Anime belle

Una risposta data sui social a un pacifista dell’ultim’ora.

Peccato che tutte queste belle anime non l’abbia mai viste quando andavamo a protestare a Camp Darby contro le ingerenze USA e contro le atomiche stivate nella loro base, sotto i nostri piedi; peccato non aver visto queste anime belle strapparsi i capelli quando siamo andati ad Aviano a protestare contro i bombardamenti sui civili indifesi in Jugoslavia; peccato non abbia visto nessuna di queste anime pure in Iraq, quando, nel 2003, ci siamo offerti come scudi umani per difendere un Paese aggredito con false accuse (Colin Power docet) e una popolazione decimata da 15 anni di embargo.

Peccato che non abbia incontrato nessuno di queste belle anime quando, nel 2007, abbiamo cercato di entrare a Gaza da Eretz, per forzare il criminale assedio imposto ai Palestinesi. Peccato che non ho sentito nemmeno una di queste belle anime quando i francesi hanno bombardato la Libia e ucciso Gheddafi perché voleva una moneta africana, che portasse i giusti guadagni agli Africani nella vendita dei loro prodotti e che avrebbe distrutto quella francese. Peccato che non abbia sentito un gemito, provenire da tutte queste belle anime a sostegno della Siria, aggredita dai tagliagole al soldo USA.

Peccato non aver udito lo sdegno, di queste anime candide, contro i bombardamenti dello Yemen, da parte degli Emirati Arabi e dell’Arabia Saudita. Peccato che in otto anni, non abbia mai sentito dire, da queste anime innocenti, una parola sui civili del Donbass, aggrediti da nazifascisti, torturati, bruciati e vessati.

E non ho mai sentito nessuna, di queste anime belle, dire una parola a favore di Assange, imprigionato come un criminale per aver fatto seriamente il suo lavoro di giornalista ed aver scoperto le bugie statunitensi dietro alle loro aggressioni. Le sento tutte ora, questa miriade di belle anime, che si straccia le vesti, i capelli, che compete su chi è più pacifista, naturalmente facendo collette e avallando un governo che invia armi in territorio di guerra. Ma vi rendete conto, anime belle, di quanto fate vomitare con la vostra infame retorica?

Maria Grazia Da Costa

(Fonte)

Donetsk, 14 marzo 2022

Lo dite voi ai ragazzi di Manchester?

Gli sponsor del terrorismo

“Lo dite voi ai ragazzi di Manchester che siamo amici degli sponsor dell’ISIS?”: è questa la domanda posta dal giornalista Fulvio Scaglione, non un pericoloso estremista, ma un pubblicista che è stato per 16 anni, dal 2000 al 2016, il vice direttore di Famiglia Cristiana.
La domanda di Scaglione non si deve riferire solo al fatto incontestabile che noi, Paesi europei e nordatlantici, siamo alleati con le orribili monarchie del Golfo Arabico: Arabia Saudita, Qatar, Emirati Uniti, Kuwait, Bahrein, finanziatori attraverso decine migliaia di moschee radicali ed “opere caritatevoli” del peggior integralismo islamico, e organizzatori e sostenitori con soldi ed armi di tutti i gruppi terroristi jihadisti. Non si deve riferire solo al fatto che forniamo a questi Paesi (all’Arabia Saudita in particolare) enormi quantità di armi come testimoniato dagli accordi di fornitura Italia-Sauditi e dall’ultima gigantesca fornitura degli Stati Uniti ai Sauditi, di cui si servono per le loro aggressioni dirette o indirette a Stati sovrani non allineati come lo Yemen o la Siria.
In realtà, il gioco di finanziare ed organizzare estremisti islamici fanatici per colpire gli Stati indipendenti, socialisti, o comunque scomodi perché non si piegavano al gioco imperialista e neo-colonialista, risale almeno agli anni ’70 del secolo scorso, quando gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, il Pakistan e altri alleati formarono l’organizzazione Al Qaeda, diretta da Bin Laden, e finanziarono ed armarono i più retrivi, misogini, feudali signori della guerra, i più feroci mercenari accorsi da tutto il mondo islamico, e gruppi di fanatici locali per scacciare il governo comunista in Afghanistan e far cadere in una trappola mortale i suoi alleati sovietici.
I fanatici islamici ed i soliti mercenari accorsi da vari Paesi servirono anche negli anni ’90 per spazzare via i resti della Jugoslavia socialista, prima con la guerra di Bosnia, poi con quella del Kosovo, entrambe finite con interventi diretti della NATO, e con la partecipazione diretta anche dell’Italia.
I miliziani musulmani bosniaci e kosovari furono fatti passare per vittime dei cattivi Serbi. La propaganda occidentale non ha mai detto la verità su episodi chiave come la presunta strage di Srebrenica (ovvero “la città dei Serbi”, chiamata sempre Srebrenica sui giornali nostrani), su cui non vi sono prove ma solo racconti di parte, mentre ha sempre ignorato i dossier (editi da Zambon o dalla Città del Sole) che documentano le stragi compiute nella zona dai fanatici musulmani a danno dei civili serbi (3.500 morti civili accertati). Non viene mai ricordata la “fake news” della falsa strage di Racak che fornì la scusa per la liquidazione finale dei resti della Jugoslavia nel 1999, con il plauso diretto di D’Alema.
Anche la rivolta della Cecenia fu in gran parte diretta ed attuata da fanatici musulmani integralisti, opportunamente sostenuti dall’esterno da Paesi islamici sunniti e organizzazioni occidentali, per mettere in difficoltà la Russia.
Le organizzazioni estremiste della Libia, come Ansar Al Sharia a Bengasi o le feroci milizie di Misurata legate ai Fratelli Musulmani ed armate dal Qatar e dalla Turchia di Erdogan, servirono come truppe di terra per appoggiare l’attacco della NATO che distrusse il Paese. Non è un caso che il “kamikaze” di Manchester era stato a capo di una di queste milizie di fanatici che odiavano il governo laico di Gheddafi, e che molti dei suoi parenti siano membri di formazioni estremiste.
Il nome del “kamikaze”, i suoi liberi spostamenti dall’Inghilterra alla Libia, alle zone occupate dall’ISIS in Siria, alla Turchia, erano note alle polizie di mezzo mondo (occidentale), ma nessuno è intervenuto.
Inutile ricordare i continui finanziamenti e le forniture di armi a tutte le formazioni armate estremiste che cercano di destabilizzare il governo laico socialista siriano, come Daesh, Al Qaeda, Jaish Al Islam, Ahrar Al Sham, e centinaia di altre milizie mercenarie e fanatiche in gran parte formate da Turcmeni, Uzbechi, Uiguri, Tunisini, Libici, Sauditi e gruppi militanti che sono stati fatti uscire liberamente dall’Europa e sono stati addestrati in Turchia o Giordania.
Ma a questo punto bisogna sottolineare un altro cinico uso che l’Occidente imperialista e neo-colonialista fa di questi terroristi, sfruttando anche gli attentati (non ostacolati), o addirittura i falsi attentati che avvengono sistematicamente in Occidente, a partire dalla “madre di tutti gli attentati” , quello delle Torri Gemelle che permise di scatenare la “guerra al terrore”, l’invasione dell’Afghanistan e la distruzione dell’Irak baathista.
Oggi, con la scusa di combattere Daesh, che per anni si è esteso in Siria ed Irak con gli Occidentali che facevano finta di combatterlo (in alleanza con Turchia ed Arabia Saudita, cioè insieme ai principali finanziatori di Daesh!), gli Statunitensi, i Turchi, ed ultimamente anche gli Inglesi provenienti dalla Giordania, hanno invaso zone della Siria. Nel nord gli USA hanno impiantato le loro basi con l’aiuto dei Curdi, che nel loro cieco nazionalismo sono disponibili ad allearsi anche col diavolo (che li scaricherà quando non serviranno più). Le difese siriane di Deir Ez-Zor, città assediata da 4 anni da Daesh, sono state bombardate “per sbaglio” da aerei USA, australiani e danesi. Non per sbaglio, ma in seguito ad una manifesta provocazione di Al Qaeda che si dichiarava vittima di un attacco chimico, è stato bombardato il più importante aeroporto del centro della Siria da cui partivano le missioni aeree che colpivano Al Qaeda. Oggi si sta verificando un fatto gravissimo che ha avuto scarsa eco sui mass media, ma che è gravido delle peggiori conseguenze.
L’esercito siriano e le milizie filo-governative irachene stavano convergendo sul punto di frontiera strategico di Al Tanf, posto all’incrocio tra le frontiere di Irak, Siria e Giordania, da dove passavano rifornimenti per Daesh attraverso il deserto. Truppe inglesi e statunitensi hanno occupato la zona, insieme a mercenari locali definiti Syria Democratic Forces ed aerei statunitensi hanno bombardato sia le truppe siriane che quelle irachene avanzanti “perché costituivano una minaccia ai soldati statunitensi”.
La Russia ha protestato (blandamente) dicendo che nessuno avrebbe minacciato i soldati USA se fossero rimasti a casa e non avessero apertamente violato il diritto internazionale.
Ora, capiamo sempre meglio perché nessuno ferma i “kamikaze” di Manchester e continua a fornire armi ai loro finanziatori.
Vincenzo Brandi

Il Pentagono fa il giro del mondo

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Arriva oggi in Italia il capo del Pentagono Ash Carter che, a nome dell’uscente amministrazione Obama, sta facendo «il giro del mondo per ringraziare le truppe USA schierate in Asia, Medioriente ed Europa e incontrare importanti partner e alleati».
Il tour è iniziato il 3 dicembre dalla California, dove Carter ha tenuto il discorso di chiusura al «Forum Reagan», che gli ha conferito il premio «La pace attraverso la forza».
Carter si è quindi recato in Giappone, dove ha passato in rasegna le truppe USA e incontrato il ministro della difesa Inada.
Il Giappone, che contribuisce con 1,6 miliardi di dollari annui alla permanenza di 50mila soldati USA sul proprio territorio, è particolarmente importante quale base avanzata dei sistemi missilistici USA schierati contro la Cina a «scopo difensivo» e, precisa il Pentagono, è un alleato «in grado di difendere altri paesi che possano essere attaccati».
Dal Giappone Carter è volato in India, divenuta il secondo acquirente mondiale di armi USA dopo l’Arabia Saudita: un risultato della strategia di Washington che mira a indebolire i rapporti dell’India con la Russia, minando il gruppo dei BRICS attaccato allo stesso tempo attraverso il golpe «istituzionale» in Brasile.
Il capo del Pentagono è quindi andato in Bahrein, dove ha partecipato al «Dialogo di Manama» organizzato dall’Istituto internazionale di studi strategici, influente think tank britannico finanziato dall’emirato con oltre 38 milioni di dollari.
Intervenendo sulla «logica della strategia americana in Medioriente», Carter ha precisato che in questa regione sono schierati oltre 58 mila militari USA, tra cui più di 5 mila sul terreno in Iraq e Siria, «non solo per contrastare terroristi come quelli dell’ISIS, ma anche per proteggere i nostri interessi e quelli degli alleati» (ragione per cui gli USA e le monarchie del Golfo, come ampiamente documentato, hanno segretamente sostenuto l’ISIS, funzionale alla loro strategia in Siria e Iraq).
Carter ha accusato la Russia di non combattere l’ISIS in Siria, ma di aver solo «infiammato la guerra civile e prolungato le sofferenze del popolo siriano». Ha quindi aggiunto che, poiché «l’Iran continua a schierare missili», gli USA stanno realizzando con gli alleati «una difesa missilistica regionale», comprendente un potente radar in Qatar, missili Thaad negli Emirati e altri sistemi missilistici (in realtà non di difesa ma di offesa, dato che gli stessi tubi di lancio possono essere usati per missili da attacco anche nucleare).
Dal Bahrein Carter è andato in Israele, dove ieri ha partecipato col ministro della difesa Lieberman alla cerimonia dell’arrivo dei primi due caccia F-35 per l’aeronautica israeliana, simbolo della sempre più stretta partnership militare con gli USA, «portata a livelli senza precedenti dall’accordo decennale di assistenza firmato lo scorso settembre».
Da Israele il capo del Pentagono arriva oggi in Italia, per una visita di due giorni alle truppe USA qui stazionate allo scopo – dichiara un documento ufficiale – di «sostenere le operazioni degli USA e della loro coalizione su scala mondiale, tra cui la deterrenza all’aggressione russa nell’Europa orientale e il rafforzamento del fianco sud della NATO».
Il tour mondiale, che si concluderà a Londra il 15 dicembre con una riunione della «coalizione anti-ISIS», ha uno scopo politico ben preciso: riaffermare alla viglia delle consegne la strategia dell’amministrazione Obama, che avrebbe dovuto proseguire la democratica Clinton, perché restino aperti i fronti di tensione e guerra a Sud e ad Est che il democratico Obama lascia in eredità al repubblicano Trump. Che ha almeno il merito di non essere Premio Nobel per la pace.
Manlio Dinucci

Fonte

nobels

Ormai la politica la fanno i comici!

Bernardino León ha negoziato la sua promozione con il governo degli Emirati mentre era mediatore dell’ONU per la Libia

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L’ex segretario di Stato spagnolo è stato appena nominato direttore della scuola diplomatica degli Emirati, un Paese che appoggia una delle parti che si affrontano nella guerra civile libica.
León aveva comunicato al ministro degli Esteri di quel Paese che aveva intenzione di favorire il gruppo nazionalista di Tobruk appoggiato dai governi europei e del Golfo Persico.

Secondo quanto riferito dal Guardian, il diplomatico spagnolo Bernardino León stava negoziando durante i mesi estivi con il governo degli Emirati Arabi Uniti la sua promozione a un posto di livello superiore mentre al tempo stesso cercava di favorire a nome dell’ONU un accordo politico per metter fine alla guerra in Libia.
L’indipendenza della sua missione diplomatica resta in discussione per il fatto che il governo degli Emirati appoggia una delle due parti in conflitto e per una e-mail rivelata dal quotidiano britannico. In essa, León mostra chiaramente che la sua posizione è favorevole al gruppo che controlla il Parlamento dalla città di Tobruk e che si oppone alla coalizione islamista che si era rafforzata in gran parte del Paese. Il messaggio rivela un mediatore che non è neutrale.
A giugno, il governo degli Emirati aveva offerto a León, che era segretario di Stato per l’Estero nel governo Zapatero, il posto di direttore della sua scuola diplomatica, un posto altamente lucrativo, con uno stipendio mensile di 50.000 euro. Quella scuola non solo forma i diplomatici di questa monarchia autoritaria, ma funziona come un think tank per promuovere le priorità della sua politica estera. Mercoledì scorso, la nomina è stata resa pubblica e Bernardino León è stato sostituito come inviato speciale delle Nazioni Unite per la crisi libica dal diplomatico tedesco Martin Kobler.
Nelle trattative private con gli Emirati, León aveva sollevato le sue alte aspirazioni economiche. Riferiva di non riuscire a trovare un domicilio in Abu Dhabi che soddisfacesse le sue esigenze di affitto con gli 89.000 euro annui offertigli per questo scopo, e chiedeva un importo doppio di tale cifra.

L’intervento degli Emirati nella guerra
Gli Emirati non sono mai stati un osservatore imparziale nella guerra libica. Aerei di questo Paese, insieme a quelli egiziani, hanno partecipato nell’agosto del 2014 ad attacchi contro la coalizione delle milizie islamiste, appoggiata dal Qatar, per cercare di impedire che prendessero il controllo della capitale, Tripoli, fatto che non gli riuscì. Come i governi occidentali, gli Emirati riconoscono come unica autorità legittima della Libia i gruppi nazionalisti che furono espulsi da Tripoli.
Il Guardian racconta che solo cinque mesi dopo esser stato nominato mediatore, León inviò una e-mail al ministro degli Esteri degli Emirati per parlargli del suo rifiuto dell’ultima posizione di Europa e Stati Uniti, che erano disposti a convocare una conferenza di pace. Per León, e presumibilmente per il suo interlocutore, questo era un errore “perché si sarebbero considerate entrambe le parti come uguali attori nel conflitto”.
Il diplomatico spagnolo rivela al suo interlocutore che non ha alcuna intenzione di essere un mediatore neutrale. Sua intenzione è rompere l’alleanza dei commercianti di Misurata coi gruppi islamisti per rafforzare i loro rivali di Tobruk. Suo obiettivo è “delegittimare” la coalizione islamista. Racconta anche che coordina tutti i suoi movimenti con i nemici del gruppo che controlla Tripoli, e che fra di essi c’è l’ex primo ministro Mahmoud Jibril, fuggito negli Emirati e protetto dalle autorità di quel Paese.
Parlando al quotidiano britannico, León nega di aver favorito una delle due parti nella guerra libica e sostiene che la sua proposta per porre fine al conflitto sia equa. Riguardo all’e-mail citata, afferma di aver avuto conversazioni simili con Paesi che appoggiano l’altro attore della guerra: “Sono sicuro che in varie occasioni ho detto anche a loro che ‘possono contare su di me’. Il mio lavoro consiste nel costruire la fiducia con tutti, dentro e fuori la Libia”.
Parlando a El País, León ha detto che il suo account di posta elettronica è stato violato: “Attraverso queste e-mail sono stato attaccato e manipolato, qualcuno sta cercando di dire che io sono stato parziale, con la scusa che gli Emirati Arabi Uniti sostenevano il Governo di Tobruk. Ѐ chiaro che anche da Tobruk mi si accusa di favorire Tripoli”.
The Guardian ha contattato León lunedì [2 novembre u. s. – ndr]. Allora, aveva negato di aver accettato il posto negli Emirati. Il mercoledì, ha inviato una e-mail al giornalista affermando che “non aveva ancora firmato nessun contratto” e che c’erano state solo conversazioni. Ha chiesto al giornale di non pubblicare nulla fino a che non gli avesse concesso un’intervista per spiegare la sua situazione. La successiva notizia era apparsa sul giornale il giovedì, quando è stato annunciato che León avrebbe assunto il posto offerto dal governo degli Emirati.

Una proposta di pace senza esito
Prima di concludere il suo lavoro di inviato dell’ONU, ha annunciato una proposta di accordo di pace che passa attraverso la formazione di un Governo di unità nazionale nel quale il Parlamento di Tobruk svolga le funzioni legislative e il consiglio islamista si converta nella Camera Alta ma solo con funzioni consultive. L’accordo non sembra avere molto futuro. Ѐ stato respinto da entrambe le parti, soprattutto dagli islamisti. Attualmente, i Paesi occidentali e del Golfo Persico premono sui parlamentari di Tobruk affinché lo approvino. Il presidente della Camera non lo esclude, ma si limita a dire che “la porta del dialogo non è chiusa”.

Fonte – traduzione di M. Guidoni

La complicità occidentale nel genocidio in Yemen e il silenzio dei media

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Finian Cunningham per rt.com

Nell’ultima atrocità in Yemen, aerei da guerra sauditi hanno bombardato una zona residenziale, uccidendo almeno 65 persone. La maggior parte delle vittime sarebbero civili del quartiere Salah di Taiz, terza città più grande dello Yemen.
Il supposto crimine di guerra commesso è tragicamente diventato un evento quasi quotidiano durante cinque mesi di bombardamenti aerei incessanti dello Yemen da parte di una coalizione filo-occidentale di potenze straniere.
Nei giorni scorsi, ci sono stati attacchi aerei simili su centri civili nella città portuale di Hodeida sul Mar Rosso e nella provincia settentrionale di Saada.
Save the Children ha avvertito che il pesante bombardamento delle infrastrutture e porti del Paese ha già avuto gravi conseguenze sulla disastrosa situazione umanitaria emergente in Yemen – sia Hodeida che Aden sono passaggi chiave per il trasporto dei rifornimenti di aiuti umanitari, compresi cibo e medicine salvavita ora disperatamente necessari per i 21 milioni di Yemeniti.
Sicuramente, questa dovrebbe essere una notizia di prima pagina, con la CNN, la BBC e France 24, tra gli altri grandi mezzi di comunicazione occidentali, che la rilanciano come la loro storia di punta. Spetta a loro, perché i loro governi sono implicati in crimini gravi. Tuttavia, non vi è stata alcuna copertura giornalistica dei tragici eventi. A parte alcune brevi, vaghe notizie di una crisi umanitaria generalizzata, vi è stato un muro di silenzio su come la coalizione a guida saudita sostenuta dall’Occidente stia polverizzando civili yemeniti e creando la crisi. Ciò suggerisce una censura deliberata da parte dei media occidentali. Continua a leggere

Sono stato testimone di un crimine contro l’umanità!

Un messaggio di Caleb Maupin dal porto di Gibuti

Dal porto di Gibuti in Nord Africa, è con grande tristezza e bruciante indignazione che annuncio che il viaggio della nave di salvataggio Iran Shahed si è concluso. Non raggiungeremo la nostra destinazione al porto di Hodiedah in Yemen per consegnare aiuti umanitari.
La conclusione senza successo della nostra missione è il risultato di una sola cosa: il terrorismo saudita appoggiato dagli Stati Uniti.
Ieri [23 maggio 2015 – ndr], come il nostro arrivo apparve imminente, le forze saudite hanno bombardato il porto di Hodiedah. Essi non hanno bombardato il porto solo una volta, o anche due. Le forze saudite hanno bombardato il porto di Hodiedah un totale di otto volte in un solo giorno!
Il numero totale di innocenti lavoratori portuali, marinai, scaricatori di porto, e passanti uccisi da questi otto attacchi aerei è ancora da calcolare.
Inoltre, i rivoluzionari yemeniti hanno arrestato 15 persone ieri, che facevano parte di un complotto per attaccare la nostra nave. Il piano era quello di attaccare l’Iran Shahed al nostro arrivo, e uccidere tutti a bordo, me compreso.
Con le sue tante minacce e azioni criminali, il regime saudita stava mandando un messaggio alla squadra di medici, tecnici medici, anestesisti, e altri volontari della Mezzaluna Rossa a bordo della nave. Il messaggio era: “Se tentate di aiutare i bambini affamati dello Yemen noi vi uccideremo”.
Queste azioni, progettate per terrorizzare e intimidire coloro che cercano di portare aiuti umanitari, sono una chiara violazione del diritto internazionale. Posso dire, senza alcuna esitazione, che ho assistito a un crimine contro l’umanità.
Nel contesto delle estreme minacce saudite, dopo lunghi negoziati che hanno avuto luogo tutto il giorno a Teheran, è stato stabilito che la Società della Mezzaluna Rossa non può completare questa missione. Le 2.500 tonnellate di forniture mediche, cibo e acqua vengono scaricati, e consegnati al Programma Alimentare Mondiale, che ha accettato di distribuirle per nostro conto entro il 5 giugno.

Gibuti e l’imperialismo statunitense
Qui a Gibuti, posso vedere chiaramente ciò contro cui i popoli di Yemen e Iran hanno combattuto per così tanto tempo. A differenza di Teheran, qui a Gibuti vedo masse di gente disperata che soffre la fame. Impoveriti Africani, alla disperata ricerca di una giornata di lavoro, sono allineati al di fuori del porto. Essi sono insieme a profughi yemeniti che sono fuggiti dai combattimenti, e hanno attraversato il mare. I profughi yemeniti vivono in tendopoli.
C’è una enorme base militare americana qui a Gibuti, e questo piccolo Paese di soli 3 milioni di persone è ben sotto il controllo del neo-liberismo occidentale. Questo Paese è stato fondamentalmente scolpito sulle mappe del mondo dagli imperialisti. Mentre i saccheggiatori europei si spartivano il continente africano, hanno creato questo piccolo Paese in modo che basi navali possano essere comodamente collocate in una posizione strategica.
Gli imperialisti hanno falsamente disegnato i confini del continente africano nello stesso modo in cui hanno diviso i popoli arabi e i popoli dell’America Latina. Le mappe sono state disegnate per servire i colonizzatori, e determinare chi abbia il diritto di rubare e sottomettere la popolazione di ogni regione specifica.
Le condizioni di vita che vedo qui a Gibuti sono terribili rispetto all’Iran. L’Iran ha rotto le catene dell’imperialismo, e si sta sviluppando in modo indipendente. In Iran, ho visto poche persone mendicare un lavoro, e le poche che ho visto sono rifugiati provenienti dall’Afghanistan.
Dal momento dell’invasione statunitense dell’Afghanistan, la Repubblica Islamica ha aperto le porte a 3 milioni di rifugiati, e la maggior parte di loro sono costantemente impiegati. Le risorse petrolifere dell’Iran sono nelle mani di un governo nato da una massiccia rivoluzione popolare. I ricavi del petrolio sono stati utilizzati per creare un vasto apparato di programmi sociali.
Uno dei volontari della Mezzaluna Rossa mi ha detto: “Il governo iraniano ha un dipartimento per fare in modo che nel nostro Paese tutti quelli che vogliono lavorare, possano farlo”. Alle madri iraniane viene dato un sussidio garantito per ciascuno dei loro figli. L’istruzione nelle università iraniane è assolutamente gratuita, e il Ministero della Sanità offre assistenza medica gratuita a tutti nel Paese.
Rispetto ai milioni di lavoratori stranieri schiavizzati in ​​Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, o la gente immiserita in tutto il continente africano, anche gli Iraniani più poveri sono molto, molto ricchi. Rompendo con il neoliberismo, l’Iran è stato in grado di garantire a tutti i suoi cittadini una grande quantità di sicurezza economica.
Il Leader Supremo della Rivoluzione Islamica ha denunciato a gran voce il sistema del capitalismo, e ha detto che i principi religiosi e la compassione per i bisognosi, dovrebbero sempre avere la priorità rispetto ai profitti e alla finanza.

“Stare con gli oppressi”
Se le forze della resistenza hanno successo nella loro lotta contro l’attacco saudita, lo Yemen si unirà presto all’Iran nel diventare un Paese indipendente. Il logo dell’organizzazione Ansarullah mostra una mano che tiene un fucile per rappresentare la resistenza armata. Perpendicolare al fucile sul logo Ansarullah è uno stelo di grano, a rappresentare lo “sviluppo economico”.
Non è un segreto che lo Yemen ha vaste risorse petrolifere, non sfruttate. Se le forze di resistenza sono vittoriose, possono valersi di queste risorse, e iniziare a utilizzarle per costruire la società yemenita. Lo Yemen può quindi cominciare a fare ciò che il popolo del Venezuela ha fatto, e trasformare il Paese con il controllo pubblico delle risorse naturali.
Il gruppo religioso che guida Ansarullah, gli Zaidi, ha uno slogan. Dicono: “Un vero Imam è un Imam che combatte”.
Essi oppongono le loro credenze religiose a quelle dei Wahabiti che guidano l’Arabia Saudita. I leader religiosi sauditi affermano che i musulmani devono evitare la ribellione e la protesta perché ciò porta a instabilità e caos. Essi sottolineano l’obbedienza al governo e alle figure autorevoli.
Gli Zaidi, che guidano Ansurrullah e sono al centro dell’attuale rivoluzione yemenita, sottolineano che un capo religioso non sta veramente facendo il lavoro di Dio, a meno che non prenda una spada o una pistola e “combatta per gli oppressi”.
Mentre mi preparo a tornare a Teheran sono diventato ancora più convinto della necessità di rovesciare il sistema del capitalismo monopolistico occidentale. Sto rafforzandomi nella convinzione che ci deve essere un’alleanza globale di tutte le forze che si oppongono all’imperialismo. Che si tratti di marxisti-leninisti, bolivariani, anarchici, sciiti, sunniti, cristiani, o nazionalisti russi, tutte le forze che si oppongono alla continua dominazione sul pianeta dei banchieri di Wall Street devono fermamente stare insieme.
Il popolo dello Yemen, come le forze della resistenza in tante altre parti del mondo, si è rifiutato di arrendersi. Come si trovano ad affrontare un attacco terribile con le bombe saudite di fabbricazione USA, mi auguro che la notizia della nostra pacifica, missione umanitaria li abbia raggiunti. Spero che siano consapevoli del fatto che nella loro lotta contro il re saudita, i banchieri di Wall Street, e tutte le grandi forze del male, essi non sono soli. Ci sono milioni di persone in tutto il pianeta che stanno dalla loro parte.
L’imperialismo è condannato, e l’intera umanità dovrà presto essere libera!

Fonte – traduzione di F. Roberti.
Nel video che accompagna questo articolo, alcune interviste con i componenti del convoglio umanitario, realizzate da Jonathan Moadab di Agence Info Libre prima della partenza dall’Iran.

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L’Islam buono e quello cattivo

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La memoria genetica dei musulmani.
Sessanta anni di stermini e di milioni di morti dimenticati dalla lotta al terrorismo. La decima crociata di Papa Bergoglio.

“Il passato e il suo ricordo possono intralciare gli indirizzi politici dei governi. Vengono pertanto revisionati, ristrutturati o sepolti.
A distanza di anni e di decenni hanno comunque la pessima abitudine di riemergere, di riprodursi con sembianze a volte deformate ed effetti tali da seminare sgomento e provocare reazioni anomale e controproducenti in Occidente. Il mondo musulmano vive ancora la nostra recente esperienza in Algeria e nel Medio Oriente, ma conserva una memoria genetica di un passato non troppo lontano, di persecuzioni e del sangue versato dopo la Seconda Guerra Mondiale. E prima o poi quella memoria tornerà a tormentare la coscienza del mondo occidentale.”

Trascriviamo queste note su quanto ci disse Ben Bella nel 1998. Ci aveva presentato all’eroe dell’Armata Popolare di Liberazione Luciana Castellina a Ginevra durante la marcia con cui veniva celebrato il 50° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Non volle parlarci del suo ruolo ad Algeri, della sua prigionia, dell’esilio dopo il colpo di Stato di Boumedienne, ma insistette a lungo sulle sue apprensioni per quanto ci teneva in serbo un futuro incerto, non solo di guerre ma anche di ingiustizia sociale. Parole accorate e profetiche di un personaggio famoso che non si considerava certo un vinto, ma neanche un vincitore trionfante della storia.
A rintracciare quelle note ci ha indotto un eccellente articolo di Tommaso Di Francesco su il Manifesto del 5 aprile scorso. C’è una distrazione generale, scrive, sull’ecatombe dei combattimenti e dei bombardamenti scatenati in Irak, Pakistan e Afghanistan dall’11 settembre 2001 al primo semestre del 2014: più di un milione e trecentomila morti, quasi tutti civili, senza contare le altre centinaia di migliaia di vittime in Siria e a Gaza. Morti che non hanno nome, che non contano niente. Stati Uniti e alleati europei, continuano a sganciare bombe accompagnati dal ritornello dei leader occidentali “Siamo in guerra contro il terrorismo, non contro l’Islam”. Il terrorismo di turno, almeno da otto mesi a questa parte, è quello dei tagliagole dello Stato Islamico, degli sciiti contro i sunniti e viceversa, armati e finanziati in alternanza o contemporaneamente dalla NATO, dagli Emirati, dall’Arabia Saudita e in misura decrescente dall’Iran mentre lo Stato israeliano di Netanyahu se ne sta a guardare più o meno compiaciuto.
Abbiamo poi l’Islam buono e quello cattivo, il primo che cerca invano l’integrazione nelle periferie desolate del mondo occidentale, il secondo minoritario, impermeabile alla cultura occidentale che fa strage di infedeli, cristiani e musulmani pacifici, in Medio Oriente, nel Nord Africa e in misura limitata anche in Europa. Tutti d’accordo perché come ha osservato a febbraio persino Time, il settimanale dedicato al primato di civiltà e allo “eccezionalismo” del popolo statunitense, questo vive in “un presente eterno in cui ogni riflessione è limitata a Facebook e la narrazione storica è delegata a Hollywood”.
Rischiamo ben volentieri di farci assegnare il ruolo di improbabili sostenitori dei tagliagole e ricordiamo per sommi capi alcuni eventi del dopoguerra che nelle parole di Ben Bella sono entrati nella “memoria genetica” del mondo musulmano, un mondo in quegli anni aperto, pacifico e generalmente incline ad abbracciare i valori della giustizia sociale.
In Indonesia, dopo l’indipendenza, è vero, era presente un partito comunista: bastò a Londra e Washington per abbattere con un colpo di stato il governo progressista del Presidente Sukarno per sostituirlo con la dittatura di Suharto e con l’invio di truppe scelte e l’impiego di fazioni dissidenti islamiche e cristiane per scatenare una guerra di sterminio in tutto il paese che provocò da un milione e mezzo a tre milioni di morti musulmani tra il 1965 e il 1966. Le ingenti risorse minerarie e petrolifere dell’Indonesia vennero così assicurate agli USA e alla Gran Bretagna. Per il Grande Impero d’Occidente i movimenti indipendentisti, postcoloniali e progressisti, nel Medio Oriente islamico ed arabo erano diventati inaccettabili e da abbattere con qualsiasi mezzo: venne rafforzato con armamenti e finanziamenti diretti il Wahabismo, una setta islamica ultraconservatrice nell’Arabia Saudita e fiumi di sangue precedettero e accompagnarono l’installazione dello Shah in Iran. Dopo la sua caduta, Saddam Hussein, allora nei favori di Washington fu finanziato ed armato nella guerra di otto anni contro l’Iran di Khomeini (un milione di morti). Un milione e mezzo poi le vittime – tra caduti e per fame da sanzioni – della prima guerra contro l’Irak del 1992, di cui nessuno oggi parla. E poi gli attacchi e le guerre di Israele contro la Palestina, l’Egitto, la Giordania e la Siria, sempre nella memoria della Shoah e in nome del diritto alla sopravvivenza con i quattro miliardi di dollari USA all’anno che hanno fatto di questo Stato la nuova Prussia atomica del Medio Oriente.
E’ questo l’humus del risentimento del mondo musulmano in cui germinano i semi del fanatismo estremo dell’IS. E’ stato detto e ribadito da osservatori di noi ben più autorevoli che ignorare le cause del terrorismo vuol dire perpetuarlo.
Come combattere il Califfato? Suggerimenti razionali e ridimensionamenti del fenomeno abnorme nei suoi aspetti più efferati, vengono offerti da Lucio Caracciolo nell’ultimo numero di Limes “Chi ha paura del Califfo”. Non è comunque un mistero per chi sa far di conto che il primo passo dovrebbe essere quello del taglio dei finanziamenti indiretti e del riciclaggio dei petrodollari dell’IS di cui sono responsabili gli Emirati Arabi (il Dubai si è aggiudicato il titolo di Bancomat del Califfato). Qualche pressione su questi regimi “criminogeni” sono state esercitate negli ultimi mesi dall’Amministrazione Obama, ma “pecunia non olet”, gli affari sono affari e “the business of America is business”.
Facile comprendere invece le ragioni dell’appello ad una Decima Crociata di chi ha sempre parlato del denaro come “sterco del diavolo”, di pace universale, di Dio che tutto e tutti perdona, di misericordia, di amore per i poveri, di cristiana pietas verso i diseredati colpevoli e meno, e cioè di papa Bergoglio. Giusto che il non più sontuoso erede del pescatore di Tiberiade condanni la persecuzione dei cristiani quale pastore del gregge, ma da qualche giorno a questa parte la denunzia del silenzio complice dell’inerzia occidentale suona come un esplicito invito a sterminare i lupi, tutti i lupi.
Se ha assunti i toni di Urbano II e di Pietro l’Eremita – Deus le volt – un altro motivo è più che opinabile: l’alta missione dei Gesuiti, dettata dal fondatore Francesco di Sales (non di Assisi), quella del proselitismo e delle conversioni di massa, la stessa che lo ha portato sul soglio pontificio in piena crisi di vocazioni e di chiese semi vuote aveva trovato in Bergoglio un predicatore popolare e di gran successo. I lupi del Califfato hanno spaventato il gregge e bloccato la missione. Vanno quindi ammazzati in gloria in excelsis Deo.
Lucio Manisco

Fonte

Al-Kowa…, piccola NATO cresce

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Nella foto, il presidente yemenita Abdrabbuh Mansour Hadi in fuga dal proprio Paese viene accolto a Riad, capitale dell’Arabia Saudita, dalle autorità locali.

La Lega Araba ci riprova: forze armate in comune per “contrastare le minacce alla sicurezza regionale e combattere i gruppi terroristici”. Non, si badi bene, come al primo tentativo del 1964 quando (comprensibilmente) identificò il “pericolo” negli Ebrei che avevano imposto in Palestina (con totale appoggio di USA, Regno Unito e Francia) lo Stato di Israele.
Ma, cambiando i tempi ed avendole buscate sonoramente nel 1967 dalle truppe israeliane, oggi identifica il pericolo negli sciiti Houti dello Yemen e nel Califfato cattivissimo dell’ISIS… per ora!!
Possibilmente i pazienti lettori pensano: ma che ce ne frega?? Errore…, ce ne deve fregare per forza : questi sono “tutti” nostri alleati, in via diretta o meno… è a conoscenza di tutti?
Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrein e pure Qatar fanno parte della grande “coalizione” anti ISIS guidata da Obama e di cui l’Italia fa parte assieme a tanti Stati pure musulmani.
Quindi,a rigor di logica e vista la “benedizione” politica, economica e militare impartita dal già Nobel per la Pace (???) a nome della intera NATO, saremo coinvolti in qualunque iniziativa guerresca che i signori Al Sisi, Abdullah, Salman (e come caspita si chiamano tutti gli altri partecipanti) hanno già intrapreso o metteranno in atto.
Cosa, fino ad oggi, tollerabile perché Obama ha mandato gli aerei sauditi dell’ancora non ufficializzata al-Kowa ad ammazzare sciiti ad Aden e Sanaa (che siano miliziani o donne e bambini poco importa). Mentre le forze di terra egiziane son pronte all’invasione con carri armati e truppe scelte.
Ci sarebbe pure (in Yemen) il “dettaglio” dell’ISIS ma questo non può costituire problema perché almeno mezzo mondo vuole morto (a parole) il Califfo, pertanto tutti d’accordo.
Infatti è in quello che non c’è scritto a chiare lettere il pericolo della formazione di questa piccola NATO panamericana e pure sunnita: “contrastare le minacce alla sicurezza regionale”.
Tradotto per i distratti: l’Iran ed i suoi alleati e protetti… Siria e sciiti iracheni, libanesi e yemeniti in primis.
È la Repubblica Islamica di Teheran il vero bersaglio di Egitto, Giordania ed Arabia Saudita che, approfittando della lotta mondiale all’ISIS, cercano di mettere nel calderone infernale gli ayatollah con tutte le loro truppe militari e religiose.
E proprio qui ritengo caschi l’asino. Se è vero che Emirati, Arabia Saudita, Giordania e Qatar sono satelliti americani, e dagli USS dipendono a cominciare dagli armamenti, è pur vero che non è possibile immaginare il buon BombObama trascinare l’Occidente in un conflitto contro Teheran… neppure per favorire Israele (che con gli Stati arabi ex nemici è pappa e ciccia).
Anche perché la Russia di Putin, tanto per non sbagliare, ha già ammonito tutti dal muover guerra alla Siria di Assad.
Quanto sopra è sintesi ristrettissima del complicatissimo scenario medio-orientale che investe pure Africa del Nord ed altre zone strategiche.
Spero possa servire almeno a far conoscere maggiormente la formazione di questa piccola NATO musulmana (sunnita) chiamata al-Kowa da parte della Lega Araba (non tutta).
Già la creatura madre, la mitica OTAN, ha creato e crea (vedi Ucraina) tanti gravissimi problemi per la pace e la sicurezza… speriamo che quella in crescita non sia una filiazione pure peggiore.
Vincenzo Mannello

I regimi alleati degli Stati Uniti si stanno preparando per la guerra

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Caleb Maupin* per rt.com (traduzione di M. Janigro)

Ogni anno lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) rende pubblico uno studio sulle spese militari nel mondo. Quest’anno il rapporto contiene molti dettagli interessanti.
Alcune cose all’interno del rapporto, presentato alla Commissione per il disarmo delle Nazioni Unite il 14 Aprile, non sono cambiate per nulla. Come accade da decenni, gli Stati Uniti rimangono il Paese che più spende nel mondo, nonostante i tanto pubblicizzati “tagli alla spesa”. Gli USA, la NATO e gli alleati non appartenenti alla NATO, ricoprono il 64% della spesa militare mondiale. Continua a leggere

La fase 2 dell’aggressione alla Libia è imminente

La fase 2, l’attacco con unità di fanteria di marina della NATO, è data per imminente. Francia e Gran Bretagna, con l’Italia in ritardo sui preparativi di invasione della Jamahiryia via terra, hanno già provveduto a rafforzare le “forze speciali” che affiancano da due mesi i mercenari del CNT.
La Russa, dal canto suo, ha già mobilitato il Comsubin di Varignano e allertato il Battaglione S. Marco della Marina Militare, su input del Consiglio Supremo di Difesa, mentre il Comando Operativo Interforze di Centocelle tace e acconsente.
Gli istruttori “tricolori” che operano a Bengasi sono ormai oltre l’organico di una compagnia. Ci sarà tempo e modo per dare una faccia a questi “lavoratori”.
Nel frattempo, svetta l’impegno sul campo della Farnesina portata per mano al macello da un soggetto come Frattini che promette, sul portale del Ministero degli Esteri, “centinaia di milioni di euro” ai suoi “amici” della Cirenaica.
In realtà si tratta, come abbiamo già documentato, di miliardi di dollari in uscita dalle tasche degli italiani.
Millecinquecento milioni di dollari hanno già preso il volo per Abu Dhabi, come fondo di garanzia per il CNT , oltre che per dare fiato alle casse sfondate degli Emirati Arabi Uniti, una monarchia ereditaria del Golfo che – sentite, sentite – sta entrando a far parte dell’ Alleanza Atlantica (Kalifa bin Zayed ha recentemente avviato personali trattative con Rasmussen e Hillary Clinton in funzione anti-Iran).
Un trasferimento finanziario avvenuto nello stesso giorno in cui il boiardo di stato Bono annunciava il licenziamento, diretto, al netto delle perdite nell’indotto, di 2.551 lavoratori di Fincantieri (649 a Castellamare di Stabia, 777 a Sestri Ponente e 1.121 nei rimanenti impianti a mare) per conservare negli Stati Uniti attività produttive navali in devastante perdita finanziaria e tenere aperto un “cantierino” per il rimessaggio di barche d’altura di proprietà di vip del Bel Paese oltre che di deputati, senatori ed establishment USA. Torneremo presto sulla faccenduola Fincantieri Marine System North America e Fincantieri Marine Group, e il clamoroso bidone delle commesse Littoral Combat Ship.
Nelle 48 ore successive il Governo di Tripoli diffondeva l’entità del massacro dall’aria perpetrato sulle città della Repubblica Araba Socialista con 718 morti, 4.067 feriti ed amputati dal 19 Marzo al 26 Maggio. Effetti collaterali dei “bombardamenti chirurgici” che il titolare di Via XX Settembre ci aveva assicurato essere precisi al metro sui targets da oltre 3.5 miglia di quota.
Vediamo ora in dettaglio cosa ha promesso il Bel Paese, per bocca di Frattini, nella sua visita a Bengasi, del 31 Maggio – all’ 8° piano dell’Hotel Tibesti (!) che alloggia il Console Guido de Sanctis e la Rappresentanza dell’Unione Europea – agli “insorti” che si richiamano alla monarchia senussita.
Oltre ad aver firmato un memorandum d’intesa con Mustafà Abdel Jalil, l’ex contabile di casa nostra ha promesso “enormi somme di danaro e enormi quantità di combustibile raffinato” al CNT per mezzo di Unicredit e dell’ENI che terranno a garanzia, tramite Sace, gli assets “congelati” alla Jamahiryia.
Che effetti, politici e commerciali, possano produrre nei rapporti diplomatici tra l’Italia e i Paesi di Africa, Vicino Oriente, America Indiolatina e Asia comportamenti ampiamente criminali come quelli espressi dal Governo Berlusconi è facilmente intuibile.
L’ENI fornirà benzina e gasolio per iniziali 152 milioni di euro mentre Unicredit verserà la prima trance di 475 milioni di euro in contanti al CNT per dare il via all’infrastruttura organizzativa statale e amministrativa della “nuova” Libia.
Parigi e Londra, nel frattempo, hanno già trasferito nella capitale della Cirenaica un numero consistente di elicotteri d’attacco.
“Dobbiamo migliorare, da bassa quota, la nostra capacità di colpire i bersagli a terra con munizionamento di precisione” ha precisato il ministro degli Esteri Alan Juppè, già titolare della Difesa durante la presidenza Chirac, durante un summit NATO, a porte chiuse, a Parigi con gli “omologhi” europei.
Per la Repubblica delle Banane hanno partecipato congiuntamente Frattini e La Russa, due punte di diamante dei Poteri Forti che lavorano fianco a fianco con Mr. NATOlitano.
Un Presidentissimo che ormai sfila sulla “Flaminia” il 2 Giugno, dopo la chiusura dello spazio aereo della capitale, su Via dei Fori Imperiali protetto a vista da centinaia di “tiratori scelti” e da un codazzo di “addetti alla sicurezza” che lo affiancano a passo di corsa, mano alla cintura, lungo il percorso lanciando occhiate preoccupate a destra e manca.
C’è un vecchio proverbio che dice: “Male non fare, paura non avere”. Continua a leggere

L’Australia nella NATO asiatica

australia

Il 2 marzo scorso, il Dipartimento della Difesa australiano ha reso noto un rapporto di centoquaranta pagine intitolato Difendendo l’Australia nel secolo dell’Asia Pacifico: la forza 2030, che prevede nuove spese militari per 72 miliardi di dollari.
Nell’ambito di questa cifra, è compreso l’acquisto di 100 esemplari del F-35 Lightning II, che nella versione australiana sarà dotato del Joint Strike Missile, un nuovo armamento per l’attacco a terra e la distruzione delle difese antiaeree nemiche sviluppato congiuntamente con la Norvegia.
Secondo il Financial Times del 4 maggio scorso, il ministro della Difesa australiano Joel Fitzgibbon avrebbe affermato che il rapporto di cui sopra, il primo elaborato nell’ultimo decennio, riconosce la supremazia a livello regionale degli Stati Uniti. Fitzgibbon mette, inoltre, in guardia rispetto alle “tensioni strategiche” causate dalle nuove potenze, specialmente la Cina ma anche l’India, nonché dal “ritorno della Russia”.
In un articolo apparso su un quotidiano australiano nel febbraio 2007, intitolato “Una nuova base spionistica segreta USA ha avuto la luce verde”, si sosteneva che la stretta alleanza militare australiana con gli Stati Uniti sarebbe stata rafforzata con la costruzione di una base di telecomunicazioni ad alta tecnologia nell’ovest dell’Australia. Si tratterà di una struttura cruciale per la nuova rete di satelliti militari a sostegno delle capacità belliche americane nel Medio Oriente ed in Asia. Questa base sarà la prima grande installazione militare USA ad essere costruita in Australia negli ultimi decenni, dopo le controversie avutesi su altri grandi insediamenti quali quelli di Pine Gap e North West Cape.
L’Australia è il Paese non membro della NATO con il maggior numero di truppe in Afghanistan, più di mille, mentre il Primo Ministro Kevin Rudd ha annunciato ad aprile scorso l’invio di altri 400 soldati, incluse alcune unità destinate ad operazioni speciali di combattimento.
Nel giugno 2008, il capo delle forze armate australiane Maresciallo dell’Aria Angus Houston, a proposito dell’impegno di Stati Uniti e NATO sul terreno afghano, ebbe a dire che esso sarebbe durato almeno altri dieci anni. Senza che l’Australia abbia intenzione di tirarsene fuori.
Le truppe del Paese dei canguri sono, fra l’altro, state fra le prime ad entrare in Iraq dopo l’invasione del 2003 e sono fra i pochi contingenti nazionali che ancora vi permangono. Alla fine del 2008, il parlamento irakeno – non senza dissensi – ha approvato una risoluzione che autorizza accordi bilaterali in merito ai soli contingenti non statunitensi ivi presenti: quelli di Gran Bretagna, Estonia, Romania, NATO ed appunto Australia. Negli stessi giorni, il Primo Ministro Rudd era in visita negli Emirati Arabi Uniti dove l’Australia sta riunendo le sue forze aeree ed il proprio quartier generale in Medio Oriente in una sola base, segreta. La presenza di soldati australiani nella regione è di circa 1.000 unità, che si vanno quindi ad aggiungere agli altri 1.000 in Afghanistan, 750 a Timor Est e 140 nelle Isole Salomone.
Qualcuno avanza, in questi ultimi tempi, l’ipotesi di una sorta di NATO asiatica volta ad integrare le nazioni asiatiche direttamente con la NATO e con i suoi singoli membri, gli Stati Uniti prima di tutto, quasi a realizzare un’estensione geografica dell’Alleanza Atlantica verso oriente. Ciò sarebbe l’esito di diverse misure, dagli accordi bilaterali di cooperazione all’insediamento di basi militari, dallo svolgimento di regolari esercitazioni multinazionali al dispiegamento di truppe nei teatri caldi. Lo scorso marzo, è giunta la notizia che l’Australia sta concludendo un accordo con la NATO per l’interscambio di informazioni militari riservate al fine di realizzare un più approfondito “dialogo strategico” ed una maggiore collaborazione sui “comuni interessi di lungo periodo”.
Insieme al Giappone, l’Australia – oltre ad ospitare sul proprio territorio basi militari statunitensi e dispiegare truppe nei teatri afghano ed irakeno – ha messo i piedi su un terreno ancora più pericoloso, unendosi al sistema antimissilistico globale progettato dagli Stati Uniti. Essa verrebbe così a costituire la controparte orientale di uno scudo che vede analoghe infrastrutture impiantate, per quanto riguarda l’emisfero occidentale, in Polonia e Repubblica Ceca.
Questi sviluppi, comunque, non allarmano soltanto la Russia e non coinvolgono unicamente Australia e Giappone. Lo scorso dicembre, infatti, i ministri della Difesa russo e cinese Anatoly Serdyukov e Liang Guanglie si sono incontrati a Pechino per discutere il progetto regionale di difesa antimissile portato avanti, oltre che da USA, Australia e Giappone, anche da Corea del Sud e Taiwan. Inutile sottolineare il disappunto della Cina.
Lo scopo della cosiddetta NATO dell’Asia sarebbe, allora, quello di stabilire una superiorità – se non egemonia – militare americana e più in generale occidentale attraverso tutto il continente asiatico, per quanto riguarda l’intero spettro sia delle forze che dei sistemi d’arma terrestri, aerei, navali e spaziali. Le notizie di stampa degli ultimi mesi confermano l’ampliarsi ed il rafforzarsi di questa tendenza. Come esempio paradigmatico, possiamo riportare l’esercitazione militare congiunta denominata Balikatan 2009, svoltasi dal 16 al 30 aprile u.s. nelle Filippine, sui terreni della base aerea di Clark, che l’aviazione USA – caso più unico che raro – aveva abbandonato volontariamente nel 1991. Sul sito della base sono tornati non solo i marines ma anche gli F-16 Fighting Falcon, i primi cacciabombardieri statunitensi operativi nelle Filippine dopo sedici anni.

Intervistato lo scorso novembre a proposito dell’”invasione russa della Georgia”, così ebbe a dire il magnate dei media austrialiano Rupert Murdoch: “E’ necessario che l’Australia sia parte di una riforma delle istituzioni maggiormente responsabili per il mantenimento della pace e della stabilità. Sto pensando specialmente alla NATO… L’unico percorso per riformare la NATO è di espanderla al fine di includervi nazioni come l’Australia. In tal maniera, essa diverrebbe una comunità basata meno sulla geografia e più sulla comunanza dei valori. Questo è l’unico modo per rendere la NATO efficace. E la leadership australiana è determinante per questo scopo”.

La famiglia nucleare

vengoanchio

Alla vigilia del G8 sull’energia, gli Stati Uniti hanno firmato un importante accordo con gli Emirati Arabi Uniti. Non per importare petrolio, di cui gli EAU sono terzo esportatore mondiale, ma per fornirgli altra energia. Nucleare. Con le tecnologie e il materiale fissile fornito dagli USA, gli Emirati disporranno di reattori nucleari entro dieci anni. L’accordo, stipulato dall’amministrazione Bush in gennaio, è stato approvato il 19 maggio dal presidente Obama, il quale garantisce che «non comporterà alcun rischio irragionevole, ma promuoverà la comune difesa e sicurezza». Ora dovrà essere approvato dal Congresso.
(…)
Esso frutterà almeno 40 miliardi di dollari, il grosso dei quali andrà alle multinazionali General Electric, Westinghouse, Bechtel e altre che costruiranno gli impianti nucleari negli Emirati. Accordi analoghi, stipulati con Arabia Saudita, Bahrain, Egitto, Marocco, Algeria, saranno certamente approvati dall’amministrazione Obama.
(…)
Ma perché un paese come gli Emirati, che possiede riserve di petrolio e gas sufficienti per oltre un secolo, vuole dotarsi di un’industria nucleare? Ufficialmente perché ha bisogno di produrre più elettricità. Per fornire energia pulita a una popolazione che non raggiunge i 5 milioni, basterebbe però sviluppare gli impianti solari che ha cominciato a costruire. Scopo della casa regnante è in realtà un altro: entrare nel club dei paesi nucleari acquisendo la capacità di poter un giorno costruire armi nucleari. Formalmente gli EAU e le altre monarchie del Golfo aderiscono al Trattato di Non-Proliferazione (TNP). Nessuno può sapere, però, quale sarà la loro decisione in futuro. Da parte loro, il governo USA e altri, mentre accusano l’Iran (che aderisce al TNP) di usare il nucleare civile per fini militari, aiutano Israele (che non aderisce al TNP) a potenziare il proprio arsenale nucleare, tacendo sul fatto che, essendo l’unico in Medio Oriente a possedere armi nucleari, spinge gli altri nella stessa direzione. Ora, per mantenere sotto la loro influenza quest’area strategica, gli USA aiutano le monarchie del petrolio a imboccare la via del nucleare.

Da Washington semina centrali nucleari tra le signorie arabe del Golfo, di Manlio Dinucci.
[grassetto nostro]