Con l’inizio della pandemia c’è stato un vertiginoso aumento delle polarizzazione sociale, polarizzazione calata dall’alto ovviamente. La questione non è più di natura sanitaria, infatti il “lasciapassare” (definizione corretta di “green pass”) è il fine, non il mezzo. E’ stato creato il conflitto orizzontale definitivo che serve a mettere al riparo da quello verticale.
Il commento di Gilberto Trombetta, giornalista economico.
Povertà, disoccupazione, disuguaglianza sociale non sono frutto del destino cinico e baro ma di una precisa scelta politica che è giunto il momento di contrastare.
Per i programmi di acquisto di titoli attivati dalla BCE a partire dal 2011 sono stati spesi 3.315 miliardi di euro.
Tremilatrecentoquindicimiliardi miliardi di euro, il 185,5% del PIL Italiano. Il 20,13% del PIL dell’intera UE. Creati dal nulla.
La BCE ha però puntualmente fallito il suo già ridicolo obiettivo inflazionistico, quello del 2%.
Questo perché mentre non esiste praticamente nessun legame tra l’emissione di moneta e l’inflazione, esiste invece un legame molto forte tra occupazione, salari e inflazione.
L’Unione Europea questo lo sa bene. E infatti per rispettare il suo folle mandato della stabilità dei prezzi si è inventata la disoccupazione naturale. O NAIRU (Non-accelerating inflation rate of unemployment).
Guarda caso sono decenni che quello dell’Italia oscilla proprio intorno a quella disoccupazione che i tecnocrati UE hanno stabilito dover essere “naturale” per l’Italia. E cioè circa il 10%.
Ecco perché in Italia mancano milioni di dipendenti pubblici (almeno 2,5 rispetto a Francia e Inghilterra).
Ecco come siamo arrivati ad avere 4,5 milioni di poveri assoluti e 9 milioni di italiani in condizioni di povertà relativa, quasi 14 milioni di inattivi e più di 2 milioni di disoccupati, 12 lavoratori su 100 che vivono sulla soglia della povertà a causa dei salari troppo bassi. 4,3 milioni di lavoratori part time, di cui 2 su 3 involontari.
Ecco perché in Italia mancano quasi del tutto infrastrutture degne di un Paese civile, soprattutto nel centro-sud.
Non c’è una rete autostradale degna di questo nome, sotto Roma. Della rete ferroviaria, meglio non parlare.
Non ci sono fabbriche e industrie a sufficienza, nel Sud Italia.
Non c’è lavoro in Italia, soprattutto nel Sud. E quando c’è, i salari sono indecenti.
Ecco perché ogni anno circa 250.000 giovani sono costretti a scappare dal Sud al Nord del Paese. Questo mentre altrettanti giovani del Nord sono costretti a scappare all’estero.
A volte a fare la fortuna di un Paese straniero, a volte a fare i lavapiatti, ma con la paura e la vergogna di tornare indietro dopo aver fallito. Quando a fallire è stata la classe politica che li ha costretti a fuggire.
Una insopportabile beffa che si aggiunge al danno di spendere milioni di euro per i nostri giovani, per il futuro del Paese, e lasciare poi che vadano a fare le fortune di altri Paesi. Perdendoci doppiamente.
Avremmo da fare per le prossime 5 generazioni, almeno. Avremmo gli uomini, le competenze, le materie per costruire un novo Paese, finalmente unito. Da Nord a Sud.
Unito con le autostrade, unito con i treni, ma soprattutto unito nei salari e nel benessere.
Eppure da decenni ci dicono che tutto questo non sia possibile perché il mezzo di comunicazione finanziario per mettere in connessione due bisogni reali, che non hanno scarsità del bene da scambiare, ma della valuta che regola questo scambio.
Perché “Mancano i soldi”, insomma.
Quella della mancanza di soldi è la scusa più vecchia del mondo. È quella che usano per giustificare il nostro progressivo impoverimento mentre loro aumentano indegnamente la percentuale di ricchezza sul totale.
Non mancano mattoni, ferro, cemento, materie da lavorare, da trasformare che giustifichino tutti i poveri e i disoccupati. Che giustifichino tutta questa disperazione.
Si tratta solo di un modello economico fondato sulla scarsità, sulla privazione, dal lato della domanda. E sullo spreco dal lato dell’offerta.
La povertà, la disoccupazione, la disuguaglianza sociale, le milioni di vite distrutte, il futuro strappato alle nuove generazioni costrette a emigrare.
Tutte queste atrocità non sono frutto del destino cinico e baro. Sono una precisa scelta politica.
Dettata da tornaconto personale di pochi e dalle false credenze di alcuni.
Sulle quali ci si sta però giocando la vita, i sogni, le speranze, il futuro di intere popolazioni. Gilberto Trombetta
«Mi sono convinto che anche quando tutto sembra perduto bisogna mettersi tranquillamente all’opera ricominciando dall’inizio».
Il sì al taglio della rappresentanza parlamentare ha vinto com’era purtroppo prevedibile.
Nessuno dei grandi partiti presenti in Parlamento si è speso per il no e hanno anzi tutti dato indicazione per il sì. Tutti, compresi quelli che qualcuno si ostina ancora a chiamare opposizione (Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia).
Entrando più nel dettaglio però, la rimonta del no è stata evidente rispetto alle percentuali di qualche mese fa.
Questo è successo perché altri hanno fatto, con ogni mezzo possibile e con notevole dispendio di tempo, campagna in favore del no. Sui social, nelle piazze, nelle aule consiliari e in quelle municipali.
Piccoli partiti, sia dentro che fuori dal Parlamento, associazioni, costituzionalisti e via dicendo.
Quel 30% di elettori che nonostante tutto ha votato per il no, rappresenta per noi un buon inizio. Un ottimo inizio.
Questo senza contare il 46% di aventi diritto che a votare non ci è neanche andato e che non è di certo classificabile aprioristicamente come sostenitore del sì.
Oggi in Parlamento, come andiamo dicendo da tempo, sono presenti solo forze liberali e liberiste. Mancano partiti socialisti. Mancano partiti che vogliano rimettere al centro dell’azione politica la Costituzione.
Il voto popolare va rispettato. Sempre. Ma va anche capito, analizzato.
Veniamo da più di 30 anni di propaganda a senso unico. Salvo poche, pochissime, eccezioni. Propaganda unionista, propaganda anti-italiana, propaganda che ha fatto dell’anti-politica il suo punto di forza.
Il lavoro da fare è immenso. E lungo. Non è vero che non c’è tempo. Di tempo, fortunatamente, ce n’è. E tanto.
Nel mentre le cose andranno peggio per l’Italia? Molto probabilmente sì. Quelli che avranno il compito della rinascita italiana, quando sarà il momento, governeranno sulle macerie. In senso figurato, non come dopo i bombardamenti di una guerra. Ma socialmente, culturalmente ed economicamente sempre di macerie si tratterà.
Siamo sopravvissuti, nella nostra lunga storia, a catastrofi peggiori. Ci riprenderemo anche da questa. Ma servirà l’impegno, la dedizione di tanti cittadini. Si tratterà di un lavoro lungo, a volte frustrante, ma doveroso.
Lo dobbiamo ai nostri nonni e ai nostri padri. Lo dobbiamo a noi stessi. Ma, soprattutto, lo dobbiamo alle nuove generazioni. E a quelle future.
Abbiamo il dovere, non solo morale, di fare il possibile – e forse anche l’impossibile – per non lasciare loro un Paese peggiore di quello in cui siamo nati. Abbiamo il dovere di preparagli una strada meno irta di ostacoli.
È un dovere che riguarda tutti noi, singolarmente. E riguarda tutte quelle forze che si spendono da anni per il ripristino della Costituzione e la rottura della gabbia unionista.
Sta a noi mettere da parte eventuali divergenze, eventuali personalismi, e iniziare a lavorare insieme in vista dell’appuntamento elettorale del 2023.
Mantenendo ognuno le proprie specificità, ma combattendo fianco a fianco per un obiettivo comune.
Questa non è la fine della lotta. È solo l’inizio. Gilberto Trombetta
È notte inoltrata, si narra, quando squillò il telefono a casa di Enrico Mattei. Le due circa.
«Pronto, Mattei. Ciao, sono Giorgio La Pira».
«Dimmi, La Pira», rispose infastidito per l’orario Mattei.
«Senti, ti devo chiedere un favore. Qui, a Firenze, sta chiudendo il Pignone. Tante famiglie rischiano di finire in mezzo ad una strada. Per Firenze sarebbe una tragedia. Devi rilevarla tu, quest’azienda».
«La Pira, mi spiace, ma noi dell’ENI ci occupiamo di petrolio. Il Pignone è nel settore tessile, che ce ne faremmo noi? Sei un caro amico, ma non posso».
«Mi è apparso in sogno lo Spirito Santo e mi ha detto che l’ENI deve comprare il Pignone e salvare la fabbrica».
«Sono un petroliere e compro solo pozzi di petrolio».
«Tu sei un petroliere, ma quello è lo Spirito Santo e ne sa più di te…».
«E vi sarete capiti male!».
La telefonata si chiuse così.
La mattina dopo Mattei ordinò di fare una proposta per acquistare il Pignone. E così fu.
L’ENI lo acquistò, salvò migliaia di famiglie, l’economia di Firenze e il Nuovo Pignone diventò un’eccellenza nel settore della meccanica e dell’impiantistica a livello internazionale.
Altri politici, che difendevano i diritti del popolo.
Altri imprenditori, che sapevano investire.
Oggi abbiamo Giuseppe Conte, che agli operai dell’ILVA di Taranto dice «Non ho la soluzione in tasca».
Questo mentre gli altri leader politici neppure hanno idea di cosa fare.
Cosa è cambiato dal 1953 ad oggi?
Allora avevamo una classe politica e imprenditoriale di livello, al servizio della gente e che sapeva trovare le soluzioni per farlo.
Allora avevamo la sovranità, monetaria (ovvero una banca centrale al servizio del governo e non “indipendente” come la BCE) e fiscale (non dovevamo sottostare ai vincoli di bilancio calcolati dagli “esperti” della Commissione Europea).
Ancora oggi esistono in Italia persone oneste e capaci e che sarebbero in grado di risolvere i problemi del Paese, ma il sistema di potere attuale, fondato sulla finanza e sul controllo dei mezzi di informazione, le tiene sistematicamente in disparte, favorendo invece l’ascesa al potere di persone incapaci. Nella migliore delle ipotesi. Gilberto Trombetta
Autostrade, Alitalia e ILVA. Cioè trasporto su ruota, trasporto aereo e produzione di acciaio. Due monopoli naturali e un’industria strategica.
Si cercano da anni improbabili soluzioni, quando l’unica cosa da fare sarebbe nazionalizzarle.
D’altronde è evidente come i modelli di successo siano quelli dei Paesi in cui lo Stato interviene pesantemente nell’economia.
Delle 129 aziende cinesi presenti nella lista delle migliori 500 stilata da Fortune, l’80% è costituto da aziende di proprietà o comunque controllate dallo Stato.
Molti altri Paesi, la maggior parte di quelli industrializzati, vantano un’importante presenza dello Stato nell’economia, soprattutto quando si parla di grandi aziende.
Consultando i dati, viene fuori che dietro la Cina (96% delle aziende più grandi a guida statale), ci sono gli Emirati Arabi Uniti (88%), la Russia (81%), l’Indonesia (69%) e la Malesia (68%) (grafico 1).
I settori con i rapporti più alti di partecipazione pubblica – tra il 20% e il 40% – sono quelli legati all’estrazione o al trattamento di risorse naturali, all’energia e alle industrie pesanti.
Alcuni settori dei servizi – come le telecomunicazioni, l’intermediazione finanziaria, il deposito, le attività di architettura e ingegneria e alcuni settori manifatturieri – registrano azioni delle imprese statali anche superiori al 10% (grafico 2).
L’Italia era il Paese più moderno e all’avanguardia, su questo fronte.
Nel gennaio 1934, l’IRI deteneva circa il 48,5% del capitale azionario in Italia (James e O’Rourke, 2013, p. 59).
Nel marzo 1934, rilevò anche il capitale delle principali banche (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma) e, alla fine del 1945, controllò 216 società con oltre 135.000 dipendenti. Negli anni 80, ha moltiplicato le sue quote e ha raggiunto un numero di 600.000 dipendenti.
L’IRI è stato protagonista della ricostruzione industriale postbellica, intraprese interventi volti allo sviluppo economico delle regioni meridionali, al potenziamento della rete autostradale, del trasporto in genere e delle telecomunicazioni, al sostegno dell’occupazione.
L’IRI ha inoltre realizzato grandissimi investimenti nel Sud Italia, come la costruzione dell’Italsider di Taranto e quella dell’AlfaSud di Pomigliano d’Arco e di Pratola Serra in Irpinia; altri furono programmati senza mai essere realizzati, come il centro siderurgico di Gioia Tauro.
Per evitare gravi crisi occupazionali, l’IRI venne spesso chiamato in soccorso di aziende private in difficoltà: ne sono esempi i “salvataggi” della Motta e dei Cantieri Navali Rinaldo Piaggio e l’acquisizione di aziende alimentari dalla Montedison; questo portò ad un incremento progressivo di attività e dipendenti dell’Istituto.
Esattamente quello di cui ci sarebbe bisogno oggi in Italia, con un Paese quasi interamente da ricostruire dopo 30 anni di deindustrializzazione feroce e un deficit di dipendenti pubblici di almeno 2 milioni e 500 mila lavoratori rispetto a Paesi come Francia e Inghilterra.
Poi sono arrivati gli anni novanta, con la presidenza Prodi che per obbedire ai diktat della nascente Unione Europea ha portato a:
– la cessione di 29 aziende del gruppo, tra le quali la più grande fu l’Alfa Romeo, privatizzata nel 1986;
– la diminuzione dei dipendenti, grazie alle cessioni e a numerosi prepensionamenti, soprattutto nella siderurgia e nei cantieri navali;
– la liquidazione di Finsider, Italsider e Italstat;
– lo scambio di alcune aziende tra STET e Finmeccanica;
– la tentata vendita della SME al gruppo CIR di Carlo De Benedetti
Le entrate della privatizzazione per l’Italia tra il 1993 e il 2003 sono state stimate a 110 miliardi di euro, l’importo più elevato nell’UE a 15 in termini assoluti e tra i più alti come percentuale del PIL (Clifton et al. 2006). Siamo quelli che più degli altri si sono fregati con le proprie mani.
Oggi le società pubbliche o partecipate, in Italia, sono circa 8.000 e impiegano circa 500.000 persone, ovvero il 2,1% dell’occupazione totale (Istat, 2015).
Nel 2013, il 5% delle 1.523 principali imprese italiane era controllato da un’entità pubblica – centrale o locale. Il loro valore aggiunto aggregato corrisponde al 17% del PIL italiano (1,62 miliardi di euro a prezzi correnti nel 2013).
Numeri ridicoli se paragonati al peso che l’economia di Stato ha in altri Paesi, sia sul fronte della dimensione delle aziende (grafico 3) che su quello dell’impiego (grafico 4).
Insomma mentre molti Paesi, Cina in primis, hanno costruito la loro fortuna puntando su un sempre maggiore intervento dello Stato nell’economia, noi invece ci siamo liberati di un modello vincente unico al mondo, l’IRI, per entrare nell’Unione Europea e adottare l’euro.
Una delle scelte più autolesioniste da quando l’uomo inventò la lotta di classe. Gilberto Trombetta
Mentre il governo giallo-fucsia ci racconta che per aumentare di poco i salari agli insegnanti dovremmo tassare merendine, bibite e biglietti aerei, mentre ci dicono che l’unico modo per affrontare il problema ambientale è concentrarsi sull’aspetto climatico, pagare nuove eco-tasse e comprare auto elettriche, la Banca Centrale Europea riprende le operazioni di QE al ritmo di 20 miliardi di euro al mese.
In Italia mancano milioni di dipendenti pubblici (almeno 2,5 rispetto a Francia e Inghilterra).
In Italia mancano quasi del tutto infrastrutture degne di un Paese civile, in tutto il centro-sud. Non c’è una rete autostradale degna di questo nome, sotto Roma. Della rete ferroviaria, meglio non parlare.
Non ci sono fabbriche e industrie a sufficienza nel Sud Italia.
Non c’è lavoro, nel Sud. E quando c’è, i salari sono indecenti.
Ecco perché ogni anno circa 250.000 giovani sono costretti a scappare dal Sud al Nord del Paese. Questo mentre altrettanti giovani del Nord sono costretti a scappare all’estero.
A volte a fare la fortuna di un Paese straniero, a volte a fare i lavapiatti, ma con la paura e la vergogna di tornare indietro dopo aver fallito. Quando a fallire è stata la classe politica che li ha costretti a fuggire.
Una insopportabile beffa che si aggiunge al danno di spendere milioni di euro per i nostri giovani, per il futuro del Paese, e lasciare poi che vadano a fare le fortune di altri Paesi. Perdendoci doppiamente.
L’aumento della produzione di energie rinnovabili, la riconversione di industrie e fabbriche, la drastica riduzione del trasporto merci via aerea e marittima (due, quelle sì, grandi cause di inquinamento atmosferico), l’aumento esponenziale, di linee e di mezzi, del trasporto pubblico nei grandi centri abitati per combattere davvero i danni dell’inquinamento atmosferico laddove necessario.
Avremmo da fare per le prossime 5 generazioni, almeno. Avremmo gli uomini, le competenze, le materie per costruire un nUovo Paese, finalmente unito. Da Nord a Sud.
Unito con le autostrade, unito con i treni, ma soprattutto unito nei salari e nel benessere.
Ci dicono, da anni, da troppi anni, che tutto questo non sia possibile per mancanza di soldi.
Perché il debito dello Stato è troppo alto. Perché, in fondo, abbiamo per decenni vissuto al di sopra delle nostre possibilità.
Hanno progressivamente cancellato ogni traccia di lotta di classe per sostituirla con una guerra generazionale fratricida. Stano aizzando i giovani contro i loro genitori e i loro nonni.
E lo stanno facendo portando avanti questa assurda narrazione della scarsità. Una scarsità, però, non reale ma auto-indotta.
E così, da 27 anni, guidato dalla peggior classe politica che si sia mai vista, lo Stato italiano ci toglie più di quanto ci dia: si chiama avanzo primario. È lo Stato che da protettore dell’uguaglianza e della popolazione si fa invece boia e strozzino.
Mentre la BCE continua a emettere, dal nulla, 20 miliardi di euro al mese. Venti miliardi di euro. Ogni maledettissimo mese. Più di un miliardo di euro ogni due giorni.
Quella della mancanza di soldi è la scusa più vecchia del mondo. È quella che usano per giustificare il nostro progressivo impoverimento mentre loro aumentano indegnamente la percentuale di ricchezza sul totale.
È una balla che non si regge più sulle gambe. Una balla che era già stata smontata decenni fa. Gilberto Trombetta