Enrico Mattei e il sovranismo energetico.
Vol. 1: La «lunga marcia» dall’AGIP all’ENI (cliccare sull’immagine per visionare la presentazione da parte dell’autore)
È notte inoltrata, si narra, quando squillò il telefono a casa di Enrico Mattei. Le due circa.
«Pronto, Mattei. Ciao, sono Giorgio La Pira».
«Dimmi, La Pira», rispose infastidito per l’orario Mattei.
«Senti, ti devo chiedere un favore. Qui, a Firenze, sta chiudendo il Pignone. Tante famiglie rischiano di finire in mezzo ad una strada. Per Firenze sarebbe una tragedia. Devi rilevarla tu, quest’azienda».
«La Pira, mi spiace, ma noi dell’ENI ci occupiamo di petrolio. Il Pignone è nel settore tessile, che ce ne faremmo noi? Sei un caro amico, ma non posso».
«Mi è apparso in sogno lo Spirito Santo e mi ha detto che l’ENI deve comprare il Pignone e salvare la fabbrica».
«Sono un petroliere e compro solo pozzi di petrolio».
«Tu sei un petroliere, ma quello è lo Spirito Santo e ne sa più di te…».
«E vi sarete capiti male!».
La telefonata si chiuse così.
La mattina dopo Mattei ordinò di fare una proposta per acquistare il Pignone. E così fu.
L’ENI lo acquistò, salvò migliaia di famiglie, l’economia di Firenze e il Nuovo Pignone diventò un’eccellenza nel settore della meccanica e dell’impiantistica a livello internazionale.
Altri politici, che difendevano i diritti del popolo.
Altri imprenditori, che sapevano investire.
Oggi abbiamo Giuseppe Conte, che agli operai dell’ILVA di Taranto dice «Non ho la soluzione in tasca».
Questo mentre gli altri leader politici neppure hanno idea di cosa fare.
Cosa è cambiato dal 1953 ad oggi?
Allora avevamo una classe politica e imprenditoriale di livello, al servizio della gente e che sapeva trovare le soluzioni per farlo.
Allora avevamo la sovranità, monetaria (ovvero una banca centrale al servizio del governo e non “indipendente” come la BCE) e fiscale (non dovevamo sottostare ai vincoli di bilancio calcolati dagli “esperti” della Commissione Europea).
Ancora oggi esistono in Italia persone oneste e capaci e che sarebbero in grado di risolvere i problemi del Paese, ma il sistema di potere attuale, fondato sulla finanza e sul controllo dei mezzi di informazione, le tiene sistematicamente in disparte, favorendo invece l’ascesa al potere di persone incapaci. Nella migliore delle ipotesi.
Gilberto Trombetta
Da quando Donald Trump è divenuto presidente degli Stati Uniti, la destra italiana si è riscoperta «sovranista», facendo intendere che vuole difendere la sovranità nazionale senza, però, specificare da chi.
Non lo può dire perché il «sovranismo» è la mera reiterazione dello slogan di Donald Trump, è quindi l’ennesima dimostrazione di sudditanza psicologica e politica della destra nei confronti dell’alleato-padrone.
Invece, la sovranità nazionale è l’obiettivo primo di quanti si propongono di restituire l’Italia agli Italiani è per raggiungerlo l’ostacolo primo da rimuovere è rappresentato dalla politica coloniale degli Stati Uniti nei nostri confronti.
Come può l’Italia riacquistare la propria sovranità nazionale?
In un modo solo: uscire dopo 73 anni dal tunnel della sconfitta militare del 1945.
Sul finire del 2018, possiamo prendere atto che la classe politica dirigente imposta dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale all’Italia sconfitta è quasi scomparsa per un fisiologico ricambio generazionale, così che diviene possibile confrontarsi con la storia nazionale post-bellica.
Non sarà agevole perché non ci sono segnali da parte della classe politica italiana della volontà di percorrere a ritroso il cammino fatto dall’Italia sotto il dominio assoluto degli Stati Uniti per comprendere che siamo ancora una colonia americana.
Si può prendere coscienza di questa amara realtà ristabilendo la verità storica su quanto è accaduto nel nostro Paese perché è dalla sua affermazione che sarà possibile, per tutti gli Italiani, riconoscere che la prima conseguenza della sconfitta militare è stata proprio la perdita della sovranità nazionale, della dignità nazionale, della libertà di tutti e di ognuno a prescindere dallo schieramento ideologico nel quale si sono trovati a militare.
La verità è una sola, senza aggettivi, perché non può esistere una verità giudiziaria, una storica, una politica.
La verità si può raggiungere sia attraverso le indagini su episodi specifici svolte dalla magistratura, sia per mezzo delle ricerche fatte dagli storici ma tocca ai dirigenti politici – i soli che ne hanno i mezzi – la decisione di aprire gli archivi segreti dello Stato e di imporre a ufficiali, funzionari, dirigenti dei vari ministeri chiave (Esteri, Difesa, Interni) e della presidenza del Consiglio di dire quello che sanno.
In questo modo si potrà leggere la storia italiana senza ricorrere ai «distinguo» che la costellano per mantenere separati i fatti come se fossero avulsi dal loro contesto.
Non si possono, difatti, presentare le stragi di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 e quella di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974, come ispirate a una logica diversa da quella di un anticomunismo che si era preposto di utilizzare ogni mezzo per bloccare la lenta ma inesorabile avanzata elettorale del PCI, ritenuto nel 1947 e nel 1974 la «quinta colonna sovietica» in Italia.
Non sarà più possibile non collegare il piano predisposto nel giugno del 1964 per una manifestazione indetta a Roma dalle forze anticomuniste, primo il Movimento Sociale Italiano, destinata a degenerare in sanguinosi incidenti per fornire ai politici del tempo il pretesto per far intervenire le Forze armate e i Carabinieri, con quello poi attuato nel mese di dicembre del 1969 che prevedeva, dopo le stragi del 12 dicembre, una manifestazione missina a Roma con l’identico fine del giugno 1964.
Sappiamo che nell’estate del 1964 fu il generale Giovanni De Lorenzo a opporsi al piano che trova implicita ma chiara conferma nelle parole dette alla moglie al rientro a casa dopo la riunione presso l’abitazione del senatore Tommaso Morlino: «Volevano fare di me un nuovo Bava Beccaris, ma non ci riusciranno».
Nel mese di dicembre del 1969 non sappiamo se, viceversa, c’era un «nuovo» Bava Beccaris perché a vietare le manifestazioni sul territorio nazionale, compresa quella indetta a Roma il 14 dicembre dal MSI, fu il presidente del Consiglio Mariano Rumor.
Sarà anche possibile, finalmente, chiedere conto all’alleato-padrone della morte del presidente dell’ENI Enrico Mattei, del sabotaggio dell’aereo «Argo 16», della morte del generale Enrico Mino, del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, fine all’uccisione del questore Nicola Calipari.
L’affermazione della verità, pertanto, non è fine a se stessa, non è circoscritta alla conoscenza dei nomi di esecutori e mandanti, viceversa è il mezzo più idoneo per riconquistare la sovranità nazionale.
Nelle tragiche pagine della storia italiana post-bellica, difatti, non ci sono responsabilità esclusivamente nazionali ma anche – e soprattutto – internazionali.
L’adesione alla NATO è stata un’operazione liberticida e suicida da parte della classe politica dirigente perché ha vincolato il Paese a una guerra alla quale, restando neutrale, poteva evitare di prendere parte.
Non conosciamo i protocolli segreti, le intese multilaterali e bilaterali stipulate con la potenza egemone e i suoi alleati, ma sappiamo con certezza assoluta che in questo Paese hanno agito con libertà d’azione e con totale impunità tutti i servizi segreti dei Paesi occidentali e che i servizi di sicurezza italiani sono ancora mero strumento di quelli americani.
Una condizione di servaggio che nessuno osa denunciare, che nessuno chiede di modificare perché nessuno osa scrivere la storia per quella che essa è stata.
La storia in Italia non rappresenta un problema politico, non è oggetto di dibattiti parlamentari né di esami sul piano governativo che dovrebbero concludersi con provvedimenti legislativi finalizzati a rivendicare l’indipendenza del Paese.
Nell’Italia dei rinnegati al potere, abbiamo assistito perfino alla richiesta, avanzata dal governo diretto dall’ex comunista Massimo D’Alema a quello americano, di non rendere pubblici i documenti desecretati della CIA sulle elezioni politiche del 1948.
Non risulta che i governi successivi abbiano revocato la richiesta perché temono che emerga la verità sui fatti che risalgono a 70 anni fa.
Non è che un esempio, questo, di tutto quello che hanno fatto nel tempo i governi italiani contro la verità.
Non si può sperare, oggi, che si possa invertire la tendenza quando al governo siedono i rinnegati della Lega Nord complici da un trentennio di ogni infamia perpetrata contro la verità e chi se ne è fatto portatore.
I Salvini passano, l’Italia resta.
Quando l’Italia firmò a Parigi il Trattato di Pace, le campane di tutte le chiese suonarono a morto per segnalare che era un giorno di lutto nazionale.
Può ancora arrivare il giorno in cui potranno suonare a festa per dire agli italiani che hanno ritrovato libertà, indipendenza e sovranità.
Il mezzo c’è e ha un nome breve: verità.
Vincenzo Vinciguerra
Petrolio, immense riserve d’acqua, miliardi di fondi sovrani. Il bottino sotto le bombe
«L’Italia valuta positivamente le operazioni aeree avviate oggi dagli Stati Uniti su alcuni obiettivi di DAESH a Sirte. Esse avvengono su richiesta del Governo di Unità Nazionale, a sostegno delle forze fedeli al Governo, nel comune obiettivo di contribuire a ristabilire la pace e la sicurezza in Libia»: questo il comunicato diffuso della Farnesina il 1° agosto.
Alla «pace e sicurezza in Libia» ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma gli stessi che, dopo aver destabilizzato e frantumato con la guerra lo Stato libico, vanno a raccogliere i cocci con la «missione di assistenza internazionale alla Libia». L’idea che hanno traspare attraverso autorevoli voci. Paolo Scaroni, che a capo dell’ENI ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è oggi vicepresidente della Banca Rothschild, ha dichiarato al Corriere della Sera che «occorre finirla con la finzione della Libia», «Paese inventato» dal colonialismo italiano. Si deve «favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi», spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi regionali, eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo. Intanto «ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche», presenti in Tripolitania e Cirenaica.
È la vecchia politica del colonialismo ottocentesco, aggiornata in funzione neocoloniale dalla strategia USA/NATO, che ha demolito interi Stati nazionali (Jugoslavia, Libia) e frazionato altri (Iraq, Siria), per controllare i loro territori e le loro risorse. La Libia possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che ottenevano prima dallo Stato libico. Per di più, eliminando lo Stato nazionale e trattando separatamente con gruppi al potere in Tripolitania e Cirenaica, possono ottenere la privatizzazione delle riserve energetiche statali e quindi il loro diretto controllo.
Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche.
Agli odierni raid aerei USA in Libia partecipano sia cacciabombardieri che decollano da portaerei nel Mediterraneo e probabilmente da basi in Giordania, sia droni Predator armati di missili Hellfire che decollano da Sigonella. Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi «autorizza caso per caso» la partenza di droni armati USA da Sigonella, mentre il ministro degli esteri Gentiloni precisa che «l’utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al Parlamento», assicurando che ciò «non è preludio a un intervento militare» in Libia. Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi – confermano il Telegraph e Le Monde – operano da tempo segretamente in Libia per sostenere «il governo di unità nazionale del premier Sarraj».
Sbarcando prima o poi ufficialmente in Libia con la motivazione di liberarla dalla presenza dell’ISIS, gli USA e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Infine, con la «missione di assistenza alla Libia», gli USA e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti.
Parte dei fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi, venne investita per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana. USA e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – decisero di bloccare «il piano di Gheddafi di creare una moneta africana», in alternativa al dollaro e al franco CFA. Fu Hillary Clinton – documenta il New York Times – a convincere Obama a rompere gli indugi. «Il Presidente firmò un documento segreto, che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino a poco prima classificati come terroristi, mentre il Dipartimento di Stato diretto dalla Clinton li riconosceva come «legittimo governo della Libia». Contemporaneamente la NATO sotto comando USA effettuava l’attacco aeronavale con decine di migliaia di bombe e missili, smantellando lo Stato libico, attaccato allo stesso tempo dall’interno con forze speciali anche del Qatar (grande amico dell’Italia). Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia.
Manlio Dinucci
“Sono settimane che ci stressano a reti e destre e pseudo sinistre unificate sul povero ragazzo trucidato dagli infami del Cairo. Perorazioni, anatemi, invenzioni fantasmagoriche di dati e fatti, illazioni gonfiate a certezze ontologiche, latrati per chiedere giustizia e che trasudano una protervia razzista da far invidia agli Uebermenschen nazisti o sionisti. Al confronto l’accanimento sugli assassini di Calipari, punito per aver liberato la Sgrena ma, soprattutto, per aver scoperto chi davvero in Iraq rapiva giornalisti scomodi, o quello sui trogloditi che si divertivano sul Cermis a trinciare cavi di funivia e fare stragi, o quello sulle punizioni da infliggere – e sulle oscene grazie napolitanesche e mattarelliane concesse – ai rapitori CIA di Abu Omar, è stata un timido sussurro, un discreto flautus vocis. Vi torna la simmetria? E’ che, una volta, dall’altra parte c’era un Al-Sisi qualsiasi, un parvenu del Terzo Mondo che si permette di pretendere trattamenti alla pari; l’altra volta invece, il padrone. Il quale detta la musica in entrambi i casi.”
Cairo-Roma: come tagliarsi le palle e vivere felici, di Fulvio Grimaldi continua qui.
Enrico Mattei e Adriano Olivetti davano fastidio agli Stati Uniti. Andavano fermati. Il primo insidiava il monopolio delle «Sette sorelle» sul petrolio. Il secondo non solo proponeva un nuovo modello sociale – immaginando un’impresa che facesse proprie le istanze del bene comune – ma aveva portato l’azienda di Ivrea ad essere protagonista nelle ricerche sui calcolatori. L’eredità di Mattei e Olivetti è stata gettata alle ortiche e dissipata nella lunga sbornia liberista che ha attraversato il Paese.
Dal 1991 al 2001 sulla Penisola si scaraventa una valanga di privatizzazioni (banche e imprese). E non può non saltare agli occhi la «coincidenza» temporale di questa svendita con la stagione di Mani Pulite, un’operazione politico-giudiziaria, sostengono gli autori in questo saggio, «certamente incoraggiata dagli USA», e che tolse di mezzo gli imprenditori e i politici che avevano contribuito al rafforzamento dell’economia italiana. Con la liquidazione dell’ENI e dell’IRI si riportava l’Italia alle condizioni del dopoguerra: quelle di un Paese minore nel contesto internazionale.
Amoroso e Perrone si mettono sulle tracce dei liquidatori dell’interesse nazionale, senza nostalgie per il passato ma mossi da un bisogno di verità e chiarezza sulle ragioni del declino italiano.
Capitalismo predatore. Come gli USA fermarono i progetti di Mattei e Olivetti e normalizzarono l’Italia,
di Bruno Amoroso e Nico Perrone,
Castelvecchi RX, € 14,50
Gli autori:
Bruno Amoroso
È docente di Economia Internazionale e dello sviluppo presso l’università Roskilde in Danimarca, coordina programmi di ricerca e cooperazione con i Paesi dell’Asia e del Mediterraneo e presiede il Centro Studi intitolato a Federico Caffè, di cui è stato allievo e stretto collaboratore.
Tra i suoi libri: Della Globalizzazione (1996), Derive e destino dell’Europa (1999), Europa e Mediterraneo, le sfide del futuro (2000) La stanza rossa, riflessioni scandinave di Federico Caffè (2004), Per il bene comune, dallo stato del benessere alla società del benessere (2009).
Nico Perrone
Ha insegnato Storia dell’America all’Università di Bari. È stato il primo studioso a occuparsi di Enrico Mattei. Il suo primo libro sul manager dell’ENI è Mattei il nemico italiano (Leonardo, 1989).
È autore di vari libri di argomento americano e sulle questioni petrolifere. Tra gli altri: De Gasperi e l’America (Sellerio, 1995), Obama: il peso delle promesse (Settecolori, 2010), Enrico Mattei (il Mulino, 2001, seconda edizione 2012) e Progetto di un impero. 1823: L’annuncio dell’egemonia americana infiamma la Borsa (La Città del Sole, 2013).
“Due documenti d’archivio dell’ENI e un aneddoto-testimonianza ci permettono di avviare il discorso sull’economia ai tempi di Mattei e ai tempi di Madoff, i nostri tempi.
Il primo documento riguarda una riunione del Comitato interministeriale del 1955, cui prende parte anche Enrico Mattei in qualità di presidente dell’ENI; vi partecipano il Ministro dell’Industria e del Commercio (Villabruna), il Ministro del Tesoro (Gava) e quello delle Finanze (Tremelloni). Mattei, dopo avere illustrato un progetto dell’Ente di Stato per un impianto a Ravenna, chiede 800 milioni di lire. Accadesse oggi, la richiesta verrebbe subito bloccata: il debito, ovvero la “spending review”; quella del 1955 venne invece immediatamente accolta.
Il secondo documento riguarda una conferenza di Mattei alla Società dei Produttori di Petrolio e Gas di Zagabria (Jugoslavia, 8 dicembre 1957), in cui egli illustrava il funzionamento e le finalità dell’impianto AGIP di gas naturale di Ravenna: promuovere quella metanizzazione della struttura produttiva italiana e della stessa economia domestica (le prime bombole a gas), che fu uno dei grandi meriti storici di Mattei, la base energetica del boom italiano e della liberazione di milioni di famiglie italiane dei piccoli centri di campagna o di montagna dalla schiavitù del carbone e della raccolta della legna.
Dopo avere ricordato con estrema semplicità ai suoi interlocutori della Jugoslavia socialista di Tito, che «nel 1926 lo Stato», cioè lo Stato fascista, aveva «costituito l’AGIP» e dopo avere sottolineato – senza nemmeno citare la cesura-svolta repubblicana del dopoguerra – che «l’opinione pubblica, il Parlamento e il Governo manifestarono peraltro la precisa volontà di mantenere sotto il pubblico controllo lo sfruttamento di una ricchezza che era stata scoperta per merito di un’azienda dello Stato» (pp. 1-2), Mattei spiegava in questi termini l’adozione di una tariffa unica per il prodotto finito, indipendentemente dalla zona di destinazione: «Una differenziazione delle tariffe di vendita basata sui costi di trasporto avrebbe creato notevoli sperequazioni tra i centri più vicini e quelli più lontani. Si sarebbe così favorito – attenzione al passo che segue – l’ulteriore sviluppo di zone già fortemente industrializzate (ad esempio la provincia di Milano, che è la più vicina ai giacimenti) a scapito di altre più lontane ed economicamente progredite».
Una visione nazionale, dunque, dello sviluppo economico; un’apertura mentale capace di interloquire con il nemico jugoslavo al fine di una possibile cooperazione comune, e nessuna retorica dell’antifascismo, vista la continuità tacitamente ammessa da Mattei tra il periodo mussoliniano e quello repubblicano.
Oggi tutto questo sembra impossibile. La retorica dell’antifascismo ha raggiunto il suo apice e, con esso, la sostanziale assenza di una vera lotta ai veri poteri forti della nostra epoca, che ovviamente non sono né il fascismo, né gli sparuti gruppi fascisti che pretendono, spesso in modo caricaturale, di continuarne la memoria. A livello internazionale, dilagano gli embarghi contro i Paesi che non accettano il “nuovo ordine internazionale” postbipolare, erede di quello di Yalta, a cui avevano avuto il coraggio di opporsi Mattei e la Jugoslavia di Tito. Fioriscono poi, oggi, strampalate proposte di introiti maggiorati per quei Comuni, Province e Regioni del tutto casualmente beneficiati dalla presenza di risorse energetiche, sui loro territori, come nel caso di Filettino e del suo “principe”; oppure si sedimentano opzioni secessioniste, come presunta necessaria conseguenza delle legittime critiche alle distorsioni centralistiche dello Stato unitario o dei legittimi revisionismi storiografici sulle pagine di sangue del Risorgimento italiano.
Infine l’aneddoto. È uno dei fidi di Mattei a raccontarlo, Renzo Cola: durante una visita in Egitto il presidente dell’ENI avanza l’idea di un finanziamento italiano della diga di Assuan, per la cui costruzione Nasser si era rivolto anche agli Stati Uniti e avrebbe poi accettato il sostegno dell’URSS. Fatti i calcoli l’idea viene scartata, ma la sua mera presa in considerazione è emblematica della visione di Mattei dell’economia come sviluppo, e dello sviluppo anche come grandi progetti, grandi imprese. Un mondo scomparso: lo dimostrano il dibattito per certi versi surreale, in Italia, tra crescita e saldatura del debito – un debito quasi tutto frutto di interessi sugli interessi – e il dilagare, negli ultimi vent’anni, di un’ideologia deproduttivistica o microproduttivistica. Pozzi d’acqua sì, dighe no: un’ideologia peraltro convergente con il programma di International Transparency, una sorta di “tangentopoli” a livello internazionale, di origini ovviamente occidentali, che colpisce appunto soprattutto le grandi opere nel mondo sottosviluppato con la motivazione-alibi della lotta alla corruzione. Una sorta di via giudiziaria al pauperismo.
Ma quanto fin qui detto e i tre esempi fatti evidenziano soprattutto una cosa: non solo la visione matteiana dell’economia come progresso economico, ma anche la struttura stessa dell’economia postbellica e del boom degli anni Cinquanta e Sessanta, come fondata soprattutto sulla sfera della produzione e non su quella finanziaria. All’epoca, il rapporto tra capitale industriale e capitale finanziario-bancario non era quello terribile di oggi: 10 a 1 alla svolta del secolo, 20 a 1 nel 2011. Il dollaro, asceso a valuta internazionale con gli accordi di Bretton Woods del 1944, non era ancora stato sganciato dall’oro (Nixon, 1971). La valuta nazionale – emessa dalla Banca Centrale dello Stato – era il riflesso della ricchezza sociale reale del Paese. Il problema del denaro virtuale, o addirittura elettronico, non esisteva. Le banche italiane erano anche di Stato e aiutavano i piccoli imprenditori e in generale le imprese fondate sulla produzione di beni materiali. Come racconta Valerio Castronovo la famosa Banca Nazionale del Lavoro – oggi scomparsa e fagocitata dalla BN Paris, dopo quasi un secolo di storia – era di supporto attivo alla sfera produttiva, una sorta di struttura di servizio garantita dallo Stato. Lo Stato controllava l’emissione monetaria attraverso una Banca d’Italia che sarebbe stata privatizzata solo nel 1992, e attraverso un Ministero del Tesoro che controllava per legge il tasso di interesse. Così sarebbe rimasto nei fatti fino alla lettera di Andreatta – non a caso ministro nel governo Spadolini (1980-81) – all’allora governatore della Banca d’Italia Ciampi e, in diritto, fino alle privatizzazioni dell’industria di Stato da parte del governo Amato del 1992.
Ovviamente la finanza, la sfera finanziaria e i suoi uomini con il loro potere esistevano, ma non erano così forti, così capaci, ad esempio, di dominare il ceto politico tutto. Ricordiamo la battuta simbolo di Fassino, la sua esultanza di qualche anno fa: «Abbiamo una banca». La politica era basata sui partiti di massa e non era dipendente, come oggi, dalle promozioni interessate e dalle velenose campagne denigratorie fatte dai mass media. Inoltre, Mattei aveva le idee ben chiare sulla grande “finanza laica” e ne capiva bene l’antagonismo, rispetto alla sua strategia economica e alla sua visione cristiana, nazionale e internazionale dell’Italia e del mondo. Come ha raccontato Giancarlo Galli,
Qualunque sia stata la causa della sua morte, fra i “nemici” si collocava, in primissima fila, lo gnomo di via Filodrammatici […] Fu a cena da Enrico Mattei che sentii per la prima volta nominare Enrico Cuccia […] disse Mattei: «È molto bravo, sa dove vuole andare e bisognerà fare i conti con lui. Se passa ci distrugge […] Qui stanno le divisioni di Cuccia: i francesi, gli americani, i tedeschi, gli ebrei»… Baldacci fece presente che era «uomo di Mattioli, un amico», al che Mattei scosse la testa, con un «ne riparleremo» pieno di irritazione.
Baldacci, in effetti, o non aveva capito nulla, o faceva finta di non capire.
Oggi quel potere, come già accennato, è enormemente aumentato. I pilastri di un’economia e di una politica monetaria ancorate o sensibili alla produzione sono venuti meno: le Banche Centrali che emettono o cogesticono la moneta – ancora tutte di Stato, nei Paesi del Medio Oriente, Iran compreso – sono private, come la Banca Centrale Europea e come la Banca d’Italia. La BCE, in particolare, in base al Trattato di Lisbona sfugge a qualsiasi controllo da parte degli Stati membri dell’UE e dell’eurosistema. Tutto questo si traduce non solo in Potere in quanto autonomia decisionale, ma anche in Potere in quanto formidabile accumulazione di denaro, grazie al reddito da signoraggio.”
Da Rompere la Gabbia. Sovranità monetaria e rinegoziazione del debito contro la crisi, di Claudio Moffa, Arianna Editrice, 2013, pp. 121-124.
“La morte di Mattei apparve immediatamente, agli occhi dei più accorti, per ciò che era. Tuttavia, i depistaggi da parte di apparati dello Stato che qualche anno dopo sarebbero diventati così comuni e funzionali a quella strategia della tensione contrassegnata da attentati sanguinari, fecero una prima ed efficace comparsa a seguito dell’assassinio del presidente dell’ENI. Interviste televisive tagliate o alterate; ritrattazioni di testimoni oculari con contestuali regali e favori a questi ultimi da parte di un ENI ormai avviato verso un nuovo corso; madornali ed inspiegabili errori nel trattamento dei reperti dell’aereo dell’Ingegnere; campagne stampa denigratorie e volte a sottovalutare l’operato dell’Ingegnere; un assordante silenzio che scende sulla vicenda e che decreta come causa dell’evento la tragica fatalità, dovuta al brutto tempo ed alle precarie condizioni psico-fisiche del pilota; ma soprattutto, la brutta fine che accomunerà chiunque si avvicini alla morte di Mattei cercando di capirne la verità.
Saranno solo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, nel 1994, a dare certezza ai dubbi mai del tutto dissipatisi e a permettere di riaprire le indagini accertando così l’esplosione di una bomba all’interno del Morane-Saulnier di Mattei. Stando alle parole del celebre ex boss dei due mondi, la morte del presidente dell’ENI sarebbe stata frutto del fortunato e pluriennale sodalizio esistente fra le famiglie mafiose italo-americane e il governo di Washington. In pratica, la mafia siciliana avrebbe fornito la manodopera per sabotare l’aereo di Mattei su ordine dei padrini d’oltreoceano, a loro volta incaricati dai servizi segreti americani di eliminare l’uomo che stava minando enormi interessi di carattere economico e geopolitico.
Dopo queste dichiarazioni, non fu difficile unire i puntini della vicenda e dare una risposta a tutte quelle morti, ritenute sino ad allora solo parzialmente spiegabili: la prima e forse più celebre perché strettamente collegata è quella del giornalista Mauro de Mauro, incaricato dal regista Francesco Rosi (autore del meritevole film “Il caso Mattei”) di ricercare quante più informazioni possibili sulla morte del presidente dell’ENI e che pochi giorni prima della sua scomparsa – per mano della lupara bianca – aveva dichiarato ai colleghi di essere venuto a conoscenza di uno scoop che avrebbe “scosso l’Italia”. Poi quella di Boris Giuliano, il superpoliziotto ucciso dal boss Leoluca Bagarella e che aveva iniziato ad indagare sui motivi della sparizione dello stesso De Mauro; il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa che aveva dato il via allo stesso tipo di indagini per conto della Benemerita. Infine, i dubbi sulla morte del regista e scrittore Pierpaolo Pasolini, che con il suo romanzo Petrolio si era addentrato negli oscuri meccanismi che regolavano il mercato di approvvigionamento e produzione del greggio, scoprendo forse anch’egli cose di cui non sarebbe dovuto venire a conoscenza.
Se tutti questi personaggi siano morti perché realmente legati in qualche modo ad Enrico Mattei, non ci è dato saperlo con certezza. Ciò che rimane sicuro, dopo una perizia ordinata dalla procura di Pavia in seguito alle dichiarazioni di Buscetta, è la mano assassina dietro alla morte dell’Ingegnere e non la “tragica fatalità” come troppo spesso, purtroppo, si è provato a dire in un Paese che ancora fatica ad ammettere come alcuni dei suoi più cruenti fatti di cronaca abbiano avuto come mandanti quegli stessi personaggi che per spregiudicati interessi economici hanno dettato da oltre confine e per decenni la nostra politica estera, impedendo all’Italia di essere artefice del proprio destino e di condurre una politica estera congeniale alla sua posizione strategica. Un paese che a più di vent’anni di distanza dal crollo del Muro di Berlino ancora ospita (e ingrandisce) gratuitamente basi straniere e s’avventura in guerre camuffate da operazioni di pace mandando a morire i suoi soldati per interessi terzi, un Paese che viene obbligato a comprare armamenti di dubbia qualità e che ancora deve sopportare di subire colpi durissimi al suo prestigio e ad alla sua forza contrattuale (basti ricordare la ricaduta sulla nostra bilancia commerciale delle sanzioni imposte all’Iran da un’Unione Europea sempre troppo servile con gli Stati Uniti e la scellerata guerra in Libia che ha strappato all’ENI numerose concessioni a vantaggio di Francia e Stati Uniti). Il male contro cui lottava Mattei, per quanto ridimensionato, vive e lotta ancora in mezzo a noi.”
Da All’origine dei mali d’Italia: l’assassinio di Enrico Mattei, di Federico Capnist.
[collegamenti nostri – ndr]
A seguire uno stralcio significativo dell’Introduzione a “Informatica: un’occasione perduta”, opera dell’allora redattore economico de “l’Espresso” Lorenzo Soria, pubblicata da Einaudi.
Provate a leggerlo e giudicate voi se vi sembra scritto nel 1979…
“Nell’ottobre del ’62 a Bascapé, un paesino distante pochi chilometri da Milano, l’aereo su cui viaggia Enrico Mattei, l’uomo che si era permesso di mettere in discussione il monopolio delle sette sorelle del petrolio, si schianta misteriosamente al suolo. Un anno dopo a saltare è Felice Ippolito, anche lui reo di aver ricercato una politica energetica alternativa per l’Italia. Passano ancora alcuni mesi, siamo nell’estate del ’64, e l’Olivetti cede, anzi regala, alla General Electric la sua Divisione elettronica.
Tre episodi slegati, senza alcuna relazione diretta tra loro. Un filo sottile ma neanche tanto che li unisce, che li accomuna, però c’è. E’ la risposta brutale e secca che hanno avuto quegli uomini e quelle forze che avevano tentato in quegli anni di dare un assetto diverso alle fragili strutture su cui poggiava l’economia italiana. E di farla finita con la formula su cui il paese aveva costruito il cosiddetto «boom»: costo del lavoro bassissimo più produzione di beni a tecnologia matura. Una formula che aveva fatto credere agli italiani che tassi di crescita annui nell’ordine del 5-7% fossero non solo normali, ma anche destinati a durare all’infinito; che aveva aperto, con la nascita del centrosinistra, un periodo di relativa stabilità politica; che aveva infine creato un clima di fideismo ottimistico sui destini del paese. Che dentro di sé, però, racchiudeva già tutti i germi di quella malattia che, alla metà degli anni ’70, ha portato l’economia italiana all’incapacità di inventare vie nuove per andare avanti, alla paralisi.
Perché a partire dal ’69 i lavoratori dicono «basta». Continua a leggere
“Più volte su questo giornale abbiamo sottolineato le negatività conseguenti alla sudditanza politico-militare dell’Italia e dell’Europa agli Stati Uniti d’America, e le sue ricadute negative anche per lo sviluppo industriale e tecnico-scientifico della nazione. Crede che questa ragione geopolitica possa essere utile per spiegare il ritardo accumulato dall’Italia in molti settori innovativi e ad alta tecnologia e lo scarso interesse della sua classe politica in merito a questi temi?
O ce ne sono secondo lei altre più rilevanti?
Premetto che noi dovremmo rivolgere le nostre critiche non tanto agli Stati Uniti d’America quando al “governo americano”, il quale più che rappresentare il “popolo americano” rappresenta la classe dominante di quel paese. Il socialismo ci insegna a ragionare anche in termini di classi sociali e non solo di popoli. Un paese in cui eleggere il presidente costa ormai sei miliardi di dollari, dove i ricchissimi (l’1% della popolazione) possiedono un terzo del patrimonio complessivo e i ricchi (il 10%) possiedono il 70% della ricchezza nazionale, dove sessanta milioni di cittadini sono esclusi dal servizio sanitario e due milioni di cittadini sono in carcere è una democrazia fino a un certo punto. Conosco moltissimi cittadini americani apertamente critici verso il sistema e, se vogliamo cambiare qualcosa in Europa e nel mondo, dobbiamo evitare un consolidamento tra classe dominante e dominata. Criticando gli “americani” in senso lato, facciamo soltanto il gioco dell’elite finanziaria che guida quel paese, che scientemente sventola da sempre lo spauracchio del nemico esterno per ottenere la fedeltà della classe media e del proletariato. Se gli USA sono stati coinvolti in almeno duecento tra guerre e campagne militari, dalla fondazione ad oggi, non è certo un caso. Gli USA sono in uno stato di guerra permanente contro il mondo esterno per evitare di sfaldarsi. Si costruisce artatamente un patriottismo della paura, per evitare l’esplodere del conflitto interno tra le classi sociali, le tante etnie, i tanti gruppi religiosi. Per venire alla sua domanda, non mi stupisce il fatto che un paese che ha perso una guerra si trovi temporaneamente in uno stato di subalternità nei confronti della potenza vincitrice. È nella natura delle cose. Tuttavia, ci sono due aspetti dei rapporti Italia-USA che mi lasciano alquanto perplesso. Il primo è che lo stato di subalternità più che temporaneo sembra permanente. Dura da settanta anni. Alla fine della guerra fredda si pensava che sarebbe cessato. In fondo i russi si sono ritirati dai cosiddetti “paesi satelliti”. Invece, gli americani non solo non si sono ritirati dall’Europa occidentale, ma hanno aperto nuove basi in quella orientale. Il secondo aspetto che mi rende perplesso è che i tentativi di svincolarsi dalla tutela dei vincitori, che sono anch’essi nella natura delle cose, si sono registrati più in passato che oggi. Oggi la classe politica italiana sembra più rassegnata di quella della Prima repubblica, dove potevamo avere un Giulio Andreotti che faceva una politica apertamente filo-araba, un Aldo Moro che portava i comunisti al governo o un Bettino Craxi che schierava l’esercito a Sigonella. Oggi, gli italiani, gli europei, vengono spiati, svillaneggiati, trattati con sufficienza, e invece di reagire come dovrebbero – mostrando di avere un minimo di orgoglio – si umiliano ulteriormente, arrivando a violare leggi internazionali e protocolli diplomatici per eseguire gli ordini di Washington. Mi riferisco al caso del presidente boliviano Evo Morales, dirottato a Vienna, dopo che Italia, Spagna, Francia e Portogallo hanno negato l’autorizzazione al sorvolo, sulla base del sospetto che trasportasse il dissidente Edward Snowden. Si tratta di un caso enorme, prontamente relegato in penultima pagina dai giornali di sistema. I latino-americani evidentemente hanno la schiena più dritta di noi, dato che hanno convocato i nostri ambasciatori e hanno offerto asilo a Snowden. Il comportamento di Enrico Letta ed Emma Bonino non mi stupisce, a dire il vero, perché conosciamo la biografia di questi signori. Ma noi cittadini non possiamo non provare un senso di vergogna, quando vediamo i nostri rappresentanti politici genuflettersi di fronte ad uno Stato straniero che fa palesemente i propri interessi, a scapito dei nostri. È evidente infatti che gli USA agiscono a beneficio dell’economia nazionale, mentre la nostra classe dirigente è incapace di difendere imprenditori e lavoratori. La ragione ultima di questo riprovevole comportamento non la conosciamo. Possiamo pensare che i nostri politici siano ricattati, dato che lo spionaggio ha proprio questo fine. Oppure sono semplicemente pavidi, impreparati, geneticamente gregari, o pagati. Ma quale che sia la ragione, se agli italiani è rimasto un minimo di dignità, che siano di destra o di sinistra, al prossimo appuntamento elettorale, non dovrebbero dare un solo voto ai rappresentanti di questo governo e alle forze politiche che lo sostengono. L’Italia e l’Europa hanno bisogno di essere guidate da statisti, non da servi.
Potrebbe entrare più nello specifico, facendo magari qualche esempio, per spiegare in che senso la subalternità geopolitica può risolversi in un danno per l’industria nazionale, lo sviluppo tecnologico, l’occupazione?
Possiamo per esempio richiamare alla memoria quanto è accaduto negli anni sessanta, se non altro perché paghiamo ancora le conseguenze di quei fatti. Negli anni sessanta c’è il miracolo economico. Non solo cresce l’industria, ma la scienza italiana si dota di strutture all’avanguardia che promettono di mantenerla alla pari con gli altri paesi occidentali. Un esempio è il Nobel attribuito a Giulio Natta che – si badi – ottiene il premio lavorando in Italia e presentando i risultati all’Accademia dei Lincei, mentre gli altri (pochi) premi nobel italiani del dopoguerra sono stati ottenuti lavorando all’estero. Nel triennio 1962-1964 accade però qualcosa che blocca tutti i programmi di ricerca più avanzati e immette l’Italia “sulla via del sottosviluppo”, per usare un’efficace espressione di Toraldo di Francia. Le nostre università diventano solo “di insegnamento” e non più “di ricerca”. Le stesse grandi aziende pubbliche si disimpegnano. Qui, per capire quello che è successo, dobbiamo affiancare alla storia della cultura anche l’analisi geopolitica. L’orientamento luddista dell’intellighenzia comunista è solo una con-causa di quanto accade. Diciamo che il PCI, forse perché influenzato da alcuni suoi intellettuali che fanno ormai un’equazione tra capitalismo e tecnologia, non fa la necessaria opposizione. Tuttavia, non dobbiamo scordare che al potere in Italia, in quegli anni, c’è la DC, con la sponda del PSDI di Saragat. La DC decide a riguardo delle politiche di ricerca e dei finanziamenti alle università e alle aziende pubbliche d’avanguardia. E decide in una situazione di sovranità limitata: l’Italia è soltanto un elemento del quadro geopolitico deciso a Yalta. Ebbene, la ricerca tecno-scientifica italiana riceve in quegli anni quello che Enrico Bellone, ne La scienza negata, definisce “il colpo di maglio”. Nel 1962 muore Enrico Mattei e con lui il progetto di approvvigionamento energetico autonomo dell’Italia. Su questo caso non spenderò troppe parole, perché è piuttosto noto. Non ci sono prove certe che si sia trattato di un omicidio su commissione, ma ben pochi credono all’incidente. Meno noti sono altri fatti. Il 10 agosto del 1963 Saragat lancia un’offensiva mediatica contro il CNEN – l’ente pubblico che gestisce il programma nucleare – che sfocierà nell’arresto del direttore Felice Ippolito, il quale rimarrà in carcere quattro anni, fino a quando non sarà graziato dalla stessa persona che lo aveva rovinato. A concedere la grazia sarà infatti lo stesso Saragat, nel frattempo premiato con la Presidenza della Repubblica. Sempre nel 1964 viene arrestato il chimico Domenico Marotta, direttore dell’Istituto Superiore della Sanità, che aveva approntato un programma avanzatissimo per l’Italia nel campo della medicina e della farmacologia. E qui alla campagna denigratoria collabora l’Unità. Questa è stata la Caporetto della scienza italiana, dalla quale non ci siamo più ripresi. Qui concorrono gli interessi di grandi gruppi industriali e petroliferi stranieri e la pochezza della nostra classe politica che per interesse, insipienza, irresponabilità, subalternità, o amor di quieto vivere si è prestata a questi giochi. Le accuse si riveleranno infatti ridicole: Marotta verrà assolto e Ippolito – dopo molti anni di carcere – vedrà le accuse ridimensionarsi ad irregolarità amministrative. Ma i programmi di ricerca e i relativi finanziamenti non verranno più riattivati. Per un po’ abbiamo retto alla concorrenza straniera grazie alla svalutazione competitiva. Poi, quando siamo entrati nella zona Euro, è finita la festa. Se l’Italia è ferma da vent’anni in termini di PIL è anche per queste ragioni, delle quali nel talk show non si parla mai. Possiamo dare la colpa agli americani di tutto questo? Sì e no. Sappiamo bene chi ha finanziato la “scissione di Palazzo Barberini”, nel 1947. La fuoriuscita del PSDI di Saragat dal PSI, allora filosovietico, è stata il viatico per l’ingresso dell’Italia nella NATO. Tutto il resto è conseguenza. Ma gli USA fanno semplicemente il proprio mestiere di superpotenza, fanno i propri interessi nazionali o quelli delle proprie oligarchie. È normale che cerchino di stabilire un’egemonia. La colpa del nostro declino va piuttosto ricercata nella mollezza delle nostre classi dirigenti, che hanno rinunciato a difendere la scienza e l’industria nazionale. Non dubito che la situazione fosse difficile. I giocatori in campo non erano partecipanti a un ballo di gala: servizi segreti, mafie, logge coperte, gruppi terroristici di destra e di sinistra, organizzazioni paramilitari e paralegali. Ci sono stati molti morti in Italia. Mi chiedo però se ora dobbiamo andare avanti così e arrivare al default, vittime di una classe politica prigioniera di ricatti incrociati, o se possiamo finalmente scrollarci di dosso tutto questo marciume e ripartire, ricostruendo la società sulle fondamenta solide della scienza, della tecnica, dell’industria.”
Da Il socialismo nel XXI secolo. Intervista a Riccardo Campa, a cura di Michele Franceschelli.
[I collegamenti inseriti sono nostri]
“Ritardi con ENI”? Specula su ENI, semmai!, di Filippo Bovo
La puntata di Report andata in onda su Rai Tre domenica scorsa, il 16 dicembre, avente il titolo “Ritardi con ENI”, ha tutta l’aria d’essere l’ennesimo programma dai contenuti speculatori e denigratori nei confronti di quella che è una delle più importanti multinazionali italiane, azienda strategica per il nostro paese e che certamente fa gola alla concorrenza, esattamente come sempre alla concorrenza fanno imbestialire i suoi noti successi in campo internazionale.
Guardando una puntata come quella di domenica scorsa, dovremmo prima di tutto domandarci a chi possano giovare i risultati che essa finisce per avere sull’opinione pubblica italiana. Cui prodest? Come recita il blog “Petrolio”: “Non mi fido più del programma Report. Ho la sensazione che stia usando la sua credibilità acquisita in anni di approfondimento di scandali, per far passare la linea del governo Monti/troika presso il pubblico televisivo più accorto e più informato. Pubblico che berrà come vangelo ciò che viene affermato a Report e lascerà così orientare le proprie opinioni” e ancora: “Ora, sia ben chiaro: so perfettamente che l’ENI, come tutte le compagnie petrolifere, ha più scheletri di un cimitero; ne ho parlato varie volte, beccandomi anche richieste di smentita dai dirigenti. Anni fa questo blog era persino censurato negli uffici ENI. Ma usare i vergognosi rapporti USA usciti via Wikileaks (di cui ho parlato qui), per attaccare l’ENI in un momento in cui mille avvoltoi puntano ad acquisire la nostra compagnia nazionale, è quantomeno sospetto”.
Ed infatti, partendo proprio da un cable dell’allora ambasciatore USA in Italia Ronald Spogli, ecco subito venir messi sotto la lente i rapporti tra Italia e Russia al tempo del governo Berlusconi, rapporti che avevano ed hanno proprio nell’ENI il loro fulcro principale. Si parla di Antonio Fallico, di Marcello Dell’Utri (in questo caso con una frecciatina diretta anche al Venezuela chavista e alla compagnia petrolifera venezuelana PDVSA: dopotutto anche loro sono sgraditi, sgraditissimi ai nostri padroni d’Oltre Oceano e all’intellighenzia liberal nostrana) e dei contratti “take or pay”, giudicati troppo onerosi per il nostro paese e scandalosamente vantaggiosi per russi e kazaki. Andando avanti, Report non può non citare la vicenda di Kodorkowsky e della sua Yukos, che Gazprom ed ENI si spartiscono mentre l’oligarca evasore fiscale, presentato come “oppositore di Putin”, finisce giustamente in galera.
Non manca neppure l’intervista al solito analista della solita banca d’affari, che mette in guardia i paesi europei dal fare affari con la Russia e dipendere da essa per i propri bisogni energetici: un pericolo, una minaccia. Meglio, è sottointeso, andare a scortare inglesi e americani nelle loro guerre di rapina coloniale in Iraq, in Libia, e prossimamente, chissà, anche in Iran e chi più ne più ne metta.
Insomma, la solfa è sempre la solita: l’ENI ha la colpa d’avere una vera politica estera, quella politica estera che nella loro storia i governi italiani non sempre sono riusciti ad avere. E’ una politica estera indipendente dagli interessi di Washington e di Bruxelles e per questo da punire, impedire e scoraggiare. Non sono ammissibili rapporti con paesi come la Russia, il Kazakistan, la Libia pre 2011 e così via. Non è nemmeno ammissibile che lo Stato continui a possedere il 30% delle azioni dell’ENI: meglio sarebbe svenderle alla concorrenza, per esempio alla Total o a qualcun altro del genere.
Insomma, l’Italia dev’essere una colonia: per chi la pensa diversamente ci sono le forche caudine di Report.
[Sugli attacchi atlantisti all’ENI e al suo fondatore Enrico Mattei, si veda qui]
“La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè, violando un segreto fino ad allora rimasto impenetrabile e così mettendo a repentaglio l’impunità degli influenti personaggi che avevano ordito il complotto ai danni di Enrico Mattei, oltre a innescare una serie di effetti a catena di devastante impatto sugli equilibri politici e sull’immagine stessa delle istituzioni”.
In 2.199 pagine, depositate ieri pomeriggio, i giudici della prima sezione della Corte d’assise di Palermo ricostruiscono così l’omicidio del giornalista Mauro De Mauro, sequestrato da Cosa Nostra il 16 Settembre 1970 e mai più tornato a casa.
Pur assolvendo l’unico imputato, Totò Riina, il collegio presieduto da Giancarlo Trizzino, a latere Angelo Pellino (estensore della motivazione) ricostruisce il torbido contesto in cui il cronista del quotidiano “L’Ora” pagò il suo scoop sulla morte del presidente dell’ENI, Mattei, simulata da incidente aereo nei pressi di Pavia il 27 Ottobre 1962.
“La natura e il livello degli interessi in gioco – scrive il giudice Pellino – rilancia l’ipotesi che gli occulti mandanti del delitto debbano ricercarsi in quegli ambienti politico-affaristico-mafiosi su cui già puntava il dito il professor Tullio De Mauro (fratello del giornalista, ndr) nel 1970. E fa presumere che di mandanti si tratti e non di una sola mente criminale. Non per questo deve escludersi qualsiasi responsabilità di elementi appartenenti a Cosa Nostra, stante il livello di compenetrazione all’epoca esistente e i rapporti di mutuo scambio di favori e protezione tra l’organizzazione mafiosa e uomini delle istituzioni ai più disparati livelli”.
(Fonte)
Palermo, 8 Agosto – Misteri nel mistero: due nastri e pagine di appunti scomparsi che avrebbero potuto essere la chiave di lettura dell’omicidio del cronista de L’Ora Mauro De Mauro, scomparso a Palermo il 16 Settembre del 1970. Un capitolo della lunghissima sentenza che ha assolto il boss Totò Riina dal delitto, depositata ieri dalla Corte d’assise, è dedicato ai tasselli mancanti, documenti e registrazioni che i giudici ritengono fondamentali per la risoluzione di uno dei maggiori gialli italiani. Prove che portano tutte al movente che la Corte individua come l’unico possibile, tra i tanti ipotizzati per la morte del giornalista: quello delle scoperte che De Mauro avrebbe fatto, lavorando per il regista Francesco Rosi, sul caso Mattei.
A sparire nel nulla furono, infatti, la registrazione dell’ultimo discorso che l’ex presidente dell’ENI fece prima di morire, a Gagliano, in provincia di Enna, la registrazione dell’intervista che De Mauro fece a Graziano Verzotto, ex dirigente ENI secondo i giudici al centro del complotto internazionale ordito per eliminare Mattei, e sette pagine di appunti scritti dal cronista de L’Ora preparò per Rosi.
Il discorso fatto da Mattei era l’ossessione di De Mauro che, dopo averlo trovato e trascritto, lo ascoltava continuamente. Dell’originale non c’è traccia né al Comune di Gagliano né all’ENI.
“Cosa potesse esserci nella registrazione in possesso di De Mauro di tale interesse da indurlo ad ascoltarla ossessivamente non lo sapremo mai; – scrivono i giudici – e non è tanto peregrino il dubbio che l’interesse non fosse tanto per le frasi pronunziate da questo o quell’oratore, ma per le voci in sottofondo, che, nelle registrazioni realizzate più o meno clandestinamente sono andate perdute. Ha confermato Puleo, che fu a suo tempo autore della registrazione in diretta dei discorsi pronunziati dal balcone del municipio di Gagliano, che dall’originale in suo possesso – che a sua volta sarebbe andato perduto – si udivano distintamente anche le voci di coloro che parlavano nei pressi del microfono piazzato davanti all’oratore di turno”.
La Corte parla di una “micidiale bonifica” fatta dagli assassini. “Se fosse vero che De Mauro – scrivono – è stato eliminato per impedirgli di divulgare ciò che aveva scoperto sulla morte di Mattei, allora gli assassini per prima cosa avrebbero dovuto preoccuparsi di fare sparire o di mettere le mani sul materiale che il giornalista aveva raccolto e sugli eventuali elaborati in cui avesse trasfuso il contenuto delle proprie scoperte”. E per i giudici l’unico modo sicuro per mettere le mani sul materiale raccolto da De Mauro, senza correre il rischio che in tutto o in parte restasse in circolazione anche dopo la scomparsa del giornalista, dunque, era di farselo consegnare dall’interessato.
“Ma a chi la vittima avrebbe ingenuamente potuto consegnare il frutto della sua inchiesta, proprio nel momento più delicato, in cui si accingeva a spedire la bozza di copione a Rosi, che doveva contenere già un’anticipazione della sua ricostruzione in chiave di sabotaggio dell’incidente aereo accaduto a Mattei?”, si chiede la Corte. Solo a un uomo di cui si fidava e che riteneva l’avesse aiutato nel suo lavoro di ricerca: Graziano Verzotto.
(ANSA)
L’ambasciatrice statunitense Clare Boothe Luce in Italia (1953-1956)
Con la fine della Seconda guerra mondiale, la rete dei servizi d’informazione USA sviluppata dall’Office of War Information (OWI) e dallo Psychological Warfare Branch (PWB) inizia a chiamarsi United States Information Service (USIS), in Italia come nel resto del mondo.
All’USIS, e all’emittente radiofonica La Voce dell’America, attiva in Italia già dal Febbraio 1942, viene affidato il compito di agire “nel campo dell’educazione e della formazione mentale degli italiani, per avviarli a una visione democratica della vita”, secondo le parole dell’ammiraglio Ellery Stone, capo della Commissione alleata di controllo in Italia.
Inizialmente le sedi dell’USIS sono cinque, presso l’ambasciata e i consolati americani a Roma, Milano, Firenze, Napoli e Palermo, mentre sale di lettura vengono progressivamente allestite anche a Genova, Torino, Bari e Bologna, come primo passo per la costituzione dell’USIS nei consolati di queste città.
Il Notiziario quotidiano per la stampa, prodotto a Roma sulla base di un bollettino che viene radiotelegrafato da New York e poi tradotto e distribuito gratuitamente ai giornali italiani, è l’organo principale di trasmissione delle notizie adottato dall’USIS. In Italia ne giunge un’edizione appositamente studiata per l’Europa occidentale, che riporta notizie riguardanti soprattutto la politica estera statunitense e vari approfondimenti, nonché i testi completi dei discorsi ufficiali di autorevoli personalità.
Dal 1949, l’USIS inizia a collaborare con la propaganda del Piano Marshall, gestita direttamente dall’ente che si occupa dell’erogazione degli aiuti, l’Economic Cooperation Administration (ECA). In quello stesso periodo, diventa sempre più importante anche la propaganda legata alla firma del Patto Atlantico, siglato formalmente il 4 Aprile 1949. Da quel momento in poi, i temi riguardanti la “sicurezza” e la “pace” occupano un posto di assoluto riguardo nella politica informativa dell’USIS, con una tendenza che si consolida a partire dalla nascita della NATO nel 1950.
Tutto il programma informativo dipende direttamente dall’ambasciatore e dal direttore dell’USIS, ruolo che dalla fine del 1950 è ricoperto da Lloyd A. Free, già docente all’università di Princeton e vicedirettore dell’Office of International information, con competenza su stampa, cinema e trasmissioni radiotelevisive, presso il Dipartimento di Stato.
A partire dal 1951, grazie all’aumento dei finanziamenti a disposizione, l’USIS Italia conosce una grande crescita, con 61 impiegati statunitensi e 237 italiani, per quasi la metà in servizio presso l’ambasciata di Roma e il resto distribuiti negli altri nove uffici presenti nel Paese.
Ma la scossa più grande al programma informativo e alla conduzione della politica estera americana in Italia doveva ancora arrivare, e ciò sarà per merito di una donna… Continua a leggere
“Il parossismo generale nei riguardi del debito pubblico – che, lungi dall’essere il fulcro del problema come vorrebbe qualcuno, costituisce invece la vera cartina tornasole capace di misurare grado di deterioramento delle altre attività economiche nazionali – non è altro che uno specchietto per le allodole, utile per giustificare lo smantellamento totale e definitivo dell’industria strategica italiana in nome dell’imperativo categorico di “far cassa”.
Per questa ragione il nuovo piano strategico elaborato da Finmeccanica ha suscitato l’approvazione di Morgan Stanley, che ha alzato il rating sulla società romana poche ore dopo che l’Amministratore Delegato Giuseppe Orsi ebbe esternato pubblicamente l’intenzione di “alleggerire” la holding attraverso la dismissione di alcune aziende “meno produttive”.
Parlare, inoltre, di concorrenza in un sistema estremamente corporativo ed oligopolistico come quello dell’energia appare quanto meno fuorviante, dal momento che i prezzi di petrolio e gas vengono stabiliti arbitrariamente da un cartello composto da un pugno di società petrolifere e da un numero altrettanto esiguo di istituzioni finanziarie che speculano sui rialzi. Alla luce di tutto ciò, giustificare l’indebolimento dell’ENI in nome della concorrenza tirando persino in ballo i minori costi che gli utenti si ritroverebbero ad affrontare appare analogo alla crociata guidata dall’attuale esecutivo “tecnico”, che intendeva provocare una diminuzione dei prezzi della benzina liberalizzando le pompe di distribuzione senza prendere in minima considerazione il ruolo di quelle che Enrico Mattei definiva “sette sorelle”. Il che la dice lunga sulla presunta risolutezza del governo Monti, che “non guarda in faccia nessuno”.
L’ultimo tassello da inserire in questo desolante mosaico è costituito dalla nomina ad advisor (consigliere), con compiti di valutazione delle modalità di vendita della Snam, di Goldman Sachs da parte della Cassa di Depositi e Prestiti presieduta da Franco Bassanini, che nel 1992 era salito a bordo del Panfilo Britannia in compagnia di una nutrita schiera di alti esponenti della politica e dell’economia italiana (Ciampi, Draghi, Costamagna, ecc.).
Sull’onda di Tangentopoli si insediò il governo tecnico presieduto da Giuliano Amato, il quale si affrettò a trasformare le aziende pubbliche in Società Per Azioni mente il Fondo Monetario Internazionale segnalava la necessità di provocare una svalutazione della moneta italiana per favorire il processo di privatizzazione. Così, non appena i “tecnici” del governo Amato ebbero incaricato Goldman Sachs di supervisionare alla vendita dell’ENI, il gruppo Rothschild “prestò” il direttore Richard Katz al Quantum Fund di George Soros per imbastire la colossale manovra speculativa contro la lira, provocando una svalutazione della moneta italiana pari al 30%. Ciò consentì ai Rothschild di acquisire parte dell’ENI a un prezzo fortemente “scontato”.
Lo scorporo della Snam appare quindi come una fase avanzata della lunga marcia di logoramento di quel che rimane dell’industria strategica italiana avviata nel 1992, con Tangentopoli e con gli attentati del 1992 che costarono la vita a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle rispettive scorte.
Proprio in questi giorni è stato celebrato l’anniversario della strage di Capaci tra altisonanti discorsi da parte dei più autorevoli esponenti istituzionali. Sarebbe stato interessante se qualcuno avesse osato tirare in ballo le dichiarazione rese dall’ex ministro dell’interno Vincenzo Scotti nel corso di un’intervista resa al quotidiano romano “Il Tempo” il 6 dicembre 1996. In quell’intervista, Scotti spiegò che nel febbraio 1992 i servizi segreti e il capo della polizia Vincenzo Parisi avevano redatto e fatto pervenire sulla sua scrivania un rapporto in cui erano sommariamente elencate e descritte le modalità di un imminente piano di destabilizzazione politico, sociale ed economico dell’Italia, orchestrato da svariate potenze internazionali in combutta con alcune potenti lobby finanziarie. Il piano in questione, secondo quanto affermato da Scotti, comprendeva attentati di varia natura atti a distorcere la percezione di sicurezza nazionale in seno alla società, in modo da creare un clima di instabilità che spianasse la strada agli attacchi finanziari diretti contro il patrimonio industriale e bancario di stato. Non ricorda qualcosa?”
Da La lunga marcia di logoramento dell’Italia, di Giacomo Gabellini.
L’incontro-dibattito dedicato a Enrico Mattei si è aperto con il saluto telefonico dell’ing. Franco Francescato, rappresentante dell’Associazione Pionieri e Veterani ENI nonché coordinatore del Comitato Promotore per il 50° Anniversario della scomparsa di Enrico Mattei.
L’ing. Francescato ha ricordato l’importanza dell’opera di Enrico Mattei e le iniziative che l’Associazione Pionieri e Veterani ENI metterà in campo quest’anno per ricordarlo e per trasmettere l’esempio del suo straordinario impegno alle giovani generazioni, anche quelle che lavorano in ENI, che purtroppo conoscono poco la storia di Mattei e il contributo da lui dato allo sviluppo dell’Italia.
L’ing. Francescato, dopo essersi espresso contrariamente allo scorporo di SNAM da ENI voluto dall’attuale governo, si è congratulato per l’iniziativa, auspicando future collaborazioni con l’Associazione Pionieri e Veterani ENI, soprattutto in un anno così importante come il 2012, cinquantesimo anniversario della tragica scomparsa di Mattei.
A seguire, ha preso la parola il dott. Stefano Vernole, redattore di “Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici.
Facendo ampio ricorso ai documenti ufficiali delle ambasciate inglesi e del Governo di Sua Maestà riportati da Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella nel loro libro “Il golpe inglese”, il dott. Vernole ha messo in evidenza la minaccia che Mattei rappresentava per gli interessi britannici e come l’Inghilterra, per tutelarli, sia ricorsa a tutti i mezzi a sua disposizione, compresa l’azione dei suoi servizi segreti. La minaccia più sentita da Gran Bretagna e Stati Uniti era costituita dai rapporti petroliferi e diplomatici che Mattei andò intrecciando con l’URSS e con la Cina maoista, spostando gradualmente l’Italia su posizioni neutraliste sempre più distanti dalla NATO, una deriva assolutamente intollerabile dal punto di vista anglo-statunitense.
Il dott. Vernole ha concluso il suo intervento evidenziando il persistere nel tempo dell’ostilità anglo-statunitense nei confronti dell’ENI, come dimostrano, tra gli altri, i messaggi confidenziali del 2008, recentemente rivelati da Wikileaks, dell’allora ambasciatore USA in Italia Ronald Spogli. Da questi emerge la contrarietà dell’amministrazione statunitense per i rapporti preferenziali coltivati con la Russia di Putin, che hanno permesso alla Gazprom di penetrare in Africa attraverso gli accordi dell’ENI con la Libia di Gheddafi e l’Algeria.
Pur essendo l’ENI di oggi lontano anni luce dal quel “Cane a sei zampe” sputafiamme, capace di sfidare le “Sette Sorelle” sotto l’audace guida del suo fondatore, essa continua a rappresentare una spina nel fianco per gli interessi anglo-statunitensi ogniqualvolta guarda a Est e a Sud in modo autonomo e conforme agli interessi nazionali.
A seguito dell’intervento del dott. Vernole, è stato proiettato un estratto video dello spettacolo teatrale dell’autore e attore Giorgio Felicetti “Mattei. Petrolio e fango”. Nell’introduzione all’incontro, i promotori avevano spiegato come nelle intenzioni originarie dell’associazione ci fosse quella di patrocinare l’allestimento dello spettacolo in questione presso un teatro cittadino ma, non avendo trovato la disponibilità in tal senso da parte di nessuno degli interlocutori interpellati, l’associazione si era decisa a organizzare comunque un’iniziativa per ricordare degnamente la figura di Enrico Mattei.
Particolarmente significativi sono i passaggi della rappresentazione teatrale che ricostruiscono magistralmente gli anni seguenti alla fine della seconda guerra mondiale, durante i quali Mattei, contro tutti e tutto – i poteri forti internazionali come USA e Gran Bretagna e i poteri forti interni come Enrico Cuccia e le “sacre” famiglie del capitalismo italiano – ha caparbiamente operato per risollevare le sorti dell’AGIP e poi edificare con l’ENI la più grande azienda italiana, impegnata per lo sviluppo dell’Italia, del Vicino Oriente e del Nord Africa, dando vita a una forma di capitalismo compatibile con la solidarietà e l’anticolonialismo. Un video promozionale dello spettacolo di Giorgio Felicetti è consultabile su youtube.
Stante l’assenza dell’ultimo minuto del professor Nico Perrone, trattenuto a Bari da un forte attacco influenzale, è quindi intervenuto Claudio Moffa, docente presso l’Università di Teramo e direttore del “Master Enrico Mattei”. Il lungo e denso intervento del prof. Moffa, il quale ha toccato diversi aspetti della vita e dell’opera di Mattei, e il successivo botta e risposta con il pubblico sono disponibili integralmente sul canale video dell’associazione Eur-eka.
Sabato 17 Marzo, dalle ore 16.00 presso la Sala dell’Angelo, in via San Mamolo 24 a Bologna,
in coincidenza con l’imminente anniversario della tragica scomparsa avvenuta nel 1962, verrà ricordata la figura di
Enrico Mattei fondatore dell’ENI. Una vita per l’indipendenza e lo sviluppo dell’Italia, del Vicino Oriente e dell’Africa
L’incontro-dibattito prevede la partecipazione degli storici Claudio Moffa, docente presso l’Università di Teramo e direttore del Master “Enrico Mattei” in Vicino e Medio Oriente, e Nico Perrone, giornalista e saggista, docente presso l’Università di Bari.
Introduce e modera Stefano Vernole, redattore di Eurasia rivista di studi geopolitici.
L’incontro è organizzato dall’associazione Eur-eka, con il patrocinio del Comune di Bologna – Quartiere Santo Stefano.
L’ingresso è libero e gratuito.
[il volantino promozionale, da stampare e/o diffondere]
Enrico Mattei nasce nel 1906 ad Acqualagna, un povero paese delle Marche, da Angela Galvani e da Antonio, brigadiere dei Carabinieri.
Inizia a lavorare giovanissimo e a vent’anni è già direttore di una conceria locale. Alla chiusura della fabbrica, Mattei contro la volontà del padre decide di trasferirsi a Milano, dove, dopo pochi anni di lavoro quale rappresentante di commercio, decide di aprire la sua prima azienda, un piccolo laboratorio di olii emulsionanti.
Nel 1936 si sposa con Greta Paulas, ballerina viennese, e inizia a frequentare gli esponenti dell’antifascismo milanese. Durante la guerra ha modo di diplomarsi come ragioniere, le sue doti organizzative più che militari lo portano a diventare uno degli esponenti di spicco della Resistenza animata dalla Democrazia Cristiana, superando la diffidenza per la sua antica adesione al fascismo.
Finita la guerra, Mattei, industriale affermato, titolare dell’Industria Chimica Lombarda Grassi e Saponi, viene nominato “commissario straordinario” dell’AGIP, l’Azienda Generale Italiana Petroli fondata da Mussolini nel 1926, divenendone di lì a poco vicepresidente.
Grazie ai consigli del suo predecessore, il “repubblichino” Carlo Zanmatti col quale aveva mantenuto i contatti, e alla scoperta del giacimento petrolifero di Caviaga, Mattei riesce a fermare la liquidazione dell’AGIP. La battaglia fra i liberali, fautori dello smantellamento e/o della privatizzazione dell’ente, e i cosiddetti “statalisti” è comunque molto accesa: rimarrà famoso il discorso con il quale, il 26 Ottobre 1949, il deputato Enrico Mattei di fronte ai colleghi della Camera si erge “contro l’arrembaggio al metano e al petrolio” da parte di privati e stranieri.
Con l’approvazione, il 21 Gennaio 1953, della legge istitutiva dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) Mattei, che fin da subito ne è il presidente, inizia un’intensa attività all’estero volta ad instaurare legami con i Paesi produttori di petrolio, Unione Sovietica compresa.
In un contesto internazionale in cui le famigerate “Sette Sorelle”, le principali società petrolifere mondiali di cui cinque statunitensi, una inglese e una anglo-olandese, detenevano oltre il 90% delle riserve accertate fuori dagli Stati Uniti, Mattei riesce a stringere una lunga serie di accordi economici e commerciali sulla base della formula, da lui inventata, della divisione a metà degli utili (“fifty-fifty”), arrivando nel caso dell’Iran, nel 1957, a riconoscere il 75% sullo sfruttamento di alcuni giacimenti. Rendere i Paesi amici partecipi, inoltre, della determinazione dei volumi di produzione e dei prezzi di vendita rappresenta una vera e propria sfida lanciata alle “Sette Sorelle” e al governo USA che ne era il tutore politico e militare.
Il 27 Ottobre 1962, in piena “crisi dei missili sovietici a Cuba”, con il presidente Kennedy impegnato a valutare una possibile ritorsione armata, Enrico Mattei è in Sicilia, a Gagliano Castelferrato in provincia di Enna, per celebrare con la popolazione locale la scoperta di un giacimento di metano.
Alla fine della giornata, egli decolla da Catania con il suo aereo privato, un “Morane Saulnier 760” guidato dal pilota Irnerio Bertuzzi, insieme al giornalista William McHale. I tre uomini non arriveranno mai a destinazione poiché, poco prima dell’atterraggio previsto a Linate, l’aereo precipita schiantandosi in un campo nei pressi di Bascapé.
Un altro protagonista della politica euromediterranea dell’Italia del dopoguerra, Amintore Fanfani, ebbe a dire nel 1986 che forse “l’abbattimento” dell’aereo di Mattei è stato il primo gesto terroristico di una piaga che ha perseguitato per lungo tempo il nostro Paese. Certamente, quale che sia stata l’esatta dinamica dei fatti, ancora oggi discussa, “una pesante minaccia alla stabilità economica e politica dell’Italia” – come un documento dell’intelligence USA dell’epoca descriveva il potere d’influenza esercitato da Mattei – era cessata.
Oggi che l’ENI è una società per azioni quotata in borsa, con quasi 80.000 dipendenti dei quali più di metà all’estero e operativa in 79 Paesi nei cinque continenti, ma ormai in mano privata per circa il 70% del suo capitale sociale – salva un’ulteriore ondata privatizzatrice che l’esecutivo Monti non nasconde di auspicare – vogliamo chiederci quale sia l’eredità lasciata da un uomo visionario che ha contribuito in maniera decisiva a trasformare una nazione sconfitta e ancora prevalentemente contadina in un Paese avanzato con una forte industria energetica.
”I tesori non sono i quintali di monete d’oro, ma le risorse che possono essere messe a disposizione del lavoro umano”.
Con queste parole, Enrico Mattei salutava la festante folla di Gagliano poche ore prima della sua tragica scomparsa.
I RELATORI
Claudio Moffa è professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Teramo, dove insegna “Storia e Istituzioni dei Paesi dell’Africa e dell’Asia” e “Diritto e Istituzioni dell’Africa e dell’Asia”.
Come docente, oltre alla normale attività didattica presso l’Università di Teramo, ha svolto corsi di specializzazione presso Istituti vari – fra cui la SIOI di Roma – e fondato e diretto il Master “Enrico Mattei” in Vicino e Medio Oriente.
Ha inoltre scritto numerosi saggi su riviste specialistiche internazionali e italiane quali Politique Africaine, Le monde diplomatique, Limes, Studi Piacentini, Politica Internazionale, Africa, Africana, Estudia Africana, Rivista di Storia contemporanea, Giano, Marxismo oggi, Il Calendario del Popolo ed Eurasia. Quaderni internazionali (1987-1990) e La lente di Marx (1994-1997) sono invece le due riviste da lui stesso fondate e dirette.
E’ studioso di Enrico Mattei, sulla cui vicenda ha condotto ricerche preso l’Archivio ENI di Pomezia trovandovi importanti documenti che costringono a rivedere la storia e la fine del Presidente dell’ENI, e organizzato due convegni, “Enrico Mattei, il coraggio e la Storia” nel 2006 e “La straordinaria vicenda Mattei fra oblio e occultamento” nel 2008.
Nico Perrone è un saggista, storico, giornalista e docente universitario italiano. È autore di libri e saggi più brevi, apparsi in Italia, Danimarca e Stati Uniti d’America. Ha pubblicato inoltre un migliaio di editoriali e articoli su quotidiani e settimanali.
E’ professore di “Storia dell’America” e “Storia Contemporanea” presso l’Università di Bari (dal 1977).
Nel 1961 viene assunto all’ENI per studiare le normative straniere del lavoro. Il presidente, Enrico Mattei, lo designa quindi quale esperto nel gabinetto del Ministro per la Riforma della Pubblica Amministrazione Giuseppe Medici e membro di commissioni interministeriali di studio (1962-63).
Collaboratore della RAI dal 1982 al 2006, per RadioRai2 ha tenuto venti trasmissioni del programma Alle 8 della sera (24 aprile – 19 maggio 2006), dedicate a “Enrico Mattei stratega del petrolio”.
“In uno spirito di reciproca comprensione e sincera lealtà.”
Oggi, invece…
Bruxelles, 23 gennaio – I paesi dell’Unione Europea hanno trovato un accordo sulla delicata questione dell’embargo petrolifero all’Iran e la sterilizzazione di tutti i rapporti con la Banca centrale in modo da rendere complicatissimi, se non impossibili, i pagamenti da parte di soggetti iraniani di prodotti acquistati da aziende europee. “Un accordo di principio per un embargo petrolifero contro l’Iran” è stato raggiunto durante l’ultima riunione degli ambasciatori dei Ventisette a Bruxelles, come ha riferito una fonte diplomatica citata dalla France Presse. La stessa fonte ha fatto riferimento a una forma di embargo “graduale”.
L’intesa dovra essere formalmente sottoscritta dai ministri degli Esteri dei Ventisette che si riuniscono stamattina nella capitale belga. L’accordo raggiunto dagli ambasciatori prevede il divieto immediatamente operativo per i Paesi europei di sottoscrivere nuovi accordi petroliferi con l’Iran e una fase di transizione per annullare quelli esistenti fino al prossimo 1 luglio.
(TMNews)
Con due diversi comunicati, l’ultimo delle 21.17 del 26 Ottobre, l’Ansa fornirà la notizia che il Qatar (!) si appresta a sostituire la NATO al fine missione di Unified Protector previsto per il 31 Ottobre, in attesa di un nuovo vertice dei Ministri degli Esteri e della Difesa dell’Alleanza Atlantica per stabilire un piano di gestione condivisa della “nuova“ Libia, dichiarata “liberata“ dalla feccia tribale che si riconosce nel ex ministro della giustizia della Jamahiriya Adbel Jalil. Dichiarazione arrivata Domenica 23 durante una manifestazione pubblica a Bengasi. Il perché lo si sia fatto nella città della Cirenaica invece che a Tripoli la dice lunga sulle condizioni dell’ordine pubblico attualmente esistenti nei quartieri della capitale e sul “consenso“ espresso da 2 milioni di residenti (1/3 dell’intera popolazione dell’ex colonia italiana) alle formazioni armate dei mercenari-tagliagole comandati da Abdelhakim Belhadj, che pattugliano le strade e le vie della capitale ricorrendo a una sistematica brutalità contro le famiglie dei “lealisti“ e alla caccia ai militanti dei Comitati Popolari che si conclude sempre più spesso in scontri a fuoco o in esecuzioni sommarie. Nel frattempo, cresce la scollatura tra gli stessi clan che assediano una città ormai ridotta alla fame, sempre più carente di assistenza sanitaria, di scorte di benzina e gasolio e di servizi pubblici. Da segnalare la mancanza di qualsiasi contatto tra la popolazione locale e gli “stranieri“ calati come un orda selvaggia su Tripoli, preceduta dai bombardamenti aerei della NATO che hanno portato morte e distruzione, messo in ginocchio le infrastrutture della capitale e sconvolto alla radice la qualità della vita e l’abituale serenità della gente.
Un già visto a Baghdad con i miliziani curdi di Erbil e Kirkuk di Jalal Talabani, attuale presidente dell’Iraq e a Kabul con i tagiki-uzbechi dell’Alleanza del Nord di Ahmad Massud, i cui successori sono stabilmente rappresentati nel governo Karzai sostenuto da USA e NATO. Continua a leggere
E’ di queste ore la notizia che l’Alleanza Atlantica ha chiesto e ottenuto dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU un’ulteriore proroga di 3 mesi per portare a termine il “lavoro” contro la Jamahiriya che scadeva il 27 Settembre.
Il “sì” al rinnovo è arrivato dal Palazzo di Vetro con più di una settimana di anticipo. Un segnale che rimanda a una situazione sul terreno tutt’altro che stabilizzata.
Se la Serbia è stata costretta alla resa in 73 giorni, i pashtun dell’Afghanistan erano in rotta dopo 7 e l’Iraq ha messo in libertà le forze armate ai 30, la Libia non ha ancora mollato in quasi 200 pur disponendo di un più che modesto, e per larga parte obsoleto, apparato militare.
Le unità libiche, a cominciare dalla 32° Brigata, hanno retto con grande dignità e determinazione al feroce, sanguinoso assalto navale, terrestre e aereo organizzato dalla NATO.
Contrariamente a quanto previsto da tecnici ed esperti di gran grido a libro paga dell’Alleanza Atlantica, non c’è stato nessun collasso delle forze armate della Jamahirya.
Se le “missioni di pace” in Asia e Medio Oriente e la lotta globale al “terrorismo” sono costate agli Stati Uniti, dall’11 Settembre del 2001 a oggi, 3.300 miliardi di dollari mettendo definitivamente in ginocchio la sua economia, dal canto suo la Francia di Sarkozy, dopo aver attizzato il fuoco nell’Africa subsahariana per rinverdire avventure coloniali che in Indocina si conclusero a Dien Bien Phu, sta uscendo con le ossa rotte dal Maghreb.
La Gran Bretagna di Cameron, dopo aver rottamato l’ultima portaerei, naviga a vista in un mare di tempesta dalle Falkland a Cipro.
Quanto all’Italia, la partecipazione a una nuova guerra, questa volta nel Mediterraneo, dopo l’Iraq e l’Afghanistan, contribuirà a farci togliere un’altra A e ad appiopparci un ulteriore outlook negativo dagli gnomi del rating.
Né potrà essere di grande aiuto per i tre dei quattro “grandi” della U.E. che un raccogliticcio contingente ONU li sostituisca sul terreno a breve o medio periodo. Continua a leggere
L’aggressione militare alla Libia e il cinismo della “politica” italiana
Il Pentagono nel Quadriennial Defence Review Report del Dicembre del 2001 adottò un termine per definire uno scenario in cui un’entità (organizzazione nemica) pianifica e porta a realizzazione nel tempo una serie di azioni militari non ortodosse contro una grande potenza che abbia occupato con l’uso della forza un Paese del Vicino Oriente.
Un report arrivato a 30 giorni di distanza dal via libera dell’amministrazione Bush all’US Air Force per colpire con bombardamenti a tappeto l’Afghanistan.
Mancheranno meno di 2 anni all’aggressione aerea e terrestre all’Iraq di Saddam Hussein.
Lo smantellamento delle sue strutture militari e civili, la sottrazione alle precedenti autorità statuali anche dalla gestione delle risorse economiche ed energetiche da affidare a un governo fantoccio avrebbero finito, a giudizio degli esperti militari del Dipartimento della Difesa, nell’approntamento del DFRR, per creare “momentanee“ condizioni di instabilità economica e sociale e di precaria sicurezza pubblica capaci di concorrere allo sviluppo di una guerra a bassa intensità.
Le definizioni più usate dagli analisti sono: guerra non convenzionale, guerra asimmetrica, guerra di guerriglia.
Chi scrive ne adotta un’altra più semplice, evocativa: guerriglia.
Il perché è semplicissimo: mi fa sentire più vicino a qualsiasi “ribelle“ che abbia impugnato o impugni le armi per liberare il suo Paese dall’egemonia di USA, NATO e “Israele“.
La guerriglia mi rimanda a metodi di combattimento capaci di logorare e di vincere, a tempi lunghi, la prepotenza e le aggressioni armate dell’Occidente, di generare miti, comandanti, volontà di lotta, la forza necessaria ad annientare modelli politici estranei messi in piedi con l’esportazione della “democrazia“ e far tornare alla luce le straordinarie energie che i popoli conservano. Continua a leggere
Adesso la quadruplice sta facendo pagare all’Italia l’alleanza con Putin e Gheddafi.
Con la Clinton in testa, il Club non tollera autonomia e soluzioni energetiche nazionali
di Piero Laporta per ItaliaOggi
Capolinea? ItaliaOggi del 7 ottobre 2009 scrisse che Silvio Berlusconi traballava a causa dei legami con Gheddafi e Putin, dopo la vittoria di Hussein Barak Obama e Hillary Clinton. Tre mesi prima ItaliaOggi accostò le fucilate mediatiche sulle ospiti di villa Certosa ai «terroristi che un tempo annunciavano a rivoltellate le elezioni imminenti». Seguì un copione sperimentato dal 1945, quando il «quartetto» dei vincitori (Gran Bretagna, Francia, USA e URSS), irradiatosi nei nostri interessi, li predò più o meno di comune accordo, manipolandoci la democrazia, corrompendola e non solo. Crollata l’URSS, subentrò la Germania e il nuovo Quartetto eliminò alleati esigenti a vantaggio di ex nemici ricattabili.
Berlusconi entrò in politica nel 1994 per salvare la sua proprietà? I valvassori del Quartetto rapinavano da sempre le ricchezze italiane; dopo il 1989 Mediaset fu tra le appetibili. I valvassori ebbero sempre man salva purché assicurassero la ciclica spremitura degli italici servi della gleba, come desiderano mercati, BCE, IMF e agenzie di rating. L’Italia è come le mucche dei Masai. I valvassori le incidono ogni tanto le vene del collo, badando di non ucciderla; raccolgono il sangue nella zucca e lo porgono al Quartetto che lascia qualcosa sul fondo da leccare. Negli anni ’50 gli USA bevevano per primi; oggi Berlino ha il primato, segue Parigi, ultima la Clinton che freme dopo gli abili inglesi. Il deficit statale fu pure sperperi e corruzione, però conseguenti a politiche agricole, industriali ed energetiche genuflesse al Quartetto vampiro.
Il sistema (difeso con bombe, terrore rossonero, mafia e agenzie di rating) perseguita e uccide chiunque tenti di scalfirlo o svelarlo, come Enrico Mattei, Aldo Moro, Giovanni Leone, Luigi Calabresi, Mino Pecorelli, Walter Tobagi, Bettino Craxi. Piemme comunisti? Una balla rancida: o effimeri autocrati a caccia di visibilità oppure organici ai quattro del Quartetto. Vi sono pure, grazie a Dio, tanti liberi, onesti e coraggiosi; va detto e ricordato con un grazie.
Berlusconi parvenu (come sibilarono Gianni Agnelli e Indro Montanelli, valvassori fra i più zelanti) s’adattò alle regole dei Quattro che spaccano il paese in due partiti, l’uno contro l’altro, i capponi manzoniani: comunisti contro anticomunisti, poi nord contro sud, guelfi contro ghibellini, obbligandoci a un moto parossistico e immobile, come un calabrone, di fronte al fiore inarrivabile delle riforme. «Faremo, cambieremo, riformeremo» ronzava il calabrone Silvio, mentre agguantava il futuro legando Vladimir Putin a George Bush Sr, nonostante costui sia assiduo col suo peggiore nemico in Svizzera. Sembrava fatta. Tornata tuttavia al potere la sitibonda Clinton, ogni equilibrio s’infranse nella guerra di rapina alla Libia. Berlusconi maramaldo che pugnala Gheddafi, anticipa quello col «cuore grondante sangue» che tradisce gli elettori. La Germania sta alla finestra, come gli USA nella guerra dello Yom Kippur del 1973; lascia che altri combattano, agevolando i suoi disegni, in Libia come a Roma, dove osserva Giulio Tremonti accostarsi a palazzo Chigi col primo di tre indispensabili passi: uccidere Berlusconi, politicamente s’intende. Deve, può o vuole? È presto per dirlo. Anche il secondo passo, cavar sangue come i valvassori, potrebbe essere obbligato da politiche spietate. Arriverà il terzo e decisivo passo di Tremonti, se vorrà omologarsi? Porgerà la zucca, come Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, prima di lui? A chi la porgerà prima? Che cosa conterrà? ENI, Finmeccanica? Washington condivide le priorità di Giulio con le altre tre? I guai di Marco Milanese crescono mentre si colma la zucca? Oltre le congetture, sono seri i guai del Cavaliere se smarrisce la realtà come Bettino Craxi, quando aprì le porte del Quirinale a Oscar Luigi Scalfaro e chiuse le proprie. La volpe ansima e i cani la incalzano. A meno che, a marzo, Vladimir Putin_ o forse prima, vedremo, intanto paghiamo.
La fase 2, l’attacco con unità di fanteria di marina della NATO, è data per imminente. Francia e Gran Bretagna, con l’Italia in ritardo sui preparativi di invasione della Jamahiryia via terra, hanno già provveduto a rafforzare le “forze speciali” che affiancano da due mesi i mercenari del CNT.
La Russa, dal canto suo, ha già mobilitato il Comsubin di Varignano e allertato il Battaglione S. Marco della Marina Militare, su input del Consiglio Supremo di Difesa, mentre il Comando Operativo Interforze di Centocelle tace e acconsente.
Gli istruttori “tricolori” che operano a Bengasi sono ormai oltre l’organico di una compagnia. Ci sarà tempo e modo per dare una faccia a questi “lavoratori”.
Nel frattempo, svetta l’impegno sul campo della Farnesina portata per mano al macello da un soggetto come Frattini che promette, sul portale del Ministero degli Esteri, “centinaia di milioni di euro” ai suoi “amici” della Cirenaica.
In realtà si tratta, come abbiamo già documentato, di miliardi di dollari in uscita dalle tasche degli italiani.
Millecinquecento milioni di dollari hanno già preso il volo per Abu Dhabi, come fondo di garanzia per il CNT , oltre che per dare fiato alle casse sfondate degli Emirati Arabi Uniti, una monarchia ereditaria del Golfo che – sentite, sentite – sta entrando a far parte dell’ Alleanza Atlantica (Kalifa bin Zayed ha recentemente avviato personali trattative con Rasmussen e Hillary Clinton in funzione anti-Iran).
Un trasferimento finanziario avvenuto nello stesso giorno in cui il boiardo di stato Bono annunciava il licenziamento, diretto, al netto delle perdite nell’indotto, di 2.551 lavoratori di Fincantieri (649 a Castellamare di Stabia, 777 a Sestri Ponente e 1.121 nei rimanenti impianti a mare) per conservare negli Stati Uniti attività produttive navali in devastante perdita finanziaria e tenere aperto un “cantierino” per il rimessaggio di barche d’altura di proprietà di vip del Bel Paese oltre che di deputati, senatori ed establishment USA. Torneremo presto sulla faccenduola Fincantieri Marine System North America e Fincantieri Marine Group, e il clamoroso bidone delle commesse Littoral Combat Ship.
Nelle 48 ore successive il Governo di Tripoli diffondeva l’entità del massacro dall’aria perpetrato sulle città della Repubblica Araba Socialista con 718 morti, 4.067 feriti ed amputati dal 19 Marzo al 26 Maggio. Effetti collaterali dei “bombardamenti chirurgici” che il titolare di Via XX Settembre ci aveva assicurato essere precisi al metro sui targets da oltre 3.5 miglia di quota.
Vediamo ora in dettaglio cosa ha promesso il Bel Paese, per bocca di Frattini, nella sua visita a Bengasi, del 31 Maggio – all’ 8° piano dell’Hotel Tibesti (!) che alloggia il Console Guido de Sanctis e la Rappresentanza dell’Unione Europea – agli “insorti” che si richiamano alla monarchia senussita.
Oltre ad aver firmato un memorandum d’intesa con Mustafà Abdel Jalil, l’ex contabile di casa nostra ha promesso “enormi somme di danaro e enormi quantità di combustibile raffinato” al CNT per mezzo di Unicredit e dell’ENI che terranno a garanzia, tramite Sace, gli assets “congelati” alla Jamahiryia.
Che effetti, politici e commerciali, possano produrre nei rapporti diplomatici tra l’Italia e i Paesi di Africa, Vicino Oriente, America Indiolatina e Asia comportamenti ampiamente criminali come quelli espressi dal Governo Berlusconi è facilmente intuibile.
L’ENI fornirà benzina e gasolio per iniziali 152 milioni di euro mentre Unicredit verserà la prima trance di 475 milioni di euro in contanti al CNT per dare il via all’infrastruttura organizzativa statale e amministrativa della “nuova” Libia.
Parigi e Londra, nel frattempo, hanno già trasferito nella capitale della Cirenaica un numero consistente di elicotteri d’attacco.
“Dobbiamo migliorare, da bassa quota, la nostra capacità di colpire i bersagli a terra con munizionamento di precisione” ha precisato il ministro degli Esteri Alan Juppè, già titolare della Difesa durante la presidenza Chirac, durante un summit NATO, a porte chiuse, a Parigi con gli “omologhi” europei.
Per la Repubblica delle Banane hanno partecipato congiuntamente Frattini e La Russa, due punte di diamante dei Poteri Forti che lavorano fianco a fianco con Mr. NATOlitano.
Un Presidentissimo che ormai sfila sulla “Flaminia” il 2 Giugno, dopo la chiusura dello spazio aereo della capitale, su Via dei Fori Imperiali protetto a vista da centinaia di “tiratori scelti” e da un codazzo di “addetti alla sicurezza” che lo affiancano a passo di corsa, mano alla cintura, lungo il percorso lanciando occhiate preoccupate a destra e manca.
C’è un vecchio proverbio che dice: “Male non fare, paura non avere”. Continua a leggere
Premesse e retroscena della guerra di aggressione alla Libia
Se si intende portare alla luce specifica e somma delle complicità politiche e istituzionali che hanno affiancato i poteri forti del Bel Paese per regalarci una nuova guerra di aggressione, questa volta alla Jamahiriya, occorre partire dal 17 Aprile 2008 quando atterra in Sardegna, all’aeroporto di Olbia, l’Ilyushin 96-300 di Vladimir Putin.
Il premier russo arriva da Tripoli dove è stato graditissimo ospite di Gheddafi. Hanno parlato di nuovi, imponenti investimenti della Russia, di assistenza tecnica nell’estrazione di energia fossile, di concessioni petrolifere e dello sfruttamento del giacimento “Elephant“ che si sta rivelando il più gigantesco e promettente dell’intero asset della Libia, potenzialmente capace di rimpolpare da solo, per decine di anni, le già larghe capacità di esportazione di greggio del Colonnello.
L’accordo con Gheddafi prevede anche una consistentissima fornitura di armi, capaci di rendere la Jamahiriya lo Stato militarmente più forte nel continente africano dopo Egitto e Unione Sudafricana e appena qualche spanna sotto l’Algeria di Bouteflika.
La lista comprende batterie di micidiali missili antiaerei-antimissile S-300 Pm 2, gli altrettanto efficaci Thor M1-2 antiaerei-anticruise, 30-35 cacciabombardieri Sukhoi-30, un numero non precisato di carri da battaglia T-90 e un “upgrade” per T-72. Per un acquisto, iniziale, di 3.5-4 miliardi di dollari.
Fonti indipendenti accrediteranno la trattativa andata a buon fine anche nei numeri.
Con le sole dotazioni di batterie mobili di S-300 e Thor, Gheddafi avrebbe neutralizzato qualsiasi capacità della “Coalizione dei Volenterosi” di attaccare dall’aria la Jamahiriya e costretto gli USA a porre in campo, per mesi, nel Mediterraneo un grosso e dispendioso dispositivo di forze aereo-navali, mettendo peraltro in conto perdite “non sopportabili” senza ricorrere al meglio della sua tecnologia aerea come gli F-22.
Cacciabombardieri “stealth” che gli USA possiedono in un numero limitato per strikes contro “Stati canaglia” in possesso di centrali o armamento atomico come Iran, Corea del Nord e Pakistan.
Putin, in quell’occasione, assicura a Gheddafi che il pacchetto ordini sarà evaso in un arco di tempo di 4-5 anni.
Per rendere le batterie mobili pienamente operative sia a lungo raggio (120-200 km) che a breve (6- 12 Km), integrate da radar di sorveglianza e di tiro, occorrerà un bel po’ più di tempo. Addestrare dei piloti al combattimento aereo con cacciabombardieri di ultima generazione, oppure a “vedere” e “colpire” jets o missili in avvicinamento, sarà un lavoro duro.
L’addestramento del personale libico è sempre stato laborioso e spesso ha dato, in passato, risultati modesti anche con “istruttori“ italiani impegnati a far familiarizzare gli “utenti” con vettori jet ampiamente meno sofisticati di un Sukhoi-30 e di un Mig-35.
Il salto di professionalità che sarà richiesto alle forze armate libiche non potrà non essere severo.
Rafforzare l’alleanza con la Libia consentirà a Mosca di fare ottimi affari e di rientrare in gioco nel Mediterraneo centro-occidentale.
E’ un progetto che non potrà essere portato a termine. Continua a leggere
A Giugno andranno rifinanziate le 31 missioni militari all’estero in 29 Paesi geograficamente appartenenti alle aree dei Balcani, del Medio Oriente, del Golfo Persico, dell’Africa e dell’Asia. Il personale delle Forze Armate italiane al 30 Aprile 2011 impiegato dal Ministero della Difesa fuori dal territorio nazionale assomma ufficialmente a 7.114 unità. In realtà, supera abbondantemente le 8.800 presenze continuative dall’1 Gennaio 2011 ad oggi. Facciamo un esempio. In Iraq la presenza di “istruttori” per consulenza, formazione ed addestramento dell’esercito e della polizia del Governo di Al Maliki è fissata, nelle tabelle ufficiali, fluttuante, da 73 a 78 tra ufficiali e sottoufficiali per lo più appartenenti all’Arma dei Carabinieri. Si, siamo ancora a combattere da quelle parti. In realtà sono oltre 100. Il Ministero degli Esteri, per la sicurezza dell’ambasciata italiana a Baghdad, ha a disposizione un nucleo di 30 Carabinieri che non risultano in organico a Via XX Settembre. La Direzione Generale della Difesa approssima costantemente per difetto il numero dei militari in missione all’estero, per non allarmare l’opinione pubblica che è e rimane fortemente contraria ad aumenti di scarponi che si portano dietro un bel po’ di funerali di Stato nella Basilica di S. Maria degli Angeli a Roma. E’ altresì evidente che un conto è la presenza di “osservatori” nella città di Hebron (Cisgiordania Occupata) etichettata dal signor La Russa come territorio appartenente ad “Israele” ed altro sono le operazioni di peace-keeping o peace-enforcing modello Afghanistan, che prevedono azioni di guerra sul campo e/o mitragliamenti e bombardamenti dall’aria.
Per arrivare al 31 Dicembre 2011, questa volta non basteranno le centinaia di milioni di euro tolti dalle tasche degli italiani nell’ultimo semestrale di spesa approvato da maggioranza ed “opposizione” a Camera e Senato, che scade il prossimo 30 Giugno.
Ci vorranno maggiori mezzi finanziari anche tagliando 200-250 militari con il casco blu dal contingente italiano in Libano, azzerando quello in Bosnia (8) e riducendo di 100 unità i 610 della KFOR in Kosovo. Ammesso che lo si voglia davvero fare.
La nuova guerra di Libia porterà inevitabilmente a far lievitare, e di molto, un conto già salatissimo. Ban Ki Moon è un amicone anche se ci riempie di clandestini e di profughi di guerra da Medio Oriente, Africa ed Asia e ci porta via, per quota parte, il 4.999% del contributo totale versato da 192 Paesi, per un totale parziale di 369.233.723 dollari all’anno per le 15 “operazioni di peacekeeping” dell’ONU a giro per il mondo (16 ce le finanziamo da soli). Un apparato sempre più gigantesco, una colossale sanguisuga, quello presieduto dall’ex Ministro degli Esteri della Corea del Sud, meglio conosciuto nell’ intera Asia come “il serpente”, che sottrae all’Italia altri 68.170.000 dollari per la “UN Logistic Base” di Brindisi come “punto di proiezione” verso Albania, Macedonia, Montenegro, Kosovo e Bosnia. Un altro 5.518 % va a copertura delle spese per il Tribunale Internazionale dell’Aja che ha per presidente un “signorino” come Antonio Cassese, con uscite tricolori per complessivi 6.879.514 dollari ed il 4.999% per 105.708.890 finalizzato alla “ristrutturazione del Palazzo di Vetro di New York”. Un affitto, mascherato, un po’ caruccio. Non trovate? C’è solo da sperare che sia una “voce di spesa” temporanea.
Un apparato, quello dell’ONU, che ingrassa con la frantumazione, programmata, in concorso con gli USA, degli Stati nazionali. In più, la Repubblica delle Banane elargisce ogni 365 giorni attraverso il Ministero degli Esteri al Palazzo di Vetro “donazioni” per altre centinaia di milioni di dollari (versamenti annuali o biennali) in sinergia con la cosiddetta “comunità internazionale”. Quanti? L’entità dei fondi canalizzati verso l’ONU rimangono top secret anche se qualche notizia riesce ufficiosamente a filtrare dai summit.
In passato, fino al 2010 ne abbiamo dato conto, un po’ alla volta, su questo blog. Per il sostegno economico al solo esecutivo Karzai, l’Italietta ha fatto transitare dalle casse del Tesoro a quelle di Kabul una gigantesca, inimmaginabile, montagna di euro. Siamo per importanza di fondi versati all’ONU il 6° Paese contributore a livello planetario. Poi ci sono le “uscite” in nero, difficilmente quantificabili, per blandire, sarebbe meglio dire finanziare, pirati ed autonomisti del Puntland (una gran brutta storia ancora tutta da raccontare), il sedicente Governo Provvisorio della Somalia, con base in Kenia, l’Uganda, il Burundi, l’Etiopia, il nuovo Darfur…
E altro di altrettanto opaco, di sporco. Non ci credete?
Basta domandare a giro a qualche ufficiale di coperta di mercantili italiani in navigazione tra il Golfo di Oman, l’Oceano Indiano e lo stretto di Bab El Mendeb.
Addestrare con “consiglieri” le forze militari su base etnica di presidenti con tonalità dal cacao al caffellatte e sostenere capi di Stato fantoccio servi dell’Occidente con “programmi di sviluppo” e forniture di armi e logistica, è ormai pratica costante per i “governi” italiani da Siad Barre in poi. E’ la parte emersa dell’iceberg.
Se si vuole dare inizio alle danze si potrebbe partire, così a caso, da El Maan e da Johwar magari per qualche imponente fornitura di mitragliatrici e di fuoristrada targati DGCS. L'”avventura” in Libia di fatto ha aperto per il Bel Paese un altro gigantesco capitolo di spesa. Quanto finirà per costarci la “naturale estensione” delle risoluzioni 1970 e 1973 voluta da governo, Quirinale e Consiglio Supremo di Difesa?
Perché l’Italia ha aderito con sospetto entusiasmo alla “Coalizione dei Volenterosi” sapendo perfettamente quello che sarebbe successo a Lampedusa e la Germania ne è restata fuori?
Quanto durerà la guerra della NATO contro la Libia? Continua a leggere
Nonostante l’avversione dello stesso regime fascista, il progetto gentiliano, pur stravolto e svuotato di contenuti in molti suoi punti, restò l’unico punto di riferimento possibile per la formazione di nuove leve dirigenti nell’arco di tutto il Ventennio. I suoi effetti benefici continuarono a prodursi nel dopoguerra, quando le nuove generazioni, formatesi grazie all’impostazione meritocratica gentiliana, iniziarono a guidare il “boom” economico e industriale che doveva condurre l’Italia fuori dalla tragedia della guerra e verso la riacquisizione di una sovranità nazionale fondata su una riconquistata posizione di forza sullo scenario degli scambi internazionali.
Fu allora che, negli Stati Uniti, i responsabili della nostra colonia iniziarono a preoccuparsi.
Non si poteva permettere all’Italia di acquisire spazi troppo ampi di sovranità, che avrebbero rischiato di renderla una pedina pericolosamente autonoma nello scacchiere europeo e perfino di trascinarla, sul medio periodo, fuori dall’alleanza atlantica. Ogni velleità di espansione commerciale, di autonomia nella politica estera e nazionale, di crescita industriale, di tutela e recupero dell’identità culturale – tutte cose che l’impianto educativo di Gentile, in modo diretto o indiretto, consentiva di attuare – doveva essere stroncata sul nascere. Una colonia le cui strutture educative siano in grado di produrre una classe dirigente, di alto o medio livello, che si ponga a capo delle strutture politiche, economiche e finanziarie, nonché di garantire la refrattarietà della cultura nazionale alla penetrazione dei nuovi modelli di pensiero imposti dai dominanti attraverso i mezzi di comunicazione di massa, non resterà una colonia per molto tempo. Tutto questo doveva essere fermato.
Com’è noto, l’ostracismo al boom economico che avrebbe potuto sollevare l’Italia dal suo giogo iniziò fin da subito e si indirizzò su diverse linee d’azione. Il 27 ottobre 1962 venne assassinato, tramite un finto incidente aereo, il presidente dell’ENI Enrico Mattei, l’uomo che rischiava di dare all’Italia l’autosufficienza energetica necessaria per sostenere la sua crescita industriale indipendente. Mattei aveva iniziato a stringere accordi con Paesi petroliferi come l’Egitto di Nasser, l’Iran, il Sudan, restituendo all’Italia una politica estera mediterranea e mediorientale di grande prestigio che ampliava a dismisura gli ambiti d’iniziativa della politica nazionale. I proventi dell’ENI avrebbero potuto inoltre finanziare una classe politica autoctona del tutto slegata dalle logiche neocoloniali imposte dai dominanti. A piazzare la bomba sull’aereo di Mattei furono gli uomini di Giuseppe di Cristina, capo di una famiglia mafiosa manovrata, come molte altre, dagli interessi statunitensi.
Successivamente la battaglia per privare l’Italia di una classe politica autonoma si servì della “strategia della tensione”, durata quasi un ventennio e culminata nel rapimento e nell’assassinio di Moro. Essa doveva servire a tenere sotto costante minaccia la politica nazionale, allo scopo di chiudere all’Italia, con il ricatto e gli omicidi politici, ogni spazio di trattativa con l’estero che rischiasse di allentare i legami con la NATO. Tutte le strategie terroristiche e le bombe di quegli anni, pur diramate in mille rivoli di connessioni, collusioni, depistaggi, strumentalizzazioni e partecipazioni di agenzie d’intelligence nazionale e internazionale di varia provenienza ed estrazione, puntano decisamente ad una regia di marca statunitense che ideò e diresse le linee portanti dell’operazione.
Ma tra l’assassinio di Mattei e l’avvio della strategia della tensione, vi fu un altro evento, che servì a distruggere definitivamente alla radice ogni possibilità che una nuova classe dirigente italiana potesse rinascere dalle ceneri del terrorismo. Tale evento fu la contestazione studentesca del ’68, che spazzò via per sempre dall’impianto educativo italiano ogni forma di selettività e meritocrazia, eliminando una volta per tutte l’idea stessa che scopo e funzione primaria della scuola di Stato sia quello di garantire ad una nazione un’élite di “optimates” capaci di assicurarne la guida e i necessari spazi di sovranità. Quest’idea squisitamente gentiliana è stata sradicata non solo dalle normative scolastiche, ma dalle stesse teorizzazioni sulla funzione della scuola – falansteri “pedagogici”, la maggior parte dei quali sono, manco a dirlo, di provenienza statunitense – e rappresenta oggi, per chi osa riproporla, l’equivalente ideologico di una bestemmia in chiesa.
(…)
Privata della sua originaria e primaria funzione – quella di plasmare l’élite di una nazione, elevandola al di sopra della massa – la scuola è sopravvissuta ritagliandosi (senza mai ammetterlo) una serie di ruoli posticci: quello di ammortizzatore sociale, per lenire i morsi della disoccupazione che l’aborto prematuro del “boom” industriale ha disastrosamente generato; quello di baby-sitter, per tenere occupati con frizzi e lazzi di lieta ebetudine i figli delle famiglie così fortunate da contare ancora fra i propri membri una pluralità di individui dotati di stabile occupazione; quello di rinforzo all’ordine pubblico, assumendo su di sé il controllo e la parziale “detenzione” coatta giornaliera degli elementi più esagitati, sbandati e criminali del sottobosco giovanile, proliferati a dismisura con l’espansione dello scimunimento televisivo e dell’immigrazione; infine quello di vivaio clientelare che ha garantito per anni la permanenza ai vertici delle istituzioni degli artefici della rivolta sessantottarda. Costoro rappresentano l’élite borghese locale “di sinistra” che, su direttive impartite dall’establishment politico statunitense, si occupò della devastazione della scuola pubblica e della definitiva cancellazione dei criteri meritocratici gentiliani, sopravvissuti per un quarantennio e forieri di rischiose prospettive per i dominatori d’oltreoceano. A compenso dei loro servigi, i guastatori dell’istruzione nazionale ricevettero, com’è noto, una generosa distribuzione di poltrone di potere nel campo dell’informazione, della politica, dell’amministrazione e dell’industria di Stato; poltrone che occupano ancora oggi e che trasmettono per via ereditaria ai propri discendenti, su solenne giuramento di continuare a servire, nei secoli dei secoli, gli interessi contingenti dei loro munifici mecenati. Ottennero anche l’illimitata fiducia degli ambienti statunitensi, che consentì loro, dopo l’ordalia di “mani pulite”, di accreditarsi come successori privilegiati della vecchia classe politica scomparsa e come liquidatori della sovranità italiana a prezzi di realizzo, a favore, inutile dirlo, degli stessi loro burattinai. Le cose non andarono esattamente come avevano sperato a causa della discesa nell’agone politico di un certo Silvio Berlusconi… ma questa è un’altra storia.
Nella scuola pubblica, i guastatori sessantottardi hanno allevato per anni un’abnorme progenie di manutengoli in grado di fungere da serbatoio elettorale e da giustificazione politico-sociale delle loro cariche di potere. Ma questa sciarada volge ormai al termine. La burocrazia nata dal ’68 è ormai anagraficamente decrepita e politicamente sfiancata, non tanto dall’inatteso protrarsi del berlusconismo, quanto dalla rivelazione coram populo del suo tradimento e delle sue antiche vergogne. Il vivaio di funzionari della “cultura”, che ha garantito per anni la sua permanenza al potere, non ha più tutori. Si infittiscono i provvedimenti miranti a sfoltire e decurtare senza pietà le schiere di insegnanti, bidelli, dirigenti e rettori che hanno prosperato per decenni sulla devastazione della cultura nazionale, sull’asservimento ad ignobili politiche propagandistiche eterodirette (si pensi all’indecente celebrazione scolastica della “giornata della memoria”), sullo smantellamento sistematico di ogni residuo di sovranità nazionale. Contestualmente al repulisti, si levano stridule le grida di lesa maestà da parte degli ex intoccabili colpiti dalla falcidia. Che urlino pure. Se una critica (pesantissima) deve essere mossa ai recenti provvedimenti sulla razionalizzazione degli operatori della scuola, essa non sta nella meritoria potatura dei rami secchi che tali provvedimenti perseguono, bensì nel fatto che tali “riforme” non accennano neppure a mettere mano alla questione di base. Che sarebbe quella di estirpare alla radice, con metodi appropriatamente dolorosi, tutta la vanvera pedagogica sull’”egualitarismo”, sulla “valorizzazione delle diversità”, sui “programmi personalizzati”, sulla “didattica del gioco”, sul “cooperative learning”, sul pernicioso antiautoritarismo d’accatto, fonte d’indisciplina generalizzata che ha reso impossibile tanto la didattica quanto l’apprendimento… e su una pletora di altre sesquipedali fesserie con cui la scuola post-sessantottina, perduta la finalità di selezione delle eccellenze per cui era stata istituita, ha cercato di rifarsi un maquillage teorico-funzionale sbarazzandosi del fondamentale “perché” della propria esistenza e concentrandosi sull’abito da indossare nelle feste di società. Del ripristino di una funzione concreta e credibile dell’istruzione pubblica, nelle recenti rattoppature ministeriali non si trova la minima traccia.
E’ la perdita di un “perché” autentico e veritiero in grado di giustificare e rendere rilevante il suo compito che rende la scuola la città fantasma che è oggi. Un deserto in cui gli spettri di operatori e fruitori dell’insegnamento si aggirano in cerca di un senso, senza più ricordare il significato originario, di nobile e insostituibile pilastro della sovranità nazionale, un tempo assegnato al loro comune lavoro. Una commedia dell’arte in cui insegnanti ed allievi improvvisano giorno per giorno il proprio singolo ruolo, avendo perso di vista la sceneggiatura e la visione d’insieme della rappresentazione. S’intenda bene: non si tratta affatto di “crisi della scuola” (la scuola, in altre realtà nazionali, produce ben diversi e più preziosi risultati), ma di crisi di un “sistema scolastico”: quello italiano del dopoguerra, annichilito, insieme al resto dell’ossatura culturale del Paese, da un asservimento ai vincitori che sembra non lasciare scampo. E invece non si tratta di una dipartita terminale, ma di un semplice, benché funesto, aggiustamento delle strutture locali in funzione delle contingenze storiche. Che sono mutevoli e, come qualche recente avvisaglia lascia sperare, stanno già faticosamente cambiando direzione.
Da Scuola pubblica: chi l’ha uccisa e perché?, di Gianluca Freda.
[grassetto nostro]
Prima che Bush uscisse di scena, nel Novembre del 2009 durante un ricevimento alla Casa Bianca, Berlusconi apprestandosi a leggere il discorso in cui avrebbe rinnovato la fedeltà, la stima e la profonda amicizia che lo legava al Presidente, alla sua famiglia ed agli Stati Uniti, avvicinandosi al leggìo preparato per gli ospiti incespicò nel filo del microfono, trascinandosi dietro mobile ed appunti. Il patatrac sollevò tra i tavoli dei presenti un lungo “uuhhh” di stupore.
L’imbarazzo che colpì il Presidente del Consiglio mentre riacquistava l’equilibrio sulle gambe e tentava di dare ordine ai fogli volati via, raccogliendoli da terra, non poteva non dare un tocco di comicità al ruzzolone. Ma il peggio arrivò nei secondi successivi.
Berlusconi, per rimediare alla gaffe, non trovò di meglio che sfoderare un sorriso a 36 denti rivolgendo ai commensali la seguente battuta: “Vedete – disse – queste sono cose che succedono per il troppo amore che mi lega a voi e alla vostra grande Nazione”. Ciò che uscì in quel frangente dalla bocca di Berlusconi fu un mix di manifesta condivisione del “way of life” USA e di stomachevole, interessata ruffianeria. La frase, accompagnata da un largo gesto benedicente delle braccia, venne accolta da un battimani molto composto, quasi di semplice cortesia, dall’establishment di Washington mentre Bush continuava a ridersela sotto i baffi.
Appena trenta giorni prima, l’Amministrazione USA gli aveva fatto sapere che la commessa AW-101 di Agusta Westland, consociata controllata al 100% da Finmeccanica, era stata semplicemente tagliata fuori dalle forniture del Pentagono. La firma definitiva sulla cancellazione la metterà il Presidente Obama.
Era andata in fumo per l’Italia la vendita oltreoceano di 23 elicotteri da trasporto del valore, nel 2005, di 6.5 miliardi di dollari.
La disdetta (ufficiosa) era stata anticipata a Palazzo Chigi con un fax partito da Via Vittorio Veneto, con la motivazione che il costo finale stimato (!) della commessa avrebbe superato i 13 miliardi di dollari e… in previsione di una riduzione di spese… bla bla bla.
Il “regalino” portava la firma dell’ambasciatore statunitense in Italia Ronald Spogli, prima che gli subentrasse David Thorne.
Non si scomodarono per dargliene notizia né il Segretario di Stato C. Rice, né quello alla Difesa R. Gates. Il disappunto del Presidente del Consiglio, se c’era stato, svanì alla svelta. Continua a leggere
Nel gennaio 2009, quand’era in procinto di lasciare il posto di ambasciatore statunitense in Italia senza che ancora fosse stato reso noto il nominativo del suo sostituto (poi individuato in David Thorne…), Ronald Spogli tranquillizzò la stampa affermando: la scelta ”non cambierà gli ottimi rapporti esistenti tra gli Stati Uniti e l’Italia”.
In realtà, all’allora ambasciatore non mancavano le preoccupazioni, rivelate da un cablogramma inviato al Dipartimento di Stato di Hillary Clinton solo sei giorni dopo ed ora diffuso da Wikileaks.
L’argomento è il rapporto tra l’Italia e la Russia. Prendiamo in prestito le parole di Daniele Scalea, il grassetto è nostro.
“A causa di Berlusconi e dell’ENI, la Russia – lamenta Spogli – può oggi contare in Europa su un Paese che appoggia sistematicamente la sua causa. Tanto più adesso che, essendo venuto meno il rapporto personale che legava Berlusconi al precedente presidente degli USA, Bush jr., il Capo del Governo italiano pare destinato ad avvicinarsi sempre più a Mosca.
Ma gli USA non sono certo intenzionati a guardare senz’agire. La parte più interessante del documento è proprio quella dove si descrivono le contromisure che Spogli sta mettendo in atto – ma stranamente è anche la porzione di testo meno citata dalla stampa italiana. L’Ambasciata afferma d’essersi impegnata in colloqui con esponenti politici interni ed esterni al Governo, col fine esplicito di creare, soprattutto all’interno del suo partito, una corrente ostile alla russofilia di Berlusconi. Inoltre, non meglio precisati “pensatoi” sono stati ingaggiati per costruire una corrente d’opinione pubblica ostile alla Russia e, si compiace Spogli, «lo sforzo sembra che stia pagando». L’opposizione si è subito regolata, impegnandosi nella critica del rapporto di Berlusconi con Putin, e taluni membri del PDL si sono rivolti privatamente ad un’ambasciata straniera – ovviamente quella degli USA – «per contrastare l’infatuazione di Berlusconi per la Russia».”
Ci uniamo quindi a Scalea nell’invitare i lettori a ponderare queste affermazioni di Spogli, ed a confrontarle con quanto accaduto nella stampa, nella società civile e soprattutto nella politica interna italiana dal gennaio 2009 ad oggi.
Abbandonare Kabul – la dichiarazione è arrivata da Rasmussen, il Segretario Generale della NATO al summit dei 28 ministri della Difesa dell’Alleanza Atlantica che si è tenuto a Bratislava il 22 Ottobre 2009 – avrebbe, a suo dire, costi altissimi e catastrofiche conseguenze per l’Europa.
“A quelli che ci chiedono se il costo del nostro impegno non sia troppo elevato, io rispondo – ha continuato – che il costo della mancata azione sarebbe molto più grande ed il Paese (l’Afghanistan – ndr) ridiventerebbe terreno di addestramento di Al Qaeda”.
Mentre salta immediatamente agli occhi la colossale menzogna di queste affermazioni e la pagliaccesca strumentalità delle motivazioni, traspare tra le righe una paura folle: la necessità di tenere ancora aggregata la partecipazione militare dei Paesi del vecchio e del nuovo Continente (per dirla alla Rumsfeld) al traballante apparato militare degli USA, a corto anche di elicotteri da trasporto medi e pesanti, nonostante un’immissione di 100 nuovi CH-47 per posizionare e rifornire sul campo il contingente aggiuntivo di 39.000 marines e rangers arrivati a scaglioni dall’Iraq nell’arco degli ultimi sei mesi.
Ad ISAF NATO aderisce anche personale militare appartenente a Stati falliti (Polonia, Estonia, Lituania) e Stati falliti e criminali (Georgia e Kosovo). Rasmussen dai singoli governi dell’Europa ha preteso ed ottenuto nel corso del 2009 complessivamente 7.000 unità aggiuntive.
USA e NATO hanno chiesto aiuto alla Russia per poter disporre entro il 2011 di altri 56 elicotteri da trasporto MI-8 dopo i 16 già arrivati a Kabul.
Mosca ha risposto affermativamente alla richiesta avanzata dal Pentagono, mettendo inoltre a disposizione di Washington nuovi corridoi aerei e le tratte ferrate della Russia per il trasporto del materiale militare. Esamineremo i perché in altra occasione.
Da Bratislava ad oggi per bocca di Frattini e La Russa, su decisione di Napolitano e dei soci del Consiglio Supremo (!) di Difesa, l’Italia senza badare a spese ha contribuito alle nuove necessità operative della “missione di pace” con l’invio in Afghanistan di altri 1.450 militari, con larga dotazione di mezzi blindati e rifornimenti logistici. L’impegno assunto dalla Repubblica delle Banane sfiora da solo il 20% della richiesta fatta all’intera Europa.
Altri 200 “istruttori” dell’Arma dei Carabinieri destinati ad affiancare formazioni dell’esercito afghano raggiungeranno Herat entro Dicembre.
Decisione resa nota da Ignazio La Russa a distanza di ventiquattro ore dalla visita mattutina di Rasmussen al Quirinale, alla presenza del ministro degli Esteri Frattini, ed a Palazzo Chigi nel primo pomeriggio del 17 Settembre. Visita che ha come al solito fatto registrare sorrisi larghi e convinte strette di mano, e messo in risalto il clima di solida, perdurante amicizia esistente tra le parti.
Sul nuovo oneroso impegno dei 200 Carabinieri da sbattere nella regione Ovest, l'”opposizione” ha pensato bene di fare, ancora una volta, l’usuale scena muta. Continua a leggere
I post-tutto non ci dicono, però, dove l’Italia che si apprestano a dirigere, si approvvigionerà di materia prima energetica, nè in che modo costruiranno l’indispensabile e improcrastinabile diversificazione energetica. Vedono demoni dappertutto: compreranno alla Shell, BP o Exxon?
I D’Alema e i Fini, cioè i privatizzatori all’ingrosso di ieri e quelli nuovi che si apprestano ai saldi di fine stagione, con la svendita di Finmeccanica ed ENI, non hanno nessuno scrupolo quando spediscono l’esercito italiano ad aiutare gli USA a violare i diritti umani nei Balcani, in Iraq e in Afghanistan. Oltretutto, in guerre perse in partenza.
Sono spudorati nel fiancheggiamento automatico e garantito degli Stati Uniti nell’epoca della sua decadenza persino militare e della “barbarie giuridica” – si dice così La Russa o Fassino? – della legalizzazione del sequestro di persona, della tortura e dei campi di prigionia clandestini. Chissà perchè a Washington diventano ipersensibili quando i “diritti umani” sarebbero violati da nazioni esportatrici di gas e petrolio. Eccezion fatta per l’Arabia saudita ed alcuni Emirati.
Eppure la Russia e la Libia non hanno invaso nè fanno guerra a nessuna nazione. Gli scolaretti romani salgono sul pulpito della loro immaginaria superiorità etica e tuonano contro “Putin e Gheddafi”, ossia contro chi mantiene sensate relazioni con Russia e Libia.
Due paesi con cui gli USA hanno scarse relazioni, il cui boicottaggio economico è autolesionista solo per l’Unione Europea – non per la Germania che se ne impippa – e soprattutto per un’Italia totalmente dipendente energeticamente, priva di qualsiasi fonte alternativa: nucleare, eolica o di altro tipo.
Il governo in gestazione, formato da Fini, D’Alema, Draghi, Montezemolo e molti riciclati del post-comunismo e post-fascismo, si sbarazzerà delle ultime strutture nazionali in campo energetico e della meccanica strategica, e metterà mano alla liquidazione delle scuole pubbliche. Privatizzerà l’INPS, cioè la trasferirà in mani rigorosamente anglosax, perchè sono gli ultimi superstiti balocchi appetitosi dell’ex giardino d’Europa.
Lo faranno in nome della modernizzazione, del “progresso” e del sano realismo finanziario, in realtà per acquiescenza agli sponsor che li stanno aiutando in tutti i modi – leciti e no – stabiliti nell’ultima adunanza degli innominati del Bildberg in quel di Barcellona. Privatizzazione accelerata, rafforzamento dell’EuroNATO, condiscendenza piena e “carnale” al partecipare in tutte le avventure programmate dal Pentagono. Anche nei mari caldi e nei grandi fiumi delle Americhe meridionali, a fianco della IV Flotta. “Non è vero che l’Italia spenda molto per la difesa…” ha sillabato D’Alema.
Da Italia: contro Gheddafi o contro il petrolio dalla Libia?, di Tito Pulsinelli.
[grassetto nostro]