Think3 è rinata dalle ceneri

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A tre anni dal crack e dopo una battaglia legale durissima con gli americani di Versata, un ex dipendente guida l’azienda informatica e cerca di ripartire dalle sue ceneri

Dal giorno del fallimento sono passati tre anni. Nel mezzo ci sono state battaglie legali intercontinentali contro un colosso americano dell’informatica, la messa al bando del curatore italiano dell’azienda dal territorio statunitense, l’intervento di due ministri dell’ex governo Berlusconi e la gestione aziendale più lunga che si ricordi da parte del Tribunale di Bologna. Ora la Think3, azienda informatica di Casalecchio che ha spostato la sede a Bologna, riparte sotto la guida di un suo ex dipendente, che da pochi mesi ha preso in mano il gruppo che aveva lasciato nel 2010.
Una vera e propria odissea, per quest’azienda che produce software di programmazione per l’industria meccanica e oggi, nonostante le peripezie, ha clienti come Faac, Honda, Toshiba, Alessi e Fiat. Certo le difficoltà non sono state indolori. Nata nel 1979 a Bologna come Cad Lab e poi trasferitasi a Casalecchio, ai tempi d’oro la Think3 è arrivata ad avere 500 dipendenti, impiegati in dieci filiali di tutto il mondo. Un patrimonio di conoscenze che nel 2010 passa sotto il controllo del colosso texano Versata, che però non evita il crollo: Think3 viene dichiarata fallita dal tribunale di Bologna nell’aprile 2011 quando l’azienda, che ha già attraversato anni di crisi, ha ancora 150 dipendenti.
È l’inizio della seconda vita di Think3, quella sotto la guida del tribunale e del curatore Andrea Ferri. Che oltre a portare avanti l’attività dell’azienda deve anche battagliare nelle aule di tribunale di mezzo mondo con Versata, che non intende mollare le preziose licenze dell’azienda bolognese. Ci sono procedimenti nei tribunali italiani e negli Stati Uniti, cause su cause, comunicati contro comunicati con cui l’azienda americana spiega ai clienti che sono loro i padroni dei software, mentre dall’Italia si replica che no, è a Casalecchio che bisogna rivolgersi.
Nel luglio 2011 l’assessore provinciale Graziano Prantoni scrive ai ministri del governo Berlusconi Paolo Romani (Sviluppo economico) e Franco Frattini (Affari esteri) per chiedere il loro intervento. Quest’ultimo risponde assicurando che «è stata interessata la nostra ambasciata a Washington». Mentre dagli Stati Uniti si cominciano le procedure per bandire dal territorio il curatore fallimentare. «C’è stato un enorme spiegamento di forze da parte di Versata, con un gran numero di advisors e legali impegnati», racconta Ferri. Solo a fine 2013 si raggiunge un accordo, che fa cessare le ostilità tra i due gruppi e consegna le licenze agli italiani.
Oggi la Think3 cerca di rinascere con 40 persone divise tra Bologna, Francia e Giappone. Ma alla sua guida c’è Tom Davis, uno degli ex dirigenti dell’azienda (richiamato dopo il fallimento da Ferri) che prima di andarsene seguiva da Hong Kong le attività cinesi di Think3. Oggi 39enne, di origine inglese ma vissuto per la maggior parte in Italia, Davis fa il pendolare tra Torino, dove abita, e Bologna, dove l’azienda si è trasferita e dove oggi lavorano una ventina di persone. «La maggior parte dei dipendenti, quasi tutti informatici, con la crisi ha trovato un altro lavoro», racconta Davis. «Ora fatturiamo circa 7/8 milioni di euro, non lontano dai livelli della vecchia Think3, e continuiamo a investire in ricerca per sviluppare nuovi prodotti», continua.
«Ogni tanto – sottolinea Ferri – è bello dire che nonostante un fallimento si possa ancora creare business. Think3 è rinata dalle ceneri e gode di buona salute».
Marco Bettazzi

Fonte
[Il collegamento inserito è nostro]

26 Novembre 2011

L’operazione di guerra della NATO contro la Libia, ideologicamente giustificata con la retorica dei diritti umani e della democrazia – che in Italia ha trovato nel Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il suo maggiore ed indefesso sostenitore in quanto rappresentante più autorevole del “partito americano” – ha raggiunto l’obiettivo che fin dal primo giorno si era fissato – e che ha sempre cercato di mascherare grazie alla copertura di tutti i mass media occidentali della NATO e dei suoi intellettuali di punta – ovvero l’uccisione del capo del governo della Giamahiria Muammar Gheddafi, e dei suoi stretti collaboratori, omicidio indispensabile per ottenere quel “regime change” che le centrali del potere atlantico si erano prefissati di ottenere fin dall’inizio della guerra.
“La Libia è stata infatti vittima di un’ennesima aggressione della NATO, politicamente per nulla diversa da quella contro la Serbia nel 1999 e da quella contro l’Iraq nel 2003, per scopi totalmente geopolitici (approvvigionamento petrolifero e insediamento di un governo non ostile a Washington) e geo-strategici (espansione della sfera d’influenza della NATO, attraverso il comando AFRICOM), volti al contenimento di potenze rivali nei fondamentali scenari del Vicino Oriente e del Mediterraneo”. (testo ripreso da qui)
Il 20 Ottobre, il ritornello propagandistico della “protezione dei civili” si è frantumato platealmente: Muammar Gheddafi è stato deliberatamente ucciso nella sua città natale di Sirte, dopo aver eroicamente resistito fino all’ultimo, fra la sua gente, alla guerra totale scatenata dalla NATO. La dinamica della morte del Colonnello, oltre a confermare l’integrità e lo spirito libero del capo della Giamahiria, esemplifica bene quelle che sono state le caratteristiche di questa guerra criminale, ovvero una guerra a guida USA/NATO in cui i ratti libici del CNT hanno fatto solo da bassa manovalanza: i droni americani hanno individuato e sparato al convoglio su cui viaggiava il colonnello, aerei francesi sono arrivati in supporto a bombardare, truppe a terra delle SAS britanniche hanno coordinato i ribelli e li hanno accompagnati a ridosso delle macerie; a quel punto i ratti qaedisti della NATO hanno provveduto a finire i giochi nel modo orripilante che tutti abbiamo avuto modo di vedere.
Dopo la morte di Gheddafi può cominciare ufficialmente la ripartizione della “torta libica” da parte delle grandi potenze della NATO, con USA, Francia e Inghilterra in testa; ma la resistenza lealista è tutt’altro che doma, guidata da Saif Al Islam Gheddafi e dalle tribù che gli hanno rinnovato fedeltà. E’ pertanto certo che, in un modo o nell’altro, con questa o con quella copertura giuridica, le forze militari dei Paesi NATO non lasceranno la presa sulla Libia, coinvolgendo in questo compito di “stabilizzazione” anche l’Italia, che non avrà margine per sottrarsi.
La NATO ha pertanto raggiunto il suo obiettivo in Libia. Ora a chi tocca? Le mire sembrano essere tutte dirette alla Siria. “Da Marzo 2011, si è scatenata infatti la macchina mediatica della NATO contro la Siria di Assad, replicando lo stesso schema utilizzato dalla propaganda di guerra contro Gheddafi per giustificare moralmente l’intervento militare di fronte all’opinione pubblica occidentale, invocando una nuova “azione umanitaria in difesa dei civili”: Assad sarebbe un feroce dittatore autore di abominevoli repressioni contro la popolazione civile che vuole democrazia e libertà; Assad sarebbe un uomo politicamente finito odiato dal suo popolo, etc. etc. Non importa che i disordini siano in realtà dovuti anche qui a terrorismo armato guidato da componenti esterne alla società siriana; no, le falsità dei media della NATO sono fondamentali per spianare la strada alle sanzioni economiche, alle menzognere risoluzioni dell’ONU e, in ultimo, all’aggressione militare funzionale alle mire strategiche dell’occidente euro-atlantico. Come per la Libia, l’Italia ha seguito e segue supinamente passo dopo passo l’escalation pianificata dalla NATO contro la Siria e tutto fa pensare che l’“Italian Repubblic” non si sottrarrà a partecipare ad una nuova aggressione militare contro un Paese sovrano, laico e socialista, se le verrà ordinato di farlo dai suoi padroni di Washington e Londra. E dopo la Libia e la Siria, sarà il turno dell’Algeria, o magari della Russia, come auspicato dal senatore americano, ex candidato alla presidenza, John McCain? Dove condurranno l’Italia le strategie guerrafondaie di quei Paesi, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che guidano e la fanno da padroni nella NATO?” (testo ripreso da qui)
Questo stato di sudditanza dell’Italia alla NATO e agli USA trova la sua più clamorosa ed evidente testimonianza nelle oltre 113 basi NATO-USA presenti sul territorio italiano, da dove vengono coordinate e dirette le operazioni militari nel Mediterraneo e in Africa, compresa quella di Libia.
“Come per la Libia, anche nel caso della Siria, nessun movimento, partito o gruppo è riuscito ad alzare una voce forte e decisa contro questo nuovo tentativo di aggressione, tanto più a sinistra e nel mondo tradizionalmente “pacifista”, dove si è sostenuta la linea imperialista e neo-colonialista imposta da Obama, da Cameron e da Sarkozy. Preso atto del fallimento storico e politico di queste componenti della società civile, e dell’impossibilità per le ragioni anti-imperialiste e della sovranità nazionale di avere una seria rappresentanza all’interno di istituzioni e grandi organi di stampa” (testo ripreso da qui), alcuni membri del comitato promotore della mobilitazione del 30 Agosto a Roma e di quella del 15 Ottobre a Milano, hanno deciso di dare continuità all’aggregazione di forze ed intenti di quelle manifestazioni, allargandone la piattaforma, per organizzare un nuovo presidio unitario a sostegno della resistenza lealista in Libia, della Repubblica Araba di Siria e per la sovranità dell’Italia.

E’ perciò convocato un:
PRESIDIO A NAPOLI,
VICINO ALLA BASE NATO DI BAGNOLI,
SABATO 26 NOVEMBRE 2011,
DALLE 14.30 ALLE 16.30, CON CONCENTRAMENTO ALLE 15.30,

PER CHIEDERE:
1. La fine immediata di qualsiasi tipo di sostegno e coinvolgimento militare italiano in Libia e da tutte le missioni per conto della NATO e degli Stati Uniti d’America;
2. Il ritiro di tutte le forze armate americane dalle basi militari in Italia, dall’Europa e dal Medio Oriente;
3. La fine di qualsiasi tipo di sostegno dell’Italia alle azioni terroristiche in Siria e ai tentativi di destabilizzazione del Paese da parte della NATO.
4. Le dimissioni dei politici italiani servi della NATO e degli USA, come Napolitano, Frattini, La Russa e Berlusconi, per violazione dell’articolo 11 della Costituzione.

PER MANIFESTARE:
1. Il nostro appoggio alla resistenza lealista e alla popolazione libica di fronte ai mercenari, ai tagliagole jihadistii, e all’occupazione della NATO.
2. Il nostro sostegno alla Siria del presidente Assad, vittima degli attacchi terroristici delle bande criminali jihadiste fomentate dall’Occidente e dalle squallide campagne mediatiche dei media della NATO.
3. Al mondo, ma soprattutto al popolo libico e siriano, che c’è un’Italia che non dorme e non subisce passivamente i diktat della NATO e che si ribella alle sue logiche criminali e che disprezza i propri politici servi e traditori.

Per aderire, scrivere a 26novembre2011@libero.it.

Modalità di svolgimento, luogo e regole del presidio sono qui

Il maestro e Margherita

Vediamo questa volta di mettere sotto osservazione Margherita Boniver, “inviata particolare“ di Frattini per “aiuti umanitari e cooperazione“ nella fascia subsahariana e nel Corno d’Africa.
Quale sia il budget di spesa affidato da Tremonti al titolare della Farnesina per farci ridere dietro da mezzo mondo e farci sopportare dall’altra metà, rimane un bel mistero.
Poter dettagliare le “uscite“ annuali del Ministero degli Affari Esteri al di là di quanto sia riportato, in aggregato, nei resoconti contabili del Ministero dell’Economia e delle Finanze è di fatto un “segreto di Stato“.
Esteri e Difesa saranno gli unici “santuari“ che vedranno assegnarsi, secondo indiscrezioni, nel 2012 finanziamenti aggiuntivi per oltre 10 miliardi di euro.
Le 4 guerre (Iraq, Afghanistan, Libia e Somalia) in cui è, al momento, coinvolta l’Italietta stanno costando un ossesso. La prima è totalmente rimossa, la seconda e la terza sono “missioni di pace“ con il sigillo dell’ONU, la quarta non è ancora uscita allo scoperto per le complicità di un sistema di “informazione“, pubblico e privato, totalmente allineato a USA e NATO. Continua a leggere

Ammiragli… di pace e lo spirito di san Francesco tradito

La leggenda vuole che il Santo di Assisi incontrasse il lupo che terrorizzava quelle contrade facendo strage di animali e di uomini e, accortosi dei suoi lamenti per una spina conficcatasi in una zampa, nonostante che tutti lo invitassero a fuggire via, Francesco, mosso da carità cristiana, curò il feroce animale sino alla sua guarigione…
1600 era il numero tragico, ricordato simbolicamente nella marcia della pace Perugia-Assisi odierna (ieri – ndr), di migranti morti negli ultimi sei mesi nel Mediterraneo supercontrollato dalla flotta NATO.
Ai microfoni delle tv che li intervistavano, i pacifisti marciatori con un numero stampigliato addosso ed una maschera bianca per ricordare come queste morti anonime non riescono a scuotere la coscienza della civilissima Europa, han ripetuto purtroppo un ritornello frutto, o di ingenua ignoranza sulla natura della NATO o di un tacito non voler mettere in crisi quei complessi meccanismi di interazione tra ONG cattoliche e non, con le strutture di intervento e soccorso militari che operano sulle coste italiane, in primis Lampedusa.
Un ritornello che abbiamo già sentito dal ministro Frattini poco più di un mese fa, quando, messo in difficoltà dinanzi all’ennesima strage, in piene polemiche sui mancati soccorsi, affermava che avrebbe chiesto alla misteriosa NATO, chiarimenti… dubbioso se scrivere tale richieste in inglese, tedesco e francese poiché assolutamente all’oscuro chi fosse nella NATO chi aveva il comando delle operazioni navali.
Insomma, sfilare lodevolmente per chilometri, ricordando quella tragedia è bene, ma… per poter ridare dignità a quei migranti anonimi affogati nel Mare Nostrum forse sarebbe ora di dare un nome e un cognome alla catena di comando delle navi NATO e su quell’ipotetico mancato soccorso in un mare supercontrollato.
Basterebbe solo un piccolo sforzo, quello di rileggere le pagine dei giornali e i resoconti stenografici delle sedute in Parlamento per poter avere sorprendenti risposte alle nostre domande.
Scopriremmo così che il 23 Marzo 2011, in Senato, l’attuale smemorato ministro Frattini annunciava con grande soddisfazione che l’ammiraglio di Squadra Rinaldo Veri, persona stimatissima dalla NATO e dallo Stato Maggiore italiano, diveniva il Comandante del Comando Navale Alleato antiGheddafi. Questo avveniva dopo un lungo e difficile braccio di ferro, nella NATO, inizialmente orientata a tener fuori l’Italia, ma che poi, con un accordo prevedeva, a fronte dell’utilizzo di basi e della logistica italiana e del contributo alla coalizione di volenterosi di un dispositivo aeronavale nazionale, che all’Italia venisse conferito un incarico di prestigio nel dispositivo NATO anti-Gheddafi, salvando così la faccia di Berlusconi e il governo italiano.
In seguito, la responsabilità italiana, sulle operazioni in mare, diveniva totale con l’assunzione del comando delle 15 navi militari componenti il NATO Task Group 455.01 da parte del Contrammiraglio Gualtiero Mattesi imbarcato sulla portaerei Garibaldi, poi sostituito a Giugno dall’Ammiraglio Foffi già Comandante del Contingente Navale Italiano assegnato alla NATO per l’operazione Unified Protector.
Insomma il comando delle navi NATO che han pattugliato quelle acque dove han trovato la morte 1600 migranti non parlava tedesco, inglese, olandese, francese, ma semplicemente italiano.
Ma ad aggiungere sorpresa a sorpresa scopriremmo nella nostra ricerca, che in piena adesione al cliché che accompagna mediaticamente l’uso del nostro strumento militare e che definisce i nostri guerrieri come ambasciatori di pace, ebbene scopriremmo che qualche ammiraglio di quella catena di comando è stato insignito addirittura della “palma d’Oro” dalla Assisi Pax International.
Se non vivessimo nell’Italia dei paradossi porremmo la domanda: – “Come è possibile fregiarsi di una onorificenza legata al nome di san Francesco e poi permettersi di non punire fermamente chi, come sottoposto, comandante di una o più navi, ha voltato lo sguardo e turato le orecchie dinanzi ai disperati appelli di migranti in difficoltà?” – “Signor Ammiraglio, come è possibile che proprio sotto il suo comando lo spirito del Santo di Assisi, quello della carità cristiana, del soccorso ai bisognosi fossero pure degli animali, sia stato violato od omesso da dei suoi sottoposti?” – “Ma nei vincoli con i quali le veniva assegnata la Palma d’oro non vi era quello di dovere essere disponibile ad impegnarsi come testimone e portavoce della “Cultura di pace”,… e dei principi della “cultura di pace” pronunciando, pubblicamente la “promessa di operare per il dialogo culturale come procuratore-ambasciatore di pace” nel prossimo futuro?“.
1600 volti anonimi in nome dello spirito del Santo dai piedi nudi invocano da lei giustizia e rispetto della dignità umana affinché altri non si vadano ad aggiungere a questo infinito elenco di vittime della cinica Fortezza Europa.
Antonio Camuso

Fonte: pugliantagonista.it

Onore alla Libia che resiste!

E’ di queste ore la notizia che l’Alleanza Atlantica ha chiesto e ottenuto dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU un’ulteriore proroga di 3 mesi per portare a termine il “lavoro” contro la Jamahiriya che scadeva il 27 Settembre.
Il “sì” al rinnovo è arrivato dal Palazzo di Vetro con più di una settimana di anticipo. Un segnale che rimanda a una situazione sul terreno tutt’altro che stabilizzata.
Se la Serbia è stata costretta alla resa in 73 giorni, i pashtun dell’Afghanistan erano in rotta dopo 7 e l’Iraq ha messo in libertà le forze armate ai 30, la Libia non ha ancora mollato in quasi 200 pur disponendo di un più che modesto, e per larga parte obsoleto, apparato militare.
Le unità libiche, a cominciare dalla 32° Brigata, hanno retto con grande dignità e determinazione al feroce, sanguinoso assalto navale, terrestre e aereo organizzato dalla NATO.
Contrariamente a quanto previsto da tecnici ed esperti di gran grido a libro paga dell’Alleanza Atlantica, non c’è stato nessun collasso delle forze armate della Jamahirya.
Se le “missioni di pace” in Asia e Medio Oriente e la lotta globale al “terrorismo” sono costate agli Stati Uniti, dall’11 Settembre del 2001 a oggi, 3.300 miliardi di dollari mettendo definitivamente in ginocchio la sua economia, dal canto suo la Francia di Sarkozy, dopo aver attizzato il fuoco nell’Africa subsahariana per rinverdire avventure coloniali che in Indocina si conclusero a Dien Bien Phu, sta uscendo con le ossa rotte dal Maghreb.
La Gran Bretagna di Cameron, dopo aver rottamato l’ultima portaerei, naviga a vista in un mare di tempesta dalle Falkland a Cipro.
Quanto all’Italia, la partecipazione a una nuova guerra, questa volta nel Mediterraneo, dopo l’Iraq e l’Afghanistan, contribuirà a farci togliere un’altra A e ad appiopparci un ulteriore outlook negativo dagli gnomi del rating.
Né potrà essere di grande aiuto per i tre dei quattro “grandi” della U.E. che un raccogliticcio contingente ONU li sostituisca sul terreno a breve o medio periodo. Continua a leggere

Frattini e i delfini della baia di Tokyo

L’aggressione militare alla Libia e il cinismo della “politica” italiana

Il Pentagono nel Quadriennial Defence Review Report del Dicembre del 2001 adottò un termine per definire uno scenario in cui un’entità (organizzazione nemica) pianifica e porta a realizzazione nel tempo una serie di azioni militari non ortodosse contro una grande potenza che abbia occupato con l’uso della forza un Paese del Vicino Oriente.
Un report arrivato a 30 giorni di distanza dal via libera dell’amministrazione Bush all’US Air Force per colpire con bombardamenti a tappeto l’Afghanistan.
Mancheranno meno di 2 anni all’aggressione aerea e terrestre all’Iraq di Saddam Hussein.
Lo smantellamento delle sue strutture militari e civili, la sottrazione alle precedenti autorità statuali anche dalla gestione delle risorse economiche ed energetiche da affidare a un governo fantoccio avrebbero finito, a giudizio degli esperti militari del Dipartimento della Difesa, nell’approntamento del DFRR, per creare “momentanee“ condizioni di instabilità economica e sociale e di precaria sicurezza pubblica capaci di concorrere allo sviluppo di una guerra a bassa intensità.
Le definizioni più usate dagli analisti sono: guerra non convenzionale, guerra asimmetrica, guerra di guerriglia.
Chi scrive ne adotta un’altra più semplice, evocativa: guerriglia.
Il perché è semplicissimo: mi fa sentire più vicino a qualsiasi “ribelle“ che abbia impugnato o impugni le armi per liberare il suo Paese dall’egemonia di USA, NATO e “Israele“.
La guerriglia mi rimanda a metodi di combattimento capaci di logorare e di vincere, a tempi lunghi, la prepotenza e le aggressioni armate dell’Occidente, di generare miti, comandanti, volontà di lotta, la forza necessaria ad annientare modelli politici estranei messi in piedi con l’esportazione della “democrazia“ e far tornare alla luce le straordinarie energie che i popoli conservano. Continua a leggere

Uno sterminatore è da sterminarsi

Guerra in Libia: vergogna agli Atlantici!

Il pesante e sproporzionato intervento armato della NATO contro la Libia (una delle tante guerre per la “pace”…) che, da più di 6 mesi, sta mettendo a ferro ed a fuoco quel Paese, distruggendo la quasi totalità delle sue infrastrutture e martirizzando gran parte della sua popolazione, non ha niente a che fare o a che vedere con i termini della “Risoluzione 1973” del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (No Fly Zone, per la difesa dei civili disarmati) del 17 Marzo 2011.
Questo, ormai, lo sanno anche i bambini delle scuole elementari. I quali, oltretutto, sono ugualmente a conoscenza dei reali motivi che sono all’origine di quel conflitto. Vale a dire, l’immenso e lucroso business mancato della Francia di Sarkozy con la Grande Giamahiriya Araba, Libica, Popolare e Socialista del Colonnello Muammar Gheddafi. Un “affaruccio” che – secondo la maggior parte degli esperti – prevedeva la vendita al “negro” di turno, da parte di Parigi, di diverse centrali atomiche civili (destinate a fornire energia elettrica, per alimentare impianti per la desalinizzazione dell’acqua), di 14 caccia Rafale della Dassault Aviation (che la Francia, oltre alle sue FF.AA. non è riuscita, fino ad ora, a vendere a nessun altro Paese!), di 35 elicotteri da combattimento (Eurocopter EC725 Caracal) e di ben 21 aerei di linea Airbus (quattro A-350, quattro A-330 e sette A-320, per la Lybian Airlines, e sei A-350 per l’Afriqiyah Airlines), per diverse decine di miliardi di euro.
E siccome il Colonnello di Tripoli, dopo la firma degli accordi preliminari di Parigi (2007), non aveva voluto, per le ragioni che sono sue, ratificare quei contratti, ecco che il medesimo Colonnello – che all’inizio degli anni 2000 era addirittura ridiventato frequentabile (vedere per credere) – ha incominciato ad essere additato al mondo come il mostro sanguinario che bisognava abbattere ad ogni costo e con tutti i mezzi. Continua a leggere

La guerra dell’Italia alla Libia: una sporca faccenda

L’italianissimo Alessandro Londero, titolare della “Hostessweb“, con un gruppo di volontari il 4 Agosto scorso era a Zlitan, a riprendere con la sua videocamera gli edifici della città libica, a 150 km da Tripoli, distrutti dall’aviazione di Unified Protector.
Il 7, assieme ai suoi collaboratori sarà a Tripoli.
Non potrà quindi fornire una documentazione degli effetti del secondo bombardamento della NATO sui quartieri di recente costruzione, che ospitano la metà della popolazione locale che ha raggiunto i 200.000 residenti, né partecipare a disseppellire dalle macerie i corpi di 85 tra anziani, donne e bambini colpiti in una località (Majer) a un tiro di sputo da Zlitan che verranno composti in sacchi di plastica e allineati dai soccorritori a fianco di una moschea.
I feriti gravi, oltre 67, saranno evacuati verso l’ospedale di zona.
Lo farà, trasportandosi dietro osservatori indipendenti e inviati della stampa accreditata a Tripoli, il portavoce della Jamahiriya Mussa Ibrahim a distanza di 24 ore dalla partenza di Alessandro e del suo gruppo.
Inutile dire che di questa nuova strage della NATO non si è visto ne sentito nulla nei TG, né è stata pubblicata un sola foto sulle pagine dei quotidiani nazionali.
E’ apparso solo qualche trafiletto nelle pagine “esteri” per dare spazio al comunicato di Unified Protector di… accertamenti in corso.
L’inviato della RAI a Tripoli ormai si è eclissato da tempo. Mediaset e La7 non ne hanno mai spedito uno in Libia.
La Farnesina ha invitato le redazioni televisive e delle carta stampata a stare lontano dalla Jamahiriya di Gheddafi per motivi di “sicurezza“, dopo aver notificato ai direttori di rete l’impossibilità per il Gruppo di Crisi di poter offrire qualunque tipo di assistenza in caso di emergenza.
Il black out dalla Jamahiriya rimane così per ora pressochè totale. Continua a leggere

Frattini e La Russa ministri-servi

Di Quirinale, Terzo polo e poteri forti.
Con “Bunga Bunga” a fare da spettatore ricattato.

Non c’è attacco aereo di Unified Protector che non necessiti per una missione di bombardamento sulla Jamahiryia di almeno due rifornimenti in volo da aerei cisterna, uno durante la fase di avvicinamento al “target“, il secondo dopo lo “strike“ nel ritorno alle basi di decollo in Sicilia: Trapani Birgi e Sigonella.
Nell’intero mese di Luglio, nell’arco delle 24 ore, le missioni di appoggio aereo della NATO si sono attestate su una media di 150, i bombardamenti dall’aria hanno raggiunto i 47.
Il numero dei morti e dei feriti tra i residenti della Tripolitania e della Cirenaica è aggiornato, via internet, da Libyan Free Press – Jamahiriya News.
Cosa costi ogni ora di volo un bi-quadrireattore Boeing Kc 767 A o Kc 135 che faccia da mucca per rifornire per due-tre volte un singolo velivolo della NATO che attraversi il Mediterraneo Centrale ve lo lasciamo immaginare.
Si tenga di conto che un Eurofighter Typhoon dell’Aeronautica Militare Italiana compreso l’addestramento del pilota, escluso l’armamento, ha un costo, per le sfiatatissime casse dell’Erario pubblico, di 80.000 euro per ora di volo. Un solo missile Storm Shadow o Scalp Ec, con una testasta bellica di 247 kg, lanciato da un cacciabombardiere tricolore arriva a superare abbondantemente il milione di euro.
Quanti gingilli come questi siano andati a bersaglio a cura dell’Aeronautica Militare Italiana in territorio libico è coperto da “segreto militare“.
Gli unici jets d’attacco che possono sottrarsi a questa dispendiosissima routine di rifornimento in volo sono quelli in dotazione alle portaerei-portaereomobili che operano in prossimità, interna ed esterna, della linea immaginaria che unisce Tripoli a Bengasi, l’enorme area d’acqua del Golfo della Sirte.
Dopo 90 giorni di permanenza in mare, il 7 Luglio scorso la “Garibaldi“ è stata ritirata dalla zona di operazioni, e il 10 Agosto è toccato alla “De Gaulle” abbandonare la missione per rientrare nel porto di Tolone. Il dispositivo d’attacco di Unified Protector ha perso (momentaneamente?) 40 tra aerei ed elicotteri.
Il 2 Agosto la Norvegia, strage di Utoya o no, ha ritirato, come programmato, i suoi quattro F-16.
Il Ministro della Difesa di Londra, Liam Fox, ha coperto l’abbandono di Oslo con l’invio con altrettanti Tornado Idv.
Per Longuet, la portaerei francese è stata ritirata dal Mediterraneo Centrale per manutenzione al ponte di volo da cui decollano e atterrano Rafale e Super Etendard e alle catapulte di lancio.
L’Italia, per bocca di La Russa, ha motivato l’abbandono della “Garibaldi” dal teatro operativo per limitare le gigantesche uscite finanziarie che ne comporta l’utilizzo prolungato in navigazione.
Il Bel Paese, per non fare cosa sgradita agli alleati, ha però provveduto a sostituire l’ammiraglia della M.M. con l’unità da assalto anfibio “S. Giusto”, che ospita il comando navale di Unified Protector e imbarca in permanenza il battaglione di fanteria marina S. Marco (350 militari), 210 tra ufficiali, sottoufficiali e marinai, armi, logistica e blindati da sbarco, oltre a tre elicotteri medi per impiego antisommergibile, antinave e controcosta SH 3D.
Una volontà di limitare i costi o un cambio di strategia in corso d’opera?
Una strategia che preveda il passaggio dai bombardamenti aerei effettuati da 4-6 jets Harrier a decollo verticale impiegati dalla “Garibaldi“ per battere i target sulla Litoranea a un attacco alle coste della Jamahiriya con incursori e fanteria di marina della “S. Giusto“? Continua a leggere

Chi fa da sè, pensa fino a tre

In Parlamento qualcosa si sta muovendo per salvare la Think3, l’azienda di Casalecchio di Reno che opera dal 1979 nel campo dello sviluppo, vendita e assistenza software ad alta tecnologia, e dà lavoro qualificato a 150 dipendenti, la maggioranza dei quali laureati.
Lo scorso 2 maggio il Tribunale di Bologna aveva emesso ordinanza di fallimento per la Think3 Inc. e la Think3 S.r.l. Contestualmente lo stesso Tribunale aveva nominato un curatore fallimentare, che in una nota aveva comunicato di “aver esercitato il diritto di scioglimento del contratto di licenza con Versata ai sensi dell’art. 72 della Legge Fallimentare”.
La nota non è piaciuta ai vertici della holding Versata, che l’aveva acquisita nel settembre del 2010 e che in ragione del provvedimento del curatore fallimentare, non potrebbe più concedere in licenza i prodotti Think3 e usarne i marchi.
L’assessore alle Attività Produttive della Provincia di Bologna, Graziano Prantoni ha informato lo scorso 20 Luglio tutti i parlamentari bolognesi e i ministri degli Affari Esteri Franco Frattini e dello Sviluppo Economico Paolo Romani, degli “intenti predatori” del competitor statunitense che “vorrebbe bypassare la legge italiana sulla tutela dei lavoratori e dei creditori”.
Infatti il Tribunale di Bologna, con l’Ordinanza del 2 Luglio 2011 dichiara che “il contratto stipulato tra Think3 Inc e Versata deve intendersi risolto in ciascuno dei suoi aspetti legali”.
La pensa diversamente Austin Scee, manager della holding Versata secondo il quale “il curatore fallimentare italiano non ha l’autorità legale di togliere a Versata la proprietà dei prodotti Think3”. Dunque i cow-boys a stelle e strisce non fanno mistero di considerare le leggi di legittimi Stati sovrani alla stregua di superstizioni degli Indiani d’America. Forse siamo già in riserva, ma dobbiamo ancora accorgercene?
Non la pensano così i senatori Rita Ghedini, Gian Carlo Sangalli e Walter Vitali, che sono stati i primi ad aver risposto ai segnali di fumo dell’assessore Prantoni, presentando lo scorso 21 Luglio un’interrogazione parlamentare ai Ministri Romani e Frattini, per tutelare la correttezza della procedura fallimentare e garantire così creditori e lavoratori.
Infatti secondo i senatori, la società Versata sta “fornendo false informazioni ai clienti e al mercato in merito alla procedura fallimentare Italiana che interessa Think3 e Think Inc, adombrando cointeressenze non più esistenti con le due società italiane in oggetto, vantando la proprietà di licenze e brevetti delle due società italiane in parola, pubblicizzandone i prodotti come propri ed utilizzando illegalmente il dominio http//www.tunk3.versata.com: ciò configura a tutti gli effetti azione sistematica di dumping competitivo e concorrenza sleale. Tali fatti rischiano di compromettere la corretta gestione della procedura fallimentare in corso”.
La lotta se posta su un piano “di pura forza economica” ha un esito scontato. D’altro canto pur lodando l’impegno di Prantoni e dei tre senatori, occorre una buona dose di ottimismo per confidare nel rispetto della legge italiana da parte di colossi dell’informatica statunitense come Versata, che non sono nuovi ad azioni di concorrenza sleale come questa. Chi conosce lo stato delle nostre politiche industriali può prevedere facilmente l’esito di questo scontro economico. Chi va a spiegare ai 150 dipendenti della Think3 che, come diceva l’economista Ernst Schumacher, piccolo è bello?

Fonte: eurekaassociazione

Verità nascoste e menzogne di Stato

La tanker Savina Kaylin e il cargo Rosaria D’Amato sotto sequestro nel Puntland

Dismesso l’uso dei dizionari (Zanichelli, Garzanti, Dardano, ect), alla voce “Repubblica delle Banane” Wikipedia riporta: “Attualmente il termine è entrato nel vocabolario di tutti i giorni per indicare un regime dittatoriale, stabile nell’instabilità, dove le consultazioni elettorali sono pilotate e la corruzione ampiamente diffusa così come una forte influenza straniera che può essere politica o economica o ambedue le cose, sia diretta che pilotata attraverso il governo interno.”
Per estensione, il termine è usato per definire esecutivi dove un leader concede vantaggi ad amici e sostenitori, senza grande considerazione delle leggi (in Italia se ne fa partecipe l'”opposizione” che si alterna con la “maggioranza”), mettendo alla porta il giudizio espresso degli elettori.
Alla voce caratteristiche si indica la collusione tra Stato e interessi monopolistici dove i profitti sono privatizzati e le perdite socializzate.
Chiudiamo qui la tiritera ritenendoci ampiamente autorizzati, a buon titolo, a definire l’Italia delle istituzioni, della politica e dei Poteri Forti un sistema-Paese ampiamente cleptocratico, caraibico.
Detto questo, passiamo a un po’ di “attualità” che ne metta in mostra qualche aspetto di “politica estera” da barzelletta, partendo da un comunicato dell’ANSA dello scorso 5 luglio.
Secondo l’agenzia di stampa, la Tanzania è pronta a mettere in campo la sua intelligence per aiutare l’Italia ad ottenere quanto prima il rilascio degli 11 (5 italiani) marittimi della petroliera Savina Kaylin, 105.000 tonnellate, 226 mt di lunghezza, tanker, e dei 22 (6 italiani) della Rosaria D’Amato, cargo, di 112.000 tonnellate, 225 mt di lunghezza di proprietà ambedue di armatori italiani. I dati sono nostri.
La prima sequestrata da “pirati somali” con modalità pagliaccesce, come abbiamo già avuto modo di descrivere, affidandoci alla lettura di una corrispondenza di un inviato de La Repubblica: il famosissimo “rapito” in Afghanistan Daniele Mastrogiacomo, passato dal Paese delle Montagne alla “cronaca” da una località imprecisata nel Corno d’Africa. La seconda di cui si è parlato solo per registrare il “furto” in pieno Oceano Indiano e chiuderla lì, senza clamore, visto l’imbarazzante precedente della Savina Kaylin.
La Kaylin è “fuori controllo” dal 24 Gennaio e la D’Amato dal 21 Aprile. Ambedue sono state scortate a “destinazione” con l’assistenza, perchè così è stato, delle fregate Zefiro ed Espero della Marina Militare che operano, e hanno operato, tra lo Stretto di Bab el Mandeb e il Golfo di Aden, con l’operazione Atalanta dell’UE e Ocean Shield della NATO.
Dove? Continua a leggere

Matteo Miotto, una morte al di sotto di ogni sospetto

Le flagranti e pagliaccesche contraddizioni della versione ufficiale

Non ci stupisce che ad appena 24 ore dai funerali a S. Maria degli Angeli il Presidentissimo, influenzato e febbricitante – ci aveva fatto sapere – tanto da non poter essere presente alla cerimonia funebre di Matteo Miotto dopo aver disertato anche quella all’aeroporto di Ciampino, abbia avuto tutto il tempo per rimettersi in perfetta salute e raggiungere Napoli ancora sommersa dalla spazzatura, per farsi ciceronare insieme alla Sign.ra Clio in un evento culturale di grande richiamo come può esserlo una mostra del Caravaggio.
La morte dell’Alpino il 31 Dicembre ha avuto come effetto di disturbargli, oltre che il soggiorno a Villa Roseberry, anche il calendario degli appuntamenti familiari nei primi tre giorni dell’anno.
Il tutto mentre il suo Ministro della Difesa, visto che l’inquilino del Quirinale è anche Capo Supremo delle Forze Armate (almeno così dice), volava a rotta di collo a Herat per portare – questa la motivazione ufficiale del viaggio – il suo saluto al contingente italiano.
Un “corpo di spedizione“ ormai con il morale sotto i tacchi non solo per la morte dell’Alpino ma soprattutto per la nuova tattica, pretesa ed imposta dal generale Petraeus, di stare sul “terreno“ in Afghanistan.
L’allargamento delle “bolle di sicurezza“, che ci ricordano quelle di sapone, e la trasformazione dei reparti ISAF Italia in Task Force, sul famigerato modello 45, più l’approntamento di capisaldi fissi, in zone totalmente fuori controllo con necessità di rifornimenti logistici via aria e terra, non potevano non portare ad un incremento da capogiro delle nostre perdite.
Nel 2010 sono morti 10 militari italiani contro i 25 complessivamente caduti dal 2002, da Kost con la Folgore (base Salerno, confine Af/Pak) fino al 2009, portando il conto, per ora, a 35 morti ammazzati per una “missione di pace“ che fa sabbia da tutte le parti al di là dei costi stratosferici che impone ad uno sfiatatissimo erario pubblico.
Per capire il livello di autentica follìa raggiunto dal Governo basterà ricordare l’ultimo regalo da 6 milioni di euro a Dicembre dell’anno appena concluso, fatto dalla Cooperazione gestita dal Ministro degli Esteri Frattini per lo sviluppo dei progetti agricoli di Kabul, nello stesso giorno in cui Polizia e Carabinieri bastonavano nel porto di Civitavecchia il capo del Movimento Pastori Sardi Piras e la sua delegazione, in rappresentanza di 15.000 produttori ridotti alla fame, intenzionata a raggiungere Roma e protestare sotto Palazzo Chigi.
La visita di La Russa a Herat non ci ha affatto sorpreso. A dire il vero ce lo aspettavamo.
Con il Presidente della Camera in vacanza nell’Oceano Indiano, dopo la visita di Schifani al PRT di Herat non poteva mancare quella del D’Annunzio del XXI° secolo.
E poi la morte di Miotto necessitava di qualche urgente aggiustamento sul posto, vista la brutta piega che stava prendendo la faccenda in Italia quando sono cominciate a filtrare le prime indiscrezioni che smentivano la versione preparata a tavolino a Palazzo Baracchini: il rinvenimento di un proiettile in calibro 7.62 nella mimetica di Matteo Miotto in corrispondenza di un foro di uscita nella schiena.
Ed è così che si tenterà di fare e di impiastricciare.
Quando l’Ansa ha battuto il dispaccio del 31 Dicembre ha scritto inequivocabilmente “cecchino“. Un cecchino isolato, un terrorista che ha sparato un unico colpo all’indirizzo dell’Alpino e quella notizia è sicuramente partita dal Ministero della Difesa.
Versione poi confermata ufficialmente da La Russa. Letta quella dichiarazione siamo andati a cliccare “Dragunov“. Lo avevamo visto in Iraq nelle mani della guerriglia baathista.
Ne sapevamo qualcosa e abbiamo voluto rinfrescarci la memoria. Il primo filmato su Youtube che ne è uscito ci mostrava dei rangers USA che si addestravano al tiro con quel “fucile di precisione“ in Afghanistan con l’immancabile accompagnamento di caciara yankee.
In più eravamo certi di non averlo visto, nemmeno una volta, nella disponibilità di qualche formazione pashtun. Le decine di fotografie che via, via nel tempo abbiamo esaminato lo escludevano.
Il generale Marcello Bellacicco, attuale comandante del PRT di Herat, ha definito il Dragunov una “new entry“. Un linguaggio da Grande Fratello. Ma così è… se vi pare.
Un’arma che non ha mai destato allarme nelle forze della coalizione ISAF tanto da poter essere venduto come residuato di guerra nei suk delle principali città del Paese delle Montagne.
Il perché è semplice. I modelli in mostra non hanno ottica né diurna anni ’60 a ingrandimento 4, né notturna che necessita di una pila di alimentazione. Inoltre non è maneggevole, è impreciso nel tiro a media-lunga distanza, non dispone di bipiede di appoggio, ha limitate capacità di fuoco, il serbatoio contiene 10 colpi, e necessita di proiettili in calibro 7.62×54 che sono diversi nelle dimensioni dai 7.62×33 degli AK-47.
Ed in più i pashtun, per “ancestrale arretratezza culturale“, disprezzano il tiratore scelto e camuffato dell’Occidente che colpisce di nascosto.
L’ipotesi del cecchino isolato che aveva colpito Miotto, prima alla spalla, poi al fianco, e poi tra collo e spalla non riusciva a convincerci.
Anche perché il caposaldo Buji o Snow sta in una posizione sopraelevata di 250 mt sul terreno desertico, circostante, non ha torrette come Fort Alamo, ma piazzole, camminamenti ed alloggi approntati con materiale di fortuna ed una protezione passiva fatta di “ecobastian“ addossati l’uno all’altro a formare un cerchio su un area di 3-400 mq, trasportati sul posto con elicotteri CH-47.
Per quanto ne sappiamo, Buji è un avamposto in zona desertica privo di rampa di accesso per mezzi ruotati, rifornibile esclusivamente per via aerea anche per l’avvicendamento del personale, tenuto da un mezzo plotone scarso di militari che vivono in una costante condizione di isolamento psicologico e materiale dal Comando Centrale di Herat.
In alcuni capisaldi, dove il terreno lo consentiva, un quarto dei militari italiani sono stati costretti a scavare trincee con pala e piccone ed a mettere su alloggiamenti con travi, prefabbricati ed ondulati, tenendo le posizioni con temperature oscillanti tra il giorno e la notte tra i +40 ed i -5/-7 in estate ed i –15/-20 in inverno.
Ritenevamo invece che fosse indispensabile trovare il proiettile che aveva attinto Matteo Miotto perché poteva contenere un’enormità di informazioni utili: fattura, calibro, composizione delle leghe, rigature lasciate dalla canna e così via per poter essere certi che non fosse magari un proiettile 308W sparato da “fuoco amico“, molto ma molto simile al 7.62×54 sparato da un Dragunov.
Appena 3 millimetri di differenza in meno nella lunghezza del bossolo.
La ritenzione o meno del proiettile nel corpo di Miotto era un altro problema che avrebbe dovuto uscire dall’autopsia ma così non è stato. Dal momento che le pensiamo tutte ma proprio tutte ci è parso strano che il procuratore aggiunto Saviotti sia stato chiamato il giorno successivo a rapporto dal Copasir. Può essere che D’Alema voglia sentirlo per Calipari, come è stato annunciato, ma… qualche dubbio, di indebita pressione “altra“ non può non rimanere in piedi.
Dal leggìo delle grandi occasioni del PRT di Herat, dall’hangar alla presenza delle truppe schierate, un La Russa in tuta mimetica ha voluto farci sapere quale dovrebbe essere l’ultima versione della morte dell’Alpino del 7° reggimento della Julia.
Lo riportiamo per intero per far capire ai lettori la sfrontatezza con cui si dichiara il falso e le enormi difficoltà che incontra nel dare una spiegazione razionale, logica all’uccisione di Matteo Miotto e le flagranti, pagliaccesce contraddizioni in cui cade.
Le conclusioni le tireremo alla fine, anche se non siamo esperti balistici sappiamo leggere e capire.
“E’ stato ucciso da un cecchino, solo che questo non ha sparato un solo colpo ma diversi colpi. Si può pensare che non fosse solo, anzi è probabile che ci fossero altri 4-5 uomini di copertura ma è possibile che a sparare sia stato soltanto lui. E’ stato un vero e proprio scontro a fuoco. Gli insurgents che hanno attaccato la base, difficile dire quanti fossero, hanno cominciato a sparare con armi leggere [di pesanti non ne hanno mai avute – nda]. I militari italiani hanno risposto. Miotto che faceva parte di una forza di pronto impiego è andato alla garitta a dare manforte al soldato che c’era. Sparavano a turno: uno sparava e l’altro si abbassava. E proprio mentre si stava abbassando che Matteo è stato colpito al collo. Dall’esame del proiettile è stato possibile risalire all’arma che ha fatto fuoco. E’ un Dragunov degli anni ’50 di fabbricazione sovietica. Si trova anche al mercato nero di Farah“.
Dal canto suo il generale Bellacicco, nel tentare di dare due mani e due piedi al suo superiore, senza pensare di poterlo inguaiare ancora di più ha dichiarato con candore quanto segue:
“La battaglia alla base Snow si è conclusa dopo diverse decine di minuti anche in seguito all’intervento di un aereo americano che ha contribuito a bonificare l’area. Secondo indiscrezioni ci sarebbero state 4 vittime tra gli insorti. Non è chiaro se tra di loro ci fosse anche il cecchino“.
Un’ultima annotazione prima di chiudere. La Russa si è portato ad Herat 4 ragazzi sotto i diciotti anni di età che hanno già sperimentato la sua “mini-naja“, due maschi e due femmine che sono stati invitati ad indossare il cappello alpino. Il loro desiderio – ha detto La Russa – è di poter fare i militari ma ancora c’è tempo. Se non quì ad Herat altrove.
Il proiettile che ha ucciso Miotto La Russa dice di averlo trovato. Lo porti in Italia e lo consegni ai pm titolari dell’inchiesta. Il resto si vedrà. Relazioni dei ROS e dichiarazioni a verbale degli altri alpini del 7° Reggimento che erano con Miotto al momento del suo decesso nella base Snow comprese. Ci apettiamo che la Procura di Roma faccia per intero il suo dovere, senza guardare in faccia nessuno, dedicando grande attenzione anche al contenuto del suo testamento per valutare la concreta possibilità di “fuoco amico“.
Giancarlo Chetoni

Fuori la Repubblica delle banane dall’Afghanistan. Alla svelta!

Il 13 Ottobre si è concluso il trasferimento ad Herat di tre elicotteri medio pesanti EH-101 Agusta Westland in dotazione alla Marina Militare, affittando come cargo un gigantesco C-17 Galaxy USA.
I nuovi arrivati ad ala rotante in aggiunta al già ingente e costosissimo apparato da trasporto logistico, evacuazione medica, ricognizione ed attacco a disposizione del Comando del PRT 11 di Herat si sarebbero resi necessari, a quanto dichiarato dal Capo di Stato Maggiore Vincenzo Camporini, per “incrementare sul terreno la capacità multifunzionale della componente aerea del contingente italiano“.
L’Italia ha allargato il suo sostegno militare nelle provincie ovest dell’Afghanistan alla coalizione ISAF-Enduring Freedom.
Dal canto suo il D’Annunzio del XXI° secolo come si è definito, ironicamente, nel frattempo si è diviso in quattro con giornali e televisioni per sostenere il contrario, ipotizzandone la riduzione entro il 2011 affidandosi ad una favoletta logora: il passaggio della “sicurezza“ nelle mani dell’esecutivo di Kabul.
Non sapete chi è il Vate? Rimediamo subito. Anche se ci viene una gran voglia di portare il dorso della mano alle labbra e soffiare forte, forte.
E’ il Ministro della Difesa. L’onorevole Ignazio La Russa.
Il titolare di Palazzo Baracchini, perfettamente consapevole che 2/3 degli italiani sono fermamente contrari alla guerra in Afghanistan, sta tentando senza troppa fantasia di mandar in scena nel Bel Paese la stessa farsa recitata dal premio Nobel Barack Obama per tacitare l’opinione pubblica USA stremata, come la nostra e più in generale quella europea, da una devastante crisi sociale.
Anche se la finanziaria di Dicembre si chiama ora legge di stabilità, non sarà qualche furbata semantica o peggio qualche annunciata menzogna contabile per difetto (750 milioni semestrali per le “missioni di pace“) a nascondere che l’avventurismo bellico della Repubblica delle banane, dal 2003 ad oggi, ha bruciato risorse pubbliche colossali che avrebbero potuto essere diversamente utilizzate per dare fiato a lavoro, ricerca, sanità, tutela ambientale e strutture pubbliche.
E qui ci vengono a mente anche i 15 miliardi di euro per un altro costosissimo ultra-bidone rifilatoci dal Pentagono, da D’Alema, Prodi, Berlusconi, Guarguaglini & soci in cambio di un men che niente, una sezione d’ala a Cameri: l’F-35. Continua a leggere

Quello che in Italia i giornalisti non chiedono

Quanto è avvenuto, oggi mettendo da parte sentimentalismi patriottici e dolorose constatazioni che si tratta di giovanissimi provenienti dal Sud, che continua a fornire carne da cannone, possiamo dire che si tratta di un normalissimo episodio militare, da manuale e che statisticamente, è possibile calcolare con largo anticipo la probabilità che esso succeda per numero di operazioni simili, la quantità di perdite umane e di materiale previste.
In Afghanistan operazioni di allargamento del controllo del territorio tramite FOB (Basi Avanzate) sono normalissime, e americani ed inglesi sono degli specialisti in questo e calcolano anticipatamente quante perdite sono accettabili nel rifornire, mantenere una FOB e tenerla operativa attraverso operazioni di controllo di territorio remoto.
In poche parole, in nove anni di guerra afgana, è possibile ormai conoscere matematicamente lo scotto che c’è da pagare per ogni centimetro di territorio che si vuol strappare agli insorti e quanto in più c’è da versare, in sangue e denaro per mantenere nel tempo il controllo di quel centimetro conquistato.
Quante perdite avremo nei prossimi 12 mesi?
Quello che in Italia i giornalisti non chiedono e che invece in America è anticipato dagli staff del public-relation del Pentagono.
Se ci fate caso, ad ogni conferenza stampa che segue l’inizio di una nuova operazione militare delle Forze armate USA, i portavoce del Pentagono rispondono con matematica precisione alle domande dei giornalisti sulle perdite che prevedono di avere, dei costi dell’operazione e dei risultati che si vuol conseguire.
Ebbene da quando gli USA hanno chiesto al nostro contingente di cambiare strategia nel territorio di competenza, tirare fuori il naso dai caposaldi e andare a contendere passo passo il terreno agli insorti, installando nuove basi sempre più remote e bisognose di rifornimenti continui in uomini e materiali, ebbene nessun giornalista italiano si è permesso di chiedere ai nostri generali quanto ci sarebbe costato tutto ciò.
Quelle cifre previsionali, morti, mezzi distrutti, ecc sono da tempo sui tavoli degli analisti del nostro Stato Maggiore Difesa, come anche su quelle del ministro della Difesa on. La Russa, ma nessuno si permette di chiederlo, poiché sarebbe una bomba politico-militare.
Invece si preferisce contrabbandare il mito del buon italiano protetto dallo stellone e dall’amuleto che ci si è portati da casa e dal materiale di produzione nazionale che è sempre meglio di quello degli altri contingenti, per poter fare marketing alle imprese armiere nazionali.
Né troveremmo un giornalista deciso di esser messo alla porta, a vita, dagli ambienti ministeriali e dal suo giornale a causa di una domanda vietata in Italia.
Si preferisce invece lanciarsi nelle interviste falsamente pietistiche ai familiari e agli amici delle vittime, alle inquadrature di bare avvolte nel tricolore e nel riportare i bollettini di vittoria dal fronte afgano e pieni di indici di gradimento rilevati tra la popolazione locale verso i nostri militari.
Io speriamo me la cavo, l’importante è arrivare a questo benedetto fine 2011…
Chissà se un giorno un nuovo filone di cinema neorealista italiano potrà sceneggiare un film con questo titolo sulla guerra afgana vista dai soldati italiani, quelli veri, come il caporalmaggiore che scriveva su Facebook, ”Io mi son rotto dell’Afghanistan e voglio ritornare a casa” o come il pugliese che diceva: “Qui fa un freddo cane e rimpiango il mare del Salento”?
Antonio Camuso

Fonte: Osservatorio sui Balcani di Brindisi
[grassetti nostri]

Se io lancio una bomba…
Roma, 11 ottobre – Potrebbe iniziare nel 2011 la exit strategy dei militari italiani dall’Afghanistan. ”Ne voglio discutere nelle sedi opportune con Petraeus, con la NATO. Potrebbe avvenire che la nostra zona ovest entro il 2011 venga largamente consegnata al governo afghano più di altre zone. A questo punto dovremmo affermare il principio che noi non andiamo in un’altra zona”. E’ questa l’ipotesi prospettata dal ministro della difesa, Ignazio La Russa, in una intervista a La Stampa.
Se si riuscirà a consegnare al governo di Herat il controllo di tutta la zona ovest ”quello sarà il momento per far rientrare gran parte dei nostri soldati che hanno compiti operativi – aggiunge il ministro – concentrandoci sull’addestramento”. La Russa parla anche della possibilità di armare i bombardieri e del fatto che questo non cambierebbe la nostra missione che ”resterebbe di pace. Se io lancio una bomba per difendere una colonna militare, rimane una missione di pace. Non è l’arma che qualifica la missione ma il modo con cui la usi”.
(ASCA)

… ed i nuovi “Mille”
Roma, 11 ottobre – I soldati italiani impegnati nelle missioni di pace ”sono i nuovi ‘Mille’, 150 anni dopo l’unità”. Lo afferma in una intervista al Mattino il ministro degli esteri Franco Frattini. Nel Risorgimento si combatteva ”per l’ideale unitario”. Oggi l’obiettivo è ”contribuire con il proprio impegno alla sicurezza e alla pace internazionale. A rischio, oggi come allora, della propria vita”. Frattini aggiunge che il 2011, anno del 150° anniversario dell’unità d’Italia e decimo anniversario dell’attentato alle torri gemelle, ”potrebbe essere l’occasione giusta per ricordare i nostri militari morti per la pace. Il tema resta la memoria. Si dovrebbe pensare ad una giornata del ricordo di tutti i giovani che hanno perso la vita nelle tante missioni in cui l’esercito italiano è stato impegnato in missioni internazionali”.
Frattini si sofferma poi sulla opportunità di armare meglio i militari italiani riprendendo la proposta del ministro della difesa La Russa di equipaggiare con le bombe gli aerei. ”In quella situazione si pensa alla possibilità di armare meglio i nostri aerei da combattimento. Ora hanno solo mitragliatrici, le bombe potrebbero aumentare l’efficacia della loro azione di scorta ai convogli”.
(ASCA)

Tra un Rutelli pronto al voto favorevole per l’invio al fronte e l’uso di qualunque armamento a nostra disposizione per far sentire sicuri i nostri soldati in missione di pace (fortunatamente le bombe atomiche tattiche presenti in Italia sono di proprietà USA e non ce le prestano) e un Ranieri del PD possibilista ad una decisione patriottica in parlamento, troneggiava da un megaschermo la faccia con gli occhi spiritati di La Russa che annunciava la svolta: “Dopo tante remore è giunto il momento di armare di bombe i nostri AMX affinché i nostri soldati si sentano più sicuri”, – correggendosi poi immediatamente, per evitare di esser sputato in faccia dalla NATO – anche se, comunque, sino ad oggi, quando abbiamo richiesto l’appoggio aereo non ci è stato mai negato dagli altri (USA, inglesi e francesi), però, noi che non vogliamo guastare il mito del buon soldato italiano, che mai ha fatto del male ad un civile, preferiamo che, se c’è da buttare qualche bomba, per difenderci, è meglio che lo facciano degli aerei italiani, così siamo sicuri che danni collaterali non ce ne saranno e il nostro rapporto con la popolazione rimarrà cordiale e fraterno come sin’ora è stato…
(…)
All’unanimità poi, in un clima che ci ricordava il sequestro Moro, tutti si dichiaravano convinti della lotta senza quartiere ai terroristi talebani: “Nessuna trattativa! I nostri soldati rimarranno lì sino alla vittoria finale, salvo disposizioni USA-NATO!“.
Dagli USA l’inviato RAI, inascoltato, annunciava che Karzai, spinto e appoggiato dagli USA sta per far entrare nel governo i “terroristi talebani” (oggi ha precisato che lui tratta con i talebani afgani, definizione molto larga che comprende anche quelli del Waziristan tribale Pachistano, continuamente bombardato dai droni americani), i nostri, in studio, rassicuravano i nostri soldati sulla bontà della loro missione: difendere a migliaia di kilometri di distanza l’uscio di casa ed impedire che i talibani scorazzino presto armati per le nostre città.
Nonostante che nessuno gli abbia fatto la domanda vietata, La Russa a sorpresa ammette, per la prima volta che, statisticamente, sono calcolabili le perdite che prevediamo di avere, ma… è meglio non parlarne ed è preferibile piangere, col cuore infranto, come se fosse la prima e ultima volta alla notizia di ogni soldato italiano… E per l’ennesima volta da giornalisti ed esponenti dell’opposizione con la capa china tutti a non voler chiedere quante sono le perdite che si prevedono sino al ritiro.
Lo spettro che s’aggirava nella trasmissione era quello della vera data del ritiro che La Russa e C. vagheggiavano a fine 2011, ma ieri sera, solo grazie al corrispondente esteri RAI, abbiamo saputo che si spera sia il 2014, salvo lasciare alcune centinaia di “istruttori” all’esercito afgano… a tempo indefinito. Insomma, quella afgana sarà forse la più lunga campagna di guerra affrontata dal nostro esercito dall’Unità d’Italia contro un nemico oscenamente mostruosizzato e i cui rappresentanti presto faranno parte di un governo amico e sostenuto finanziariamente da Europa e USA.
Un dibattito confortante per le famiglie dei soldati all’estero che ora sanno il motivo perché i loro figli stanno a sputare sangue e sabbia, ammazzando altri esseri umani definiti terroristi e riempiendo tutti di orgoglio per la nostra coerenza, spirito di guerrieri pacifisti e di coerenti difensori della legalità internazionale. Un dibattito che ci ha confortato della valanga di milioni di euro che vanno in fumo in quella missione, mentre si taglia la scuola, la sanità e la disoccupazione giovanile, e non, galoppa senza tregua. Domani è un altro giorno, l’Italia che Mussolini segretamente dichiarava incompatibile con la guerra, si commuoverà per qualche ora dinanzi a una bara col tricolore, poi volterà le spalle e tornerà al quotidiano “io speriamo me la cavo”… a quadrare i conti… a portare la pelle a casa dal lavoro… a non morire per mala sanità…

Da La svolta italiana in Afghanistan: le Bombe Rassicuranti, di Antonio Camuso.
[grassetto nostro]

Marketing governativo
Roma, 13 ottobre – Il ”Lince”, il blindato rimasto coinvolto nell’esplosione che ha provocato la morte di quattro nostri alpini in Afghanistan, resta il mezzo più sicuro per i nostri soldati. Lo ha detto il ministro della Difesa, Ignazio La Russa nel corso della sua informativa al Senato.
”In campo mondiale, al momento, tra i veicoli della stessa categoria non risulta disponibile una alternativa che possa garantire migliori livelli di protezione del personale” ha detto La Russa. ”Peraltro, nell’ambito delle misure tese al miglioramento della sicurezza del personale sono stati immessi nel teatro afghano – ha ricordato – i primi 17 esemplari di Veicolo Blindato Medio (VBM) ‘Freccia’ operativi dal mese di agosto” che è destinato non a sostituire ma ad integrare gli attuali assetti operativi basati sul Lince, ”trattandosi di due tipi di veicoli in grado di operare in modo complementare”.
(ASCA)

Afghanistan: le manfrine di Frattini, La Russa & soci

Il “Freccia“ è il 5° blindato, in questo caso di produzione FIAT Iveco-Oto Melara, utilizzato dal “nostro“ contingente in Afghanistan ed il 3° progettato ed uscito dalle catene di montaggio nazionali per dotare i militari “tricolori“ di “un mezzo idoneo ad affrontare le minacce di formazioni ostili in Paesi in cui si imponga la necessità di operazioni di polizia internazionale per ristabilire l’ordine e sicurezza“ (dichiarazione di La Russa Ignazio). Insomma, peace-keeping e peace-enforcing sotto l’egida dell’ONU ed occasione utile per soddisfare al tempo stesso le esigenze dell’ Esercito Italiano (E.I.) per dotare i suoi reparti di un numero adeguato di VBL/VCM/VCE/IFV che soddisfi l’esigenza di dotazioni della Forza Armata.
Un esigenza che coincide con l’acquisto da parte del Ministero della Difesa di un numero di blindati tale da generare, in ogni caso, un lauto profitto alle società costruttrici che si accollano, bontà loro, i costi di progetto, produzione, modifica, manutenzione a tempo e le scorte ricambi all’ E.I..
La conseguenza più immediata di una tale procedura è il volatilizzarsi del rischio di impresa e l’acquisizione da parte dell’E.I. di quantità “regolarmente eccedenti di esemplari prodotti, rispetto alle necessità operative“ essendo ben noti i benefici economici che ricava il personale di alto grado della Forza Armata, Marina ed Aviazione comprese, alla quiescenza, dall’’inserimento a livello dirigenziale nell’industria militare pubblica e privata.
Lobbies che opacizzano, nel migliore dei casi, i bilanci di settore ed inquinano, ormai a partire dagli anni Settanta, le destinazioni di spesa di Via XX Settembre.
Il “Freccia“ pesa in ordine di combattimento 26+2 tonnellate, ha un cannone a tiro rapido da 25 mm KBA, una mitragliatrice MG-42 da 7,62 mm ed una trasmissione su quattro assi. L’arma più temibile nelle mani di un coraggiosissimo ed eternamente appiedato straccione pashtun è un RPG-7 che a 150 metri perde i tre quarti della sua precisione di tiro od un AK-47 che a 130 mt la dimezza.
Nella versione controcarro il “Freccia” aggiungerà, grazie al professore, una dotazione di missili antitank “made in Israel“ Spike con un raggio d’azione dai 4 ai 6 km. Continua a leggere

Hanno sfidato una tempesta di sabbia

Herat, 17 settembre – Hanno sfidato una tempesta di sabbia per consegnare le schede elettorali in una delle zone più remote dell’Afghanistan, Por Chaman. Gli elicotteri italiani hanno compiuto la missione questa mattina ed hanno consegnato alle autorità afghane gli scatoloni sigillati contenenti le schede elettorali per le votazioni che si svolgeranno domani in tutto l’Afghanistan. Una missione durata due ore e che ha visto impegnati un CH47, elicottero da trasporto, e due Mangusta che hanno scortato le schede elettorali.
Nel corso della settimana molte volte l’operazione era fallita proprio a causa della tempesta di sabbia che ha colpito la regione. “Negli ultimi giorni – spiega il maggiore Bruno Pagnanelli abbiamo messo a punto un piano dettagliato per portare le scatole sigillate con all’interno le schede elettorali nei vari distretti. Una tempesta di sabbia però ha impedito che l’operazione giungesse a buon fine. Fino a questa mattina quando il maltempo ha concesso una tregua di due ore e così gli elicotteri sono partiti da Farah, nella provincia di Herat, affrontando una missione al limite, sorvolando la zona montuosa e desertica di quella provincia. Nessun atto ostile da parte degli insorti è stato registrato contro le forze dell’aviazione leggera dell’Esercito e dunque sabato gli abitanti di quella zona potranno recarsi alle urne”.
(AGI)

Peccato però che…

Kabul, 17 settembre – Alla vigilia del voto afghano, sequestrate migliaia di schede false e badge per l’accredito degli osservatori. Lo hanno annunciato le autorità in Afghanistan, dove crescono i timori di brogli elettorali, in un voto che i talebani hanno invitato a boicottare e minacciato di insanguinare con attentati.
(AGI)

Roma, 17 settembre – In Afghanistan si corre il rischio di brogli elettorali: lo ha detto il ministro della difesa Ignazio La Russa. “Qualche volta sentiamo parlare di rischio brogli elettorali nei Paesi europei – ha dichiarato La Russa – e qualche volta anche in casa nostra. Potete immaginare come sia più facile sentirne il pericolo in una terra così devastata come l’Afghanistan“. La riflessione del responsabile della Difesa a margine dell’incontro che ha avuto con il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen.
(AGI)

Ma come, signor Ministro, non ci ha sempre detto che in Afghanistan siamo sulla buona strada?!?
Intanto, i “nostri ragazzi” continuano a giocare alla guerra:

Roma, 17 settembre – Due incursori italiani, un ufficiale e un militare di truppa della Task Force 45, costituita dalle forze speciali italiane, sono rimasti feriti oggi nel distretto di Bakwah, provincia di Farah, a sud di Herat. I due, colpiti da proiettili di arma da fuoco alla spalla, non sono in pericolo di vita. In particolare, riferisce il Regional Command West di ISAF, i militari sono rimasti feriti nel corso di un’operazione mirata alla cattura di quattro insorti che erano stati avvistati da un velivolo senza pilota dell’Aeronautica militare mentre posizionavano un ordigno lungo la strada che collega Farah a Delaram.
Gli insorti si erano spostati in un’abitazione verso la quale si stavano dirigendo un elicottero da trasporto CH47 con a bordo gli elementi delle forze speciali, scortato da due elicotteri Mangusta. I due feriti sono stati subito evacuati presso l’ospedale da campo USA di Farah. La dinamica dell’evento è in fase di ricostruzione, mentre le famiglie dei due militari sono state avvisate.
(ASCA)

Un elicottero da trasporto CH47 e due Mangusta in entrambi gli episodi, ma che curiose coincidenze!

Altri addirittura, pur di sparare a qualche animale di grossa taglia, da cacciatori accaniti arrivano a firmare contratti annuali o pluriennali con le nostre Forze Armate che organizzano safari a proprie spese.
Il ragionamento è semplice: se, tra acquisto di mimetica, scarponi, fucile, munizioni, costo di viaggio di spostamento all’estero ecc, se ne vanno più di mille euro, e io posso risparmiare, anzi mi pagano lautamente per la trasferta internazionale, perché non farlo?
Qualche rischio c’è, ma a vedere i dati che ogni anno ci arrivano dagli enti preposti, ma anche dalla stessa televisione, decine di morti e feriti per ogni stagione faunistica, c’è da ammettere che c’è più rischio di essere impallinati dai cacciatori della domenica o morti precipitati in dirupi a causa di un terreno che frana in tutta Italia, piuttosto che percorrere le lande desolate afgane o irachene a caccia di qualche bella preda.
Qualche volta dallo schermo tv, ci arrivano delle notizie curiose che ci parlano del cinghiale che inferocito ha fatto cadere un cacciatore, al quale partendo un colpo ha ammazzato accidentalmente l’amico o di qualche volpe che fintasi morta ha poi staccato il naso o la mano al cacciatore imprudente, ma sono cose che non fanno paura, anzi danno una bella scossa di adrenalina a ogni impenitente cacciatore.
Oggi, l’incidente di caccia è avvenuto non nei boschi della Garfagnana, bensì tra le pietraie del distretto di Herat, dove un gruppo di cacciatori italiani in trasferta, che in Afghanistan sono inquadrati dalla agenzia di Safari “Incursori Taskforce45”, addestrata ad eliminare a colpi di silenziatore dei fastidiosi esemplari di una specie che si chiama talebana, dopo aver avuto le indicazioni da parte di un cane-volante robot (chiamato Predator) ove si trovasse la tana di alcuni esemplari di questa razza, è incautamente incappata in un branco di cuccioli talebani con mamme al seguito.
La reazione di questi animali che, notoriamente, appena vedono un cane-robot Predator a stelle e strisce, si fanno immediatamente annichilire a colpi di missile, è stata inconsulta, rabbiosa provocando la morte di un cacciatore ed il ferimento di un altro.
L’ennesimo incidente di caccia scatenerà nuove polemiche tra coloro che sono sfavorevoli alle attività di caccia grossa all’estero sotto il patrocinio del Ministero della Difesa e coloro che invece richiederanno l’impiego di cani-robot armati, capaci di ammazzare prima la preda a distanza, onde far fare ai cacciatori incalliti un safari teleguidato senza rischi.
Si prevede che i missili da installare su questi nuovi cani da caccia saranno acquistati con i risparmi sulle pensioni di invalidità, sulla scuola, sulla sanità e con tariffe più alte sui servizi pubblici.

“La caccia grossa è garantita dai principi delle libertà costituzionali, corrobora lo spirito italico e fa tenere alto il nome della nostra Nazione all’Estero!“.
Con queste parole, il nostro ministro della Difesa richiederà la mozione di fiducia sulla prossima manovra relativa all’acquisto della ”nuova attrezzatura” per un’attività venatoria che quest’anno si presenta molto interessante.

Da Incidenti di caccia: morto un incursore italiano che andava a caccia di talebani, di Antonio Camuso.
[grassetto nostro]

Missione di pace
Roma, 20 settembre – “Il tenente Romani era un valoroso combattente”, ha detto Franco Frattini, ricordando la figura del militare ucciso. Il ministro degli Esteri ha aggiunto che gli uomini della Task Force 45, di cui faceva parte Romani, sono militari “addestratissimi”, in Afghanistan da volontari, che “devono andare a snidare quei talebani con cui non potremo fare mai un accordo”.
(AGI)

“Fiaccola per la nostra Patria, lampada per i popoli martoriati”
Roma, 20 settembre – ”Alessandro in Afghanistan voleva che gli ordigni non spegnessero più i sogni dei bambini, che le donne non fossero più sfigurate e lapidate, che gli uomini non fossero più legati su pali in attesa della morte, dinanzi agli occhi dei figli”. Con queste parole mons. Vincenzo Pelvi, ordinario militare per l’Italia, ha ricordato la figura del tenente Alessandro Romani, l’incursore del reggimento ‘Col Moschin’ ucciso il 17 settembre in uno scontro a fuoco con i talebani e del quale si sono celebrati i funerali oggi a Roma alla presenza del capo dello Stato Giorgio Napolitano.
”In questa basilica, diventiamo alunni dinanzi alla sua bara, cattedra non sempre condivisa e riconosciuta. Eppure è una cattedra da cui viene trasmesso un insegnamento che debella l’egoismo e fa trionfare la solidarietà. Una cattedra che non respinge i poveri e gli emarginati ma insegna ad accogliere i più deboli e li mette in cattedra”. ”Caro Alessandro, – ha detto mons. Pelvi rivolgendosi direttamente al militare caduto – con la partecipazione alle missioni internazionali di sicurezza e di sviluppo, sei diventato, senza cercarlo, fiaccola per la nostra Patria e l’intera umanità. Non ti sei preoccupato delle tue paure o delle tue ferite perché avevi a cuore di restituire dignità umana a ogni persona. Prima per il popolo iracheno e poi per quello afghano, sei stato luce di speranza, convinto che la vita di ogni uomo è un valore non negoziabile”.
Per mons. Pelvi la morte di Romani ”è un ammonimento circa la necessità di abbandonare la mentalità che considera i poveri – persone e popoli – come fardello e come fastidiosi importuni. Eppure solo assieme a loro possiamo creare un mondo più giusto e per tutti più prospero. Se vogliamo la pace, la costruiremo assicurando a tutti la possibilità di una crescita ragionevole: le ingiustizie, prima o poi, presentano il conto a tutti. Il servizio dei nostri militari rivela un obiettivo di profonda solidarietà: mirare al bene di ognuno e di tutti”. Da qui l’impegno a ”non distogliere mai l’attenzione ai progetti di sviluppo dei popoli, specialmente di quelli più bisognosi di aiuto, promuovendo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale anche col minimo dispendio delle risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti. Lo sviluppo è dato dall’incremento di scelte buone che sono possibili quando esiste la nozione di un bene umano integrale”.
Il vescovo castrense ha concluso l’omelia ringraziando a nome dell’Italia ”i nostri militari, che, liberi dal proprio io, si espongono come lampada per i popoli martoriati dalla tirannia e dalla violenza con l’intento di rendere ospitale la casa dell’umanità. La guerra non è mai inevitabile e la pace è sempre possibile. Anzi doverosa”.
(ASCA)

[La puntata precedente del “Monsignore atlantico”.
Le ingiustizie, prima o poi, presentano il conto a tutti…]

La flotta della libertà

30 maggio: avvisaglie
Nicosia, 30 maggio – Freedom Flotilla, il convoglio di navi che intende rompere l’assedio di Gaza, è salpata da Cipro. Un consulente legale di Free Gaza Movement ha reso noto che “cinque imbarcazioni hanno lasciato Cipro alle 5 di stamane”. Secondo Audrey Bomse, la flottiglia dovrebbe arivare nelle acque territoriali di Gaza intorno alle 16 ora locali (le 15 in Italia).
La Freedom Flotilla trasporta migliaia di tonnellate di aiuti umanitari, tra cui cemento, medicine, generi alimentari, e altri beni fondamentali per la popolazione di Gaza. A bordo anche centinaia di passeggeri di 40 nazionalità diverse: esponenti di ong, associazioni e anche semplici cittadini filo-palestinesi intenzionati a forzare il blocco di aiuti umanitari a Gaza.
(AGI)

Gaza, 30 maggio – La flotta umanitaria che vuole rompere l’assedio a Gaza si trova dinanzi alle coste libanesi. Le navi, guidate da una nave turca con più di 600 persone a bordo, sono state ancorate in acque internazionali al largo di Cipro.
Stamane gli organizzatori avevano detto che erano partite ma più tardi hanno precisato che il convoglio si era spostato di 25 miglia nautiche dalla sua posizione iniziale ed era stazionaria. Le autorità israeliane hanno minacciato di utilizzare la forza se i militanti insisteranno nel tentativo di avvicinarsi alle coste.
(AGI)

31 maggio: pirati e assassini
Gaza, 31 maggio – Almeno 10 passeggeri di una flotta internazionale di attivisti pro-palestinesi diretti a Gaza sono stati uccisi da un commando israeliano. Lo annuncia la tv privata israeliana ’10’. La CNN turca parla di 2 morti e 30 feriti. Hamas denuncia il ‘terrorismo organizzato di Stato’. Censura israeliana.
Ankara ha convocato il governo in emergenza e l’ambasciatore di Israele per una protesta: alcune navi della flottiglia battono bandiera turca e una ong turca è tra gli organizzatori della flottiglia.
(ANSA)

Ankara, 31 maggio – La Turchia ha definito “inaccettabile” l’attacco israeliano contro la flotta umanitaria a Gaza. Ankara ha messo in guardia da “irreparabili conseguenze”.
(AGI)

Gerusalemme, 31 maggio – L’esercito di Israele conferma che c’è stato un certo numero di “vittime” nell’assalto al largo di Gaza.
(AGI)

Roma, 31 maggio – Commandos israeliani hanno assaltato nella notte la nave passeggeri turca ‘Mavi Marmara’. Durante l’attacco alla piccola flotta di navi appartenenti ad alcune organizzazioni non governative, in rotta verso Gaza, almeno 15 attivisti filo-palestinesi a bordo sarebbero morti. Una trentina i feriti.
(…)
L’attacco è avvenuto in acque internazionali, a 75 miglia al largo della costa israeliana.
(Adnkronos/Ign)

Pertanto si tratta, a tutti gli effetti, di un’azione di pirateria.
Di Stato.
Che, come sempre, ha agito solo per difesa:

Gerusalemme, 31 maggio – Le forze di sicurezza israeliane sarebbero state attaccate dalle persone a bordo della ‘flottiglia di pace’, dopo esser state intercettate, con armi da fuoco e coltelli, di qui la sanguinosa reazione. Lo affermano le stesse forze armate di Israele (IDF) in un comunicato.
(Adnkronos)

Istanbul, 31 maggio – Governo e vertici militari turchi si sono riuniti in una sessione di emergenza convocata dopo l’operazione lanciata dai militari israeliani contro la flottiglia pacifista diretta a Gaza, operazione il cui bilancio è di 19 morti e 16 feriti.
La principale imbarcazione che compone la flottiglia – e che trasporta circa 500 passeggeri – batte bandiera turca. La riunione di emergenza è stata convocata dal premier turco Recep Tayyip Erdogan, riferisce l’agenzia Anadolu.
(Adnkronos/Dpa)

Senza commento
Roma, 31 maggio – Per Alfredo Mantica, l’azione della flotta pacifista era “una voluta provocazione” e la reazione israeliana era inevitabile. “Non ho ancora elementi sufficienti per capire cosa sia successo ma la questione era nota da giorni”, ha dichiarato il sottosegretario agli Esteri.
(AGI)

Il migliore amico in Europa
Roma, 31 maggio – Israele dovrà dare spiegazioni sull’attacco delle forze armate israeliane alla ‘Flottiglia di pace’. Lo ha ribadito il ministro degli Esteri Franco Frattini intervistato dal Gr1. “Israele – ha detto – deve dare spiegazioni alla comunità internazionale. E lo dice l’Italia che in Europa è senza dubbio il migliore amico di Israele”.
(Adnkronos)

Troppa grazia
Washington, 31 maggio – La Casa Bianca ha espresso profondo rincrescimento per la perdite di vite umane a bordo della flottiglia attaccata dagli israeliani.
(ANSA)

Fra le navi attaccate c’era anche il vascello greco ”Sfendoni”, che dovrebbe essere stato dirottato nel porto di Ashdod, dove le autorità  israeliane hanno già predisposto le strutture per processare i circa 700 attivisti che partecipavano alla missione… (fonte ASCA-AFP)

Quel governo che rappresenta pur sempre uno Stato di grande profilo democratico…
Roma, 31 maggio – ”E’ troppo affrettata e parziale la generale condanna di Israele per i dolorosi eventi di questa notte”. Lo afferma in una nota Giuliano Cazzola del PdL che aggiunge: ”Si accettano, comunque, le versioni dei sedicenti pacifisti (sempre a senso unico) e dei nemici di Israele, senza neppure attendere le spiegazioni di quel governo che rappresenta pur sempre uno Stato di grande profilo democratico e occidentale, purtroppo costretto a difendersi da implacabili satrapie sanguinarie che vogliono soltanto la sua scomparsa dalla faccia della terra. Anche in questo momento difficile non si deve abbandonare la causa di Israele, nella convinzione che quel governo amico sarà in grado di giustificare i suoi atti, inquadrandoli – conclude Cazzola – nel suo diritto alla difesa e alla sicurezza”.
(ASCA)

“Guerre stellari”
A BORDO DELL’INS KIDON, Mar Mediterraneo (Reuters) – I componenti del commando israeliano che oggi hanno compiuto un raid su una nave umanitaria diretta a Gaza hanno raccontato di essere stati attaccati dagli attivisti che erano a bordo con spranghe e coltelli, e alcuni militari sono saltati in mare per salvarsi.
Israele ha detto che i suoi uomini hanno aperto il fuoco per difendersi, e che il bilancio dell’operazione è di 10 attivisti uccisi e sette soldati feriti. Le notizie indipendenti scarseggiano, con Israele che ostacola le comunicazioni e censura i media.
Un portavoce dell’esercito israeliano ha detto che alcuni membri del commando erano dotati di pistole da paintball, ma le armi non-letali non sono state sufficienti contro gli attivisti, che hanno attaccato con delle spranghe.
“Avevano pistole con munizioni cariche… per difendersi”, ha spiegato.
Uno dei componenti del commando ha raccontato ai giornalisti di essersi calato con una fune da un elicottero su una delle sei navi del convoglio, e di essere stato immediatamente attaccato da un gruppo di persone che lo aspettavano.
“Ci hanno colpito con spranghe e coltelli”, ha detto. “A un certo punto ci hanno sparato addosso”.
Un cameraman Reuters, che si trovava a bordo della nave della marina israeliana Kidon nei pressi del convoglio umanitario di sei imbarcazioni, ha raccontato che i comandanti che monitoravano l’operazione sono stati colti di sorpresa dalla forte resistenza degli attivisti filo- palestinesi.
Uno dei componenti del commando ha detto che ad alcuni soldati sono stati tolti elmetti ed armamenti, mentre altri sono stati gettati dal ponte più alto ad uno più basso, e poi sono saltati in mare per salvarsi.
“Mi hanno attaccato, mi hanno colpito con bastoni e bottiglie e mi hanno rubato il fucile”, ha raccontato un membro del commando. “Ho estratto la mia pistola, e non ho potuto fare altro che sparare”.

[Complimenti vivissimi ai giornalisti Reuters per la scelta della compagnia… di navigazione]

Buone nuove?
Bruxelles, 31 maggio – Su richiesta della Turchia la NATO si riunirà domani per discutere del blitz israeliano contro la flottiglia umanitaria diretta a Gaza che ha causato 19 morti. Lo riferiscono fonti dell’Alleanza.
(AGI)

Ipotesi di minima: la Turchia chiede la sospensione del Programma Individuale di Cooperazione fra la NATO ed Israele.
Ipotesi di massima: la Turchia si appella alla clausola di mutua difesa, l’articolo 5 del trattato istitutivo dell’Alleanza, che impone agli Stati membri di mobilitarsi a favore di quello fra loro attaccato da una potenza straniera…

1 giugno
Oggi a Roma
Roma, 1 giugno – Manifestazione ”della comunità palestinese” oggi pomeriggio a Roma, davanti all’ambasciata israeliana, ”per richiedere l’immediato rilascio degli attivisti internazionali e italiani sequestrati sulle navi nel Mar Mediterraneo”. Lo si legge in una nota di Freedom Flotilla Italia.
La manifestazione è stata organizzata ”per protestare contro l’atto di pirateria israeliano che ha provocato dieci morti e moltissimi feriti”. ”L’appuntamento è per oggi alle 17 all’ambasciata israeliana. Tutte le reti di solidarietà con il popolo palestinese saranno in piazza”, spiega la nota.
(ASCA)

Le prime testimonianze degli espulsi
“Non abbiamo affatto resistito, non avremmo potuto anche se avessimo voluto. Cosa avremmo potuto fare contro i commandos che si lanciavano all’arrembaggio?”, ha detto Mihalis Grigoroupolos, un attivista che si trovava a bordo di un’imbarcazione dietro la Mavi Marmara, la nave dove sono avvenute le violenze.
“L’unica cosa che alcune persone hanno cercato di fare è stata di rallentarli mentre conquistavano il ponte, formando uno scudo umano. (Contro gli attivisti) hanno sparato con pallottole di plastica, e sono stati colpiti con pistole elettriche”, ha detto Grigoroupolos a Tv Net all’aeroporto di Atene.
(Fonte Reuters)

Atene, 1 giugno – Pallottole rivestite di gomma, gas lacrimogeni ed elettroshock. Sono queste le armi usate dai militari israeliani nell’assalto ad una delle navi della flottiglia secondo il racconto di un attivista greco, Michalis Grigoropoulos, che era bordo della Eleftheri Mesogeio, presa d’assalto dai commando di Tel Aviv un’ora dopo la nave turca Mavi Marmara.
Israele ha ancora agli arresti centinaia dei 686 passeggeri che erano a bordo delle imbarcazioni della missione per Gaza e sono stati deportati presso il porto di Ashdod. Grigoropoulos, che è stato rimpatriato in Grecia, ha raccontato in televisione ”le terribili condizioni di detenzione ad Ashdod, dove 500 persone sono state rinchiuse tutte assieme”, mentre ”due attivisti greci sono stati picchiati” dalla polizia. ”Mi hanno fatto firmare i documenti della mia espulsione, senza sapere cosa c’era scritto sulle carte perché non avevo diritto ad un traduttore, né ad un avvocato, né potevo comunicare con la mia famiglia”, ha aggiunto.
(ASCA-AFP)

“E’ stato un massacro”
Roma, 1 giugno – Emergono dettagli sconcertanti sull’attacco israeliano avvenuto ieri contro una flottiglia umanitaria diretta a Gaza. La deputata arabo-israeliana Hanin Zuabi, che si trovava a bordo di una delle sei imbarcazioni, nel corso di una conferenza stampa tenuta a Nazaret poco dopo il suo rilascio ha dichiarato che i militari israeliani hanno lasciato morire due feriti ignorando la sua richiesta di aiuto. Lo rende noto il quotidiano spagnolo El Mundo.
La donna, appartenente al partito Balad, rilasciata proprio grazie al suo status di deputato, ha detto di aver ”scritto in ebraico su un cartello rivolto ai militari che c’erano a bordo due feriti molto gravi che avevano bisogno di assistenza”. I soldati, però, ”lo hanno ignorato. Ho scritto nuovamente il cartello in lingua inglese e nemmeno allora sono intervenuti. Dopo mezz’ora i due sono morti, avevano ferite al petto”, ha raccontato. ”Ho visto l’esercito circondare le nostre navi e sparare prima dell’assalto contro la nostra barca”, ha aggiunto. Zuabi ”ha visto 5 morti nei primi 15 minuti”. ”E’ stato un massacro”, ha ribadito.
(ASCA)

2 giugno: al peggio non c’è mai fine
Ginevra – Consiglio Diritti umani ONU condanna l'”attacco vergognoso” di Israele a Freedom Flottilla; no di USA e Italia. Nella risoluzione approvata a Ginevra il Consiglio permette l’invio di una missione internazionale che indaghi su quanto accaduto nelle acque internazionali di fronte a Gaza.
La risoluzione “Gravi attacchi da parte delle Forze armate israeliane contro la Flottilla umanitaria” è stata approvata con 32 voti a favore, tre contrari (USA, Olanda e Italia) e nove astensioni (tra esse, Belgio, Gran Bretagna, Francia, Giappone).
(AGI)

3 giugno: chi sbaglia paga
Ankara, 3 giugno – La Turchia ha deciso di sospendere tutti gli accordi con Israele nel settore idrico e in quello energetico, in seguito all’attacco di lunedì alla Freedom Flottilla diretta a Gaza, in cui sono morti otti cittadini turchi e un americano di origine turca. Lo ha annunciato il ministro dell’Energia di Ankara, Taner Yildiz, citato dal sito del quotidiano Hurriyet.
(Adnkronos/Aki)

4 giugno: il solco diventa più profondo
Ankara, 4 giugno – Il vice premier turco, Bulent Arinc, ha preannunciato la ”riduzione” del livello delle relazioni con Israele dopo la morte di otto cittadini turchi, e di uno con passaporto anche americano, uccisi dalle forze speciali di Tsahal al largo della Striscia di Gaza.
In un intervento di fronte al Parlamento, Arinc ha dichiarato che saranno ridimensionate le relazioni economiche e militari, così come che verranno rivalutati tutti gli altri accordi definiti con Israele. ”Su questo argomento, siamo seri. Non verranno lanciate nuove forme di cooperazione e le relazioni con Israele saranno ridotte”, ha dichiarato Arinc.
(Adnkronos/Dpa)

Appare improbabile che qualche temerario abbia provato a sfidare soldati armati di mitragliatore con coltelli da cucina. È possibile che qualcuno abbia provato a resistere armandosi d’una spranga, ma ciò non giustificherebbe comunque la reazione delle truppe sioniste: la polizia di qualsiasi paese del mondo è addestrata ad affrontare con mezzi non letali i facinorosi che oppongano resistenza con bastoni o affini, senza bisogno di sparare in piena notte in un’imbarcazione affollata di gente. I media turchi sostengono addirittura che i soldati israeliani avrebbero eseguito alcuni omicidi a sangue freddo in base ad una lista di personalità ricevuta prima dell’attacco: anche questo è inverificabile, ma rimane una certezza, e cioè che le truppe sioniste hanno fatto come minimo un uso sproporzionato della forza. Chiediamoci ora il perché.
Una prima possibilità è che i soldati israeliani abbiano perso il controllo della situazione, e soprattutto di se stessi.
(…)
Ma parrebbe troppo dilettantesco per un’unità di élite com’è la Shayetet 13 incapparre in un incidente tanto grossolano, trasformando l’arrembaggio ad una nave di pacifisti in una strage di massa. Si è inclini a pensare che il pugno duro sia stato preventivato, che l’uccisione d’alcuni passeggeri fosse voluta o, quanto meno, non disdegnata. Ma da chi?
(…)
Provocazione è la parola chiave.
“Provocazione” è stata, secondo le autorità sioniste, quella della Flottiglia della Libertà. Tutti gli estremisti d’ogni tempo e colore amano giustificare le proprie azioni denunciando una presunta “provocazione” da parte dell’avversario. Negli anni ‘70 molti crani furono rotti per punire quelle ch’erano percepite come “provocazioni”. Questo perché l’estremista è per sua natura iper-sensibile, paranoico, intollerante: tutto o quasi è per lui “provocazione”. “Provocatore” è l’avversario se tenta di esternare le proprie idee; “provocazione” può essere la semplice presenza fisica di colui che si odia. Il sionismo, soprattutto nella sua nuova declinazione religiosa, è un’ideologia radicale (costruire una nazione che prima non c’era, nel paese dove c’è un altro popolo, è senza dubbio un progetto radicale ed estremista, a prescindere dal giudizio positivo o negativo che di esso si voglia dare); il sionismo è paranoico, perché vede nemici ovunque (il presunto odio eterno che i goym avrebbero verso gli Ebrei); il sionismo è intollerante perché non mostra pietà per chi vi si oppone (secondo il rabbino Ytzhak Shapira, è doveroso uccidere qualsiasi non ebreo ostacoli Israele); il sionismo è estremista perché attratto dalle visioni apocalittiche (secondo lo storico israeliano Martin Van Creveld, se Israele dovesse collassare è probabile che proverebbe a trascinare con sé il mondo intero usando le proprie testate atomiche, che assommano ad alcune centinaia). Malgrado ciò, tuttavia, e senza voler in alcun modo giustificare il massacro d’attivisti innocenti, Israele non è completamente nel torto quando ravvisa una “provocazione” nel progetto della Flottiglia. Per comprenderne la natura, bisogna concentrarsi sul ruolo dello Stato che se ne è fatto tutore: la Turchia.
Stando a George Friedman, Ankara avrebbe volutamente cercato l’incidente affinché Israele si mettesse in cattiva luce davanti al mondo. Sembra tutto troppo machiavellico. Più credibile è che i Turchi pensassero che, grazie all’egida data all’iniziativa, questa potesse “bucare” il blocco navale israeliano. Si sarebbe trattato di un evento dall’alto valore non solo umanitario ma anche simbolico, a favore del ruolo della Turchia come potenza regionale protettrice dei musulmani. Il fatto che Ankara si immischiasse nella questione palestinese è stato percepito dai sionisti come una “provocazione” cui rispondere nella maniera più brutale possibile.
Se al pari di Thierry Meyssan e seguendo la ricostruzione fin qui fatta, si riconosce che la strage della Flottiglia è stata deliberatamente provocata da Israele, bisogna concludere che anche Tel Aviv volesse con ciò lanciare la propria “provocazione”. La trama di questo giallo è stata scritta nel sangue, sangue che i sionisti hanno voluto sbattere in faccia al mondo per lanciare il loro messaggio, ed osservare la reazione.
(…)
Tel Aviv, con la sua provocazione, ha voluto mettere alla prova prima di tutto la sua antagonista in questa faccenda: la Turchia. Il primo ministro Erdoğan aveva patrocinato l’iniziativa umanitaria per riaffermare il ruolo del suo paese nella regione: la brutale reazione israeliana vuole suonare come un’umiliazione a Ankara davanti al mondo intero. I sionisti hanno compiuto un atto di pirateria, assalendo in acque internazionali una nave turca in missione sponsorizzata dal governo, massacrando numerosi membri dell’equipaggio, deportando e brutalizzando gli altri prima di espellerli dal paese. Con ciò ha voluto dimostrare la propria forza: dimostrare che la sua superiorità militare e nucleare, coniugata con l’efficace azione delle lobbies sioniste sparse per il mondo (che lo garantiscono da un totale isolamento internazionale), permette a Israele di muoversi come vuole. I Turchi non possono reagire alla violenza con la violenza, non perché le loro forze armate convenzionali siano molto più deboli di quelle israeliane (in realtà il divario non è così netto), bensì perché Ankara non dispone di armi atomiche, mentre Tel Aviv ne ha a disposizione un paio di centinaia. E toccare Israele senza disporre d’una sufficiente deterrenza nucleare fa paura a tutti, perché lo Stato ebraico sembra ormai aver metabolizzato il dettame di Moshe Dayan: «Israele dev’essere come un cane rabbioso, troppo pericoloso da importunare». Quella che prima era una strategia deliberata, una “maschera” che i sionisti decisero d’indossare davanti al mondo, ora sta diventando l’identità stessa della nazione, è penetrata nell’intimo di un popolo sempre più orientato all’estremismo religioso ed alle soluzioni apocalittiche.

Da Crociera col morto. Il “giallo” della Flottiglia, di Daniele Scalea.
[grassetti nostri]

La prossima?
Teheran, 7 giugno – La mezzaluna rossa iraniana invierà due battelli di aiuti umanitari a Gaza “alla fine della settimana”. Lo ha reso noto un responsabile dell’organizzazione.
“Uno dei battelli trasporterà i doni della popolazione, alimentari e medicinali di prima necessità, l’altro dei volontari umanitari della Mezzaluna rossa” ha detto all’IRNA il direttore internazionale della Mezzaluna rossa iraniana, Abdolrauf Adibzadeh.
(ANSA)

“Una provocazione”, ovviamente
Gerusalemme, 7 giugno – Israele ritiene una ‘provocazione’ l’annuncio di Teheran di inviare navi di aiuti verso la Striscia di Gaza. Tuttavia, secondo il portavoce del ministero degli Esteri, Yigal Palmor, permane scetticismo sulla fondatezza dell’annuncio dell’Iran.
(ANSA)

Nessuna normalizzazione
Israele, 7 giugno – Non ci sarà alcuna normalizzazione delle relazioni tra Turchia e Israele se quest’ultimo si rifuterà di accettare una commissione di inchiesta indipendente dell’ONU sul raid israeliano contro la flottiglia di aiuti umanitari a Gaza. Lo ha dichiarato questa mattina il ministro turco degli Affari Esteri Ahmet Davutoglu.
(ASCA-AFP)

Libertà di pensiero
Washington, 7 giugno – Non si placa la polemica negli Stati Uniti per la battuta anti-Israele di Helen Thomas, la decana dei giornalisti accreditati alla Casa Bianca. Ora un liceo di Washington, la Walt Whitman High School a Bethesda, ha cancellato il discorso che la quasi 90enne giornalista, che ha seguito tutti i presidenti americani a partite da JFK, avrebbe dovuto tenere alla cerimonia di consegna dei diplomi il prossimo 14 giugno.
(Adnkronos/Washington Post)

Cosa nostra
Gerusalemme, 8 giugno – Dopo l’annuncio della formazione di una commissione d’inchiesta interna alle forze di difesa israeliane (IDF) sull’attacco della scorsa settimana alla Freedom Flottilla per Gaza, fonti del governo dello Stato ebraico fanno sapere questa mattina che il governo di Benjamin Netanyahu è in attesa del via libera degli Stati Uniti per la creazione di una parallela commissione di inchiesta nazionale, composta da giudici ed esperti.
(Adnkronos/Aki)

Colpa vostra
Londra, 9 giugno – Il segretario alla Difesa USA, Robert Gates, ha accusato l’UE di aver contribuito ad allontanare la Turchia dall’Occidente. “Alcuni in Europa” hanno negato ad Ankara “il tipo di legame organico con l’Occidente che cercava”, ha lamentato il capo del Pentagono nel corso di una visita a Londra alludendo alla domanda di adesione della Turchia.
(AGI)

Frattini? “Concorda”…
Berlino, 10 giugno – Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha dichiarato, in un’intervista al quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, che l’UE ha commesso ”degli errori” con la Turchia. ”Credo che noi, europei, abbiamo commesso l’errore di spingere la Turchia verso est invece che attrarla verso di noi”, ha affermato il titolare della Farnesina che concorda con le parole pronunciate ieri a Londra dal segretario americano alla Difesa Robert Gates.
(ASCA-AFP)

L’intransigenza di Israele, la contrapposizione frontale a tutto e tutti, si sta trasformando in una ingombrante palla al piede per i suoi amici storici. «Israele si sta progressivamente trasformando da risorsa, in peso ingombrante per gli Stati Uniti» dice il capo del Mossad. Per gli Stati Uniti e i vassalli europei, il prezzo del fiancheggiamento ad oltranza e dell’omertà 100%, si fa sempre più alto. Nel futuro molto prossimo c’è in vista il distanziamento definitivo con la Turchia e l’incrinamento della NATO, di cui Ankara è una parte non certo secondaria.
Washington e Bruxelles possono chiudere gli occhi se Israele fa delle risoluzioni dell’ONU un rotolo di carta per i gabinetti ministeriali, ma non possono certo mettere a repentaglio la consistenza del loro braccio armato. Di fatto, la NATO ha ordinato la liberazione inmediata di tutti i 680 prigionieri e la riconsegna delle imbarcazioni: Netanyau ha docilmente eseguito.
(…)
L’arrembaggio piratesco contro la Flottiglia della Libertà ha un costo alto per gli esecutori materiali e per i loro sponsor stranieri. E’ ormai impossibile regolare la materia nucleare ed applicare sanzioni all’Iran senza che Israele firmi il Trattato di non-proliferazione nucleare. Senza che si sottometta ai relativi controlli dei suoi arsenali atomici. E’ sempre più oneroso continuare a sostenere l’embargo di Gaza senza correre il rischio che la crisi con Ankara ripercuota sulla NATO. Si avvicina il momento in cui è più ragionevole condizionare Israele piuttosto che fiancheggiarla sistematicamente: sta diventatando “un peso ingombrante”. Soprattutto per i suoi finanziatori.

Da Netanyau è una mina vagante per la NATO, di Tito Pulsinelli.

Atto ostile di Paesi nemici
Gerusalemme, 16 giugno – Israele intende considerare come un atto “ostile” il tentativo di navi libanesi e iraniane di forzare il blocco alla Striscia di Gaza. Lo ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Yigal Palmor, spiegando che queste navi provengono da Paesi nemici e quindi “il loro status è diverso” da quello delle navi della Freedom Flotilla, che erano accusate soltanto di compiere una provocazione in violazione della legge.
(Adnkronos/Dpa)

Prime conclusioni
Alla fine, il governo israeliano ha fallito i suoi due obiettivi.
La Turchia esce rinforzata dallo scontro, e con essa il triangolo che essa forma con i suoi alleati siriani e iraniani. Allo stesso tempo essa ha ottenuto diversi vantaggi. La Giustizia turca giudicherà in contumacia i ministri e generali israeliani per i crimini commessi. Il comitato d’indagine della Commissione dei diritti dell’uomo offuscherà un po’ più l’immagine di Israele.
Ma soprattutto, la Turchia può giocare una seconda partita. Secondo le nostre informazioni, Ankara ha informato il Dipartimento di Stato che Erdogan sta valutando di rompere personalmente il blocco di Gaza, come François Mitterand ruppe all’epoca l’assedio di Sarajevo. Potrebbe imbarcarsi su una flotta umanitaria preparata dalle associazioni umanitarie e sostenuta politicamente da qualche governo, tra cui l’Iran, la Siria e il Venezuela. Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah, ha già lanciato un appello a tutti i Libanesi affinché partecipino a nuove iniziative. Un appello potrebbe essere lanciato ai marinai del Mediterraneo, in modo che centinaia di battelli da diporto vi si uniscano. Il tutto sarebbe scortato dalla marina militare turca… membro della NATO.
Questa prospettiva ha terrorizzato Washington cha ha improvvisamente ritrovato nuovo slancio per convincere Tel Aviv a levare il blocco.
D’altro canto, il prestigio ottenuto dalla Turchia nel corso di questa operazione mette in rilievo la collaborazione di alcuni governi arabi con Israele, in particolare quello di Hosni Moubarak. Quest’ultimo ha in effetti attivamente collaborato al blocco di Gaza per impedire il contatto tra l’Hamas palestinese e i Fratelli musulmani egiziani. Il Cairo non ha esitato ad erigere un muro d’acciaio con i soldi degli Stati Uniti e la tecnologia della Francia per murare un milione e mezzo di abitanti di Gaza. E ci si ricordi la risposta del ministro degli Esteri Ali Aboul Gheit a cui era stato chiesto cosa ne avrebbe fatto delle donne e dei bambini affamati che avrebbero tentato di passare la frontiera. La risposta fu «Che ci provino pure, noi gli spezzeremo le gambe!». All’improvviso il sangue delle vittime del Mavi Marmara schizza sul governo di Moubarak e Alessandria è al limite di una rivolta. Per allentare la tensione, il governo egiziano ha deciso di aprire temporaneamente la frontiera.

Da Flottiglia della Libertà; il dettaglio che Netanyahy ignorava, di Thierry Meyssan.

[Segue]

Vergogna su di lei, ministro Frattini

Qui la notizia.
La dinamica degli eventi puzza di bruciato lontano un miglio e la Farnesina non sa fare altro che puntualizzare che “i medici italiani in stato di fermo lavoravano in una struttura umanitaria non riconducibile né direttamente né indirettamente alle attività finanziate dalla cooperazione italiana”.
Già,
la cooperazione italiana in Afghanistan.

Da una parte le sparano sempre più grosse, dall’altra si dedicano alla loro specialità, il tiro al bersaglio sui civili
Washington, 11 aprile – Dopo la notizia che i tre italiani di Emergency avrebbero confessato di voler uccidere il governatore di Helmand, le autorità afghane, citate dalla CNN, hanno accusato gli stessi di aver ucciso nel 2007 l’interprete dell’inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, Adjmal Nashkbandi.
Mastrogiacomo venne rapito il 5 marzo 2007. Con lui c’erano l’autista Sayed Haga, ucciso immediatamente, e l’interprete Adjmal Nashkbandi. Dopo 14 giorni Mastrogiacomo fu rilasciato mentre il suo interprete, liberato ma subito ripreso dai talebani, fu ucciso dopo circa 20 giorni.
(AGI)

Kandahar, 12 aprile – Nuove accuse alla NATO per una strage di civili in Afghanistan. Il governo di Kabul ha puntato il dito contro le truppe dell’ISAF per aver aperto il fuoco contro un bus e aver ucciso quattro persone, tra cui una donna e un bambino, e averne ferite altre 18.
Secondo le autorità di Kandahar, dove è avvenuto l’incidente, i soldati hanno sparato quando il bus si è avvicinato a un convoglio militare.
(AGI)

Oggi, ieri, domani… le comiche!
Scena 1°: “Il magazzino supervisionato indirettamente”

Kabul, 12 aprile – “Pistole, giubotti esplosivi, radio e altro equipaggiamento sono stati trovati in un magazzino dell’ospedale di Emergency supervisionato indirettamente dagli italiani”. A ribadirlo è il portavoce del governatorato di Helmand, Daoud Ahmadi, in un’intervista ad AKI – ADNKRONOS INTERNATIONAL in cui parla del caso dei tre medici italiani di Emergency arrestati in Afghanistan, insieme a sei afghani, con l’accusa di aver parecipato a un presunto complotto per uccidere il governatore della provincia meridionale di Helmand, Gulab Mangal.
(Adnkronos/Aki)

Scena 2°: “Un caso di cattiva informazione”
Tirana, 12 aprile – Il presunto coinvolgimento degli italiani di Emergency in un attentato contro il governatore di Helmand “è stato un caso di cattiva informazione resa al mondo intero”. Cosi’ Franco Frattini da Tirana ha commentato le precisazioni del portavoce, Daoud Ahmadi. Il titolare della Farnesina, pur senza citarlo esplicitamente, ha accusato il britannico Times di aver dato “una notizia erronea” .
(AGI)

Ora la “libera stampa” si accorge che Matteo Dell’Aira di Emergency, nelle scorse settimane, aveva ripetutamente denunciato la condotta della soldataglia atlantista a Marjah e dintorni, come da noi subito segnalato su questo blog.
Giunge poi l’utile messa a fuoco del generale Fabio Mini (grassetto nostro):

Roma, 12 aprile – Una soffiata, la perquisizione, una scatola di esplosivo, una pistola, due bombe a mano attive e quattro inattive, gli agenti dei servizi che si portano dietro le telecamere, qualche soldato e poliziotto afgano e un paio di parà inglesi che si dirigono a colpo sicuro in una sala e fra decine di scatoloni individuano subito quelli sospetti.
Il generale Fabio Mini, ex capo del contingente NATO in Kosovo, commenta sulle pagine di Peacereporter l’arresto dei tre volontari di Emergency in Afghanistan sostenendo apertamente la tesi della vendetta politica da parte delle autorità locali, legata in parte al ruolo giocato dall’associazione nella liberazione del giornalista di Repubblica, Daniele Mastrogiacomo, finito nelle mani dei talebani. ”Ho già detto chiaramente in tempi non sospetti che Emergency avrebbe pagato caro il suo intervento politico nella vicenda Mastrogiacomo. Ora ci siamo”, scrive Mini. ”Un altro fatto concreto è il fastidio arrecato da Emergency alle forze internazionali e ai governanti afgani ogni volta che ne ha denunciato le nefandezze”. L’associazione di Gino Strada, prosegue Mini, ”è un punto di riferimento per chiunque abbia bisogno e quindi anche per i cosiddetti talebani”, mentre Helmand è ancora una roccaforte dei ribelli pashtun.
”’Dal punto di vista militare – è il ragionamento del generale – Emergency deve cessare di essere un testimone e un punto di riferimento per i ribelli. Tutti devono sapere che farsi ricoverare può essere l’anticamera dell’arresto che per gli afgani è sempre l’anticamera del cimitero. Inoltre, il governatore deve riacquistare peso dimostrando ai suoi e ai protettori inglesi che anche le organizzazioni internazionali e gli alleati italiani ce l’hanno con lui. Solo così può sperare di continuare a fare gli affari propri. Come ottenere tutto questo con un semplice coup di teatro – conclude Mini – è esattamente quello che si è visto finora”.
(ASCA)

Chi è il “terrorista”?
Roma, 12 aprile – Emergency torna a parlare di “sequestro” per gli operatori dell’organizzazione italiana prelevati sabato scorso dall’ospedale di Lashkar Gah, in Afghanistan.
“A questo punto possiamo parlare a tutti gli effetti di sequestro, dal momento che i tempi di un fermo legale sono scaduti”, ha detto il responsabile comunicazione di Emergency, Maso Notarianni. “Sono scadute le 72 ore di fermo senza che vi sia stato un fermo restrittivo o qualsiasi altra comunicazione e non ci risultano notifiche a nessuna procura afgana”, ha sottolineato.
(AGI)

“Qualcosa di molto insolito, quasi oscuro”
Roma, 13 aprile – Il corrispondente del Times dall’Afghanistan ha confermato a Peacereporter le parole del portavoce del governatore di Helmand, che al giornalista britannico aveva riferito di una presunta ammissione di colpa da parte dei tre volontari di Emergency arrestati.
”Ribadisco che in due occasioni ha detto che gli italiani hanno confessato ciò che veniva addebitato loro, ovvero il tentativo di organizzare un complotto per uccidere il governatore della provincia”, ha detto Jerome Starkey. ”La mia prima impressione è stata che si trattasse di una cosa insolita, ed io per primo sono rimasto fortemente sorpreso da una tale dichiarazione. Per questo gliel’ho chiesto una seconda volta. Lui ha risposto che gli italiani e gli altri avevano confessato il loro crimine”.
Il portavoce del governatore locale, secondo il giornalista, ha detto anche altre cose ”così bizzarre che non le abbiamo neppure pubblicate. Tra queste anche quella che alcuni medici ‘farabutti’ di Emergency avrebbero eseguito amputazioni non necessarie a poliziotti e soldati afgani. Questa cosa mi ha molto colpito, l’ho ritenuta talmente bizzarra da non ritenerla degna di pubblicazione”. A Peacereporter Starkey ha aggiunto che ”in Afghanistan, su accadimenti come questi, è sempre possibile che ci siano elementi a sostegno di una motivazione politica”.
Per il giornalista si tratta di ”qualcosa di molto insolito, direi quasi oscuro. Una cosa so, che uno dei tre italiani fermati, ogni qualvolta si presentava qualcuno armato, che si trattasse di polizia afgana, di militari NATO, li rimproverava aspramente. Mi meraviglierebbe davvero parecchio che uno così possa essere implicato in un complotto per fare fisicamente del male a un altro essere umano”.
(ASCA)

Italia, muoviti!
Roma, 14 aprile – ”L’Italia ha tutti i mezzi per poter dire semplicemente consegnateci i nostri tre connazionali subito e in ottime condizioni”. Lo ha dichiarato il fondatore di Emergency Gino Strada, intervistato da Sky Tg24, sottolineando che ”è ora che chi di dovere si dia una mossa”.
Per Strada si tratta ”chiaramente” di una ”manovra politica” per ”screditare il lavoro di Emergency”. Una manovra, secondo il fondatore dell’ong, ”molto offensiva per il nostro Paese”. Strada ha poi spiegato come non ci siano novità sul luogo in cui si trovano i tre operatori, Matteo Dell’Aira, Marco Garatti e Matteo Pagani: ”Non siamo mai stati informati da nessuno: dove sono i nostri tre amici e colleghi? Sono a Kabul? A Lashkar Gah? Abbiamo diverse informazioni ma di certo non c’è niente”.
(ASCA)

A Frattini le pressioni fanno bene…
Kabul, 14 aprile – “Non sono soddisfatto dalle risposta delle autorità afghane”, ha detto il ministro degli esteri Franco Frattini, riferendo a Montecitorio sulla vicenda dei tre operatori di Emergency fermati in Afghanistan.
“Desidero conoscere con urgenza -ha detto il Ministro – la configurazione delle accuse che vengono mosse” ai tre operatori di Emergency; “gli elementi di prova” ed essere certi che “sia garantito il loro il diritto pieno alla difesa”. Per questo sono state prese alcune iniziative e per questo l’ambasciatore italiano a Kabul è stato incaricato di consegnare “una lettera del premier al presidente afghano Karzai” per chiedere risposte “urgenti e concrete”, ha detto il ministro.
(ANSA)

… ma l’effetto è molto breve!
Roma, 14 aprile – “A coloro che hanno adombrato l’idea che noi si possa andare lì (in Afghanistan, ndr) a dire ‘Questa è la nostra regola’, spazzando via le leggi e come se fossimo i padroni dell’Afghanistan”, il ministro degli Esteri Franco Frattini risponde dicendo che “questo è un errore che io non farò”.
Durante la replica davanti alle commissioni Esteri di Camera e Senato sulla vicenda dei tre operatori di Emergency arrestati in Afghanistan, il titolare della Farnesina ha sottolineato che “ci possono piacere o no, ma queste leggi sono in vigore in un Paese sovrano e dobbiamo far sì che vengano rispettate”.
(Adnkronos/Aki)

Afghanistan Paese sovrano?!? Signor Ministro, non esageri con le battute di spirito e si ricordi che lei non è padrone neanche a casa sua!

“Noi curiamo anche i talebani”
Caro direttore, si introducono – direttamente o con la complicità di qualcuno che vi lavora – alcune armi in un ospedale, poi si dà il via all’operazione… Truppe afgane e inglesi circondano il Centro chirurgico di Emergency a Lashkargah, poi vi entrano mitragliatori in pugno e si recano dove sanno di trovare le armi. A quanto ci risulta, nessun altro luogo viene perquisito. Si va diritti in un magazzino, non c’è neppure bisogno di controllare le centinaia di scatole sugli scaffali, le due con dentro le armi sono già pronte – ma che sorpresa! – sul pavimento in mezzo al locale. Una telecamera e il gioco è fatto.
Si arrestano tre italiani – un chirurgo, un infermiere e un logista, gli unici internazionali presenti in quel momento in ospedale – e sei afgani e li si sbatte nelle celle dei Servizi di Sicurezza, le cui violazioni dei diritti umani sono già state ben documentate da Amnesty International e Human Rights Watch.
Anche le case di Emergency vengono circondate e perquisite. Alle cinque persone presenti – tra i quali altri quattro italiani – viene vietato di uscire dalle proprie abitazioni. L’ospedale viene militarmente occupato.
Le accuse: “Preparavano un complotto per assassinare il governatore, hanno perfino ricevuto mezzo milione di dollari per compiere l’attentato”. A dirlo non è un magistrato né la polizia: è semplicemente il portavoce del governatore stesso.
Neanche un demente potrebbe credere a una simile accusa: e perché mai dovrebbero farlo? La maggior parte dei razzi e delle bombe a Lashkargah hanno come obiettivo il palazzo del governatore: chi sarebbe così cretino da pagare mezzo milione di dollari per un attentato visto che ogni giorno c’è chi cerca già di compierlo gratuitamente?

La lettera di Gino Strada continua qui.

Meglio di ogni altra cosa
“Nella Valle del Panshir, dove ancora non c’é Internet, 11 mila persone si sono recate a piedi all’ospedale di Emergency per firmare l’appello a favore della liberazione dei nostri colleghi. E questo credo dica meglio di ogni altra cosa il rispetto che c’é in Afghanistan per la nostra organizzazione”.
Gino Strada a margine della manifestazione in sostegno di Emergency a Roma, 17 aprile 2010 (fonte Ansa).

Rilascio=sgombero?
Roma, 18 aprile – Nelle ultime 48 ore sono stati trattenuti dalle autorità afghane all’interno di una guest house i tre operatori di Emergency rilasciati oggi. Lo riferiscono all’ADNKRONOS fonti dell’intelligence sottolineando che “sono stati trattati bene” e che “probabilmente l’epilogo della vicenda sarà l’invito da parte delle autorità di Kabul a lasciare l’Afghanistan”.
(Adnkronos)

Domande sospese
Ora, a liberazione avvenuta, riaffiora la chiusura dell’ospedale come obiettivo della operazione. Un nuovo escamotage per cercare, ancora una volta, di screditare Emergency, e non solo.
E tra chi sarebbe avvenuto l’accordo? Tra i Governi dell’Italia e dell’Afganistan? Escludo che il Governo italiano possa compiere un crimine di questa sorta – perché chiudere un ospedale in una zona di guerra, quando è l’unica opportunità di cura per i feriti – è di per sé un crimine di guerra. Lo escludo e ritengo l’insinuarlo offensivo per il nostro governo.
Ed escludo anche che questa contropartita possa essere stata chiesta dal Governo afgano. Sappiamo che non è così, perché ce lo hanno detto tutti in Afganistan, dalle massime autorità del Paese fino ai responsabili della sanità nella regione di Helmand. Tutti ci hanno detto che il nostro lavoro è fondamentale in quel paese martoriato dalla guerra (alla quale partecipa anche l’Italia…) e si augurano che Emergency riapra presto quell’ospedale.
Lo speriamo anche noi, e stiamo lavorando perché ciò avvenga.
A smontare poi definitivamente l’ipotesi dell’accordo ci ha pensato Amrullah Saleh, il capo della NDS, i servizi segreti afgani. Prima di rilasciarli, Saleh ha chiamato i tre operatori di Emergency e ha detto loro: “Abbiamo valutato le accuse contro di voi, e ci siamo convinti che siete innocenti. Per questo da adesso siete liberi, non per le pressioni di qualcuno”.
Liberi perché innocenti. Nessun accordo. Punto.
Tutto a posto, dunque? Quasi. Perché alcune domande restano ancora sospese. Prima fra tutte: chi ha organizzato quella provocazione, visto che le autorità di Kabul, compreso il capo dei servizi di sicurezza, dicono che non ne sapevano nulla.
Chi la ha decisa? Il governatore di Lashkargah? Non sembra una mossa molto popolare, per un governatore, il provocare la chiusura dell’unico ospedale funzionante nella regione che governa.
Chi ha deciso di far annullare il volo della linea aerea Pamir, che la mattina del 10 aprile, quattro ore prima che fosse arrestato, doveva portare Marco Garatti da Lashkargah a Kabul?
E che cosa ci facevano militari inglesi a passeggiare con fucili mitragliatori per l’ospedale di Emergency?
Aspettiamo risposte, da dentro e fuori l’Afghanistan.

Da “Aspettiamo risposte da dentro e fuori l’Afghanistan”, di Gino Strada.

Milano, 28 aprile – Cinque dei sei operatori afgani di Emergency – fermati a Lashkargah lo scorso 10 aprile insieme ai tre operatori italiani già rilasciati – sono stati liberati oggi per “mancanza di prove a loro carico”.
Lo riferisce in una nota l’organizzazione non governativa, precisando che invece resta in stato di fermo il sesto dipendente afghano “sul quale proseguono le indagini”.
I cinque rilasciati oggi sono due addetti alla sicurezza, due autisti e un giardiniere che lavoravano presso l’ospedale di Emergency di Lashkargah.
(Reuters)

Riapre?
Bruxelles, 8 giugno – A inizio luglio dovrebbe riaprire l’ospedale di Emergency a Lashkar Gah, in Afghanistan, chiuso il 10 aprile. Lo dice Gino Strada.
Il fondatore di Emergency è intervenuto al Parlamento europeo ad un seminario sull’Afghanistan. L’ospedale, situato nella provincia di Helmand nel sud del Paese, è stato chiuso in seguito all’intervento delle forze afgane e di quelle britanniche. ‘Non abbiamo una data precisa, ma immagino che tra un mese, a inizio luglio, sarà aperto’, afferma Strada.

[continua]

Come a Fallujah

Mentre a Marjah, a causa del blocco militare Usa che impedisce di evacuare i feriti, altri civili rischiano di morire per mancanza di cure adeguate – nel finesettimana ne sono già deceduti sei – a Nadalì si contano i cadaveri dei civili rimasti uccisi sotto le macerie di una casa distrutta ieri in un bombardamento dell’artiglieria americana: almeno dodici morti, tra cui cinque bambini. I generali Usa si sono scusati, dicendo che si è trattato di un errore di mira: due missili sono caduti a 300 metri dall’obiettivo stabilito colpendo l’edificio sbagliato. Cose che capitano quando si bombarda un centro abitato con missili sparati da oltre venti chilometri di distanza – in questo caso dalla base di Camp Bastion.
Nonostante le dichiarazioni di alcuni generali afgani che parlano di talebani in rotta e di vittoria ormai vicina, le truppe alleate continuano a incontrare una forte resistenza da parte dei guerriglieri talebani.
Il capitano Ryan Sparks, al comando della compagnia Bravo del 1° battaglione, 6° reggimento Marines, ha paragonato l’intensità dei combattimenti in corso a Marjah con quelli dell’attacco a Fallujah, in Iraq, nel 2004. “E’ come a Fallujah, salvo che qui ci sparano addosso da tutte le parti perché non avanziamo in linea retta, ma da direzioni diverse”.
Secondo i comandi alleati, finora gli insorti uccisi sono 35 e le perdite subite sono solo 5.
I talebani hanno però dichiarato di aver perso solo 6 uomini (tutti gli altri sarebbero civili) e di aver ucciso 192 soldati, tra soldati afgani e stranieri.
Dai talebani è giunto ieri anche un messaggio per il presidente Obama in occasione del ventunesimo anniversario del ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan (15 febbraio 1989): “Gli americani dovrebbero capire che se hanno bisogno di 15 mila uomini per prendere il controllo di un solo distretto, per impossessarsi di tutti i 350 distretti dell’Afghanistan dovrebbero utilizzare oltre 5 milioni di soldati. I dirigenti della Casa Bianca trarrebbero maggior vantaggio a comprendere la lezione della storia invece di abbandonarsi a esibizioni di forza: Obama, come Gorbaciov, deve guardare realisticamente la realtà sul terreno in modo da mettere fine alla tirannia e alla repressione nei confronti degli afghani, invece di portare altre sventure all’America”.
(…)

Da Marjah, la Fallujah di Obama di Enrico Piovesana.
[grassetto nostro]

In tutto, dall’inizio dell’operazione Moshtarak, sono 19 i civili feriti nel corso dell’offensiva anglo-americana che sono riusciti a raggiungere l’ospedale di Emergency, che dista poche decine di chilometri dalla zona dei combattimenti. Tra di loro c’è un bambino di 7 anni colpito al petto da un proiettile e una bambina di 12 anni che invece è stata colpita al ginocchio.
Nel frattempo, come ci confermano dall’ospedale di Emergency, l’offensiva alleata si sta espandendo anche nella vicina provincia di Kandahar, dove la notte scorsa 5 civili sono stati uccisi in un bombardamento aereo Usa. Sale quindi a 26 il bilancio dei civili uccisi dall’inizio dell’operazione Moshtarak: oltre a questi ultimi, 12 (tra cui 6 bambini) uccisi in un bombardamento missilistico e Nadalì, 3 uccisi la notte scorsa nel corso degli scontri nella stessa zona e i 6 feriti deceduti a Marjah.
Dal punto di vista militare, le notizie che arrivano da Marjah sono tutt’altro che confortanti per i comandi alleati. Gli insorti continuano a opporre una dura resistenza ai Marines, che secondo fonti citate dal Guardian nelle ultime 24 ore sono avanzati in città di soli 500 metri, nonostante il supporto dell’artiglieria e dell’aviazione. “Gli americani arrivati in elicottero controllano solo alcune aree della città, dove ora li teniamo sotto assedio”, ha dichiarato un portavoce talebano, Tariq Ghazniwal , invitando i giornalisti a visitare Marjah per vedere “chi controlla la città”.

Da Marjah val bene una strage, di Enrico Piovesana.

Arrivano i “nostri”?
Roma, 17 febbraio – Il ministro degli Esteri Franco Frattini non “esclude” che truppe italiane in Afghanistan possano effettuare “un intervento temporaneo” nelle operazioni in corso in Helmand “se ci sarà una richiesta di impiego” da parte della NATO.
Il titolare della Farnesina, ai microfoni di SkyTg24, ha sottolineato che questa è un’eventualità ma che la decisione spetta ai “comandi militari sul campo sulla base delle informazioni in loro possesso”. Comandi, ha aggiunto il ministro, che secondo le regole di ingaggio, “hanno 6 ore per decidere se accettare o respingere” la richiesta.
(AGI)

“Uno straordinario patriota”
Segnaliamo l’articolo di Rick Rozoff Afghanistan: Charlie Wilson And America’s 30-Year War.
In esso l’autore sottolinea come il generale McChrystal, attuale comandante delle forze USA/NATO in Afghanistan, la scorsa estate avesse individuato tre raggruppamenti protagonisti della guerriglia. A capo di due di essi vi sono Jalaluddin Haqqani e Gulbuddin Hekmatyar, i medesimi individui che negli anni ottanta combatterono i sovietici facendo tesoro del generoso sostegno fornito da parte americana.
Sostegno che pervenne loro mediante un’operazione coperta della CIA (detta “Operazione Ciclone”), coordinata dal congressista Charlie Wilson, sorto agli onori delle cronache per il film di Mike Nichols che dalla sua figura trae ispirazione La guerra di Charlie Wilson.
Charlie Wilson è deceduto lo scorso 10 febbraio, celebrato da parte del titolare del Pentagono Robert Gates come “uno straordinario patriota per la liberazione dell’Afghanistan dall’occupazione sovietica”.
Wilson sarà tumulato con tutti gli onori militari il prossimo 23 febbraio, presso il cimitero di Arlington.

Dodici militi ignoti
Kabul, 19 febbraio – Altre due vittime fra i soldati della NATO in Afghanistan. Uno dei militari è deceduto nel corso dell’Operazione Mushtarak, l’offensiva che tende alla riconquista del controllo della città di Marjah, bastione della resistenza talebana. L’ISAF non ha reso note la nazionalità dei militari, né le cause della morte del secondo militare. Ieri erano stati sei i soldati della coalizione a perdere la vita in Afghanistan, dodici dall’inizio dell’Operazione Mushtarak, entrata oggi nella sua seconda settimana di attuazione.
(ASCA-AFP)

[Onore a PeaceReporter, la cui redazione è la sola in Italia a raccontare in dettaglio quanto sta avvenendo nel sud dell’Afghanistan in questi ultimi giorni]

Memento, Italia!

Caro Ministro Frattini, forse Lei non comprenderà mai, ma noi siamo amici dell’Italia. A noi non piace vedere il Suo paese umiliato, costretto a mettere in atto i diktat di una potenza in declino e di un regime criminale, solo perchè nel 1945 avete perso la guerra.
Non crediamo che rientri nella dignità del paese Italia il fatto che le decisioni vengano prese a Villa Taverna invece che a Montecitorio, al Quirinale, a Palazzo Madama, al Colle ed ecc… .
Non è bello vedere che Calipari muore solo perché “non ha ascoltato gli ordini dei padroni” e ha negoziato con i rapitori della Sgrena per poterla liberare.
Non è bello che Vicenza venga svenduta contro la volontà della sua popolazione per allargare una delle 120 basi militari americane sul vostro territorio dove vi sono, dicono i media italiani, 90 bombe atomiche.
Non è bello che le povere famiglie che hanno perso i loro cari durante la tragedia del Cermis siano rimaste senza giustizia.
L’Italia sta ricommettendo un errore storico: negli anni ’30 si mise con la potenza più forte del momento e sappiamo tutti come andò a finire; oggi si mette con la potenza più forte del momento e anche con Israele, ma vogliamo scommettere che finirà anche peggio?

Da Iran/ Italia: “Alla cortese attenzione del Ministro Frattini”.

La diplomazia sporca di Frattini ed i bambini della Palestina

Sappiamo per certo che nella sesta tappa della trasferta africana il ministro degli Esteri Frattini ha promesso al Cairo al suo omologo Abul Gheit un ragguardevole ma non ancora precisato contributo dell’Italia per allungare l’estensione del muro d’acciaio che Mubarak sta facendo costruire sul confine della Striscia di Gaza, con l’assistenza finanziaria del Dipartimento di Stato e di ingegneri USA.
Un progetto che prevede la messa in opera di una condotta d’acqua parallela con prelievo dal mare prospiciente la costa mediterranea per allagare, con conseguenti frane, eventuali gallerie che dovessero essere scavate a profondità superiori allo sbarramento in putrelle di acciaio (spessorato), destinate ad essere inserite nel terreno fino a una profondità di 30 metri. Con l’espressione da parte italiana di un particolare ringraziamento per “l’azione intrapresa dal governo egiziano contro l’organizzazione terrorista di Hamas“, accusata per l’occasione da Frattini di usare gli attraversamenti sotterranei per contrabbandare armi leggere e pesanti dal Sinai con la complicità di Sudan, Eritrea ed Iran.
Un contrabbando – avrebbe sottolineato il titolare della Farnesina – suscettibile di incrinare i rapporti del Cairo con Gerusalemme sulla frontiera tra i due Stati ed attentare alla sicurezza di Israele.
Frattini avrebbe parlato con Abul Gheit anche della minaccia del governo Netanyahu, fatta trapelare dai quotidiani israeliani, di occupare militarmente un fascia di 1 km di territorio egiziano in corrispondenza del valico di Rafah per “stroncare l’approvvigionamento illegale di armi offensive, in particolare di razzi con una gittata superiore ai 30 km“.
Nell’agenda di Frattini anche l’invito al ministro degli Esteri Abul Gheit ad incrementare le pressioni su Hamas per la liberazione del soldato Shalit, uno scambio di opinioni sulla possibilità di rafforzare la presenza navale del Cairo in prossimità del Golfo di Aqaba e nello Stretto di Bab el-Mendeb, la possibile partecipazione di un contingente militare egiziano all’AMISOM (ormai asserragliata a Villa Italia) a Mogadiscio.
Altro argomento dei colloqui è stata la stabilità interna del regime egiziano minacciato, si è sostenuto concordemente, dall’insediamento nel Paese del Nilo di nuclei terroristi di Al Qaeda che potrebbero agire in collaborazione con i Fratelli Musulmani per avversare il passaggio della consegna dei poteri tra l’attuale presidente Mubarak ed il figlio Gamal, un ricchissimo uomo d’affari con le mani in pasta in banche, appalti e concessioni di Stato, al momento di un grave impedimento o della morte della “vacca che ride“.
Un azzeccatissimo nomignolo affibbiato dagli egiziani al Rais, che la dice lunga sulla popolarità del padre-padrone dell’ Egitto con le mani lorde di sangue. Continua a leggere

Bertolaso rimandato in atlantismo

(AGI) – Washington, 25 gen. – “Il governo non si riconosce nelle dichiarazioni” in cui il sottosegretario alla Protezione Civile Guido Bertolaso ad Haiti “ha attaccato frontalmente l’America e le organizzazioni internazionali”.
Questa la secca presa di distanza da Bertolaso espressa dal ministro degli Esteri Franco Frattini al suo arrivo a Washington dove tra poche ore incontrerà il segretario di Stato Hillary Clinton con la quale, tra l’altro, affronterà l’emergenza Haiti .

Esami di riparazione superati con successo
«Con lui [Barack Obama – n.d.r.] prima di tutto, e con gli americani, ho un ottimo rapporto – dice Guido Bertolaso – le mie non erano accuse agli Stati Uniti, ma critiche, da tecnico, alla mancanza di coordinamento delle organizzazioni internazionali».
E via scusandosi e depistando…

Promuovere per rimuovere?
L’Aquila, 29 gennaio – Dopo 10 mesi dalla scossa che il 6 aprile ha colpito L’Aquila, Guido Bertolaso lascia il capoluogo abruzzese che lo ha visto protagonista come commissario all’emergenza. Ma per il sottosegreretario alla Protezione Civile arriva sul campo la promozione a ministro da parte del premier Silvio Berlusconi: “E’ il minimo che possiamo fare dopo lo straordinario exploit di Guido”.
Un gesto che arriva dopo le dichiarazioni di Bertolaso sulla gestione degli aiuti ad Haiti e lo scontro diplomatico sfiorato con gli Usa. Proprio su quell’episodio si appuntano le critiche dell’opposizione che dice: “I ministeri non sono premi”. Ma la ‘promozione’ di Bertolaso non sembra essere cosa di domani mattina. Non è stato solo il diretto interessato a mostrarsene sopreso e dichiararsene del tutto ignaro, poco dopo l’exploit del Premier. Nel Governo in più d’uno parlano di un annuncio a sorpresa, al limite dell’estemporaneità di cui solo nei prossimi giorni si potrà capire portata e sostanza. Anche la ipotesi più gettonata, quella del ‘superministero alle emergenze’ che trasformi ed ampi le competenze della Protezione Civile richiede tempo: a partire dalla nuova legge ad hoc che richiederebbe un nuovo aumento del numero dei ministri. Ad oggi, dunque, a Bertolaso non è restato che incassare la promozione pubblica sul campo da parte del premier, congedarsi dall’Aquila e tornare full time alla Protezione Civile, da Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
(Apcom)

Il viaggio africano del ministro Frattini

Dopo le minacce di un nuovo intervento USA in Yemen e Somalia uscite dalla bocca di Barack Obama a West Point, il ministro degli Esteri Frattini, nel suo ultimo tour, questa volta nell’Africa Sahariana, accompagnato da un codazzo di alti funzionari della Farnesina, ha rilasciato durante le tappe della maxi-missione di rappresentanza in Mauritania, Mali, Etiopia, Kenya, Uganda, Egitto e Tunisia una serie di dichiarazioni che definire semplicemente vergognose è poco.
La trasferta della comitiva su uno dei A-319 CJ in allestimento VIP a disposizione dal 2000 della Presidenza del Consiglio – l’ordine di acquisto all’Airbus di Tolone fù firmato dal Baffo di Gallipoli – è cominciata a Nouakcott l’11 Gennaio e finita a Tunisi il giorno 19 (!) dopo l’incontro con il Presidente Ben Alì.
La prima tappa della combriccola tricolore ha fatto sosta nella capitale della Mauritania, uno dei Paesi che hanno rotto le relazioni diplomatiche con Israele nel gennaio 2009 come risposta al bombardamento dell’IDF su Gaza. Le difficoltà di Frattini sono apparse fin all’inizio evidenti con un percorso in salita.
Il Presidente Oul Abdallahi lo ha platealmente snobbato, lasciando l’onere dei contatti con il Ministro degli Esteri ad una semplice rappresentanza di parlamentari di maggioranza e di opposizione.
La richiesta avanzata dal titolare della Farnesina di un interessamento del governo di Nouakcott per la ricerca e la liberazione di due ostaggi italiani, Sergio Cicàla e sua moglie Filomen Kabouree – sequestro attribuito ufficialmente dalla Farnesina ad un nucleo di guerriglieri di Al Qaeda del Maghreb operante in Mauritania, sulla sola scorta di “informazioni“ sospette di fonte USA – ha finito per peggiorare le relazioni bilaterali.
L’iniziativa di Frattini è stata interpretata, e non poteva essere diversamente, come suscettibile di dare credito internazionale o ad uno scarso controllo della Mauritania sul suo territorio o, peggio, ad avvalorare il sospetto che Nouakcott ospiti e protegga formazioni armate legate all’internazionale del “Terrore“ del fantasmagorico e inossidabile Osama bin Laden nell’Africa Sahariana.
Un’ulteriore richiesta di informazioni avanzata da Frattini alla Repubblica del Mali dalla Mauritania (!) per un altro ostaggio, questa volta di nazionalità francese, Pierre Kemat, ha finito per convincere il Presidente Abdallahi di un’azione concordata tra Italia e Francia per danneggiare l’immagine del suo Paese.
Un Paese che dal 2008 ha dato concreti segnali di volersi sganciare dalla residua dipendenza coloniale, economica e culturale, di matrice occidentale per avvicinarsi a quel multilateralismo che si sta mangiando a fette USA ed Europa in Asia, Africa ed America Indio-Latina. Continua a leggere

Edward mani in pasta

“Caro Edward”. Si apre così una lettera di Pio Pompa al consulente americano dei servizi segreti. Ma l’autore della missiva, l’ex funzionario del servizio segreto militare Pio Pompa, avrebbe fatto meglio a iniziare con un “Carissimo” vista l’entità dei compensi strappati ai contribuenti italiani da questo professore nato in Romania, passato da Palermo e cresciuto tra Londra e gli Stati Uniti a cornflakes e intelligence.
Luttwak è famoso per le sue comparsate a “Porta a Porta”, dove con l’accento da telecronista di football americano imitato perfettamente da Corrado Guzzanti rifila ai telespettatori concetti indigesti sulla guerra necessaria e sui terroristi da sterminare.
Dalle carte sequestrate nel “covo del Sismi” di via Nazionale diretto da Pio Pompa si scopre che per le sue analisi Luttwak è stato retribuito profumatamente dal Sismi diretto da Nicolò Pollari, attraverso la Apri Spa di Luciano Monti.
Nella sua lettera, che dovrebbe risalire al settembre 2002, Pompa propone al “caro Edward” un contratto da nababbo: “a) impegno minimo di dieci giornate al mese per un importo di 5 mila euro al giorno, spese escluse, pari a complessive 50 mila euro al mese; b) la collaborazione avrà la durata di 12 mesi, a far data dalla sottoscrizione del contratto, per un importo annuale di 600 mila euro; c) le spese attinenti le attività da svolgere, debitamente concordate, saranno rimborsate a parte dietro presentazione della relativa documentazione”.
Luttwak ha raccontato in un’intervista a Claudio Gatti del Sole 24 ore nel novembre del 2008: “Lavoravo con Pompa per Apri e Apri lavorava per il Sismi”. A leggere le mail sequestrate a Pompa però si coglie un esempio negativo delle ricadute del rapporto Luttwak-Sismi sulla manipolazione dei media. Tutto si svolge nelle ore immediatamente seguenti la strage di Nassirya del 12 novembre 2003. Muoiono 28 persone, 18 italiani. L’Italia è scossa e e si raccoglie intorno al salotto di Vespa. Luttwak è invitato insieme a Franco Frattini, allora ministro degli esteri.
L’illustre politologo indipendente (in realtà strapagato dal Sismi e quindi dal Governo) si esibisce in questo numero acrobatico per connettere Al Qaeda alla sinistra antagonista.
Ecco quello che milioni di italiani hanno sentito quella sera.
Luttwak: “Un amico qui a Roma che ha un figlio che guarda internet ha fatto presente che ci sono siti italiani fatti da italiani che parlano di resistenza e aizzano attacchi contro la coalizione. Ci sono Nuovimondimedia.it , Informationguerrilla.org . Questi dicono ‘andate in Iraq, lottate, uccidete la coalizione e gli italiani’”.
Vespa frena: “Luttwak, abbiamo cliccato non è venuto niente e lei, Frattini, che fa conferma?”
Il ministro accende lo sguardo accigliato da busto marmoreo: “C’erano certo”.
Vespa: “C’erano?”.
Frattini: “Ma li hanno cancellati, sono scomparsi”.
Vespa: “No, scusi eh, prima che li cancellassero esistevano? Lei testimonia che esistevano?”
Frattini: “Non li ho guardati ma noi sapevamo che esistevano”.
Leggendo le mail sequestrate si capisce chi è la fonte che ha spinto il politologo a dire la balla spaziale.
(…)
A leggere il carteggio tra Pompa e Luttwak, Apri funzionava come una cassa dei servizi per i consulenti. In un appunto di Pompa, sequestrato dalla Digos, si legge l’elenco delle attività svolte da Apri. In particolare nell’appunto di Pompa si cita il “think tank” composto oltre che dal politologo americano e dai dirigenti di Apri Monti e Orvieto, da altri esperti vicini al Governo come il generale Carlo Jean e il commercialista Enrico Vitali, partner dello studio tributario fondato da Giulio Tremonti.
Il report descrive 15 incontri sui seguenti temi: emergenza nazionale, flussi migratori e finanziari, organizzazioni islamiche e sviluppi del settore aerospaziale.
A differenza degli informatori come il giornalista Renato Farina pagati direttamente dalla “Casa” (come dimostrano le ricevute sopra pubblicate e controfirmate con il nome in codice “Betulla”), i consulenti prestavano la loro opera a Apri.
A un certo punto però il giocattolo si rompe. Pompa segnala a Pollari nel 2003: “L’assoluta non veridicità, come dimostrato dalla quasi totale assenza di prodotti a supporto, delle giornate lavorative imputate al capoprogetto, prof. Luciano Monti e al suo collaboratore dott. Piero Orvieto, rispettivamente n. 41 e 50 giornate che sarebbero state effettuate nel bimestre novembre-dicembre 2002 per un importo complessivo di 131.495 euro.
Per Pompa, Apri chiede 2 milioni di euro perché interpreta a modo suo la convenzione del 2002. Ma il Sismi non vuole pagare tanto. A cascata Apri blocca i pagamenti a Luttwak che fa causa e tempesta Monti e Pompa di mail sempre più dure. Alla fine Pompa gli propone di chiudere accettando “solo” 142 mila euro, “a cui vanno aggiunte quelle non ancora pagate da Monti”. Chissà se il “Caro Edward” ha accettato.

Da “Betulla”, Luttwak e il tariffario dei servizi, di Marco Lillo.

Le bugie (sull’Afghanistan e non solo) hanno le gambe corte

La conferenza di Kabul dei donatori pro-Afghanistan appartenenti alla cosiddetta Comunità Internazionale, inizialmente prevista per novembre 2009, è stata spostata a Londra e si terrà il prossimo 28 gennaio.
Il ministro Frattini avrebbe dovuto portare un assegno di 250 milioni di euro per sostenere il governo Karzai.
A quanto trapela dalla Farnesina, l’importo che verrà versato dall’ Italietta di Berlusconi & Napolitano sarebbe intanto lievitato a 315 milioni. Altre spesucce.
L’aggiuntino si sarebbe reso necessario per provvedere in quota spettante al reclutamento nell’esercito e nella polizia dell’ex vicepresidente della Unocal di 70.000 nuovi scarponi di etnia pashtun, appartenenti a clan e tribù capeggiate dai signori della guerra e del traffico di oppio fedeli a Karzai, che in virtù dei nuovi arruolamenti potrà contare su un organico combattente (si fa per dire) di 257.000 militari e militarizzati.
Siamo andati a vedere il PIL dell’Afghanistan e ci è venuto da ridere.
Previsto il congedo, o meglio la smobilitazione graduale, di altrettanti tagiki, uzbeki e hazara che fanno capo rispettivamente a Rachid Dostum, Burhanuddin Rabbani ed Ismail Khan.
Decisione pilotata dalla Clinton dopo il rifiuto di Abdullah Abdullah di partecipare al ballottaggio farsa messo in piedi dalla Segreteria di Stato USA per l’elezione del nuovo presidente dell’Afghanistan, al cui insediamento erano presenti i ministri degli Esteri Kouchner, Miliband e Frattini.
Elezione che ha generato le avvisaglie del terremoto che finirà per radere al suolo le residue speranze del generale-criminale di Abu Ghraib Stanley McChrystal di ottenere con il controllo militare di Enduring Freedom ed ISAF la “pacificazione” del Paese delle Montagne.
Non passa giorno che le minoranze tribali che la Clinton intende mantenere fuori dal governo dell’Afghanistan non manifestino a Kabul bruciando bandiere a stelle e strisce ed innalzino striscioni con offese sanguinose rivolte a Barack Obama chiamato “black dog” per le centinaia di nuovi morti ammazzati causati dai bombardamenti della Coalizione sui villaggi afghani.
La decisione presa dalla Casa Bianca di inviare altri 33.000 militari in Afghanistan porta a 102.000 gli effettivi USA ed i 7.000 chiesti dal Pentagono e dalla Segreteria di Stato alla NATO di Rasmussen, quando saranno schierati sul terreno entro il 2010, faranno lievitare quelli di ISAF (statunitensi esclusi) dagli attuali 36.000 a 43.000, anche se Olanda ed Estonia ritireranno i loro contingenti nel corso del 2010-2011.
I contractor afghani ed “internazionali” che operano a supporto della “sicurezza” della Coalizione Alleata sono stimati in oltre 100mila, con la prospettiva di superare presto i 150.000.
Il personale ONU concentrato nei maggiori centri abitati dell’Afghanistan supera le 5.500 unità.
La “cooperazione internazionale” tra esperti e tecnici della “ricostruzione”, operatori Ong, personale accreditato presso ambasciate e consolati e servizi di intelligence porta in dote dai 3 ai 4.000 addetti.
Il totale tra militari e civili presenti a sostegno di USA, Alleati e governo centrale entro l’anno potrebbe superare le 500.000 unità (!). Una bazzecola modello Vietnam. Continua a leggere

Il “signorsì” del generale Del Vecchio

Il 15 settembre 2009, nella sua ultima visita negli Stati Uniti intervistato da Defence News, Ignazio La Russa annuncerà la sostituzione di due dei quattro Tornado in Afghanistan con quattro AMX e l’impiego di smart bombs contro pashtun e mujaheddin, le stesse che D’Alema aveva fatto generosamente distribuire dai Ghibli su Montenegro e Kosovo.
Dopo la Serbia, gli esecutivi Berlusconi e Prodi sono passati, sempre a braccetto di USA e NATO, a dare un altro aiutino agli alleati in Afghanistan.
Da gennaio 2010 ci sarà un nuovo salto di qualità nella “missione di pace”.
Annaffiare dall’alto formazioni ribelli e terroristi con proiettili da 20 e 27 millimetri degli elicotteri d’attacco A-129 e cacciabombardieri Tornado IDS e con missili anticarro Hellfire sparati dagli UAV Predator e prossimamente dai Reaper non basta più, è arrivata l’ora di passare ai bombardamenti con gli AMX armati di mitragliatrici a sei canne rotanti da 20 mm e GBU12.
Nel 1976, una Paveway da cinquecento libbre su corpo mk83 della Raytheon costava 19.000 dollari al netto del trasporto dai depositi.
L’addestramento di 34 piloti dell’Aereonautica Militare a Nellis nel deserto del Nevada nell’agosto 2009 durante le esercitazioni Green e Red Flag, l’impiego di 10 AMX, con 300 (!) missioni di volo e lo sgancio — testate inerti e simulazioni – di 330 (!) bombe a guida laser Paveway hanno preparato il terreno a quella “revisione di teatro” che il titolare di Palazzo Baracchini confermerà alla rivista militare USA.
Analisi Difesa per l’occasione parlerà di una nuova dottrina di bombardamento.
L’ipocrisia di nascondersi dietro ad un linguaggio fumoso consentirà a La Russa di annunciare a New York (e dove sennò per fare un figurone?) una strategia di annientamento preventivo dall’aria del nemico.
La complicità ed il silenzio della stampa “tricolore” gli eviteranno di dover dare imbarazzanti spiegazioni ad un’opinione pubblica nazionale fortemente ostile alla guerra in Afghanistan.
Per avere una stima delle uscite, in milioni di euro, sostenuti dai contribuenti per Green e Red Flag, in ambienti U-Cas e Cas, abbiamo mandato un e-mail al senatore Mauro Del Vecchio (PD), componente della Commissione Difesa del Senato, pregandolo di dettagliarci sugli oneri di spesa affrontati dal Ministero della Difesa per la trasferta di Aeronautica Militare ed Esercito negli USA.
Il generale della “sinistra” alla Calearo ed alla Colannino ha omesso di risponderci.
Una “dimenticanza” di cui non siamo rimasti affatto sorpresi.
Del Vecchio ci tiene a tenere la bocca rigorosamente chiusa in omaggio alla regola dell’ambiente di provenienza: “Chi non sa parla, chi sa tace”.
Il semplice dovere di informare la gente lo impaccia, lo infastidisce.
In compenso, il generale trova tutto il tempo che gli serve per infilare le dita della mano nel lettore d’impronte e pigiare il bottone del “si” per dare il via libera con tutto il suo gruppo parlamentare al rifinanziamento della “missione di pace” in Afghanistan, anche se a Palazzo Chigi c’è quel brutto ceffo del Cavalier di Arcore.
Del Vecchio risponderà prima delle elezioni 2008 all’appello del Partito Democratico con un “signorsì”.
Il suo pedigree NATO si rivelerà particolarmente adatto a procurargli le simpatie di Veltroni prima e di Franceschini poi. La scelta di lasciar fuori Mini e di cooptare Del Vecchio la dice lunga.
La vasta esperienza militare su cui può contare nei ranghi dell’Alleanza Atlantica gli procurerà tra i big del loft l’elezione a senatore nelle file della “sinistra”.
Lavorerà in coppia con Roberta Pinotti, la parlamentare ligure responsabile del settore Difesa di Bersani, che durante il governo Prodi fu promossa per la sua totale e manifesta incompetenza a presidente della IV° Commissione della Camera nella XV° legislatura per lanciare un segnale di disponibilità e di collaborazione della maggioranza PD-Ulivo al PdL, dove si distinse per un rapporto di lavoro particolarmente intenso ed amichevole con il sulfureo presidente dell’ISTRID on. Giuseppe Cossiga di Forza Italia, figlio di Francesco, per poi passare nel corso della XVI° a fare altrettanto con La Russa, questa volta da rappresentante a Palazzo Madama. Sarà lo stesso Ministro della Difesa a dichiarare la sua riconoscenza alla Pinotti a Montecitorio ed a ribadirlo nel salotto di Bruno Vespa.
Ecco cosa ha scritto su ComedonChisciotte una sua ex collaboratrice: “La conobbi la prima volta nella sede della FLM di Largo della Zecca negli anni ’80 durante una riunione sindacale (io ero delegata della RSU dove lavoravo). Caspiterina! Da sostenitrice delle lavoratrici me la ritrovo guerrafondaia. Ripeto, se lo avessi saputo che ci saremmo ridotte così mi sarei iscritta ad un corso di cucina o di taglio e cucito.”
Il declino ormai inarrestabile, organizzativo, politico, etico del Partito Democratico nasce anche da queste prese d’atto.
Facciamo ora un breve identikit di Del Vecchio.
Bosnia Erzegovina 1997, operativo a Sarajevo, Goradze e Pale; in Macedonia da marzo a giugno ’99 per l’assistenza ai “profughi” albanesi che simpatizzavano per l’UCK; in Kosovo (Pec, Djakovica, Decani, Klina) da giugno a settembre dello stesso anno.
Promosso generale di corpo d’armata nel 2004, comanda la Forza di Reazione Rapida italiana della NATO; dal 2005 al 2006 è comandante ISAF in Afghanistan, pataccato dal Comando Generale della NATO di Bruxelles con la Meritorius Medal.
Vediamo ora di fare le pulci a La Russa, passando dal PD al PdL.
Alcuni giorni fa, scrivemmo di un impegno di spesa per 480 milioni – da ricavare dal gettito dello scudo fiscale previsto al ribasso da 5 a 3.3 miliardi di euro, nella bozza della finanziaria di Tremonti- a parziale copertura aggiuntiva delle missioni militari nel 2010. Il conto è lievitato a 750 milioni di euro, 270 in più nell’attesa di versarne a gennaio con Frattini nelle casse dell’ONU altri 250, al vertice di Londra per la “ricostruzione” dell’Afghanistan. Degli 8.884 milioni di euro della “manovra” di fine anno che si prevede sarà blindata dalla fiducia, 3.253 saranno prelevati dai TFR dei lavoratori italiani, attualmente giacenti nelle casse dell’INPS, per la “spesa corrente”.
Confermiamo a 3.691 il numero dei militari italiani di Esercito, Aeronautica, Carabinieri e GdF attualmente presenti in Afghanistan, compresa la compagnia NTM-A. L’ organico della Task Force 45 è fuori contabilità.
Quando arriveranno a Roma i 400 scarponi in uscita prevista prima di Natale, li toglieremo dal mazzo.
La prossima volta, vedremo di affrontare in dettaglio le verità nascoste della nuova infornata da “1000 per l’Afghanistan”, più vicina ai 1.500 anche se “rimarremo un po’ sotto” – come ha detto La Russa senza arrossire nemmeno un po’. Nel mucchio ci saranno dai 200 ai 220 “istruttori-consiglieri” del Tuscania per l’addestramento-combattimento a sostegno della polizia e dell’esercito “afghano”. Per la NATO, un istruttore ISAF “pesa” quanto cinque militari che combattono sul terreno.
Giancarlo Chetoni

Sì, badrone!

Il 28 Ottobre, lo stesso giorno dell’oceanica manifestazione di protesta dei Cocer delle FF.AA e dell’intera galassia delle organizzazioni sindacali di Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria e Corpo Forestale dello Stato a Roma per protestare contro i pesantissimi tagli alla sicurezza pubblica, alle dotazioni ed agli organici, decisi da Tremonti e Brunetta, il Consiglio dei Ministri ha varato con quattro giorni di anticipo sulla scadenza la proroga trimestrale al 31 dicembre 2009 per le “missioni di pace” con uscite autorizzate che arriveranno a fine anno a 1 miliardo e 521 milioni di euro.
In realtà, il conto che la Repubblica delle Banane fa pagare alla gente per bene, che paga le tasse alla fonte, per le operazioni di “polizia internazionale“ sfiora i 2 miliardi e 335 milioni di euro compresi i “rilievi“ denunciati dalla Corte dei Conti che risultano omessi nella contabilità, ufficiale, di Palazzo Baracchini.
Il Ministero per lo Sviluppo Economico e l’Industria ha contribuito nel 2008 a finanziare la Difesa per 1.8 miliardi, il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca per 1 miliardo.
Con i “rientri“ di capitale dal gettito dello scudo fiscale La Russa prevede di incassare da Tremonti 1.1 miliardi dei 5 previsti con una destinazione di spesa di 480 milioni di euro per le “missioni di pace“ del 2010 che vedranno un ulteriore aumento di militari italiani impegnati in Afghanistan.
Quanti?
Per ora il Ministro della Difesa risponde così : “Le illazioni, i numeri e le date apparse sui giornali sono tutte ipotesi perché ho preso impegno con il ministro Frattini e con i Presidenti Napolitano e Berlusconi di fare il punto sulla situazione dopo l’incontro che il Ministro degli Esteri avrà negli Stati Uniti con il Segretario di Stato Clinton. Quello che è sicuro è che guardiamo con grande attenzione alla richiesta che viene dalla NATO e dagli Stati Uniti.
La decisione sul numero di uomini (da sbattere in Afghanistan… lo aggiungiamo noi) avverrà dopo quell’incontro”. C’è solo da sperare che Robert (Gates) e Hillary non ci appesantiscano troppo il conto da pagare.
Immaginarci un Frattini che punti a contestare platealmente al ribasso le decisioni dell’Amministrazione USA ci risulta difficilissimo. Andrà in scena, statene certi, il solito… sì, badrone! Questa volta a ruoli rovesciati perché alla Casa Bianca da dicembre 2008 c’è lo Zio Tom.
Vediamo allora di fare una carrellata sulle principali voci di uscita che Ignazio La Russa, con la complicità di “istituzioni, politica e informazione“ lascia senza copertura legislativa per tener bordone a USA, NATO ed ONU.
Liquidata nel 2007 in perdita con miliardi di euro e un bel carico di morti e feriti l’avventura in Iraq, restiamo impantanati dal 1999, in Kosovo, con KFOR ed EULEX, con 1.870 scarponi, 700 mezzi terrestri e 6 aeromobili; dal 2004, con Althea, in Bosnia Erzegovina con 280 effettivi e 113 tra veicoli da trasporto, ricognizione, blindati e 2 aeromobili; in Libano, dal 2007, con UNIFIL, con 2.080 militari, 854 tra blindo, trasporti truppa e controllo armato delle linee di confine con “Israele“, 7 aeromobili ed un’unità navale; in Afghanistan, dal 2002, con ISAF, con 3.227 militari dichiarati (in realtà sono 352 in più tra personale di volo, manutenzione e di sicurezza per Tornado e AMX più 12 “Grifo“ della GdF), 667 mezzi ruotati e cingolati, 30 tra elicotteri da combattimento, UAV e cacciabombardieri.
Solo per alimentare la guerra in questo Paese, l’Italietta di Napolitano & Soci fa spendere al contribuente “tricolore“ ogni tre mesi 145.3 milioni di euro anche se i resoconti del Ministero della Difesa sono misteriosamente fermi a 84.4 esclusi i costi di Active Endeavour ed Ocean Shield sostenuti dalla Marina Militare in missione “antipirateria“ nell’Oceano Indiano, mentre tra il Tigri e l’Eufrate, come abbiamo già detto, continuiamo a far guerra con l’unità NTM- I dell’Arma dei Carabinieri, 10 blindati… e così via.
Per comporre un elenco completo delle operazioni di “polizia internazionale“ a cui partecipa l’Italietta occorrerebbero intere pagine e altrettante ne servirebbero per elencare le colossali uscite erogate a fondo perduto dai titolari di Esteri e Difesa a “governi amici“ di USA, Europa e NATO.
La domanda a questo punto che possiamo farci è la seguente: cosa c’è dietro?
Abbiamo provato a darci delle risposte politiche, militari, tecnologiche, energetiche, finanziarie, commerciali ed industriali, che possano almeno compensare l’enormità delle risorse destinate ad alimentare l’avventurismo militare del Belpaese.
I ritorni, per quanto ne sappiamo, sono o modestissimi o addirittura inesistenti.
Per capire la portata del salasso che sopportiamo come comunità nazionale basterà dire che i contingenti “tricolori“ di terra, mare e cielo vanno avvicendati ogni 2-3-6 mesi nei Balcani, in Africa, Medio-Oriente, Asia e approvvigionati per l’intero ciclo annuale.
I materiali, per miliardi di dollari, che hanno in dotazione i militari italiani consumano milioni di litri di carburante, necessitano di costosissime manutenzioni, si usurano, vanno perduti e sostituiti a ritmi accelerati nell’impiego operativo fuori area.
Per incrementare i volumi di spesa per le “missioni di pace“ su input del Quirinale e del Consiglio Supremo di Difesa,  La Russa e Brunetta tagliano a livello nazionale sugli organici, sui costi di gestione e di specializzazione del personale, sull‘addestramento, sulle spese di esercizio, sugli acquisti logistici e sui sistemi d’arma destinati alle FF.AA. percepite come un complesso statuale parassitario, ormai inutilizzabile per le “proiezioni armate“ dell’“Occidente“ nelle aree regionali di crisi. Struttura da riciclare a funzioni equiparabili a “guardia nazionale“ utilizzabile per emergenze ambientali, per la vigilanza e la sicurezza del territorio compreso l’ordine pubblico.
Nel tentativo di arginare uscite sempre più ingenti per le operazioni di “polizia internazionale“, il nostro Ignazio intanto ha tirato fuori dal cilindro “Difesa-Servizi“ una società – per ora, ma solo per ora – a capitale interamente di Stato, per “attivare le procedure connesse alla valorizzazione ed alle dismissioni del patrimonio immobiliare non più utile ed allo sfruttamento commerciale affidato a gestione privata dei marchi (sentite, sentite…) delle Forze Armate a partire da quello delle Frecce Tricolori“.
Insomma, dopo le cartolarizzazioni di Tremonti arrivano quelle di La Russa.
Di quello che è successo al complesso della Scuola Ispettori della Guardia di Finanza di Coppito presso L’Aquila e ad altre migliaia di sedi ed immobili di proprietà dello Stato ne abbiamo già parlato. Ed ora la chicca!
Gli immobili ed i terreni delle FF.AA. censiti nell’area metropolitana di Roma per un valore di 500 milioni di euro verranno ceduti gratuitamente al Comune che a sua volta li metterà in vendita sul mercato (delle lobbies) per consentire al sindaco Alemanno di ripianare il deficit di bilancio lasciatogli in eredità dalla gestione Veltroni.
Vietato, per decreto Maroni, potersi sbellicare dalle risate.
Marrazzo chiede perdono a Benedetto XVI°, Berlusconi assolda i trans per il Grande Fratello.
Una goccia… una sola goccia di acqua pura, di imprevedibile.
Giancarlo Chetoni

Il badrone vuole altri 1.500 ascari

Parigi, 1 dicembre – Trentamila soldati statunitensi e 10mila dalle forze alleate. Così il presidente Barack Obama conta di arrivare alle 40mila unità in più che i suoi vertici militari giudicano indispensabili per vincere la guerra in Afghanistan.
Secondo quanto riporta il quotidiano Le Monde, Washington ha chiesto 2.000 soldati alla Germania, 1.500 all’Italia, 1.500 alla Francia e 1.000 al Regno Unito, oltre ad altre 4.000 unità che proverrebbero da altri membri della NATO.
(ASCA-AFP)

“Molto, anzi moltissimo”
Roma, 2 dicembre – ”Il 2013 sarà l’obiettivo massimo e non quello minimo” per il graduale disimpegno dall’Afghanistan. A dichiararlo il ministro degli Esteri, Franco Frattini, a margine del Foro di dialogo Italia-Russia organizzato a Roma dall’ISPI. Il disimpegno, per il titolare della Farnesina, ”non potrà avvenire in un arco di tempo lungo ma via via che l’Afghanistan potrà garantire la propria sicurezza”.
Riguardo alla cifra dei soldati italiani che potranno essere inviati nel Paese, come richiesto dalla nuova strategia Obama, Frattini ha ribadito che adesso ”non è il momento di quantificare” assicurando però di condividere pienamente la strategia illustrata stanotte da Obama. ”Ci auguriamo che gli alleati facciano molto, anzi moltissimo, come faremo noi”, ha poi sottolineato aggiungendo di aver notato delle risposte incerte da ”parte della Francia”, ”una presa di tempo dalla Germania e un contributo forse minimo da parte del Regno Unito”.
(ASCA)

Cicciobello atlantico
Roma, 2 dicembre – L’Italia dei Valori ha annunciato il voto di astensione in Aula al Senato sul provvedimento di proroga delle missioni internazionali. Il senatore Stefano Pedica ha annunciato il voto contrario all’art. 2, che prevede il rifinanziamento della missione in Afghanistan. Immediata la replica di Rutelli: ‘L’Italia dei Valori ha di fatto rotto la coalizione’ e si è precipitato in sala stampa per ribadire il suo giudizio senza appello: ‘Alleanza chiusa con Di Pietro’.
(ANSA)

Roma, 2 dicembre – L’aula del Senato ha approvato a larghissima maggioranza il decreto di proroga delle missioni militari internazionali di pace. I voti a favore sono stati 245, uno contrario. I 12 senatori dell’IDV si sono astenuti. Il provvedimento passa ora all’esame della Camera.
(Adnkronos)

Yes, we can!

Roma, 25 novembre – Il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha incontrato oggi il Segretario Generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen. Al colloquio erano presenti anche il Ministro degli esteri, Franco Frattini, il Ministro della difesa, Ignazio La Russa, ed il Sottosegretario di Stato, Gianni Letta.
”Nel corso della cordiale conversazione – informa un comunicato di Palazzo Chigi – sono stati passati in rassegna i temi prioritari dell’agenda dell’Alleanza Atlantica e, segnatamente, la missione ISAF in Afghanistan, le relazioni NATO-Russia e il dibattito sul nuovo concetto strategico dell’Alleanza. Il Segretario Generale ha ringraziato il Presidente del Consiglio per l’ampio impegno profuso dall’Italia nei diversi teatri operativi in cui è impegnata la NATO. Il Presidente Berlusconi, che era reduce da una conversazione telefonica con il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, ha riconfermato il forte sostegno dell’Italia alla NATO.
Un approfondimento particolare è stato svolto sulla situazione in Afghanistan, dove è stata registrata un’ampia convergenza di vedute sulla necessità di un nuovo approccio operativo sul terreno, sull’esigenza di aumentare l’impegno nel settore civile e nell’addestramento delle forze di sicurezza e di polizia afgane e, infine, sull’aspettativa che il nuovo Governo afgano sia all’altezza delle importanti sfide che attendono il Paese”.
(ASCA)

“La credibilità del nostro Paese”
Roma, 26 novembre – L’eventualità di una strategia che prevede l’aumento delle truppe in Afghanistan verrà ”ragionata e presentata in Parlamento” e ”Berlusconi parlerà con Bossi e con gli altri ministri interessati. E’ una linea che tutto il governo condividerà”.
A dichiararlo il ministro degli Esteri, Franco Frattini, a margine di una conferenza stampa alla Farnesina. Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se anche il leader della Lega accetterà, nonostante le reticenze passate, la possibilità di inviare ulteriori soldati italiani in Afghanistan, il capo della diplomazia ha ribadito che la strategia sarà una linea ”che tutti potranno condividere” perché ”si tratta della credibilità del nostro Paese”.
(ASCA)

Potranno o dovranno?… servi si nasce