile monarchia wahabita-saudita, che – da parte sua – continua a massacrare l’eroico popolo dello Yemen, che continua bravamente a resistere.
Si moltiplicano le provocazioni alle frontiere europee della Russia, nei Paesi baltici come in Crimea. Nell’ambito della strategia “Pivot to Asia”, gli USA rafforzano le loro guarnigioni e flotte nel Pacifico che circondano la Cina; cercano di tirare dalla loro parte, con pressioni di vario genere, anche Paesi come il Vietnam (quanto mutato dai tempi eroici della resistenza!) ed il Myanmar (ex-Birmania), quest’ultimo tradizionalmente in buoni rapporti con la Cina. I Cinesi non si lasciano intimorire e stringono un accordo militare con il governo Assad, carico di promesse.
Ma che succederà quando a novembre dovesse diventare prima Presidente USA donna la guerrafondaia Hillary Clinton (quella che chiedeva l’attacco militare alla Siria, appoggiava il colpo di Stato di Piazza Maidan in Ucraina, e metaforicamente ballava sul cadavere di Gheddafi schignazzando con le sprezzanti parole:”I came, I saw, He died”)? Ancora oggi in settori della pseudo-sinistra italiana c’è chi tifa per la “Killary”, perchè ha orrore del folkloristico Trump, accusato tra l’altro di voler dialogare con Putin e di aver sostenuto l’ultimo governo legale dell’Ucraina spazzato dal colpo di Stato. Per fortuna Siriani, Iracheni, Libici, Yemeniti, Libanesi continuano a resistere e Russia, Cina, Iran vigilano. La partita è aperta.
Vincenzo Brandi

Libia, la grande spartizione

libya_oil_isis_us_rnw
Petrolio, immense riserve d’acqua, miliardi di fondi sovrani. Il bottino sotto le bombe

«L’Italia valuta positivamente le operazioni aeree avviate oggi dagli Stati Uniti su alcuni obiettivi di DAESH a Sirte. Esse avvengono su richiesta del Governo di Unità Nazionale, a sostegno delle forze fedeli al Governo, nel comune obiettivo di contribuire a ristabilire la pace e la sicurezza in Libia»: questo il comunicato diffuso della Farnesina il 1° agosto.
Alla «pace e sicurezza in Libia» ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma gli stessi che, dopo aver destabilizzato e frantumato con la guerra lo Stato libico, vanno a raccogliere i cocci con la «missione di assistenza internazionale alla Libia». L’idea che hanno traspare attraverso autorevoli voci. Paolo Scaroni, che a capo dell’ENI ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è oggi vicepresidente della Banca Rothschild, ha dichiarato al Corriere della Sera che «occorre finirla con la finzione della Libia», «Paese inventato» dal colonialismo italiano. Si deve «favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi», spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi regionali, eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo. Intanto «ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche», presenti in Tripolitania e Cirenaica.
È la vecchia politica del colonialismo ottocentesco, aggiornata in funzione neocoloniale dalla strategia USA/NATO, che ha demolito interi Stati nazionali (Jugoslavia, Libia) e frazionato altri (Iraq, Siria), per controllare i loro territori e le loro risorse. La Libia possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che ottenevano prima dallo Stato libico. Per di più, eliminando lo Stato nazionale e trattando separatamente con gruppi al potere in Tripolitania e Cirenaica, possono ottenere la privatizzazione delle riserve energetiche statali e quindi il loro diretto controllo.
Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche.
Agli odierni raid aerei USA in Libia partecipano sia cacciabombardieri che decollano da portaerei nel Mediterraneo e probabilmente da basi in Giordania, sia droni Predator armati di missili Hellfire che decollano da Sigonella. Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi «autorizza caso per caso» la partenza di droni armati USA da Sigonella, mentre il ministro degli esteri Gentiloni precisa che «l’utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al Parlamento», assicurando che ciò «non è preludio a un intervento militare» in Libia. Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi – confermano il Telegraph e Le Monde – operano da tempo segretamente in Libia per sostenere «il governo di unità nazionale del premier Sarraj».
Sbarcando prima o poi ufficialmente in Libia con la motivazione di liberarla dalla presenza dell’ISIS, gli USA e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Infine, con la «missione di assistenza alla Libia», gli USA e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti.
Parte dei fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi, venne investita per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana. USA e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – decisero di bloccare «il piano di Gheddafi di creare una moneta africana», in alternativa al dollaro e al franco CFA. Fu Hillary Clinton – documenta il New York Times – a convincere Obama a rompere gli indugi. «Il Presidente firmò un documento segreto, che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino a poco prima classificati come terroristi, mentre il Dipartimento di Stato diretto dalla Clinton li riconosceva come «legittimo governo della Libia». Contemporaneamente la NATO sotto comando USA effettuava l’attacco aeronavale con decine di migliaia di bombe e missili, smantellando lo Stato libico, attaccato allo stesso tempo dall’interno con forze speciali anche del Qatar (grande amico dell’Italia). Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia.
Manlio Dinucci

Fonte

Come Napoleone 200 anni fa

12742123_10153972546296204_1780401827931378062_n“Ho osservato la storia e ho concluso che tutta questa russofobia è iniziata quando Carlo Magno ha creato l’Impero occidentale 1.200 anni fa, ponendo le basi per il grande scisma religioso del 1054. Carlo Magno creò il suo impero in opposizione alla situazione esistente, quando il centro del mondo civilizzato era Bisanzio.
La cosa più sconvolgente di cui mi sono reso conto era che tutto quello che ci hanno insegnato a scuola era sbagliato. Sostenevano che i dissidenti appartenevano alla Chiesa d’Oriente, che si era divisa da Roma. Ora so che quello che è successo è proprio il contrario: è stata la Chiesa cattolica occidentale a dissentire dalla Chiesa universale, mentre la Chiesa d’Oriente è rimasta ed è ancora ortodossa.
Al fine di spostare la colpa da se stessi, i teologi occidentali di quel tempo lanciarono una campagna giustificatoria per dare la colpa alla Chiesa d’Oriente. Hanno usato argomentazioni che sono ritornate ancora e ancora come parte del confronto tra l’Occidente e la Russia. Allora, nel Medioevo, hanno cominciato a riferirsi al mondo greco, o bizantino, come un “territorio di tirannia e barbarie”, al fine di sconfessare la responsabilità dello scisma.
Dopo la caduta di Costantinopoli, quando la civiltà bizantina si è conclusa, e la Russia ne ha preso il posto come Terza Roma, tutte quelle superstizioni, tutte quelle bugie circa la desacralizzazione del mondo ellenico, sono state trasferite automaticamente alla Russia.
È strano vedere le note di viaggiatori occidentali in Russa a partire dal XV secolo: tutti descrivono la Russia negli stessi termini che avevano usato per descrivere Bisanzio. Questa critica artefatta è considerevolmente aumentata dopo le riforme di Pietro il Grande e Caterina la Grande, quando la Russia è diventata potente sulla scena politica europea. Ed entro la fine del XVIII secolo, la critica è diventata russofobia.
Nata in Francia sotto Luigi XV, è stata utilizzata per un po’ da Napoleone per giustificare un’animosità verso la Russia, che era un ostacolo alla politica espansionistica della Francia. Il “Testamento di Pietro il Grande” [un documento politico contraffatto, NdT] fu utilizzato da Napoleone come giustificazione per la sua campagna di Russia.
Possiamo confrontare questo caso con i tempi moderni, in cui, al fine di raggiungere i loro obiettivi, gli Americani hanno inventato la menzogna che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa. La russofobia è rimasta in Francia come ideologia politica fino al XIX secolo, quando dopo aver perso la guerra franco-prussiana, la Francia si rese conto che il suo principale nemico non era più la Russia, ma la Germania, diventando alleata della Russia.
Per quanto riguarda l’Inghilterra, la russofobia vi apparve intorno al 1815, quando la Gran Bretagna, alleata con la Russia, sconfisse Napoleone. Una volta che il nemico comune fu sconfitto, l’Inghilterra invertì la rotta e fece della Russia il suo nemico, alimentando la russofobia. Dal 1820, Londra utilizzò un’ideologia anti-russa per mascherare le sue politiche espansionistiche, sia nel Mediterraneo sia in altre regioni – Egitto, India e Cina.
In Germania, la situazione non cambiò fino alla fine del XIX secolo, quando fu creato l’impero tedesco. Non aveva colonie, e non c’era posto per ottenerne, poiché Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo avevano avuto un vantaggio iniziale. Poiché tutte le colonie erano state assegnate senza la Russia, apparve in Germania un movimento politico che cercava una “espansione verso l’Oriente”, vale a dire, le moderne Ucraina e Russia. Questo tentativo fallì durante la Prima Guerra Mondiale, e più tardi, Hitler usò la stessa ideologia.
Non è un caso che gli storici tedeschi siano stati all’origine di quello che è conosciuto come “revisionismo”, la tendenza a sottovalutare il contributo dell’URSS alla vittoria sul Terzo Reich, sopravvalutando il contributo degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.
Il terzo tipo di russofobia è americano, ed è iniziato nel 1945. Non appena hanno sconfitto la Germania attraverso iniziative comuni con l’URSS, a costo di milioni di vite sovietiche, hanno disseminato la stessa storia creata dopo la vittoria su Napoleone nel 1815. Gli Stati Uniti hanno invertito la rotta e l’alleato del giorno prima è diventato il loro principale nemico. Così è iniziata la Guerra Fredda.
Gli Americani hanno usato gli stessi argomenti degli Inglesi nel 1815, sostenendo che essi “combattevano contro il comunismo, la tirannia, l’espansionismo”, e i loro argomenti erano ben poco diversi, fatta eccezione per la cosiddetta lotta contro il comunismo. Questa si è rivelata un trucco, perché al crollo dell’Unione Sovietica il confronto tra l’Occidente e la Russia non è terminato.
La storia del XIX secolo si ripete: gli Stati Uniti continua a parlare di una “minaccia” presumibilmente proveniente dalla Russia, al fine di raggiungere i propri obiettivi, promuovere i propri interessi, e perseguire la propria espansione. Oggi si demonizza la Russia in modo da mettere i missili della NATO in Polonia, usando le stesse parole e gli stessi argomenti che usava Napoleone 200 anni fa.”

Da Guy Mettan: le radici della russofobia, intervista all’autore di Russofobia. Mille anni di diffidenza.

cover-russofobia-perweb-2

Lettera aperta ai ciarlatani della rivoluzione siriana

13237603_1018612968222395_6078292101785724072_n

Nel momento preciso in cui un dirigente storico della resistenza araba libanese, in Siria, è appena spirato sotto i colpi dell’esercito sionista [qui l’autore si riferisce alla morte di Mustafa Badreddine, avvenuta per mano delle milizie antigovernative, inizialmente attribuita ad una incursione aerea israeliana – ndr], indirizzo questa lettera aperta agli intellettuali e militanti di “sinistra” che hanno preso partito per la ribellione siriana e credono allo stesso tempo di difendere la causa palestinese, mentre sognano tutti presi la caduta di Damasco.
Ci dicevate nella primavera del 2011, che le rivoluzioni arabe rappresentavano una speranza senza precedenti per popoli che subivano il giogo di despoti sanguinari. In un eccesso di ottimismo, noi vi abbiamo ascoltato, sensibili ai vostri argomenti su questa democrazia che nasceva miracolosamente e a tutti i vostri proclami sui diritti umani. Siete riusciti quasi a persuaderci che questa protesta popolare che si è portata via i dittatori di Tunisia ed Egitto avrebbe spazzato via la tirannia ovunque e in ogni altra parte del mondo arabo, sia in Libia che in Siria, nello Yemen come nel Bahrain, e chi sa dove altro ancora.
Ma questo bello svolazzo lirico ha lasciato apparire rapidamente qualche falla. La prima, tanto grande da rimanere a bocca aperta, è apparsa riguardo la Libia. Quando, adottata dal Consiglio di Sicurezza per soccorrere le popolazioni civili minacciate, una risoluzione ONU si trasformò in un assegno in bianco per la destituzione manu militari di un capo di Stato divenuto ingombrante per i suoi partner occidentali. Degna dei peggiori momenti dell’era neo-conservatrice, questa operazione di “regime change” compiuta per conto degli USA da due potenze europee con mire di affermazione neo-imperiale è sfociata in un disastro di cui la sfortunata Libia continua oggi a pagare il caro prezzo. Infatti il collasso di questo giovane Stato unitario portò il Paese alla mercé delle ambizioni sfrenate delle sue tribù, sapientemente incoraggiate alle ostilità dalle bramosie petroliere dei carognoni occidentali.
C’erano anche anime belle comunque, tra di voi, tanto per accordare delle circostanze attenuanti a questa operazione, così come ce n’erano, inoltre, in primo piano per esigere che un trattamento analogo fosse inflitto al regime di Damasco. Questo perché il vento della rivolta che soffiava allora in Siria sembrava convalidare la vostra interpretazione degli eventi e sembrava dare una giustificazione a posteriori al bellicismo umanitario già scatenato contro il potentato di Tripoli. Eppure, lontano dai media di “mainstream”, alcuni analisti ci fecero osservare che il popolo siriano era lontano dall’essere unanime nella protesta e che le manifestazioni anti-governative avevano luogo soprattutto in alcune città, bastioni tradizionali dell’opposizione islamista, e che quel febbricitante ambito sociale, composto dalle classi impoverite dalla crisi, non avrebbe mai portato masse di persone alla causa per contribuire alla caduta del governo siriano.
Questi ammonimenti nostri sull’utilizzare il buon senso nella comprensione, voi li avete ignorati, così come i fatti che non corrispondevano alla vostra narrazione, voi li avete filtrati come vi è sembrato meglio. Li dove degli osservatori imparziali vedevano una divisione in poli della società siriana, voi avete voluto vedere un tiranno sanguinario che assassinava il suo popolo. Li dove uno sguardo spassionato permetteva di discernere le debolezze, ma anche i punti di forza dello Stato siriano, voi avete abusato di una retorica moralizzante per istruire a carico di un governo, che era molto distante dall’essere l’unico responsabile delle violenze, un processo sommario.
Voi avete visto le numerose manifestazioni contro Bashar Al Assad, ma non avete mai guardato i giganteschi raduni di sostegno al governo e alle riforme, che riempirono le vie di Damasco, di Aleppo e Tartous. Voi avete stilato la contabilità macabra delle vittime del governo, ma avete dimenticato quella delle vittime dell’opposizione armata. Ai vostri occhi c’erano vittime buone e vittime cattive, alcune che si meritavano di essere menzionate ed altre di cui non si vuole sentire neanche parlare. Deliberatamente voi avete visto le prime, bendandovi gli occhi per rendervi ciechi di fronte alle seconde.
E allo stesso tempo, questo governo francese, del quale criticate volentieri la politica interna per mantenere l’illusione della vostra indipendenza intellettuale, vi ha dato ragione su tutta la linea. Curiosamente, la narrazione del dramma siriano che era la vostra, coincideva con la politica estera del signor Laurent Fabius, un capolavoro di servilismo che mescolava l’appoggio incondizionato alla guerra israeliana contro i Palestinesi, l’allineamento pavloviano con la leadership americana e la solita minestra riscaldata di ostilità nei confronti della resistenza araba. Ma il vostro apparente matrimonio con la Quai d’Orsay non è mai sembrato darvi troppo fastidio. Voi difendevate i Palestinesi nel cortile mentre cenavate con i loro assassini in giardino. Vi capitava anche di accompagnare i dirigenti francesi in visita di Stato a Israele. Eccovi quindi intruppati e complici, assistere allo spettacolo di un presidente che dichiara pubblicamente che a lui “piaceranno sempre i dirigenti israeliani”. Ma ci voleva molto di più per scandalizzarvi e quindi vi siete imbarcati una nuova volta con il Presidente, come tutti d’altronde.
Avete a giusto titolo condannato l’intervento militare americano in Iraq nel 2003. La virtù rigenerante dei bombardamenti per la democrazia non vi scalfiva, e dubitavate delle virtù pedagogiche delle operazioni belliche chirurgiche. Ma la vostra indignazione nei confronti di questa politica della cannoniera in versione “high tech” si dimostrò stranamente selettiva. Poiché reclamavate a tutti i costi contro Damasco, nel 2013, ciò che giudicavate intollerabile dieci anni prima contro Baghdad.
Un solo decennio è bastato per rendervi così malleabili, tanto da vedere ormai la salvezza del popolo siriano in una pioggia incrociata di missili su questo Paese che non vi ha fatto nulla di male. Rinnegando le vostre convinzioni anti-imperialiste, voi avete sposato con entusiasmo l’agenda di Washington. Mentre senza vergogna non soltanto applaudivate in anticipo i B 52, ma riprendevate la propaganda più becera e grottesca degli Stati Uniti, da cui il precedente iracheno e le sue menzogne memorabili dell’era Bush avrebbero dovuto immunizzarvi.
Mentre inondavate la stampa esagonale delle vostre assurdità, fu proprio un giornalista americano d’investigazione d’eccezione, che sbriciolò la patetica “false flag” destinata a rendere Bashar Al Assad il responsabile di un attacco chimico di cui nessun organismo internazionale l’ha accusato, ma che gli esperti del Massachusetts Institute of Technology e l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche, tuttavia, hanno attribuito alla parte avversa. Ignorando i fatti, travestendovi da qualcos’altro alla bisogna, voi avete recitato in questa occasione la vostra parte miserabile in questo melodramma cacofonico di menzogne. E quello che è ancora peggio, è che continuate a farlo. Anche quando lo stesso Obama lascia intendere che lui stesso non ci ha creduto, voi vi ostinate a reiterare queste stupidaggini, come dei cani da guardia che continuano ad abbaiare anche dopo il dileguarsi dell’intruso. E per quale motivo? Per giustificare il bombardamento, da parte del vostro governo, di un piccolo Stato sovrano, il cui torto maggiore è il suo rifiutare di sottostare all’ordine imperiale. E per cosa? Per venire in aiuto di una ribellione siriana di cui voi avete sapientemente mascherato il vero volto, accreditando il mito di un’opposizione democratica e laica che esiste soltanto nelle halls dei Grand Hotel di Doha, di Parigi o di Ankara.
Questa “rivoluzione siriana”, l’avete dunque esaltata, ma avete pudicamente voltato lo sguardo altrove quando si trattava invece di notare le sue pratiche mafiose, la sua ideologia settaria e i suoi finanziamenti dubbi e carichi di problematiche da porsi. Voi avete accuratamente occultato l’odio interconfessionale che la ispira, questa avversione morbida per gli altri credo direttamente ispirata al wahhabismo che ne è il pilastro ideologico. Voi sapevate bene che il regime baathista, in quanto laico e non settario in senso confessionale, costituiva un’assicurazione a vita per le minoranze religiose, ma non ve ne siete dati pena, arrivando addirittura a classificare come “cretini”, coloro che prendevano la difesa dei cristiani perseguitati. Ma non è tutto purtroppo. Arrivati alla resa dei conti, vi resterà appiccicata addosso anche questa ultima ignominia: voi avete fatto da garanti alla politica di un Laurent Fabius per il quale Al Nusra, ramo siriano di Al Qaida, “ fa un buon lavoro in Siria”. E chi se ne frega! Tanto peggio per i passanti sbrindellati nelle vie di Homs o per gli alauiti di Zahra assassinati dai ribelli, tanto, per i vostri occhi questi sono le ultime ruote del carro.
Tra il 2011 e il 2016 le maschere sono cadute. Fate appello al diritto internazionale mentre applaudite alla violazione dello stesso contro uno Stato sovrano. Pretendete di promuovere la democrazia per i Siriani diventando gli araldi del terrorismo che subiscono. Dite di difendere i Palestinesi, ma siete dalla stessa parte della barricata di Israele. Allora state tranquilli, perché quando un missile israeliano si abbatte sulla Siria non sarà mai che colpirà i vostri beniamini. Perché grazie a Israele e alla CIA, ma anche grazie a voi miei cari, questi coraggiosi ribelli continueranno a predisporre il futuro radioso della Siria sotto l’egida del takfirismo. Perché quel missile sionista, che si abbatterà sulla Siria, ucciderà sicuramente e solo uno dei leader di questa resistenza araba di cui cianciate, ma che voi avete tradito.
Bruno Guigue

Fonte

yxcqCiSNsuWNMLF-800x450-noPad

Se non ci fosse stato Regeni, se lo sarebbero dovuto inventare

12968122_1291226500905147_6244227264405783315_o

“Sono settimane che ci stressano a reti e destre e pseudo sinistre unificate sul povero ragazzo trucidato dagli infami del Cairo. Perorazioni, anatemi, invenzioni fantasmagoriche di dati e fatti, illazioni gonfiate a certezze ontologiche, latrati per chiedere giustizia e che trasudano una protervia razzista da far invidia agli Uebermenschen nazisti o sionisti. Al confronto l’accanimento sugli assassini di Calipari, punito per aver liberato la Sgrena ma, soprattutto, per aver scoperto chi davvero in Iraq rapiva giornalisti scomodi, o quello sui trogloditi che si divertivano sul Cermis a trinciare cavi di funivia e fare stragi, o quello sulle punizioni da infliggere – e sulle oscene grazie napolitanesche e mattarelliane concesse – ai rapitori CIA di Abu Omar, è stata un timido sussurro, un discreto flautus vocis. Vi torna la simmetria? E’ che, una volta, dall’altra parte c’era un Al-Sisi qualsiasi, un parvenu del Terzo Mondo che si permette di pretendere trattamenti alla pari; l’altra volta invece, il padrone. Il quale detta la musica in entrambi i casi.”

Cairo-Roma: come tagliarsi le palle e vivere felici, di Fulvio Grimaldi continua qui.

Ricordate Calipari?

UNCLE SAM

Riflessioni sull’uccisione dei due tecnici italiani in Libia.

La tragica vicenda – ancora misteriosa – dei due tecnici italiani ci induce a qualche riflessione in libertà, non basata su dati certi (che mancano), ma su considerazioni logiche e domande che chiunque abbia un minimo di raziocinio può porsi.
I tecnici italiani erano stati rapiti mesi fa da bande di jihadisti-criminali-mercenari (le tre cose non sono affatto in contraddizione nel panorama nordafricano e mediorientale), ritenute vicine allo Stato Islamico, nella città di Sabrata, posta a circa 60 Km ad ovest di Tripoli, verso la frontiera tunisina.
Queste bande si disputavano il territorio con le altre bande che hanno preso il potere a Tripoli (come “Alba Libica”) e Misurata, legate alla Fratellanza Musulmana e finanziate da Turchia e Qatar. Negli ultimi mesi era stata esercitata una forte pressione internazionale perché il “governo di Tobruk”, unico riconosciuto internazionalmente, di tendenze laiche e sostenuto dalle truppe del generale Haftar e dall’Egitto, si alleasse con il cosiddetto “governo di Tripoli”, formando un unico governo. Il parlamento di Tobruk ha finora rifiutato, ed anzi ha attaccato le bande jihadiste che dominavano a Bengasi (come “Ansar Al-Sharia”), potenziali alleate del “governo di Tripoli”.
Poco tempo fa aerei statunitensi partiti dall’Italia, probabilmente da Trapani o Sigonella (non si è mai detto da dove fossero partiti), hanno attaccato Sabrata uccidendo una quarantina di jihadisti. Contemporaneamente droni partiti da Sigonella hanno attaccato le posizioni dello Stato Islamico che si disputano il territorio con le bande di Tripoli e Misurata.
Possiamo immaginare quanto questi bombardamenti abbiano giovato alla faticosa trattativa che i servizi segreti italiani stavano tenacemente sviluppando per la liberazione dei nostri quattro connazionali sequestrati (ovviamente dietro pagamento di un riscatto, come già avvenuto nel caso di Giuliana Sgrena in Iraq e delle due ragazzette filo-jihadiste, Greta e Vanessa, catturate in Siria).
Ma quando sembrava che le trattative fossero finalmente andate in porto, ecco che scatta la provocazione. Le milizie dei Fratelli Musulmani, legate al “governo di Tripoli”, attaccano i jihadisti che stanno spostando gli ostaggi, presumibilmente per consegnarli ai servizi italiani. Due tecnici perdono tragicamente la vita, forse uccisi dagli stessi rapitori per rappresaglia, forse uccisi dal “fuoco amico” come i due ostaggi serbi uccisi dai bombardamenti americani (ma erano due “cattivi” Serbi: a chi interessa?).
Chi ha suggerito questa provocazione, e perché? Non possiamo dimenticare il caso del povero Calipari, ucciso in Iraq da una pattuglia dell’esercito statunitense in circostanze poco chiare (ma si sa che gli USA non gradiscono trattative con i “terroristi” fatte da altri).
Ma giungono altri segnali ancora più significativi. Poco tempo fa il Segretario di Stato Kerry ha dichiarato che un intervento militare a guida italiana contro l’ISIS in Libia (e quindi a sostegno delle bande di Tripoli e Misurata) sarebbe stato molto gradito. Oggi l’ambasciatore statunitense a Roma dichiara che il governo italiano aveva promesso un corpo di spedizione italiano di 5.000 uomini e rampogna l’Italia per le sue esitazioni. Forse l’attivismo dei concorrenti francesi che sono già scesi in campo ed hanno aiutato il governo di Tobruk a scacciare i jihadisti da Bengasi (il compenso potrebbe essere il petrolio della Cirenaica da concedere alla francese Total) ha innervosito gli USA.
Renzi e Gentiloni, dopo aver promesso interventi militari massicci, ora cercano di svincolarsi dall’abbraccio soffocante del “grande fratello” che si serve dell’Italia come della sua portaerei privata. E’ vero che il 10 febbraio è stato varato – al di fuori di qualsiasi dibattito parlamentare – un provvedimento che permette l’invio di forze militari speciali italiane, “con licenza di uccidere”, nel peggior stile dei film di 007. Ma Renzi, conscio dell’opposizione della maggior parte degli Italiani a questa nuova guerra (anche se pochi scendono in piazza rompendo il silenzio imposto dal Partito Democratico, da una TV corrotta e da una stampa venduta) cerca di liberarsi dalla trappola evitando di prendere, per ora, la decisione di un intervento più palese e massiccio.
Scattano allora i messaggi mafiosi dell’ambasciatore USA, dell’aviazione statunitense e della NATO. Ricordate Calipari?
Vincenzo Brandi

Il coinvolgimento degli Stati Uniti nella “primavera araba”

arabesque$“Gli imponenti rivolgimenti che i benpensanti occidentali hanno precipitosamente ed erroneamente battezzato “primavera” hanno provocato solo caos, morte, odio, esilio e desolazione in molti Paesi arabi. Bisognerebbe forse chiedere ai cittadini dei Paesi arabi “primaverizzati” se la disastrosa situazione in cui si trovano attualmente possa definirsi primavera.
In proposito, i numeri sono eloquenti. Uno studio recente ha dimostrato che questa funesta stagione ha provocato, in soli cinque anni, più di 1,4 milioni di vittime (morti e feriti), cui occorre aggiungere più di 14 milioni di rifugiati. La “primavera” è costata ai Paesi arabi più di 833 miliardi di dollari, di cui 461 in perdite di infrastrutture distrutte e siti storici devastati. D’altra parte la regione MENA (Middle East and North Africa – Medio Oriente e Africa del Nord) ha perso più di 103 milioni di turisti, una vera calamità per l’economia.
Nella prima edizione del mio libro “Arabesque américaine” (aprile 2011), ho denunciato l’ingerenza straniera in queste rivolte, e anche il carattere non spontaneo di questi movimenti. Certamente, prima di questi avvenimenti, i Paesi arabi erano in una vera situazione di decrepitezza: assenza di alternanza politica, forte disoccupazione, democrazia embrionaria, bassi livelli di vita, diritti fondamentali violati, assenza di libertà di espressione, corruzione a tutti i livelli, favoritismi, fuga dei cervelli, ecc. Tutto ciò rappresenta un “terreno fertile” per la destabilizzazione. Nonostante, però, l’assoluta fondatezza delle rivendicazioni della piazza araba, ricerche approfondite hanno dimostrato che i giovani manifestanti e i cyber-attivisti arabi erano stati formati e finanziati da organizzazioni statunitensi specializzate nella “esportazione” della democrazia, come USAID, NED, Freedom House o l’Open Society del miliardario George Soros. E tutto ciò, già molti anni prima che Mohamed Bouazizi si immolasse col fuoco.
(…)
E’ evidente che questa “primavera” non ha niente a che vedere con gli slogan coraggiosamente scanditi dai giovani cyber-attivisti nella piazze arabe e che la democrazia è solo uno specchio per le allodole. Infatti, come ci si può non porre delle serie domande su questa “primavera”, quando si veda che gli unici Paesi arabi che hanno subito questa stagione sono delle repubbliche? E’ un caso che nessuna monarchia araba sia stata toccata da questo tsunami “primaverile”, come se questi Paesi fossero dei santuari della democrazia, della libertà e dei diritti dell’uomo? L’unico tentativo di sollevazione anti-monarchica, quello del Bahrein, è stato represso con violenza, con la collaborazione militare del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), il silenzio complice dei media mainstream e la connivenza dei politici, al contrario tanto loquaci quando simili vicende hanno riguardato repubbliche arabe.
Questa “primavera” ha di mira la destabilizzazione di alcuni Paesi arabi ben individuati in un quadro geopolitico ben più vasto, certamente quello del “Grande Medio Oriente”. Questa dottrina prevede il rimodellamento delle frontiere di una regione geografica che ospita Paesi arabi ed altri Paesi vicini, cancellando quelle ereditate dagli accordi di Sykes-Picot. Benché lanciato sotto la guida del presidente G. W. Bush e dei suoi falchi neoconservatori, questa teoria si ispira ad un progetto del 1982 di Odeon Yinon, un alto funzionario del ministero degli affari esteri israeliano. Il “Piano Yinon”, come lo si chiama, aveva in origine come obiettivo la “dissoluzione di tutti gli Stati arabi esistenti e il rimodellamento della regione in piccole entità fragili, più malleabili e non in grado di scontrarsi con gli Israeliani”.
E lo smembramento purtroppo è in corso.”

Da La fregatura delle “primavere arabe”, intervista di Nordine Azzouz a Ahmed Bensaada.

(I collegamenti inseriti sono nostri – ndc)

Gli Stati Uniti sono il nostro nemico

obama-redrawing-middle-east-isis-isil-2

Colonie

Chi fa esplodere i Paesi alle porte di casa nostra, Ucraina, Libia, Siria, se la ride mentre noi ci scanniamo attanagliati in uno scrupolo morale senza soluzione, ovvero se sia lecito respingere milioni di profughi che si accalcano disperati alle nostre frontiere.
E’ sacrosanto dire che la Russia non è il nostro nemico, ma non basta più. Oggi bisogna dire chiaramente che Obama ci ha attaccato con le sue guerre ibride per spogliarci di ogni rimanente ricchezza ed asservirci ancora di più, sottomettendoci ad una colonizzazione morale, culturale, ideologica, economica politica e militare.
Un caso può essere frutto di pianificazione difettosa, due casi possono essere spiegati con la semplice stupidità, ma tre casi identici e contestuali dimostrano una strategia coerente (e poi che gli è andata male in Egitto, o staremmo già combattendo nelle nostre strade): gli Stati Uniti sono il nostro nemico.
I popoli europei devono combattere una guerra di indipendenza quasi impossibile, ma vitale.
Abituiamoci all’ idea, ripetiamocelo ogni giorno, cerchiamo di sensibilizzare le persone intorno a noi. Basta infingimenti, basta equivoci: gli Stati Uniti sono il nostro nemico.
Ilio Barontini

Fonte

Intervista a una donna libica

afrique-libye-otan

A cura di Leonor Massanet Arbona.

Marian Al Fatah (56 anni) è nata e cresciuta nella capitale libica. Appartiene alla tribù Warfalla e Gadafa. Quando avvenne l’invasione della Libia, lavorava in Europa, dove attualmente vive. Alcuni membri della sua famiglia sono morti difendendo le loro città e le loro case dai gruppi armati.

Leonor: Potrebbe farci un veloce riassunto della situazione attuale nel suo Paese, la Libia?
Al Fatah: In questi momenti a Tripoli, la situazione va dal caos alla disintegrazione del Paese. Se non si arriva rapidamente a un accordo, la Libia scomparirà. Parlo di Tripoli, che è ciò che conosco.

Leonor: In che modo pensa abbia influito e stia influendo il cambiamento della Russia per neutralizzare il cosiddetto ISIS, in Libia?
Al Fatah: Fino ad ora a quanto pare non ha avuto influenza. La maggior parte dell’ISIS sta fuggendo dalla Siria e molti si rifugiano in Libia. La Russia sta facendo qualcosa di molto buono.

Leonor: Come è stato il tentativo delle Nazioni Unite attraverso B. León di imporre un governo dei cosiddetti Fratelli Musulmani in Libia?
Al Fatah: Io lo chiamo “Re Leone”, sostiene i Fratelli Musulmani. Pretende, non capisce, e mai capirà che noi Libici siamo molto testardi e possiamo aspettare il tempo necessario per raggiungere ciò che pensiamo sia giusto.
Se vuole convincere noi libici a fare quello che vuole lui può aspettare seduto.
B. León, Ban Ki Noon, UE, ecc… ci dicono che, se non formiamo il governo che vogliono loro, ci sanzioneranno. La mia risposta è: ma se abbiamo sanzioni dal 2011, embargo da tanti anni, quali altre sanzioni possono imporci? Noi Libici siamo testardi.
Adesso le Nazioni Unite cambieranno il Re Leone con un tedesco [Martin Kobler – ndr].

Leonor: Come sono, in questo momento, le relazioni con i vostri vicini, Tunisia ed Egitto?
Al Fatah: Normali, entrambi cercano di proteggersi dai terroristi che sono in Libia ed entrambi cercano di aiutarci. Hanno catturato molti terroristi e ci aiutano alle frontiere.

Leonor: Qual è il ruolo attuale delle tribù libiche nella ripresa del Paese?.
Al Fatah: Da quanto so sulla tribù Warfalla alla quale appartengo, è quella che più si sta impegnando per il Paese, ma in realtà non ne so abbastanza. Conosco soprattutto quello che fa la mia tribù. Ѐ la tribù più grande della Libia.

Leonor: In che modo pensa che stia aiutando il Movimento Nazionale Popolare Libico?
Al Fatah: Ognuno mette il suo mattone nella costruzione. Tutte [le tribù] lavorano per la pace della Libia. Ѐ molto difficile per i Libici “perdonare” e per questo molte famiglie stanno passando momenti molto difficili. Sappiamo che perdonare e andare avanti è l’unico modo. Lo so ancor di più perché mia madre ha vissuto una guerra civile e quindi capisco quanto sia difficile il perdono, nella sua famiglia c’è ancora odio dopo 30 anni.

Leonor: Che pensa di Fatima Alhamroush?
Al Fatah: Non la conosco…

Leonor: Ha partecipato al governo di transizione creato dal Consiglio Nazionale di Transizione nel 2011.
Al Fatah: …(annuisce con la testa e sorride) Fatima fu portata in Libia da un parente e dall’M16. Col denaro che ha speso nel suo ministero nei primi due anni avrebbero potuto costruire il miglior ospedale del mondo ed i Libici non sarebbero dovuti andare fuori per curarsi.
Ѐ una straniera che non amava la Libia. Ha la doppia cittadinanza ed è illegale che una persona con doppia cittadinanza abbia un incarico nel governo libico.
Se fosse stata libica la sua priorità come ministro della salute avrebbe dovuto essere quella di costruire e riparare gli ospedali affinché la sua gente non morisse.
Il Metropolitan Hospital di Atene nel 2011 era in bancarotta ed ora è uno dei migliori della Grecia perché la gente di Misurata (Alba Libica) era trasferita con aerei privati in questo ospedale.
Tutto ciò che dice questa donna è pura menzogna.
Dal 2011 la maggior parte dei Libici sono stati obbligati ad andare fuori dal Paese per avere cure mediche. Lei non ha fatto niente per risolvere questa situazione.
Questa donna ha totalmente rovinato il Ministero libico della Sanità. La Libia aveva il migliore ospedale di medicina estetica e ricostruttiva nel 2010 e aveva ottimi chirurghi. Fu lei o la gente che aveva intorno a rovinare la sanità libica e i soldi li hanno portati all’estero.
Era gente che non amava il suo Paese.
Prima della guerra le strade di Tripoli non erano buone e io mi lamentavo sempre, dicevo che il sindaco di Tripoli era corrotto, noi libici ci lamentavamo delle cose che non funzionavano, ma non davamo a Gheddafi la colpa di tutto ciò che accadeva. Dal 2011 tutti sono corrotti.
I figli del generale Hafter hanno rapinato le banche di Tripoli nel 2013.
BilHuj fu catturato all’aeroporto di Tripoli con una valigetta con un miliardo, inviato da Jalil in Siria per formare l’“opposizione”.
Se Fatima fosse stata onesta, avrebbe potuto ad esempio dimettersi, visto quanto stava accadendo.
Questa donna è stata portata in Libia dall’M16 e hanno cercato gente in tutto il mondo che stesse dalla loro parte. Come può aiutare un Paese che non conosce, dal momento che sono 20 anni che vive all’estero? Non ha nessuna idea di come la gente pensa.
Il Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) era formato da CIA, M16, Mossad… , e questa gente l’hanno portata da fuori.
Durante il governo di Gheddafi, in 43 anni, ci sono stati 200.000 esuli libici, ma ora sono più di 3.000.000.
Dal 1969 al 1978 Gheddafi non cambiò niente in Libia
Nel 1979 la mia famiglia aveva una catena di librerie, gioiellerie, giocattoli, vestiti e… , abbiamo guadagnato un sacco di soldi; poi, il governo libico decise di nazionalizzare tutto. Così molti libici lasciarono il Paese, soprattutto le famiglie ricche.
Nel 1980 potremmo dire che ci furono agitazioni in Libia. Quando tutto fu risolto, ci si rese conto che socializzare era stato un errore, così si tornò a privatizzare tutto e a risarcire tutti. La mia famiglia ha ricevuto il giusto indennizzo per quello che aveva perduto.
Durante l’embargo non c’erano problemi nel Paese, e i conflitti che si verificavano erano delegati alle tribù.
Dopo l’embargo la Libia ha avuto una crescita esplosiva. Ogni giorno c’erano cose nuove, le leggi cambiavano sempre per il meglio.
Una persona vissuta all’estero così a lungo, anche se parla arabo, non capisce la cultura, lo stile di vita, pretende di imporre in poco tempo i costumi stranieri e guarda i Libici come “arretrati”.
Gheddafi ha detto che non gli piaceva che le donne libiche si coprissero troppo e così molte donne si scoprirono, però altre si fanatizzarono.
Prima, solo le anziane si coprivano il volto, però dopo le parole di Gheddafi alcune donne hanno cominciato a coprirsi.
Noi Libici non ci rendevamo conto che poco a poco gli imam andavano cambiando ed erano Fratelli Musulmani. Immaginate quello che questa gente andava facendo piano piano e senza che nessuno se ne accorgesse.
Le preghiere in Libia non erano così rigide, cinque volte al giorno, ma dopo i cambiamenti dei Fratelli Musulmani stavano diventando più rigide.
Fatima è stata così a lungo fuori dalla Libia che non può essere un riferimento in Libia, con i Libici.
Io sono nata in Libia, ci sono vissuta fino all’età di quattro anni, sono vissuta all’estero per anni e tornavo in Libia per le vacanze. Poi sono ritornata a vivere in Libia alcuni anni fino a che sono dovuta partire nel 1980 per lavorare fino al 1997. Sono stata fuori per anni per cui a quell’epoca non potevo disporre di informazioni tanto vicine come i miei genitori o i miei zii. Ho iniziato ad essere vicina al mio Paese a partire dal 1997.
Fatima ha un passaporto irlandese: tutti quelli del CNT avevano doppia nazionalità sebbene in Libia la doppia nazionalità fosse proibita fino al 2003.
Nel 2003 la doppia nazionalità è stata permessa perché c’erano molti matrimoni misti e i bambini avevano il passaporto di tutti e due i Paesi.
La maggior parte dei “ratti” sono corrotti fino al midollo, e nemmeno uno di loro ha fatto il bene della Libia e dei libici. Per esempio Jalil ora ha una villa in Egitto e un appartamento in Turchia.
Jibril ha miliardi all’estero.
Bilhuj è oggi uno dei libici più ricchi del Paese.
Trovatemi uno solo di quei ratti che pensi a qualcosa di diverso da se stesso.
Bilhuj è vissuto tutta la sua vita fuori dal Paese, non è libico e c’è qualcosa che l’Occidente non capisce, ed è che gli arabi vogliono un’altra forma di governo. Noi abbiamo il capotribù che tutti rispettiamo e non lo abbiamo eletto. Non ci interessa la parola “democrazia” e durante gli ultimi 43 anni Gheddafi ha fatto il meglio per il suo Paese. Ha fatto degli errori, ma li ha corretti e la gente lo ama.
Fatima Alhamroush non sarebbe mai dovuta tornare in Libia, ma l’M16 voleva avere al suo fianco gente come lei.

Fonte – traduzione di M. Guidoni

Bernardino León ha negoziato la sua promozione con il governo degli Emirati mentre era mediatore dell’ONU per la Libia

12193444_949982268381242_4121157457881842660_n
L’ex segretario di Stato spagnolo è stato appena nominato direttore della scuola diplomatica degli Emirati, un Paese che appoggia una delle parti che si affrontano nella guerra civile libica.
León aveva comunicato al ministro degli Esteri di quel Paese che aveva intenzione di favorire il gruppo nazionalista di Tobruk appoggiato dai governi europei e del Golfo Persico.

Secondo quanto riferito dal Guardian, il diplomatico spagnolo Bernardino León stava negoziando durante i mesi estivi con il governo degli Emirati Arabi Uniti la sua promozione a un posto di livello superiore mentre al tempo stesso cercava di favorire a nome dell’ONU un accordo politico per metter fine alla guerra in Libia.
L’indipendenza della sua missione diplomatica resta in discussione per il fatto che il governo degli Emirati appoggia una delle due parti in conflitto e per una e-mail rivelata dal quotidiano britannico. In essa, León mostra chiaramente che la sua posizione è favorevole al gruppo che controlla il Parlamento dalla città di Tobruk e che si oppone alla coalizione islamista che si era rafforzata in gran parte del Paese. Il messaggio rivela un mediatore che non è neutrale.
A giugno, il governo degli Emirati aveva offerto a León, che era segretario di Stato per l’Estero nel governo Zapatero, il posto di direttore della sua scuola diplomatica, un posto altamente lucrativo, con uno stipendio mensile di 50.000 euro. Quella scuola non solo forma i diplomatici di questa monarchia autoritaria, ma funziona come un think tank per promuovere le priorità della sua politica estera. Mercoledì scorso, la nomina è stata resa pubblica e Bernardino León è stato sostituito come inviato speciale delle Nazioni Unite per la crisi libica dal diplomatico tedesco Martin Kobler.
Nelle trattative private con gli Emirati, León aveva sollevato le sue alte aspirazioni economiche. Riferiva di non riuscire a trovare un domicilio in Abu Dhabi che soddisfacesse le sue esigenze di affitto con gli 89.000 euro annui offertigli per questo scopo, e chiedeva un importo doppio di tale cifra.

L’intervento degli Emirati nella guerra
Gli Emirati non sono mai stati un osservatore imparziale nella guerra libica. Aerei di questo Paese, insieme a quelli egiziani, hanno partecipato nell’agosto del 2014 ad attacchi contro la coalizione delle milizie islamiste, appoggiata dal Qatar, per cercare di impedire che prendessero il controllo della capitale, Tripoli, fatto che non gli riuscì. Come i governi occidentali, gli Emirati riconoscono come unica autorità legittima della Libia i gruppi nazionalisti che furono espulsi da Tripoli.
Il Guardian racconta che solo cinque mesi dopo esser stato nominato mediatore, León inviò una e-mail al ministro degli Esteri degli Emirati per parlargli del suo rifiuto dell’ultima posizione di Europa e Stati Uniti, che erano disposti a convocare una conferenza di pace. Per León, e presumibilmente per il suo interlocutore, questo era un errore “perché si sarebbero considerate entrambe le parti come uguali attori nel conflitto”.
Il diplomatico spagnolo rivela al suo interlocutore che non ha alcuna intenzione di essere un mediatore neutrale. Sua intenzione è rompere l’alleanza dei commercianti di Misurata coi gruppi islamisti per rafforzare i loro rivali di Tobruk. Suo obiettivo è “delegittimare” la coalizione islamista. Racconta anche che coordina tutti i suoi movimenti con i nemici del gruppo che controlla Tripoli, e che fra di essi c’è l’ex primo ministro Mahmoud Jibril, fuggito negli Emirati e protetto dalle autorità di quel Paese.
Parlando al quotidiano britannico, León nega di aver favorito una delle due parti nella guerra libica e sostiene che la sua proposta per porre fine al conflitto sia equa. Riguardo all’e-mail citata, afferma di aver avuto conversazioni simili con Paesi che appoggiano l’altro attore della guerra: “Sono sicuro che in varie occasioni ho detto anche a loro che ‘possono contare su di me’. Il mio lavoro consiste nel costruire la fiducia con tutti, dentro e fuori la Libia”.
Parlando a El País, León ha detto che il suo account di posta elettronica è stato violato: “Attraverso queste e-mail sono stato attaccato e manipolato, qualcuno sta cercando di dire che io sono stato parziale, con la scusa che gli Emirati Arabi Uniti sostenevano il Governo di Tobruk. Ѐ chiaro che anche da Tobruk mi si accusa di favorire Tripoli”.
The Guardian ha contattato León lunedì [2 novembre u. s. – ndr]. Allora, aveva negato di aver accettato il posto negli Emirati. Il mercoledì, ha inviato una e-mail al giornalista affermando che “non aveva ancora firmato nessun contratto” e che c’erano state solo conversazioni. Ha chiesto al giornale di non pubblicare nulla fino a che non gli avesse concesso un’intervista per spiegare la sua situazione. La successiva notizia era apparsa sul giornale il giovedì, quando è stato annunciato che León avrebbe assunto il posto offerto dal governo degli Emirati.

Una proposta di pace senza esito
Prima di concludere il suo lavoro di inviato dell’ONU, ha annunciato una proposta di accordo di pace che passa attraverso la formazione di un Governo di unità nazionale nel quale il Parlamento di Tobruk svolga le funzioni legislative e il consiglio islamista si converta nella Camera Alta ma solo con funzioni consultive. L’accordo non sembra avere molto futuro. Ѐ stato respinto da entrambe le parti, soprattutto dagli islamisti. Attualmente, i Paesi occidentali e del Golfo Persico premono sui parlamentari di Tobruk affinché lo approvino. Il presidente della Camera non lo esclude, ma si limita a dire che “la porta del dialogo non è chiusa”.

Fonte – traduzione di M. Guidoni

Arabesque$

arabesque$

“In politica, nulla accade per caso”, disse Franklin Roosevelt, il presidente degli Stati Uniti. Eppure, i media hanno presentato le rivolte arabe come movimenti del tutto spontanei. Sì, i popoli arabi avevano tutte le ragioni per essere arrabbiati. Ma il ricercatore Ahmed Bensaada oggi rivela il coinvolgimento del governo statunitense che ha lavorato nell’ombra affinché il cambiamento politico fosse a vantaggio degli Stati Uniti.
Attingendo a molte fonti e con un’attenta analisi dei cablogrammi di Wikileaks, Bensaada dimostra che, in ogni Paese, gli attivisti promettenti sono stati discretamente finanziati e inquadrati dalle agenzie statunitensi di “esportazione” della democrazia, e agevolati dai giganti della Rete Facebook, Google, YouTube e Twitter.
Come nelle rivoluzioni colorate in Europa orientale e nel Caucaso, questi attivisti sono stati formati sulla base delle teorie del politologo Gene Sharp, e ben prima che gli eventi si manifestassero.

Arabesque$.
Enquête sur le rôle des États-Unis dans les révoltes arabes

di Ahmed Bensaada
con una prefazione di Michel Collon
Investig’Action, pp. 280, € 15

Per acquisti: michelcollon.info

L’Unione Europea è soltanto una colonia degli Stati Uniti

Selection_012-275x200_c

“L’Unione Europea è governata da una classe di persone completamente vendute agli Stati Uniti. Esempio tipico e classico è stata la debacle libica, dove gli Stati Uniti e la Francia hanno completamente distrutto il Paese più sviluppato in Africa. Ottenendo che centinaia di migliaia di profughi attraversino il Mediterraneo e cerchino rifugio dalla guerra in Europa. Tale risultato avrebbe potuto essere molto facile da prevedere, e tuttavia i Paesi europei non ha fatto nulla per impedirlo. In realtà, tutte le cosiddette Obamawars (Libia, Siria, Afghanistan, Irak, Yemen, Somalia, Pakistan) hanno portato a enormi flussi di rifugiati. Si aggiunga anche il caos in Egitto, Mali e la povertà in tutta l’Africa. Assistiamo a un esodo di massa che nessun muro-frontiera, fosso di scavo o bombe lacrimogene fermeranno.
Se non bastasse, l’UE ha realizzato quello che può solo essere chiamato un suicidio politico ed economico, consentendo all’Ucraina di esplodere in una guerra civile che coinvolge 45 milioni di persone, che ha distrutto completamente un’economia e installato al potere un vero e proprio regime nazista. Anche questo risultato era facile da prevedere. Ma la reazione degli Euroburocrati e’ stata di imporre sanzioni economiche masochiste alla Russia. Il che che ha finito per creare esattamente le condizioni e l’incentivo necessario per l’economia russa a diversificare e a produrre localmente invece di importare tutto dall’estero.
Vale la pena di ricordare che alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’Europa era praticamente un territorio occupato. I Sovietici avevano la parte centro-orientale, mentre gli Stati Uniti/Regno Unito avevano la parte occidentale. Siamo stati condizionati a pensare che le persone che vivevano sotto “l’oppressione” di ciò che la propaganda degli Stati Uniti ha denominato il “Patto di Varsavia” (in realtà chiamato “Organizzazione del Trattato di Varsavia”) siano stati meno liberi rispetto a quelli che vivevano sotto la “protezione” del Trattato Nord Atlantico.
A parte il fatto che il termine “Nord Atlantico” è stato coniato deliberatamente per legare l’Europa occidentale agli Stati Uniti, la questione centrale è che mentre in molti modi le persone in Occidente hanno avuto più libertà rispetto a quelli in Oriente, gli Stati Uniti/Gran Bretagna occupavano parte di un’Europa che non si è mai ripresa la propria sovranità. E proprio come i Sovietici hanno coltivato un’élite compradora locale in ogni Paese dell’Europa orientale, così hanno fatto gli Stati Uniti in Occidente.
La grande differenza è apparsa solo alla fine degli anni ’80 e ai primi ’90, quando l’intero sistema a conduzione sovietica è crollato mentre il sistema gestito dagli Stati Uniti è uscito rafforzato a seguito del crollo sovietico. Sicché, a partire dal 1991, la morsa di ferro degli Stati Uniti sopra l’UE è diventata ancora più forte di prima.
La realtà è triste e semplice: l’Unione Europea è una colonia degli Stati Uniti, gestita da marionette degli Stati Uniti che non sono in grado di lottare per gli interessi fondamentali ed evidenti degli Europei.”

Da L’Europa è in caduta libera, del Saker.
[Il collegamento inserito è nostro]

You stink: protesta popolare o destabilizzazione “colorata” a Beirut?

you_stink_birthday_card-rf4bea26ce3ac4912beeaae8d6251a14b_xvuat_8byvr_512Da settimane la capitale del Libano è sconvolta da manifestazioni antigovernative. Il pretesto iniziale per queste manifestazioni, che appaiono ben organizzate e coinvolgono una media di 20.000 o 25.000 persone, è la mancata raccolta dei rifiuti che ha causato indubbiamente disagi alla cittadinanza. Ma è credibile che per un motivo del genere vada avanti da settimane una protesta politica che ora chiede le dimissioni del governo e nuove elezioni? E’ possibile che solo per questo i manifestanti invochino una “rivoluzione” che sconvolga gli equilibri faticosamente raggiunti con gli accordi di Taez tra le fazioni che posero fine alla guerra civile degli anni ’70?
Il Libano è da molti mesi bloccato dal fatto che i due principali schieramenti contrapposti non riescono ad accordarsi sulla nomina del nuovo Presidente che per costituzione deve essere un cristiano. Lo schieramento definibile come “progressista” che aveva finora governato  è quello che fa capo ai partiti sciiti Hezbollah e Amal, ed ai cristiani nazional-progressisti del generale Aoun. Questo schieramento è su posizioni antisioniste e filo-siriane.
Le agguerrite milizie di Hezbollah, sostenute dall’Iran, dopo aver clamorosamente costretto Israele a ritirarsi dal Libano nel 2000 e dopo aver frustrato nel 2006 l’ultimo tentativo di Israele di invadere il Libano, combatte ora a fianco dell’esercito siriano e si oppone ai tentativi dei jihadisti provenienti dalla Siria (come l’ISIS o Al Nusra) di fare irruzione anche in Libano. Lo schieramento opposto è quello che fa capo al partito sunnita legato all’Arabia Saudita, egemonizzato dalla potente famiglia Hariri. Suoi alleati sono i cristiani di estrema destra (già responsabili del massacro di Sabra e Chatila del 1982), ora guidati dal famigerato fascistoide Geagea. Questo schieramento appoggia i cosiddetti “ribelli” siriani e flirta con Israele e con gli USA.
A questo punto non è difficile intravvedere nei disordini in corso un nuovo tentativo di “rivoluzione colorata”  come quelli già attuati nel colpo di stato contro il governo di Milosevic in Jugoslavia tramite il gruppo pseudo-rivoluzionario e studentesco “Otpor”;  in Ucraina con la “rivoluzione arancione” che portò al potere Yuschenko e la Timoschenko e poi, dopo il fallimento di questa “rivoluzione”, con il colpo di Stato di piazza Maidan; in Georgia con la “rivoluzione delle rose”, ecc. Anche le cosiddette “primavere arabe” rientrano in questo schema: sono state mandate in piazza persone inizialmente attratte da parole d’ordine formalmente “progressiste”, che poi si sono trasformate in incubi jihadisti appoggiati dall’esterno, come in Libia o in Siria, o hanno portato al potere la “Fratellanza musulmana” come in Egitto.
Anche a Beirut i manifestanti, organizzati presumibilmente dalle solite ONG “umanitarie” internazionali che in realtà sono iscritte nel libro paga della CIA, esibiscono slogan “progressisti” come quello di richiedere che il sistema elettorale non si basi più sulle tre confessioni principali (musulmani sciiti o sunniti, e cristiani) ma diventi laico. Dietro questi paraventi ideologici atti a sedurre settori della gioventù borghese progressista si intravvedono però le mire dei monarchi oscurantisti dell’Arabia Saudita e degli altri emirati feudali del Golfo, e dei loro alleati come USA, Turchia, Francia e Gran Bretagna. In questa fase i disordini servirebbero solo a destabilizzare il governo libanese che finora, anche perché spaventato dalla prospettiva di un’estensione della ribellione jihadista anche al Libano, ha di fatto sostenuto il governo di Bashar Al-Assad che resiste ai jihadisti in Siria.
Anche lo slogan assunto dai manifestanti testimonia dell’attenta programmazione della protesta che certamente gode del supporto di abili agenzie pubblicitarie come già le precedenti “rivoluzioni colorate”. A Belgrado lo slogan unificante era “Resistenza!”, a Kiev “E’ ora!”, a Tiflis “Basta!”. A Beirut è “You stink!”, ovvero “Voi puzzate!” rivolto al governo libanese (giocando sulla presenza della spazzatura in strada, fenomeno “normale” per un napoletano, come chi scrive). La strategia del caos in tutto il Vicino Oriente portata avanti dagli USA va avanti inesorabilmente. Ma il Libano degli Hezbollah è un osso duro, così come la Siria di Bashar Al-Assad che resiste ostinatamente da 4 anni e mezzo ad una potente coalizione internazionale (cosiddetti “Amici della Siria”, oggi “Gruppo di Londra”) che vorrebbe fare a pezzi il Paese, come già riuscito in Libia e – parzialmente – in Irak.
Vincenzo Brandi

La complicità occidentale nel genocidio in Yemen e il silenzio dei media

11880618_544647652340523_1291661389959575124_n

Finian Cunningham per rt.com

Nell’ultima atrocità in Yemen, aerei da guerra sauditi hanno bombardato una zona residenziale, uccidendo almeno 65 persone. La maggior parte delle vittime sarebbero civili del quartiere Salah di Taiz, terza città più grande dello Yemen.
Il supposto crimine di guerra commesso è tragicamente diventato un evento quasi quotidiano durante cinque mesi di bombardamenti aerei incessanti dello Yemen da parte di una coalizione filo-occidentale di potenze straniere.
Nei giorni scorsi, ci sono stati attacchi aerei simili su centri civili nella città portuale di Hodeida sul Mar Rosso e nella provincia settentrionale di Saada.
Save the Children ha avvertito che il pesante bombardamento delle infrastrutture e porti del Paese ha già avuto gravi conseguenze sulla disastrosa situazione umanitaria emergente in Yemen – sia Hodeida che Aden sono passaggi chiave per il trasporto dei rifornimenti di aiuti umanitari, compresi cibo e medicine salvavita ora disperatamente necessari per i 21 milioni di Yemeniti.
Sicuramente, questa dovrebbe essere una notizia di prima pagina, con la CNN, la BBC e France 24, tra gli altri grandi mezzi di comunicazione occidentali, che la rilanciano come la loro storia di punta. Spetta a loro, perché i loro governi sono implicati in crimini gravi. Tuttavia, non vi è stata alcuna copertura giornalistica dei tragici eventi. A parte alcune brevi, vaghe notizie di una crisi umanitaria generalizzata, vi è stato un muro di silenzio su come la coalizione a guida saudita sostenuta dall’Occidente stia polverizzando civili yemeniti e creando la crisi. Ciò suggerisce una censura deliberata da parte dei media occidentali. Continua a leggere

Un giorno non avremo più un’America di cui doverci preoccupare?

debt1

“Invece di collassare in silenzio, gli Stati Uniti hanno deciso di fare a botte con la Russia. Sembra che abbiano già perso l’incontro, ma rimane un problema: quante altre Nazioni dovranno ancora distruggere gli Stati Uniti prima che si rendano finalmente conto della loro inevitabile sconfitta e disintegrazione?
Come Putin disse la scorsa estate, parlando al Forum per la Gioventù di Seliger, “Ho la sensazione che qualunque cosa tocchino gli americani, finisca come la Libia o l’Irak”. Indubbiamente gli americani ci si sono messi d’impegno a distruggere una Nazione dopo l’altra. L’Irak è stato smembrato, la Libia è un non-Stato, la Siria un disastro umanitario, l’Egitto una dittatura militare con un programma di detenzioni di massa. L’ultimo fiasco è quello dello Yemen, dove di recente è stato rovesciato il governo filo-americano e dove i cittadini americani, che erano rimasti intrappolati, hanno dovuto aspettare che i Russi e i Cinesi li liberassero e li riportassero a casa. Ma è stato il precedente fallimento della politica estera americana in Ucraina che ha indotto i Russi, insieme ai Cinesi, a dichiarare apertamente che gli Stati Uniti si sono spinti troppo oltre e che ogni loro ulteriore mossa porterà ad una escalation automatica della situazione.
Il piano russo è quello di prepararsi, insieme a Cina, India e buona parte del mondo, alla guerra con gli Stati Uniti, ma di fare il possibile per evitarla. Il tempo è dalla loro parte, perché, ogni giorno che passa, essi diventano più forti, mentre l’America diventa più debole. Mentre questo processo fa il suo corso, l’America potrebbe però “toccare” alcuni altri Stati, facendoli diventare come la Libia o l’Irak. E’ la Grecia la prossima in lista? E che cosa ne dite di buttare sotto l’autobus gli Stati baltici (Estonia, Lettonia, Lituania), che sono attualmente membri della NATO (leggi: agnelli sacrificali)? L’Estonia è a poche ore di macchina dalla seconda in grandezza delle città russe, San Pietroburgo, una grossa percentuale della sua popolazione è russa, la capitale è a maggioranza russa e ha un governo ferocemente anti-russo. Di questi quattro fattori solo uno è incongruo. Viene preparata all’autodistruzione? Anche alcune Repubbliche centro-asiatiche, nel ventre molle della Russia, potrebbero essere pronte per una “toccatina”.
Non c’è il minimo dubbio che gli americani continueranno a far danni in giro per il mondo, “toccando” Nazioni vulnerabili e sfruttabili fino a che saranno in grado di farlo. Ma c’è anche un’altra domanda che merita di essere fatta: gli americani “toccheranno” se stessi? Perchè se lo faranno, i prossimi candidati ad essere ristrutturati a forza di bombe, potrebbero essere gli stessi Stati Uniti. Consideriamo questa opzione.”

Il tallone d’Achille dell’America di Dmitry Orlov continua qui.

Air Algérie nello Yemen: l’operazione di salvataggio che si è quasi trasformata in tragedia

11146177_10153277050771204_7413128028637361130_n

La tensione è al suo apice tra l’Arabia Saudita e l’Algeria. Anche se nessuna dichiarazione ufficiale è giunta a confermarlo, molti segnali, a volte palesi, tradiscono la segretezza che circonda questo conflitto latente.

Prima, 250 algerini bloccati a Gedda a partire da venerdì mentre è in corso il rimpatrio, poi il divieto agli equipaggi di Air Algérie di scendere dal loro aereo e passare la notte a Gedda e, infine, la chiusura dello spazio aereo saudita agli aerei battenti bandiera algerina, sia civili che militari.
Ora gli aerei di Air Algérie dovranno bypassare l’Arabia Saudita per raggiungere Dubai e quindi allungare le distanze, aumentare il consumo di carburante e attraversare delle zone pericolose.
Il motivo di questo picco di rabbia di Riyad è l’audace operazione di espatrio, in piena guerra aerea, di oltre 200 cittadini maghrebini, tra cui 160 algerini, che si è conclusa sabato [4 Aprile u.s. – ndc] sulla pista dell’aeroporto di Algeri Houari Boumediene.

L’unità di crisi
Tutto ha inizio quando comincia l’offensiva aerea “Tempesta Decisiva”, lanciata il 25 Marzo da una coalizione guidata dall’Arabia Saudita contro i ribelli Houthi nello Yemen.
L’Algeria decide in quel momento preciso di istituire un’unità di crisi per monitorare gli eventi. La presidenza della Repubblica, il ministero della Difesa nazionale e quello degli Affari Esteri coordinano la loro azione. Il 26 Marzo, mentre alcune navi cinesi e saudite si dirigono verso Aden per rimpatriare i loro cittadini, l’Algeria inizia a studiare un piano di evacuazione.
Nessuna imbarcazione delle forze navali è nella zona. La Cina è responsabile di recuperare il 31 Marzo un gran numero di suoi cittadini, ma anche quelli di altri Paesi asiatici per via marittima. Questa opzione non rappresenta una soluzione per le autorità algerine, tanto più che il personale diplomatico e la maggior parte dei connazionali si concentrano nella regione di Sana’a.
L’Arabia Saudita, che è riuscita a coalizzare attorno a sé quasi la maggioranza dei Paesi arabi nella sua guerra allo Yemen, ha reagito male all’atteggiamento provocatorio di Algeri. Perché l’Algeria non solo rifiuta di partecipare a questa offensiva, ma difende con forza la sua decisione e osa perfino proporre un’alternativa pacifica per risolvere il conflitto.
Peggio ancora, il disprezzo con cui la diplomazia algerina ha accolto la proposta egiziana di creare una forza militare araba per “lottare contro il terrorismo” è stato sentito dall’asse Riyad-Cairo come un vero affronto, tanto più che gli eventi hanno avuto luogo in territorio egiziano e nel corso di un vertice della Lega Araba.

Pianificazione
Algeri ancora non lo sa, ma Riyad sembra volerla far pagare alla capitale ribelle. A Sana’a, i funzionari dell’ambasciata algerina sono sulle spine. Come tutti gli abitanti della capitale yemenita, essi subiscono i bombardamenti della coalizione. Sono occupati ad identificare i cittadini e a stabilire i contatti con le diverse parti sul territorio per assicurarsi della riuscita di un’operazione di espatrio. Sono entrambe missioni cruciali, poiché da esse deriva il dimensionamento dei mezzi che le autorità algerine dovranno impiegare per la riuscita dell’operazione.
Sono un po’ più di un centinaio, fra cui molte donne, cui si aggiungono i diplomatici e le loro famiglie. In tutto, 160 algerini sono nella lista delle persone da evacuare. La lista è aperta ai cittadini dei Paesi vicini che non hanno potuto lasciare lo Yemen: quaranta tunisini, quattordici mauritani, otto libici, tre marocchini e un palestinese. Si tratta, in tutto, di quasi 230 persone da evacuare.
Stabilita la portata dell’operazione, Algeri decide di inviare il più grosso aereo civile della sua flotta, un Airbus A330 d’Air Algérie. Anche se la tratta aerea Algeri-Sana’a non è mai stata servita dalla compagnia di bandiera, i piloti sono fiduciosi, nonostante le difficoltà che si annunciano.
L’ostacolo maggiore che si presenta di fronte a quest’impresa è innanzitutto il sorvolo e l’atterraggio in una zona di guerra, con un centinaio di caccia che occupano lo spazio aereo, da un lato, e una ribellione che dispiega missili anti-aerei di diversa portata, dall’altro.
Altra difficoltà, l’altitudine dell’aeroporto di Sana’a, più di 7.300 piedi [2.225 metri ca. – ndc], che fa sì che il velivolo faccia fatica a decollare col pieno carico di carburante. Il rapporto peso/portata gli è sfavorevole. Il rifornimento a Sana’a è escluso per motivi di sicurezza. L’equipaggio dovrà fare tutto il tragitto con un solo pieno, e ciò metterà l’aereo ai limiti della sua portata.

Minacce…
Giovedì [2 Aprile u.s. – ndc] l’aereo decolla da Algeri, direzione Sana’a, il ministero degli Affari Esteri avverte l’Arabia Saudita e l’Egitto della missione. Il piano di volo dell’aereo civile è condiviso, convenzionalmente, con tutti i Paesi che saranno attraversati o che potrebbero esserlo. Il volo procede normalmente fino alle prossimità dello spazio aereo saudita. Mentre l’equipaggio di Air Algérie si aspettava una scorta militare a partire dall’Arabia Saudita, esso rimane sorpreso dall’atteggiamento di caccia inviati per dissuaderli a penetrare nello spazio aereo.
Il controllo saudita avverte l’equipaggio del divieto e gli intima di tornare indietro. Sorpresi e pensando a un problema di comunicazione o a un qualche pericolo sopra lo Yemen, gli algerini chiedono di poter deviare verso Dubai. Ancora una volta, sono sorpresi dalla fermezza dei toni del controllo aereo. Lo spazio saudita è chiuso a tutti i velivoli algerini.

…sequestro
L’equipaggio non ha scelta: [deve] tornare indietro al Cairo e attendere che la macchina diplomatica faccia il suo corso. In meno di un’ora e mezza l’A330 atterra al Cairo. Ma la situazione peggiora. La piccola delegazione algerina viene maltrattata e i suoi membri portati all’albergo dove abitualmente sono alloggiati gli equipaggi di Air Algérie; qui viene loro imposto l’obbligo di domicilio col divieto di lasciare la struttura. Questo sequestro durerà 48 ore.
Ad Algeri il caso desta sorpresa, i sauditi fanno orecchie da mercante. La richiesta algerina per il rimpatrio della sua comunità in Yemen è respinta. Il caso prende una piega seria. Ѐ la Presidenza della Repubblica a gestire ormai il dossier. Algeri avverte Riyad che l’aereo svolgerà la sua missione in ogni caso, visto il suo carattere umanitario.
L’aereo decolla sabato e atterra a Sana’a, i funzionari dell’ambasciata sono stati in grado di riunire e portare tutti in modo organizzato all’aeroporto. Il volo di ritorno avviene senza nessun problema, ma l’equipaggio tira un sospiro di sollievo solo dopo aver raggiunto il Mediterraneo. I funzionari algerini e la direzione della compagnia aerea scelgono di non divulgare questo caso. Le poche persone che scelgono di parlarne mettono in evidenza l’audacia dell’equipaggio e la sua determinazione nell’andare fino in fondo alla missione.
Ma l’Arabia Saudita ha deciso di mantenere la pressione sull’Algeria. La compagnia di bandiera non ha tuttora il diritto di sorvolare lo spazio aereo saudita; viene mantenuto solo il servizio di Gedda, con il divieto agli equipaggi di passarvi la notte. La più piccola formalità in linea con i codici dell’organizzazione dell’aviazione civile internazionale richiede delle ore. Questo è ciò che spiega le difficoltà incontrate dalla compagnia per rimpatriare gli algerini bloccati a Gedda nelle ultime 48 ore. Al Cairo Air Algérie soffre ugualmente della lentezza delle procedure e di pressioni.
Questo sarà, in parte, il prezzo da pagare dall’Algeria per il suo rifiuto di partecipare alla guerra nello Yemen.
Kamel Abdelhamid

[Fonte – traduzione di M. Guidoni]

10583776_10153283780531204_6751347330747575742_n

L’Islam buono e quello cattivo

10405331_10153266701971204_3690110065650500493_n

La memoria genetica dei musulmani.
Sessanta anni di stermini e di milioni di morti dimenticati dalla lotta al terrorismo. La decima crociata di Papa Bergoglio.

“Il passato e il suo ricordo possono intralciare gli indirizzi politici dei governi. Vengono pertanto revisionati, ristrutturati o sepolti.
A distanza di anni e di decenni hanno comunque la pessima abitudine di riemergere, di riprodursi con sembianze a volte deformate ed effetti tali da seminare sgomento e provocare reazioni anomale e controproducenti in Occidente. Il mondo musulmano vive ancora la nostra recente esperienza in Algeria e nel Medio Oriente, ma conserva una memoria genetica di un passato non troppo lontano, di persecuzioni e del sangue versato dopo la Seconda Guerra Mondiale. E prima o poi quella memoria tornerà a tormentare la coscienza del mondo occidentale.”

Trascriviamo queste note su quanto ci disse Ben Bella nel 1998. Ci aveva presentato all’eroe dell’Armata Popolare di Liberazione Luciana Castellina a Ginevra durante la marcia con cui veniva celebrato il 50° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Non volle parlarci del suo ruolo ad Algeri, della sua prigionia, dell’esilio dopo il colpo di Stato di Boumedienne, ma insistette a lungo sulle sue apprensioni per quanto ci teneva in serbo un futuro incerto, non solo di guerre ma anche di ingiustizia sociale. Parole accorate e profetiche di un personaggio famoso che non si considerava certo un vinto, ma neanche un vincitore trionfante della storia.
A rintracciare quelle note ci ha indotto un eccellente articolo di Tommaso Di Francesco su il Manifesto del 5 aprile scorso. C’è una distrazione generale, scrive, sull’ecatombe dei combattimenti e dei bombardamenti scatenati in Irak, Pakistan e Afghanistan dall’11 settembre 2001 al primo semestre del 2014: più di un milione e trecentomila morti, quasi tutti civili, senza contare le altre centinaia di migliaia di vittime in Siria e a Gaza. Morti che non hanno nome, che non contano niente. Stati Uniti e alleati europei, continuano a sganciare bombe accompagnati dal ritornello dei leader occidentali “Siamo in guerra contro il terrorismo, non contro l’Islam”. Il terrorismo di turno, almeno da otto mesi a questa parte, è quello dei tagliagole dello Stato Islamico, degli sciiti contro i sunniti e viceversa, armati e finanziati in alternanza o contemporaneamente dalla NATO, dagli Emirati, dall’Arabia Saudita e in misura decrescente dall’Iran mentre lo Stato israeliano di Netanyahu se ne sta a guardare più o meno compiaciuto.
Abbiamo poi l’Islam buono e quello cattivo, il primo che cerca invano l’integrazione nelle periferie desolate del mondo occidentale, il secondo minoritario, impermeabile alla cultura occidentale che fa strage di infedeli, cristiani e musulmani pacifici, in Medio Oriente, nel Nord Africa e in misura limitata anche in Europa. Tutti d’accordo perché come ha osservato a febbraio persino Time, il settimanale dedicato al primato di civiltà e allo “eccezionalismo” del popolo statunitense, questo vive in “un presente eterno in cui ogni riflessione è limitata a Facebook e la narrazione storica è delegata a Hollywood”.
Rischiamo ben volentieri di farci assegnare il ruolo di improbabili sostenitori dei tagliagole e ricordiamo per sommi capi alcuni eventi del dopoguerra che nelle parole di Ben Bella sono entrati nella “memoria genetica” del mondo musulmano, un mondo in quegli anni aperto, pacifico e generalmente incline ad abbracciare i valori della giustizia sociale.
In Indonesia, dopo l’indipendenza, è vero, era presente un partito comunista: bastò a Londra e Washington per abbattere con un colpo di stato il governo progressista del Presidente Sukarno per sostituirlo con la dittatura di Suharto e con l’invio di truppe scelte e l’impiego di fazioni dissidenti islamiche e cristiane per scatenare una guerra di sterminio in tutto il paese che provocò da un milione e mezzo a tre milioni di morti musulmani tra il 1965 e il 1966. Le ingenti risorse minerarie e petrolifere dell’Indonesia vennero così assicurate agli USA e alla Gran Bretagna. Per il Grande Impero d’Occidente i movimenti indipendentisti, postcoloniali e progressisti, nel Medio Oriente islamico ed arabo erano diventati inaccettabili e da abbattere con qualsiasi mezzo: venne rafforzato con armamenti e finanziamenti diretti il Wahabismo, una setta islamica ultraconservatrice nell’Arabia Saudita e fiumi di sangue precedettero e accompagnarono l’installazione dello Shah in Iran. Dopo la sua caduta, Saddam Hussein, allora nei favori di Washington fu finanziato ed armato nella guerra di otto anni contro l’Iran di Khomeini (un milione di morti). Un milione e mezzo poi le vittime – tra caduti e per fame da sanzioni – della prima guerra contro l’Irak del 1992, di cui nessuno oggi parla. E poi gli attacchi e le guerre di Israele contro la Palestina, l’Egitto, la Giordania e la Siria, sempre nella memoria della Shoah e in nome del diritto alla sopravvivenza con i quattro miliardi di dollari USA all’anno che hanno fatto di questo Stato la nuova Prussia atomica del Medio Oriente.
E’ questo l’humus del risentimento del mondo musulmano in cui germinano i semi del fanatismo estremo dell’IS. E’ stato detto e ribadito da osservatori di noi ben più autorevoli che ignorare le cause del terrorismo vuol dire perpetuarlo.
Come combattere il Califfato? Suggerimenti razionali e ridimensionamenti del fenomeno abnorme nei suoi aspetti più efferati, vengono offerti da Lucio Caracciolo nell’ultimo numero di Limes “Chi ha paura del Califfo”. Non è comunque un mistero per chi sa far di conto che il primo passo dovrebbe essere quello del taglio dei finanziamenti indiretti e del riciclaggio dei petrodollari dell’IS di cui sono responsabili gli Emirati Arabi (il Dubai si è aggiudicato il titolo di Bancomat del Califfato). Qualche pressione su questi regimi “criminogeni” sono state esercitate negli ultimi mesi dall’Amministrazione Obama, ma “pecunia non olet”, gli affari sono affari e “the business of America is business”.
Facile comprendere invece le ragioni dell’appello ad una Decima Crociata di chi ha sempre parlato del denaro come “sterco del diavolo”, di pace universale, di Dio che tutto e tutti perdona, di misericordia, di amore per i poveri, di cristiana pietas verso i diseredati colpevoli e meno, e cioè di papa Bergoglio. Giusto che il non più sontuoso erede del pescatore di Tiberiade condanni la persecuzione dei cristiani quale pastore del gregge, ma da qualche giorno a questa parte la denunzia del silenzio complice dell’inerzia occidentale suona come un esplicito invito a sterminare i lupi, tutti i lupi.
Se ha assunti i toni di Urbano II e di Pietro l’Eremita – Deus le volt – un altro motivo è più che opinabile: l’alta missione dei Gesuiti, dettata dal fondatore Francesco di Sales (non di Assisi), quella del proselitismo e delle conversioni di massa, la stessa che lo ha portato sul soglio pontificio in piena crisi di vocazioni e di chiese semi vuote aveva trovato in Bergoglio un predicatore popolare e di gran successo. I lupi del Califfato hanno spaventato il gregge e bloccato la missione. Vanno quindi ammazzati in gloria in excelsis Deo.
Lucio Manisco

Fonte

Al-Kowa…, piccola NATO cresce

hadi

Nella foto, il presidente yemenita Abdrabbuh Mansour Hadi in fuga dal proprio Paese viene accolto a Riad, capitale dell’Arabia Saudita, dalle autorità locali.

La Lega Araba ci riprova: forze armate in comune per “contrastare le minacce alla sicurezza regionale e combattere i gruppi terroristici”. Non, si badi bene, come al primo tentativo del 1964 quando (comprensibilmente) identificò il “pericolo” negli Ebrei che avevano imposto in Palestina (con totale appoggio di USA, Regno Unito e Francia) lo Stato di Israele.
Ma, cambiando i tempi ed avendole buscate sonoramente nel 1967 dalle truppe israeliane, oggi identifica il pericolo negli sciiti Houti dello Yemen e nel Califfato cattivissimo dell’ISIS… per ora!!
Possibilmente i pazienti lettori pensano: ma che ce ne frega?? Errore…, ce ne deve fregare per forza : questi sono “tutti” nostri alleati, in via diretta o meno… è a conoscenza di tutti?
Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrein e pure Qatar fanno parte della grande “coalizione” anti ISIS guidata da Obama e di cui l’Italia fa parte assieme a tanti Stati pure musulmani.
Quindi,a rigor di logica e vista la “benedizione” politica, economica e militare impartita dal già Nobel per la Pace (???) a nome della intera NATO, saremo coinvolti in qualunque iniziativa guerresca che i signori Al Sisi, Abdullah, Salman (e come caspita si chiamano tutti gli altri partecipanti) hanno già intrapreso o metteranno in atto.
Cosa, fino ad oggi, tollerabile perché Obama ha mandato gli aerei sauditi dell’ancora non ufficializzata al-Kowa ad ammazzare sciiti ad Aden e Sanaa (che siano miliziani o donne e bambini poco importa). Mentre le forze di terra egiziane son pronte all’invasione con carri armati e truppe scelte.
Ci sarebbe pure (in Yemen) il “dettaglio” dell’ISIS ma questo non può costituire problema perché almeno mezzo mondo vuole morto (a parole) il Califfo, pertanto tutti d’accordo.
Infatti è in quello che non c’è scritto a chiare lettere il pericolo della formazione di questa piccola NATO panamericana e pure sunnita: “contrastare le minacce alla sicurezza regionale”.
Tradotto per i distratti: l’Iran ed i suoi alleati e protetti… Siria e sciiti iracheni, libanesi e yemeniti in primis.
È la Repubblica Islamica di Teheran il vero bersaglio di Egitto, Giordania ed Arabia Saudita che, approfittando della lotta mondiale all’ISIS, cercano di mettere nel calderone infernale gli ayatollah con tutte le loro truppe militari e religiose.
E proprio qui ritengo caschi l’asino. Se è vero che Emirati, Arabia Saudita, Giordania e Qatar sono satelliti americani, e dagli USS dipendono a cominciare dagli armamenti, è pur vero che non è possibile immaginare il buon BombObama trascinare l’Occidente in un conflitto contro Teheran… neppure per favorire Israele (che con gli Stati arabi ex nemici è pappa e ciccia).
Anche perché la Russia di Putin, tanto per non sbagliare, ha già ammonito tutti dal muover guerra alla Siria di Assad.
Quanto sopra è sintesi ristrettissima del complicatissimo scenario medio-orientale che investe pure Africa del Nord ed altre zone strategiche.
Spero possa servire almeno a far conoscere maggiormente la formazione di questa piccola NATO musulmana (sunnita) chiamata al-Kowa da parte della Lega Araba (non tutta).
Già la creatura madre, la mitica OTAN, ha creato e crea (vedi Ucraina) tanti gravissimi problemi per la pace e la sicurezza… speriamo che quella in crescita non sia una filiazione pure peggiore.
Vincenzo Mannello

Il Kurdistan iracheno – sogno bagnato per stranieri e ricchi

FG-Erbil_sign1-498x374

Andre Vltchek per rt.com

Mentre l’Irak è un bagno di sangue, la capitale del Kurdistan iracheno Erbil si promuove presentandosi come un’isola di stabilità e prosperità, attirando così molti stranieri per via del petrolio. Ma dietro questa stabilità si cela la rabbia, la disperazione e la paura della popolazione locale.
Il Machko Chai Khana è una vera istituzione, una vecchia e tradizionale sala da tè scavata nelle antiche mura della cittadella di Erbil. È qui che molti pensatori e scrittori locali si ritrovano per bere il loro tè, giocare a carte e condividere le loro storie.
Adesso gli intellettuali locali sono a stretto contatto con i rifugiati provenienti da Siria ed Irak.
“Gli Americani sono la ragione principale per cui l’Irak è distrutto” dice Ishmaeal Khalil, uno scienziato nucleare iracheno forzato a lasciare la sua città natale di Tikrit dove era un professore universitario.
“Insegnavo e creavo: costruivo la mia nazione. Poi l’Irak è stato invaso e distrutto. Non posso far nulla adesso… Non ho nulla… Adesso non faccio null’altro che mangiare e dormire. Ed è esattamente ciò che l’Occidente vuole, distruggere le nostre menti.”
Mentre parla il professor Khalil naviga con il suo smartphone, mostrandomi le foto del suo ufficio, dell’Università e dei suoi studenti.
“Sono scappato cinque mesi fa dopo che la mia università è stata distrutta dall’ISIS. E tutti sappiamo chi c’è dietro di loro: gli alleati dell’Occidente, l’Arabia Saudita, il Qatar ed altri… Sogno spesso la mia nazione com’era un tempo con Saddam Hussein. Le infrastrutture erano eccellenti e la gente era ricca. C’era abbondanza di acqua ed elettricità… C’era istruzione e cultura per tutti…” Continua a leggere

“Costruendo un muro di BRICS”

brics

Adrian Salbuchi per rt.com

La visita del Presidente Putin in Sud America è di un’importanza trascendentale in un epoca in cui il blocco BRICS sta diventando qualcosa in più di un mero accordo commerciale e in cui la Russia sta giocando un ruolo chiave come attore geopolitico globale.
Vladimir Putin ha compiuto una vista davvero storica in America Latina, visitando Cuba, il Nicaragua, l’Argentina e poi il Brasile dove nelle città di Fortaleza e Brasilia si è tenuto il sesto vertice BRICS (con un veloce sosta domenicale nella gloriosa Rio de Janeiro dove ha assistito alla finale dei Mondiali di calcio tra Argentina e Germania).

Fermare la valanga occidentale
A partire dalla tragedia dell’11 Settembre, gli Stati Uniti, il Regno Unito e i loro alleati della NATO (più Israele) sono diventati un pericolo per il mondo. Negli ultimi 13 anni abbiamo visto il rovesciamento di regime in Iraq in base a false accuse da parte degli USA e del Regno Unito di armi di distruzione di massa poi mai trovate; la distruzione della Libia nel 2011; lo sconsiderato caos originato dalla “primavera araba” che ha riportato paesi come l’Egitto indietro di decenni; la quasi distruzione della Siria; e la decennale minaccia di una guerra preventiva contro l’Iran per il suo non esistente programma nucleare.
Le stime delle vittime in Iraq parlano di centinaia di migliaia di persone, se non di milioni e non c’è ancora stata una singola richiesta di scuse da parte degli USA, del Regno Unito o della NATO. Oggi l’Iraq insieme alla Libia è nella morsa della guerra civile, la Siria sta lentamente uscendone e, più pericolosamente, l’Egitto si è ritirato dal suo ruolo di paese stabilizzatore del Medio Oriente.
Tutto grazie alle ingerenze occidentali e del “caos sociale architettato” che è la nuova forma di guerra intrapresa dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla NATO (e da Israele). Dopo i crescenti fallimenti riportati in Medio Oriente, ultimamente si sono spostati verso altre latitudini: ad esempio in Ucraina. Continua a leggere

Uno sparo dal mondo

10450530_10152523470801678_986835566447526021_nEcco il titolo piú appropriato per una comunicazione mediatica su quanto avviene nel mondo oggi…, appena fuori dai nostri confini o piú in là ove tramonta il sole.
Ucraina, Libia, Egitto, Siria, Israele e Gaza, Libano, Irak, Nigeria, Sudan, Somalia, Yemen, Pakistan, Afghanistan… quelli in cui lo “sparo” trova grosso riscontro sui media mondiali, piú o meno a secondo di interessi geopolitici, economici e pure ideologici.
Una caterva gli “spari” con silenziatore, quelli “locali” che ancora non innescano alcun interesse o considerati circoscritti a nazioni ancora “controllabili”.
Ciad, Sierra Leone, Repubblica del Congo, Centrafrica nel continente nero.
Cina (con gli Uiguri musulmani), Ceylon, Filippine, India e tante altre nazioni nel mondo…, tutti Paesi e regioni che non vengono in mente fin quando non ne sentiamo il nome in tv o ne abbiamo notizia dai giornali e da internet.
Già, in Europa siamo in pace grazie alla Unione Europea…, così pontificano i signori della dittatura UEista.
Peccato abbiano scatenato una guerra civile in Ucraina rovesciando con la illusione dell’euro un governo democraticamente eletto.
E non guardiamo indietro quando l’UEismo, al servizio degli USA e della NATO, ha aggredito la Serbia, “creato” il Kosovo e partecipato attivamente a tutte le “primavere arabe” che hanno portato al bagno di sangue odierno.
E l’ONU? Assiste, dibatte, ammonisce e…, soprattutto, tace.
Certo non è l’Occidente il solo “male del mondo”, il demone della guerra alligna ovunque. Purtroppo sembra pure connaturato alla natura umana.
Ma, filosofia a parte, il Grande Satana ci mette lo zampino, dove e quando vuole.
Ed i suoi diavoletti scatenano sulla terra veri e propri Sabba infernali, mostrando nel contempo angelici volti alla Renzi.
“Uno sparo dal mondo”… nella speranza che non si tramuti, prima o poi, in un botto definitivo.
Vincenzo Mannello

I regimi alleati degli Stati Uniti si stanno preparando per la guerra

150103

Caleb Maupin* per rt.com (traduzione di M. Janigro)

Ogni anno lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) rende pubblico uno studio sulle spese militari nel mondo. Quest’anno il rapporto contiene molti dettagli interessanti.
Alcune cose all’interno del rapporto, presentato alla Commissione per il disarmo delle Nazioni Unite il 14 Aprile, non sono cambiate per nulla. Come accade da decenni, gli Stati Uniti rimangono il Paese che più spende nel mondo, nonostante i tanto pubblicizzati “tagli alla spesa”. Gli USA, la NATO e gli alleati non appartenenti alla NATO, ricoprono il 64% della spesa militare mondiale. Continua a leggere

Arseniy Yatsenyuk, collaboratore a progetto

0,,17488968_303,00

Mentre la Camera dei Rappresentanti USA approva una risoluzione di condanna per le azioni russe in Crimea e sollecita la Casa Bianca a boicottare il prossimo vertice G8 di Sochi, invitando altresì gli “alleati” della NATO a sospendere la cooperazione militare con Mosca ed a imporre sanzioni economiche e restrizioni sulla concessione dei visti, il presidente Obama dal canto suo cerca il modo di sostenere il boccheggiante governo golpista d’Ucraina con un prestito di un miliardo di dollari.
Qualcuno oltreoceano fa però notare che secondo il Foreign Assistance Act, legge del 1961 recentemente modificata in alcune sue parti, l’erogazione di aiuti all’estero è proibita nei confronti dei governi di quei Paesi i cui capi di Stato regolarmente eletti siano stati deposti tramite un golpe militare o per decreto, come appunto prevede il 22 US Code § 8422.
Provvedimento in base al quale il Congresso, a seguito della deposizione del presidente Morsi avvenuta la scorsa estate, decise di sospendere l’aiuto finanziario all’Egitto.
Il tema sarà sicuramente all’ordine del giorno dell’incontro odierno fra Obama e Arseniy Yatsenyuk, primo ministro ucraino ad interim, il quale -dopo la firma del contratto di collaborazione con i committenti euro-atlantici apposta la scorsa settimana a Bruxelles- ora vola a Washington per assicurarsi l’indispensabile integrazione salariale.
Federico Roberti