L’incubo dei potenti

“Per le dittature è importante dimostrare che con esse non è venuta meno la libertà di dire no. (…) La propaganda ha bisogno di una situazione nella quale il nemico dello Stato, il nemico di classe, il nemico del popolo sia già stato messo fuori combattimento e ridicolizzato, e però non sia ancora scomparso del tutto. Il semplice consenso non basta alle dittature: per vivere esse hanno bisogno altresì di incutere odio e, per conseguenza, di seminare il terrore.”

“(…) la maggioranza deve imporsi non soltanto numericamente, ma anche con i segni di una superiorità morale.”

“Nel clima della tirannide, l’umorismo, come tutte le altre manifestazioni che accompagnano la libertà, viene meno.”

“Le dittature non sono soltanto pericolose, sono esse stesse sempre in pericolo poiché l’uso brutale della forza suscita ovunque ostilità. Stando così le cose, la presenza di esigue minoranze pronte a tutto costituisce una minaccia, in particolare quando esse abbiano messo a punto una loro tattica.”

“Se le grandi masse fossero così trasparenti, così compatte fin nei singoli atomi come sostiene la propaganda dello Stato, basterebbero tanti poliziotti quanti sono i cani che servono a un pastore per le sue greggi. Ma le cose stanno diversamente, poiché tra il grigio delle pecore si celano i lupi, vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato che cos’è la libertà. E non soltanto quei lupi sono forti in se stessi, c’è anche il rischio che, un brutto giorno, essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in branco. E’ questo l’incubo dei potenti.”

“Saranno quindi delle élites a dare battaglia per una nuova libertà – battaglia che esige grandi sacrifici e pretende un’interpretazione che non sia impari alla loro dignità. (…) E’ giusto dire che la tirannide rimuove e annienta la libertà – anche se non si deve dimenticare che la tirannide diventa possibile soltanto se la libertà è stata addomesticata e ormai ridotta a vuoto concetto.”

 “(…) soltanto una frazione delle grandi masse umane è in grado di sfidare le potenti finzioni del nostro tempo e le minacce che esse irradiano. (…) In situazioni del genere l’iniziativa passa immancabilmente nelle mani di quei gruppi di eletti che preferiscono il pericolo alla schiavitù. E la riflessione precederà sempre le loro azioni.”

“Nessuno di noi può sapere oggi se per caso domani mattina non si troverà a far parte di un gruppo dichiarato illegale. Ogni parvenza di civiltà sembra in tal caso abbandonare la nostra esistenza, mentre scompaiono gli scenari del benessere che anzi si trasformano in segni premonitori di distruzione.”

“E la sovranità oggi non si riscontra più nelle grandi risoluzioni, ma esclusivamente nell’uomo singolo che ha abiurato in sé la paura. Le incredibili procedure ideate soltanto contro di lui sono destinate, in ultima istanza, al suo stesso trionfo. Quando l’uomo capisce questo, è libero. E le dittature crollano miseramente.”

“La resistenza richiede grandi sacrifici: il che spiega anche perché la maggior parte delle persone scelga la costrizione. Ma la storia autentica può essere fatta soltanto da uomini liberi. La storia è l’impronta che l’uomo libero dà al destino. In questo senso possiamo dire che l’uomo libero agisce in nome di tutti: il suo sacrificio vale anche per gli altri.”

“La libertà è il grande tema di oggi, è la forza capace di dominare la paura. La libertà dovrebbe essere la materia più importante da insegnare agli uomini liberi, al pari dei modi e delle forme di rappresentarla efficacemente e di manifestarla nella resistenza.”

“Terra vinta ci dona le stelle”

checkpoint

“Se l’anima tua e il tuo cuore restan sgomenti
dinanzi ad abissi che mai alcun occhio ha scrutato
buttati, la tua caduta sarà benedetta
e ovunque ti abbraccerà la verità”
Alfred Kubin (dedica a Ernst Jünger)

“Alle nove, un poderoso, sempre crescente rumorio annuncia l’arrivo dei carri corazzati americani. La strada è deserta. Lo sguardo, stanco, la vede ancora più nuda, più vuota d’aria nella luce del mattino. Come già spesso nella mia vita, anche questa volta sono l’ultimo, in questo pezzo di terra, che abbia ancora autorità di comandare. Ho dato ieri in questa veste l’unico comando: occupare lo sbarramento anticarro e aprirlo non appena i primi carri armati americani siano in vista.
Come sempre in tali situazioni, anche questa volta sono avvenute, a quanto mi raccontano alcuni testimoni, cose impreviste. Lo sbarramento si trova nel Lannewehrbusche, la vecchia linea di fortificazione, in un pezzo di bosco comprato una volta da mio padre. Quivi sono comparsi due sconosciuti armati di panzerfaust e si sono piazzati ai margini del bosco bloccando così l’avanguardia, poiché è occorso molto tempo prima di poterli, mediante tiratori avanzati, disarmare e fare prigionieri.
Poi è giunto un uomo solo. Si è fermato, in piedi, non lontano dallo sbarramento, in un viottolo del bosco. Nell’attimo in cui il primo tank grigio con la stella a cinque punte è comparso, ha tolto la sicura a una pistola e si è sparato alla testa.
Sto alla finestra e guardo, oltre il giardino spoglio, la strada. Il macinante rotolio si avvicina. Poi, lentamente, come una illusione ottica, passa un carro armato grigio dalla rilucente stella bianca. Lo seguono, in formazione serrata, carri da guerra in numero infinito, che continuano a passare per ore e ore. Piccoli aerei li sorvolano. Lo spettacolo desta un’impressione eminentemente automatica nella sua unione di uniformità militare e meccanica, come se sfilasse una parata di bambole, un corteo di giocattoli pericolosi. A volte l’ordine di fermarsi si propaga lungo la colonna. Allora si vedono le marionette, come tirate da un filo, chinarsi in avanti; e poi piegarsi indietro quando ripartono. Come sempre, il nostro sguardo si fissa su particolari precisi; così mi colpiscono particolarmente le lucide antenne per radiotrasmettere che oscillano sui tanks e sulle macchine che li accompagnano: nasce in me l’impressione di una magica partita all’amo, per la cattura, forse, del Leviatano.
Ininterrotta, lenta, pure inarrestabile, scorre questa immensa fiumana di uomini e di acciaio. Le masse di sostanza esplosiva, che una tale colonna rimuove, la avvolgono come una spaventosa radiazione. E, di nuovo, come già nel 1940 durante l’avanzata [tedesca in Francia – ndr] verso Soissons, sento il prorompere di una poderosa potenza in una regione completamente disfatta. E, anche, torna la tristezza che mi prese già allora. Quanto è bene che Ernstel [il figlio primogenito dell’autore, caduto sul fronte italiano, nei pressi di Carrara, nel novembre 1944 – ndr] non veda questo! Troppo lo avrebbe addolorato. Non è più possibile riaversi da una tale sconfitta, così come una volta, dopo Jena o Sedan. Rappresenta una svolta nella vita dei popoli; e non soltanto infiniti uomini, ma anche molte cose che facevano intimamente parte di noi devono morire in questa transizione.
Si può vedere l’inevitabile, capirlo, volerlo, persino amarlo; e tuttavia essere tormentati da un tremendo dolore. Bisogna sapere questo se si vuol capire il nostro tempo e i suoi uomini. Che cosa è il dolore della nascita, che cosa quello della morte, in confronto di questo? Forse sono ambedue identici, così come il tramonto del sole per noi rappresenta nel medesimo tempo l’aurora per nuovi mondi.
“Terra vinta ci dona le stelle.” Queste parole si fanno incredibilmente vere in un senso parziale, spirituale, sopratterreno. L’estrema fatica presuppone, ancora ignota, una meta estrema.”
(11 Aprile 1945)

Da Irradiazioni. Diario 1941-1945, di Ernst Jünger, pp. 526-527.

[Dello stesso autore: Un giovane Leviatano dietro due pesci piloti [yankee soldier abroad]]

Un giovane Leviatano dietro due pesci piloti [yankee soldier abroad]

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“Sedevo nello scompartimento con due cortesi italiani. A Livorno salì, aggiungendosi a noi, un marinaio americano. Portava shorts che lasciavano scoperta gran parte della coscia e una camicia color kaki con le maniche che arrivavano poco sotto le ascelle. Adattò a schienale la sua voluminosa sacca d’ordinanza, si sdraiò di traverso sul sedile imbottito, e muovendo lentamente le mascelle sprofondò in una specie di meditazione.
Si trattava palesemente di uno degli infimi gradi nella gerarchia militare; il suo biglietto ferroviario di prima classe lasciava intendere come egli godesse dell’invidiabile gamma di mezzi a disposizione delle forze armate cui apparteneva. Quando s’incontrano militari americani, ciò che avviene inevitabilmente nei diversi paesi europei, si è irresistibilmente colpiti da un’impressione contrastante che non è facile tradurre in parole. Da un lato, si percepisce la forte e marcata consapevolezza con cui viaggiatori di questo tipo si muovono sui percorsi militari e tra le basi d’acquartieramento che tessono una trama sull’intero continente. Su tutte le grandi strade, in tutte le stazioni ferroviarie, in tutti gli aeroporti si trovano le loro scritte in codice, i loro segni cabalistici, i loro generi voluttuari. Quale rapporto ha tutto questo con l’atteggiamento trasognato, con quella sorta di stato di trance che contraddistingue simili viaggiatori? E’ da supporre che essi non posseggano alcuna nozione, o tutt’al più che ne abbiano una molto superficiale, del luogo in cui vengono a trovarsi, Stoccarda o Yokohama, Torino o Manila. Li si vede in tutti i centri abitati, in tutti gli angoli del mondo con le stesse abitudini, con gli stessi comforts, con la stessa aria d’innocenza, insomma dotati di quel semper idem che Santippe celebrava in lode del suo Socrate. Cicerone scrisse in proposito che giustamente Socrate aveva sempre la stessa espressione, poiché lo spirito che la suscitava era immutabile.
Ciò non vale soltanto per Socrate. In questo caso, il semper idem è una vacuità indifferenziata che quasi ciascuno riflette nel suo volto e che è sufficiente ad alleggerire il peso del bagaglio. Accadeva anche nell’impero romano. Con i cittadini di un potente impero che viaggiano nelle sue province è sempre come con il pane e l’acqua: il sapore specifico passa in secondo piano. Il contrario renderebbe la prognosi sfavorevole.
Alle sorprendenti e spesso sconcertanti singolarità della nostra epoca appartiene l’assunzione della dottrina di Monroe a coscienza planetaria, la quale si sente responsabile di ogni punto della terra e presto forse anche di realtà extraplanetarie. Si vedono le sorgenti, ma non la foce – chi conosce le correnti derivate da questo Mississippi, che con impeto crescente si muove verso il suo colmo, verso il suo sbocco di piena ancora lontano e inimmaginabile? Le cateratte non fanno altro che accelerarne il corso. Si vede tutto questo in un libro illustrato, si presagisce la sciagura, ma come sono avare, invece, le testimonianze di una élite intellettuale la cui riflessione dovrebbe, se non pilotare, quanto meno accompagnare il corso delle cose! Forse anche questo fa parte di una sensibilità indifferenziata. Nei tipi umani descritti da Norman Mailer viene alla luce l’uno e l’altro aspetto, ma anche l’intelligenza critica di un autore di ceppo britannico.
Intanto il treno si era rimesso in moto, e sobbalzai, interrotto nella mia meditazione da un grido dell’uomo in kaki che pareva lo stridìo di un uccello. Il marinaio aveva eruttato quell’urlo senza neppure alzare gli occhi, e il suono era pressappoco:
«Gii-ne-wà?».
Anche i due italiani furono ricondotti allo stato di attività dall’inopinata emissione sonora, ma parvero capire il significato del grido, poiché uno di loro rispose con voce melodiosa:
«Sì, sì, signore, questo è íl treno per Genova».
L’uomo in kaki lo scrutò con aria benigna. Poi aprì la bocca a una seconda laconica inchiesta:
«Ri-storànt-kar?».
Ma sì, c’era anche la carrozza ristorante. I due si offrirono di accompagnarlo, ed egli sparì scortato da loro come un giovane Leviatano dietro due pesci piloti.”

Estratto da Presso la torre saracena, occasione il ritorno da un viaggio in Sardegna compiuto dal romanziere e saggista tedesco Ernst Jünger nel 1954.
Il testo si trova nella raccolta denominata Il contemplatore solitario, Ugo Guanda editore, 1995, pp. 204-206.