F-35: è il momento di uscirne

FELLINI AIR FORCE“Se l’F-35 diverrà davvero operativo e manterrà le promesse circa caratteristiche e prestazioni, le capacità di cui tanto si parla saranno quelle di mettere le nostre forze armate per i prossini 50 anni in condizione di totale sudditanza e dipendenza dagli Stati Uniti. Una superpotenza che mai come oggi opera su scala globale contro gli interessi dell’Italia e dell’Europa come è apparso chiaro negli ultimi anni a chiunque non sia cieco o in mala fede guardando al ruolo di Washington dalla Libia alla Siria, dall’Ucraina all’Iraq.
Se all’acquisizione degli F-35 aggiungiamo poi la volontà della Marina di equipaggiare i nuovi “pattugliatori d’altura” (ma non sarebbe meglio chiamarli con il più realistico anche se meno “dual use” termine di cacciatorpediniere?) con il sistema antimissile americano Aegis (radar SPY-1 e missili Standard) il tentativo di far diventare le nostre forze armate una succursale di quelle statunitensi è evidente. Ovviamente i costi li paghiamo noi mentre gli americani incasseranno le commesse di prodotti “made in USA” e risparmieranno in termini di dispiegamento di forze oltremare. Come abbiamo più volte ribadito gli interessi italiani, strategici e industriali, si tutelano completando la commessa degli Eurofighter Typhoon che sono perfettamente in grado di compiere operazioni di attacco come ben sanno tutte le aeronautiche che lo impiegano tranne la nostra, che finge di non saperlo e dice di considerarlo solo un caccia ma poi gli imbarcherà sopra il missile da crociera Storm Shadow, arma strategica per l’attacco a lungo raggio contro obiettivi terrestri che non entra nella stiva dell’F-35 progettata (ma guarda un po’) per imbarcare solo armi americane.
(…)
Restando in Italia basta invece dare un’occhiata al bilancio della Difesa dei prossimi anni per rendersi conto che l’F-35 non possiamo permettercelo.
A Roma si riempiono la bocca con le “Linee guida” del Libro Bianco ma è tutto fumo perché non ci sono e non ci saranno risorse per mantenere l’attuale struttura militare già alla paralisi, figuriamoci se potremmo permetterci qualcosa di meglio o forze aeree basate su due macchine da combattimento costose come il Typhoon e l’F-35. Basta leggere la tabella riportata nel Documento Programmatico Pluriennale del Ministero della Difesa (che sarà oggetto di un prossimo approfondimento) per rendersi conto che nei prossimi anni i fondi per la Funzione Difesa scenderanno sotto i 14 miliardi annui.
La percentuale del PIL dedicata alla Difesa calerà dall’attuale 0,87 allo 0,80 nel 2016 e ben difficilmente il governo Renzi dedicherà la necessaria attenzione alle forze armate, forse considerate utili per i buonismi da Mare Nostrum ma non percepite come strumento per la tutela degli interessi nazionali dall’approccio da boy-scout che caratterizza l’attuale esecutivo.
Ricordate le tante belle chiacchiere sulla riforma Di Paola e i “miracoli” derivanti dalla riduzione del personale da 183 mila a 150 mila effettivi? Un’iniziativa definita necessaria a liberare risorse per Esercizio e Investimenti migliorando l’efficienza delle forze armate.
Ebbene, le spese per il Personale aumenteranno da 9,55 miliardi di quest’anno a 9,78 negli anni 2015 e 2016 raggiungendo il 70 per cento dello stanziamento per la Funzione Difesa. Se poi si tiene conto che l’aumento di questa voce di spesa risulta contenuto dal pagamento con ritardi biblici di ogni forma di straodinario e indennità d’impiego e soprattutto dal blocco degli stipendi dei militari e di quasi tutti i pubblici dipendenti in atto ormai da quattro anni appare chiaro come ogni ipotesi di riformare lo strumento militare con le risorse oggi disponibili risulti del tutto inattendibile.
Dovremmo rassegnarci all’idea che la Difesa si inginocchi agli ordini del Pentagono, compri 90 (o 65) F-35 ma continui a non adeguare gli stipendi dei militari e a ritardare all’infinito il pagamento di indennità e straordinari?
(…)
Forze armate che hanno budget tripli ai nostri, come quelle di Germania e Francia, configurano le flotte di aerei da combattimento su un solo velivolo (Typhoon e Rafale) e noi italiani vogliamo averne due? Come Analisi Difesa ha più volte ribadito se anche riuscissimo a comprare un numero deguato di F-35 non avremo i soldi per fare il pieno di carburante e per la manutenzione che sarà molto più costosa di quanto previsto inizialmente. Il governo spagnolo ha appena respinto con realismo l’ipotesi di acquistare una ventina di F-35B per rimpiazzare gli Harrier imbarcati che verranno aggiornati per prolungarne la vita utile. Una strada che dovrebbe forse percorrere anche la nostra Marina per gestire meglio le magre risorse e perché l’AV-8B ammodernato sarà ancora a lungo sufficiente a colpire con efficacia ogni nostro potenziale nemico.
Il Programma F-35 non è quindi un buon affare per noi sotto nessun punto di vista: azzera la sovranità nazionale, pone la nostra industria alle dipendenze di Lockheed Martin e azzoppa definitivamente le forze aeree con un velivolo che non riusciremo a gestire. Sul piano dei ritorni industriali la situazione non è migliore: produrremo poche ali (l’unico contratto firmato finora da Alenia Aermacchi riguarda una ventina di ali per 140 milioni di dollari contro le 1.200 ali promesse) e qualche “bullone” realizzato da una quarantina di piccole e medie imprese. Nulla di sofisticato e non avremo ritorni nel campo del know-how dal momento che le tecnologie avanzate del velivolo verranno trattare solo da personale statunitense in aree “US Only” (ma pagate dai contribuenti italiani) dello stabilimento di Cameri. Persino il numero di aerei che verranno assemblati alla FACO è talmente ridotto da rendere lo stabilimento improduttivo: l’Italia scenderà da 131 esemplari a 90 o ancor meno e l’Olanda è già scesa da 85 a 37 la cui manutenzione verrà forse effettuata in Gran Bretagna.
(…)
Rivendiamo agli Stati Uniti o ad altri Paesi gli aerei già acquisiti, trattiamo con Lockheed Martin la vendita o l’affitto della FACO per la manutenzione dei jet delle forze americane in Europa o di altri Paesi alleati. Anche indennizzando le piccole e medie imprese italiane già coinvolte nel programma e completando la commessa del Typhoon ad Alenia Aermacchi otterremmo un forte risparmio, guadagneremmo in autonomia strategica e industriale e potremmo rilanciare quella cooperazione europea di cui da anni tutti i politici vanno blaterando. E poi, quale migliore occasione del semestre di presidenza dell’Unione Europea per annunciare l’uscita dell’Italia dal programma americano più costoso e (per ora) fallimentare della storia?”

Da Limitiamo i danni e rinunciamo ora all’F-35, di Gianandrea Gaiani.

La Difesa in crisi di identità

10177532_862656523762149_3331050011974390149_nSul risultato non ci sarà poi molto da discutere. Che l’ambiente alla fine risulti pulito, che i migranti trovino interpreti al loro approdo e si sentano bene accolti in terra straniera, che la Difesa finisca per corrispondere maggiormente ai desideri della popolazione, piuttosto che a un fine superiore basato su una visione strategica, insomma, tutto questo alla fine ci farà sentire felici cittadini di un paese democratico.
Tuttavia qualche pulcetta viene da farla. Soprattutto quando la perplessità di fronte a certe scelte davvero non si può nascondere.
È il caso dell’ennesimo esempio di utilizzo dell’Esercito per fare le pulizie, della individuazione di mediatori culturali militari da mettere sulle spiagge di Lampedusa, dell’invito a esprimere il proprio parere online in merito alle direttive che la Difesa dovrà intraprendere, e che pubblicherà poi sul suo Libro Bianco.
Giusto per fare riferimento agli ultimi casi di cronaca, intendiamoci. E non si tratta di interventi di pubblica calamità, tutt’al più di una certa pubblica e limitata utilità, se proprio vogliamo essere speculativi. Continua a leggere

Le cause della morte sono da accertare

Agostino.Infante.tencol

Il tenente colonnello dell’Esercito Agostino Infante, al comando del CERT Difesa dal settembre 2012 all’aprile 2014, come si legge dal suo profilo LinkedIn, considerato uno dei massimi esperti della Difesa nel settore informatico, è stato trovato privo di vita nella camera dell’hotel in cui alloggiava a Budapest nell’ambito della sua partecipazione a una conferenza NATO sui sistemi informatici e la loro sicurezza.
La notizia è stata diffusa nella serata di ieri, 13 giugno, da fonti web di Castellammare di Stabia, Napoli, paese di origine del colonnello Infante; dal Mattino, quotidiano di Napoli, e da RaiNews .
Il tenente colonnello Infante, 46 anni, abitante a Milano con la famiglia, era in Ungheria in missione NATO, in rappresentanza dell’Italia, per una conferenza sugli aggiornamenti dei sistemi di sicurezza informatici. Era a Budapest da lunedì. E’ stato trovato senza vita nel letto dell’albergo in cui alloggiava, spiega RaiNews, che riporta anche il cordoglio della Difesa nelle parole del sottosegretario Domenico Rossi: “La notizia della morte dell’alto ufficiale dell’Esercito, Agostino Infante, avvenuta a Budapest, sede della missione dove si trovava il tenente colonnello, mi ha profondamente addolorato come ogni volta in cui muore un servitore dello Stato”.
Il tenente colonnello era al comando C4 della Difesa, sistemi informatici di sicurezza, e operava per la NATO. Era entrato nell’Esercito dopo aver frequentato l’Accademia di Modena, poi era entrato nella NATO di Napoli e da qui era stato inviato a Bruxelles, “dove era stato formato da un generale americano” si legge da RaiNews . Ha comandato il battaglione della caserma Frejus di Torino.
Le cause della morte sono da accertare. La salma dell’ufficiale rientrerà in Italia dopo l’autopsia, che è prevista per lunedì o martedì prossimo.

Fonte

Sesso, droga e Afghanistan

parolisi

La droga afghana uccise Melania Rea. Un libro choc riapre il caso Parolisi,
di Alberto Berlini

Carmela Melania Rea il 18 aprile 2011 era uscita gioiosa con figlioletta e marito per una gita sul pianoro di Colle San Marco, una collina alta 600 metri che sovrasta Ascoli Piceno. Il suo cadavere, straziato, viene ritrovato 48 ore dopo sul lato opposto del pianoro. Per la morte della giovane donna, il 26 ottobre del 2012 viene condannato all’ergastolo il marito, il caporal maggiore capo degli Alpini, Salvatore Parolisi. Ma sul caso restano dubbi e teorie che raccontano un’altra verità.
Se il Parolisi è personaggio che, come ampiamente dimostrato, è stato traditore dell’amore coniugale, questo non vuol dire che sia automaticamente l’assassino della moglie. Nella fase iniziale delle indagini sono state sondate numerose piste, da quella sessuale dei festini organizzati con le allieve della caserma Clementi, alla pista camorristica e delle infiltrazioni nelle nostre strutture militari, fino a quella dei traffici di droga che vedrebbero coinvolti, a causa del problema “ambientale endemico” dell’eroina afgana raccontato nelle pagine del libro di Alessandro De Pascale e Antonio Parisi “Il caso Parolisi, sesso droga e Afghanistan” in uscita per Imprimatur editore.
È ormai un fatto assodato, ad esempio, il massiccio uso di droga e psicofarmaci da parte delle truppe impegnate in Afghanistan, un Paese che produce oltre il 90 per cento di tutto l’oppio e l’eroina mondiali. E dove si è registrato un vertiginoso aumento negli ultimi due anni proprio nelle province sotto il controllo italiano, nelle quali aveva operato lo stesso Parolisi.
Un sottile filo rosso che lega Parolisi ai campi di papavero afgani: non ci sono prove definitive, ma Melania Rea potrebbe essere stata uccisa non perché il marito vistosi negare da lei un rapporto sessuale, l’abbia massacrata a coltellate, ma perché qualcuno o qualche organizzazione criminale ha voluto vendicarsi o punire più o meno gravi “leggerezze” del marito. Se così fosse rimane da chiedersi quali siano le motivazioni del silenzio di Parolisi e perché preferisca beccarsi una condanna così pesante. Apparentemente, questa, può sembrare una scelta folle, senza senso. Ma nel caso quei segni sul corpo della povera Melania, la siringa nel petto e il laccio emostatico, siano un messaggio destinato alle altre persone a conoscenza di questi inconfessabili segreti, questo sarebbe immediatamente stato compreso da chi doveva capire.
Alle ore nove del 25 settembre, presso la Corte d’appello de L’Aquila si aprirà il processo di secondo grado per la morte di Melania. Parolisi, ormai dietro le sbarre da due anni, ha già fatto sapere, tramite il suo avvocato, che sarà presente in aula e che stavolta vuole un processo vero, le cui porte dovranno essere aperte anche alla stampa.
La polvere del deserto afgano finiranno forse per invadere le aule dei tribunali. A Kabul c’è chi gioca sporco. Ne sono convinti i due autori del libro che contiene una inchiesta giornalistica che conduce dritto dritto in Asia e nel pantano della missione ISAF-NATO. C’è poi la criminalità organizzata italiana, segnatamente la camorra, come sempre insuperabile quando si tratta di fiutare e intuire ogni possibilità di lucro, che si sarebbe già bellamente installata nel Paese asiatico, mettendosi persino a raffinare eroina sul posto. L’anarchia data da questi 12 anni e mezzo di guerra ha portato l’Afghanistan a produrre nel 2006 un terzo in più di tutto l’oppio usato nel mondo, le narcomafie a trasformare la Russia putiniana nel primo consumatore mondiale di eroina, i signori della droga a fare affari d’oro, anche grazie agli stessi militari.

[I collegamenti inseriti sono nostri – ndr]

I militari spalano a pagamento

Mentre è in dirittura di arrivo la conversione in legge del decreto per le “missioni di pace”, con stanziamento previsto nel 2012 di 1.282 milioni di euro (cioè circa 3,5 milioni al giorno)…

I sindaci alle prese con l’emergenza neve vogliono l’aiuto dei militari dell’Esercito? Nessun problema, basta pagare: 700 euro al giorno per dieci spalatori (cioè soldati con una pala in mano), più il vitto, e l’alloggio. È quanto sta pagando, spinto da un’emergenza che si fa ogni ora più grave, il Comune di Urbino: nel circondario la neve ha raggiunto i 3-4 metri di altezza, l’accesso a singole abitazioni e intere frazioni è sempre più difficile, e i mezzi a disposizione non bastano più.
Decisamente più salato si prospetta il conto per il Comune di Ancona, che proprio oggi ha reclutato 14 spalatori del 28/o Reggimento di Pesaro e 17 militari (più sei mezzi spazzaneve) in arrivo da Piacenza, per liberare le frazioni rimaste off limits.
«Le Forze armate non avanzano richieste onerose alle amministrazioni locali per intervenire» precisa in serata il ministero della Difesa. «Il problema dell’onerosità dei concorsi – spiega in una nota – riguarda i rapporti tra le Amministrazioni ministeriali».
Cioè, sembra di capire, i rapporti fra ministero della Difesa e degli Interni: i sindaci dovrebbero essere risarciti se e quando per i loro territori verrà dichiarato lo stato di emergenza. Stato di emergenza che la Regione Marche non ha chiesto, almeno per ora, perché, lo ha ricordato il governatore Gian Mario Spacca, in base al decreto Milleproroghe a pagare sarebbero i cittadini, costretti a subire, come proprio qui è già avvenuto con l’alluvione di un anno fa, un aumento delle accise sulla benzina.
«Non voglio fare polemiche, in un momento così drammatico le istituzioni devono collaborare, e non polemizzare» premette il presidente Pd della Provincia di Pesaro Urbino Matteo Ricci, che ha sollevato per primo il tema. «Ma non mi sembra giusto che lo Stato faccia pagare i Comuni in un frangente simile, quando raggiungere o non raggiungere un’abitazione, un borgo sepolto dalla neve è spesso questione di vita o di morte per anziani, malati, bambini. I Comuni e le Province sono già strozzati dal Patto di stabilità, stanno spendendo milioni di euro, che non hanno, per mettere in campo spazzaneve, pale meccaniche, servizi di prima necessità, e devono pagarsi pure l’Esercito…».
Al sindaco di un piccolo comune della zona che aveva provato a saggiare il terreno è giunto un fax di risposta con un preventivo di 800 euro: doccia gelata, e la scelta di rinunciare all’impiego delle tute mimetiche. «Per fortuna – è l’amara ironia dell’assessore provinciale ai Lavori pubblici Massimo Galuzzi – Urbino risparmia qualcosa sull’alloggio: i militari arrivano al mattino da Pesaro, e tornano a dormire in caserma».
Sulla stessa linea il sindaco di Ancona Fiorello Gramillano. Duecento euro al giorno un bobcat, 800-900 euro per una ruspa, un somma «al di sotto dei 100 euro a testa» per l’impiego dei soldati, cui però vanno garantiti vitto e alloggio: questo il tariffario che il sindaco si è formalmente impegnato a onorare, in una comunicazione scritta passata attraverso la Prefettura del capoluogo, per poter avere l’aiuto dell’Esercito nell’emergenza maltempo.
«Naturalmente faremo fronte agli accordi – osserva – ma non trovo giusto che nel momento in cui c’è un’emergenza, una calamità, questa debba essere a carico della comunità colpita». «Questo al di là della professionalità e disponibilità mostrata dal maggiore e dal capitano che sono appena arrivati in città, e che ringrazio per il lavoro che hanno già cominciato a fare». Ad Ancona operano 14 spalatori del 28/o Reggimento di Pesaro, e 17 soldati (con sei spazzaneve) da Piacenza. Dovranno liberare le frazioni isolate dal maltempo. «Anche i costi di trasporto dei mezzi dal luogo di provenienza, in questo caso Piacenza, sono a carico dell’amministrazione comunale», sottolinea Gramillano, senza altri commenti.
Intanto, il ministro Giampaolo Di Paola «ha confermato al capo di Stato Maggiore della Difesa Biagio Abrate l’esigenza di utilizzare i reparti delle forze armate disponibili per fronteggiare l’emergenza neve».

Fonte: ilsecoloxix.it

C’era una volta la Chiesa cattolica

Roma, 9 ottobre 2010 – ”La tragica scomparsa di quattro giovani militari italiani mentre compivano con dedizione e professionalità il loro quotidiano lavoro a servizio della pace in Afghanistan suscita profondo dolore e ci invita alla preghiera”. Lo afferma la presidenza della CEI in un comunicato.
”Mentre partecipiamo alla sofferenza dei familiari e al lutto del nostro Paese – conclude il testo – invochiamo da Dio il dono della riconciliazione e della concordia per tutti i popoli della terra”.
(ASCA)

Monsignore atlantico atto terzo
Roma, 11 ottobre 2010 – ”Gianmarco, Francesco, Marco, Sebastiano restano profeti del bene comune, perchè decisi a pagare di persona ciò in cui hanno creduto e per cui hanno vissuto: intorno a loro fiorisca più la riflessione e la condivisione, che le semplici risonanze emotive”. Lo ha affermato l’arcivescovo mons. Vincenzo Pelvi, ordinario militare per l’Italia, che questa mattina, all’aeroporto militare di Ciampino, ha accolto le salme dei quattro alpini uccisi in Afghanistan.
Pur auspicando ”una seria riflessione” da parte dei Governi dopo quanto sta avvenendo nal paese afghano, mons. Pelvi, nella sua dichiarazione rilanciata dall’Agenzia Sir, ha sottolineato che ”la società civile deve sostenere in maniera più concreta ed esplicita i nostri militari e le loro famiglie. Non si può essere neutrali dinanzi all’impegno internazionale di sicurezza, – ha poi detto – né possiamo affidarci a giochi di sensibilità variabili, che indeboliscono la tenuta di un impegno così delicato per la riappacificazione dei popoli”.
(ASCA – grassetto nostro)
Primo atto.
Secondo atto.

Lo stratega
Roma, 12 ottobre 2010 – ”I nostri militari si nutrono anche della forza delle nostre convinzioni e della consapevolezza di una strategia chiara e armonica, che le nazioni mettono in campo per un progetto di convivenza mondiale ordinata”. Lo ha detto l’ordinario militare, monsignor Vincenzo Pelvi, nel corso dell’omelia durante i funerali dei quattro alpini uccisi in Afghanistan.
”Dinanzi a tale responsabilità – ha aggiunto facendo riferimento all’impegno dei militari italiani – nessuno può restare neutrale o affidarsi a giochi di sensibilità variabili, che indeboliscono la tenuta di un impegno così delicato per la sicurezza dei popoli”.
(ANSA)

Blasfemia?
Due brevi estratti dall’omelia di Monsignor Pelvi in occasione dei funerali di Matteo Miotto, ripresi dalle agenzie di stampa del 3 Gennaio 2011:
”Molti chiedono perché ci ostiniamo ad esporci in terre così pericolose, ma allora non si potrebbe rimproverare anche a Gesù di aver cercato la morte affrontando deliberatamente coloro che avevano il potere di condannarlo? Perchè non fuggire? Gesù non ha cercato la morte, non ha però neppure voluto sfuggirla: ha preferito andare fino all’estremo limite della logica della sua vita e della sua missione piuttosto che tradire ciò che era, ciò che diceva, ciò che aveva fatto”.
”Non possiamo aspettarci che una società mondiale pacifica emerga da sola dal tumulto di una spietata lotta di potere: dobbiamo lavorare, fare sacrifici e cooperare per gettare le fondamenta su cui le generazioni future potranno costruire una comunità internazionale stabile e pacifica”.
Una spietata lotta di potere…

“Un eroismo più grande della violenza”
Roma, 21 Gennaio 2011 – ”Il dovere di costruire la pace non deve essere confuso con una specie di inerzia”. E’ l’esortazione di mons. Vincenzo Pelvi, l’ordinario militare, durante i funerali solenni di Luca Sanna.
L’inerzia, ha sottolineato Pelvi, ”accetta ogni tipo di disordine, scende a compromessi con l’errore e con il male”, mentre come ”sa bene il cristiano” la pace ”non è possibile in termini simili”. Esige piuttosto ”il lavoro più eroico e il sacrificio più difficile. Un eroismo più grande della violenza, una maggiore fedeltà alla verità”.
(ANSA)

“Far giungere le onde della fraternità in ogni parte del mondo”
Roma, 3 marzo 2011 – ”Le missioni internazionali di sicurezza ci aiutano a capire che siamo famiglia umana, nella circolarità del dono”. Lo ha sottolineato l’arcivescovo militare, Vincenzo Pelvi, durante l’omelia per i funerali del capitano Massimo Ranzani.
”Troppo spesso, invece, ci nascondiamo – ha aggiunto Pelvi – dietro affermazioni del tipo ‘non è compito mio, ne vale la pena?, non ne sono capace’. Forse non abbastanza ci brucia nel cuore l’amore, assoluta gratuità, con il quale far giungere le onde della fraternità in ogni parte del mondo”. ”Le condizioni morali, sociali e politiche, nelle quali gli uomini sono ora coinvolti in diversi punti del mondo”, ha osservato l’arcivescovo, sembrano ”contraddire l’ottimismo, la fiducia e spegnere subito le speranza”. Ma il sacrificio dei nostri militari ”ci impegna nel riaffermare con una nuova consapevolezza, quell’amore sociale, norma suprema e vitale della persona umana”.
(ANSA)

Un sussulto di dignità?
Roma, 4 marzo 2011 – ”Chissà se le celebrazioni per il 150.esimo anniversario dell’unità nazionale saranno anche occasione per un dibattito ampio e condiviso su una questione di non poco conto della nostra storia nazionale recente: e cioè sul fatto che l’Italia è, da 9 anni, un Paese in guerra. Un conflitto, quello in Afghanistan, di cui si prende consapevolezza solo periodicamente, quando muoiono i nostri soldati”. Se lo chiede, nel suo editoriale, il mensile dei gesuiti Popoli.
Eppure, osserva la rivista, ”questa eclissi della guerra dalla coscienza nazionale e dal dibattito pubblico è tanto più grave nel momento in cui restano drammaticamente nebulosi il senso e gli obiettivi del conflitto”. Per Popoli, è necessario ”reagire, da cittadini e da credenti”. Poichè sono ”sempre meno” le occasioni in cui si può invocare la tradizionale categoria cattolica della ‘guerra giusta’, ”ci si aspetterebbe qualche parola più profetica da parte dei pastori, ma anche una mobilitazione ben più massiccia della cosiddetta ‘base’ cattolica”. ”Davvero – conclude l’editoriale – viene da chiedersi se una nazione dalle profonde radici cristiane – come viene descritta l’Italia – possa accettare di annoverare tra le numerose ‘guerre dimenticate’ anche un conflitto che essa stessa sta combattendo, oltretutto senza sapere bene perché”.
(ASCA)

Che poi, a dirla tutta, “restano drammaticamente nebulosi il senso e gli obiettivi del conflitto” solo a chi non voglia intenderli…

Mille forme… di rispetto
Assisi, 10 ottobre 2011 – “Kosovo, Libano, Afghanistan, Haiti, Libia, Lampedusa sono la testimonianza delle mille forme di accoglienza e non di respingimenti, di rispetto e non di esclusione, di costruttivo dialogo e non di superficiale discriminazione. L’Italia, con i suoi soldati, continua a fare la sua parte per promuovere stabilita’, disarmo, sviluppo e sostenere ovunque la causa dei diritti umani. Percio’ e’ giusto intensificare le iniziative di cooperazione internazionale e partecipare alle missioni delle Nazioni Unite in aree di crisi”. Lo afferma l’ordinario militare, monsignor Vincenzo Pelvi.
“Dinanzi a chi invoca lo scioglimento degli eserciti, l’abolizione di organismi internazionali per la pace, l’istituzione militare paga il prezzo piu’ alto”, sottolinea l’arcivescovo con le stellette salutando il generale Biagio Abrate, capo di Stato Maggiore della Difesa, che ha testimoniato ad Assisi la stima delle Forze Armate per i cappellani militari riuniti nella citta’ di San Francesco per un convegno.
“Il mondo militare – ha aggiunto Pelvi – contribuisce a edificare una cultura di responsabilita’ globale, che ha la radice nella legge naturale e trova il suo ultimo fondamento nell’unita’ del genere umano. Di qui l’esigenza di una rinnovata attenzione a quella ‘responsabilita’ di proteggere un principio divenuto ragione delle missioni internazionali”.
(AGI)

Il rutto di Giuda
Roma, 24 ottobre 2011 – Di Gheddafi ”ci sono tante cose che non sapevo, non avevo mai sentito parlare di fosse comuni. Ho sempre cercato di essere positivo, di vedere gli aspetti buoni”.
Con queste parole il vescovo di Tripoli, mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, in un’intervista a ‘La Repubblica’, ricorda la figura del rais sottolineando, pero’, che ”questa gente ha avuto un leader che meritava la forca, era schiavo del potere, del petrolio, ma anche dell’Occidente. Italia, Francia, tutti lo hanno accolto e osannato. E lui e’ andato su di giri. E’ anche colpa nostra. Era un tiranno, ma nessuno in Occidente se ne accorgeva”.
”Fin dall’inizio della rivoluzione – ha aggiunto mons. Martinelli – c’era rabbia verso Gheddafi, dopo quarant’anni in cui mancava la liberta’. Poi la rabbia e’ esplosa in forme poco dignitose, poco musulmane direi, i musulmani hanno rispetto del corpo, invece ho visto questo corpo alla merce’ di tutti. Non sono capace di spiegare la cattiveria”.
Il vescovo di Tripoli ricorda anche gli aspetti positivi di Gheddafi: ”Ci ha sempre garantito la liberta’ religiosa. Fra tante contraddizioni rispettava lo spirito religioso. Gheddafi predicava l’Islam, ma e’ arrivato alle fosse comuni. Come ha potuto?”.
(ASCA)

[segue]

Afghanistan: le manfrine di Frattini, La Russa & soci

Il “Freccia“ è il 5° blindato, in questo caso di produzione FIAT Iveco-Oto Melara, utilizzato dal “nostro“ contingente in Afghanistan ed il 3° progettato ed uscito dalle catene di montaggio nazionali per dotare i militari “tricolori“ di “un mezzo idoneo ad affrontare le minacce di formazioni ostili in Paesi in cui si imponga la necessità di operazioni di polizia internazionale per ristabilire l’ordine e sicurezza“ (dichiarazione di La Russa Ignazio). Insomma, peace-keeping e peace-enforcing sotto l’egida dell’ONU ed occasione utile per soddisfare al tempo stesso le esigenze dell’ Esercito Italiano (E.I.) per dotare i suoi reparti di un numero adeguato di VBL/VCM/VCE/IFV che soddisfi l’esigenza di dotazioni della Forza Armata.
Un esigenza che coincide con l’acquisto da parte del Ministero della Difesa di un numero di blindati tale da generare, in ogni caso, un lauto profitto alle società costruttrici che si accollano, bontà loro, i costi di progetto, produzione, modifica, manutenzione a tempo e le scorte ricambi all’ E.I..
La conseguenza più immediata di una tale procedura è il volatilizzarsi del rischio di impresa e l’acquisizione da parte dell’E.I. di quantità “regolarmente eccedenti di esemplari prodotti, rispetto alle necessità operative“ essendo ben noti i benefici economici che ricava il personale di alto grado della Forza Armata, Marina ed Aviazione comprese, alla quiescenza, dall’’inserimento a livello dirigenziale nell’industria militare pubblica e privata.
Lobbies che opacizzano, nel migliore dei casi, i bilanci di settore ed inquinano, ormai a partire dagli anni Settanta, le destinazioni di spesa di Via XX Settembre.
Il “Freccia“ pesa in ordine di combattimento 26+2 tonnellate, ha un cannone a tiro rapido da 25 mm KBA, una mitragliatrice MG-42 da 7,62 mm ed una trasmissione su quattro assi. L’arma più temibile nelle mani di un coraggiosissimo ed eternamente appiedato straccione pashtun è un RPG-7 che a 150 metri perde i tre quarti della sua precisione di tiro od un AK-47 che a 130 mt la dimezza.
Nella versione controcarro il “Freccia” aggiungerà, grazie al professore, una dotazione di missili antitank “made in Israel“ Spike con un raggio d’azione dai 4 ai 6 km. Continua a leggere

Il rapporto dei giovani italiani con le Forze Armate

Commentando la morte in Afghanistan degli artificieri Mauro Gigli e Pierdavide De Cillis, l’amico Antonio Camuso dell’Osservatorio Balcani di Brindisi scrive:
“Il fatto che a cadere oggi siano stati dei valenti specialisti nel campo delle mine come i nostri artificieri, ritenuti in tutto il mondo all’avanguardia (vedi l’ultima operazione di sminamento di UNIFIL sul confine israelo-libanese) apre scenari inquietanti quali l’aumento esponenziale dei prossimi costi logistici in Afghanistan, ovvero utilizzo abnorme di mezzi e uomini per far operare in sicurezza, crescita di perdite in uomini e mezzi, diminuzione della flessibilità d’intervento.
Per terminare facciamo notare che una cosa è posare in tutta fretta un ordigno improvvisato, nel cuore della notte, un altro gingillarsi nel posare mine trappolate o interi campi minati: ciò significa che i cosiddetti insorti hanno possibilità di operare all’aperto alla luce del giorno sotto gli occhi della popolazione, connivente o semplicemente passivamente accondiscendente.
A questo punto altri terribili dubbi vengono andando a rileggere la cronache degli ultimi interventi dei nostri sminatori, chiamati ad intervenire su indicazioni di soldati afghani o civili e che alla luce dei fatti potrebbero essere interpretati non come segnali di fiducia nei confronti dei nostri soldati, bensì come occasioni per far studiare ad altri i nostri “modi operandi”.
Fa pensare l’intervista fatta venti giorni fa al povero maresciallo Mauro Gigli, che candidamente dice all’operatore RAI di esser intervenuto su un ordigno-trappola che sembrava un antitank a pressione ed invece era radiocomandato. A rivederla quell’intervista è il testamento spirituale di ogni artificiere che inviato sul campo per un lavoro “di routine”, invece deve constatare che a salvarlo è stata la fortuna, la non raggiunta raffinatezza dell’avversario, una preveggenza extrasensoriale ma che d’ora in poi il bersaglio è proprio lui, in una sorta di cecchinaggio e controcecchinaggio.
Se sono vere le ultime dichiarazioni del Ministro La Russa sul fatto che il maresciallo si sia accorto della trappola qualche istante prima di saltare in aria, avvisando gli altri della pattuglia, ebbene questo significa che ha compreso all’ultima istante che la partita tra specialisti, questa volta era stata vinta dall’avversario.”

E, con un po’ di cinico sarcasmo, chiosa:
“In compenso abbiamo materiale umano da reclutare a poco prezzo e nel giorno in cui saltava in aria un pugliese come il caporalmaggiore De Cillis di Bisceglie, nella sua regione d’origine, nel Salento, tra i villeggianti della città di Gallipoli, nella cornice del parco di giochi acquatico “Acqua Splash” interveniva l’Info Team dell’Esercito Italiano, composto da personale del comando militare Esercito “Puglia” e del centro documentale di Lecce che in pantaloncini blu, maglietta verde e cappellino beige con logo istituzionale, facevano conoscere ai giovani pugliesi disoccupati le opportunità professionali e formative offerte dalla Forza Armata, con la possibilità di viaggiare tanto all’estero e conoscere dei posti meravigliosi irraggiungibili da turisti squattrinati e sprovveduti come sono loro…
Altri Infoteam si son visti sulle spiaggie del NordBarese e a detta dell’esercito continueranno la loro opera di reclutamento per tutto il mese di agosto tra ombrelloni, pizzichi, mellonate e giochi acquatici…”.

Verosimilmente, proponendo ai giovani virgulti l’assaggio di vita militare escogitato dall’ineffabile Ministro.

L’Italia chiamò: i soldati denunciano l’uranio impoverito

«I soldati americani erano equipaggiati diversamente. Prima di entrare in una zona considerata a rischio indossavano tute protettive, guanti speciali, maschere con filtro. Noi invece lavoravamo a mani nude, le nostre maschere, quando ce le davano, erano di carta, tute niente».

Quattro soldati cercano un difficile ritorno alla normalità dopo essersi ammalati di tumore operando in zone bombardate con armi all’uranio impoverito. Luca, Emerico, Angelo e Salvatore hanno scelto volontariamente la divisa, ma sono stati abbandonati dall’Esercito proprio quando hanno dovuto lottare per la vita. Chi ha denunciato ha subito minacce e ricatti, chi ha taciuto è sprofondato nella solitudine. L’Italia chiamò è un’inchiesta multimediale che racconta attraverso immagini e testo gli effetti dell’inquinamento bellico sul personale delle forze armate italiane impiegato in Bosnia, Kosovo e Iraq. Il documentario giornalistico, premiato dalla critica, riannoda in un diario intimo le storie dei soldati, ricostruendo la catena delle responsabilità.

Ottobre 1993. Travolto dallo scandalo della Sindrome del Golfo, che ha fatto migliaia di vittime tra i militari inviati in Iraq, il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti dirama le prime norme generali di protezione dall’uranio impoverito. Il videotape informativo, originariamente destinato alle caserme, viene trasmesso a tutti i Paesi membri dell’Alleanza Atlantica, ma in Italia lo Stato Maggiore dell’Esercito non lo mostrerà mai ai soldati, che continueranno a partire per le missioni di “pace” all’estero senza adeguate protezioni, ammalandosi e morendo. Perché i vertici delle forze armate hanno taciuto? Hanno sottovalutato i rischi oppure nessuno ha voluto assumersi la responsabilità di rispondere alle famiglie di chi aveva subito la contaminazione? In uno scenario inquinato da statistiche fasulle, due Commissioni parlamentari d’inchiesta hanno cercato di ristabilire la verità dei fatti, riuscendoci solo parzialmente. Per alcuni scienziati non è dimostrabile il nesso causa-effetto tra l’insorgenza dei tumori e l’esposizione all’inquinamento bellico. Ma nei corpi dei soldati ci sono elementi chimici che possono provenire solo da esplosione di uranio impoverito. Di recente i tribunali ne hanno riconosciuto gli effetti letali, aprendo la strada a centinaia di richieste di risarcimento. Mentre la politica litiga sulle cifre, chiunque è libero di sperimentare armi non convenzionali nei poligoni sardi, bastano 50.000 dollari ed un’autocertificazione. Il picco dei decessi deve ancora arrivare, avvertono gli scienziati, aspettiamoci il peggio.

Secondo le organizzazioni che raggruppano i familiari delle vittime, oltre 2500 soldati sono stati colpiti dalla Sindrome dei Balcani, mentre 167 sono già morti. Questa tragedia si sarebbe potuta evitare, ma lo Stato Maggiore della Difesa dell’Esercito italiano, pur conoscendo da molto tempo i rischi di un’esposizione prolungata all’uranio impoverito, non ha fornito ai militari l’equipaggiamento necessario.
Il nemico invisibile sono le radiazioni e le polveri sottili prodotte durante i bombardamenti. Un video, girato dagli stessi soldati e tuttora classificato come riservato, mostra le procedure standard adottate durante l’Operazione Vulcano, una massiccia bonifica effettuata in Bosnia il 14 novembre 1996. I soldati seppelliscono in una profonda buca le armi e le munizioni lasciate sullo scenario di guerra dall’esercito yugoslavo, poi le fanno brillare. Con il risultato che una nuvola radioattiva investe l’accampamento. Dopo otto anni, otto dei soldati che hanno partecipato a quella operazione si sono ammalati di tumore, due sono morti, mentre altri due hanno avuto figli con malformazioni genetiche.
L’Italia chiamò è un’inchiesta multimediale su uno scandalo militare che ha avuto poco visibilità in Italia nonostante la morte di centinaia di militari. Le testimonianze di Emerico, Angelo, Salvatore e Luca – congedati dall’Esercito e ritornati alla vita civile – sono intrecciate al dramma della difficile guarigione dalla malattia.

L’Italia chiamò.
Uranio impoverito: i soldati denunciano

di Leonardo Brogioni, Angelo Miotto, Matteo Scanni
Edizioni Ambiente, ISBN 978-88-96238-07-3

L’Italia chiamò è anche un documentario, la cui versione originale (in dvd allegato al libro) ha una durata di 47 minuti.
Qui è possibile visionarne una versione ridotta da 15 minuti.