Non guardate il dito


Non guardate ai fallimenti bancari, pensate al blocco produttivo occidentale a seguito delle sanzioni alla Russia, pensate agli Arabi, ai Russi, ai Cinesi che nella primavera del 2022 se ne andarono dalle banche inglesi. Pensate alla Truss, che si dimise per questo motivo, non essendoci più, come ai tempi della Thatcher, la City. Pensate alle banche svizzere, che perdevano capitalizzazioni. Pensate ai BRICS, che nel 2022 superavano di PIL il G7. Pensate ai porti cinesi, bloccati per lockdown, pensate ai lockdown occidentali, che hanno provocato un cortocircuito produttivo mondiale. Pensate al PNRR, tutto fondato su digitale e green, i pacchi del XXI secolo per i quali ci siamo indebitati. Pensate ai convegni di banchieri, politici, industriali, consulenti pagati profumatamente sulla transizione digitale ed ecologica, pensate a me, la cui moglie ha un auto di 20 anni fa e non sappiamo cosa sia Musk. Pensate ai colossi high tech americani, che negli ultimi mesi annunciavano migliaia di licenziamenti. Pensate alla confisca delle riserve valutarie russe, alla conseguente non fiducia mondiale, per il quale si aumentarono i tassi di interesse in USA, UK, UE, con la scusa dell’inflazione che era da offerta. Pensate al servizio del debito dei proletari occidentali a seguito di ciò, all’aumento stratosferico delle bollette a seguito di sanzioni. Insomma, pensate all’imbecillità umana e troverete il famoso Occidente.
Pasquale Cicalese

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La geopolitica vaccinale strumento di controllo USA sull’Europa

“La geopolitica vaccinale, con il dominio semi-monopolistico del gruppo Pfizer (amministrato da un “good friend” di Joe Biden, l’ebreo “greco” Albert Bourla) sull’Occidente, al pari del colpo di Stato atlantista in Ucraina nel 2014, si è dimostrata uno strumento assai efficace per riaffermare il controllo nordamericano sull’Europa. E lo stesso avvento al potere in Italia (tra il giubilo della quasi totalità della classe politica e del mondo dell’informazione generalista) dell’ex banchiere di Goldman Sachs Mario Draghi (già in ottimi rapporti con l’avanguardia politico-economica dell’atlantismo, il Gruppo Bilderberg creato da CIA ed MI6) deve necessariamente essere interpretato alla luce di questi fatti. Il suo ruolo è sì quello di “curatore fallimentare” di uno Stato in evidente sfacelo socioeconomico ed ormai privo di qualsiasi autonomia strategica. Tuttavia, allo stesso tempo, questo “curatore” deve fare in modo che le rimanenti risorse italiane vengano (s)vendute in modo corretto; e che tale (s)vendita avvenga in modo controllato e concentrando l’attenzione dell’opinione pubblica sull’invasività dell’evento pandemico con tutte le sue sfaccettature: dal certificato verde al corollario di scienziati (o pseudo tali) che dicono tutto ed il contrario di tutto, fino alla sterilissima polemica novax/provax che evita scientemente di rimarcare il portato geopolitico dell’affermazione di un modello di capitalismo della sorveglianza che si presenta come naturale evoluzione del modello occidentale (quello impiantato in Europa dopo il 1945) e non come instaurazione di un qualcosa ad esso estraneo.

Non sorprende che, dal momento del suo insediamento, il governo Draghi (spinto anche dal ministro ultratlantista della Lega Giancarlo Giorgetti) abbia utilizzato lo strumento del Golden Power ben tre volte per evitare l’acquisizione da parte di gruppi cinesi di aziende italiane che operano in specifici settori. L’ultimo caso è quello della Zhejiang Jingsheng Mechanical, alla quale è stato impedito di acquisire il ramo italiano di Applied Materials, azienda che opera nel settore dei semiconduttori. Nel marzo del 2021, sempre nel settore dei microchip, aveva impedito l’acquisizione del 70% di Lpe da parte del gruppo Shenzen Invenland Holding, mentre ad ottobre il Golden Power era stato esercitato per impedire gli sforzi del colosso agrochimico Syngenta per assumere la guida del gruppo agroalimentare romagnolo Verisem.

Al contempo, il governo italiano non ha palesato nessuna particolare preoccupazione di fronte al tentativo di acquisizione di TIM da parte del fondo nordamericano KKR & Co. Cofondatore del gruppo è l’ebreo statunitense Henry Kravis, ben inserito nel già citato Gruppo Bilderberg (insieme ai proprietari dell’importante gruppo editoriale italiano GEDI). Non c’è da stupirsi se al KKR fa riferimento anche l’Axel Springer Group, che possiede i giornali tedeschi (apertamente anticinesi) Die Welt e Bild. Inoltre, non è da dimenticare il ruolo che all’interno dello stesso KKR ha avuto l’ex generale e direttore della CIA David Petraeus e la partecipazione del gruppo al programma Timber Sycamore di finanziamento e assistenza logistica dei “ribelli” siriani.

Così come non vi è stato nessun particolare sussulto di orgoglio nel momento in cui Fincantieri, fermata da un patto anglo-australiano che ha fatto da apripista al più celebre (ed allargato agli USA) AUKUS, ha perso una commessa di 23 miliardi per la fornitura di fregate Fremm alla Royal Australian Navy.

Il ruolo di Draghi come agente degli interessi atlantisti in Europa è di lunga data. Quando era guida della BCE, il suo compito fu quello di contrastare la potenza della più grande banca centrale europea, la Bundesbank. L’obiettivo, neanche troppo velato, era quello di porre un freno al “problema” del surplus commerciale tedesco che costituiva un fattore indesiderato di non poco rilievo nel progetto di riaffermazione dell’egemonia nordamericana sull’Europa. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’appoggio statunitense alla creazione di una moneta unica europea venne garantito proprio dalla speranza che costringere la Germania a rinunciare al Marco potesse impedirne un eccessivo rafforzamento. Al contrario, Berlino è stata comunque capace di creare un enorme ed integrato blocco manifatturiero che include tutte le regioni industriali vicine ai confini tedeschi. Ha approfittato e tratto vantaggi notevoli dai cambi depressi rispetto all’Euro vigenti nei Paesi dell’est ed ha scaricato su di essi e sull’area mediterranea il costo della moneta unica, favorendo al contempo le esportazioni tedesche.

In questa operazione di controllo della Germania (sia in termini di eccessivo potere all’interno dell’Europa che in termini di aspirazioni alla costruzione di un rapporto privilegiato con la Russia) deve essere inserito anche il recente Trattato del Quirinale tra Francia e Italia sotto la supervisione del Segretario di Stato USA Antony Blinken. A questo proposito è bene sottolineare il fatto che il ruolo di ago della bilancia tra Germania e Francia era stato storicamente riservato alla Gran Bretagna. Nel corso dei secoli, il Regno Unito si è alleato a seconda della propria convenienza con l’una o l’altra sempre al preciso scopo di impedire una reale unificazione continentale: ciò che le potenze talassocratiche (Regno Unito prima e Stati Uniti poi) hanno sempre considerato come una minaccia esistenziale nei confronti dei rispettivi disegni egemonici.

Oggi, dopo la Brexit (nonostante la Gran Bretagna continui ad esercitare il suo nefasto ruolo in diversi teatri, dalla Polonia all’Ucraina), si è voluto attribuire questo compito all’Italia di Mario Draghi, che, assieme alla Francia, eserciterà anche un ruolo di controllo all’interno del Mediterraneo per fare in modo che l’egemone reale possa concentrare i propri sforzi nel contenimento della Cina (sempre più capace di intervenire anche nel “cortile interno” degli USA, come dimostrato dall’interruzione delle relazioni diplomatiche tra Taiwan e Nicaragua). Nell’articolo 2 del Trattato si legge: “le Parti s’impegnano a promuovere le cooperazioni e gli scambi sia tra le proprie forze armate, sia sui materiali di difesa e sulle attrezzature, e a sviluppare sinergie ambiziose sul piano delle capacità e su quello operativo ogni qual volta i loro interessi strategici coincidano. Così facendo, esse contribuiscono a salvaguardare la sicurezza comune europea e rafforzare le capacità dell’Europa della Difesa, operando in tal modo anche per il consolidamento del pilastro europeo della NATO”.

Di fatto, il Trattato del Quirinale altro non è che l’ennesima biforcazione interna alle strutture di potere dell’atlantismo.”

Da Geopolitica del draghismo, di Daniele Perra.

L’omicidio geopolitico di Alfred Herrhausen

Prima di intraprendere la carriera di banchiere e di entrare nelle grazie del cancelliere Helmut Kohl, Alfred Herrhausen aveva gestito con grande intelligenza la ristrutturazione di Daimler-Benz, alla quale aveva imposto un processo di diversificazione culminato con la trasformazione dell’azienda in un gruppo tecnologico integrato, dotato del know-how necessario ad operare nei settori strategici dell’aerospazio, della difesa, dell’elettronica e della tecnica ferroviaria. È nell’ambito del disegno di Herrhausen che la divisione Mercedes venne progressivamente affiancata dagli altri tre comparti fondamentali, costituiti dalla Dasa, rivolta all’aerospazio e alla difesa, dall’AEG, orientata sull’elettronica, e dalla Debis, concentrata sul ramo finanziario. Da buon industriale “prestato” al mondo della finanza, Herrhausen aveva pensato di smaltire i costi della riunificazione mettendo le elevate competenze degli ingegneri e dei lavoratori dell’ex Germania orientale al servizio di un progetto mirante al rilancio economico di tutta l’Europa dell’est. «Entro dieci anni – affermò Herrhausen – la Germania orientale diverrà il complesso tecnologicamente più avanzato d’Europa e il trampolino di lancio economico verso l’est, in modo tale che Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, e anche la Bulgaria svolgano un ruolo essenziale nello sviluppo europeo» (1). In un articolo pubblicato sul quotidiano economico tedesco «Handelsblatt», Herrhausen denunciò che la politica debitoria adottata dalle banche, in particolare quelle statunitensi, nei confronti dei Paesi in difficoltà finanziarie era orientata a peggiorare le loro condizioni, e indicò nella forte riduzione della massa debitoria (fino al 70%) delle nazioni povere, nel taglio dei tassi di interesse a cinque anni e l’allungamento della durata dei presti le misure da adottare per conseguire una robusta ripresa economica dei Paesi in via di sviluppo. Una simile ricetta avrebbe infatti «permesso a queste nazioni di riassegnare alla ripresa economica le risorse finora destinate al servizio del debito» (2). La concezione di Herrhausen traeva ispirazione dall’accordo sul debito raggiunto a Londra del 1953, grazie al quale la Germania occidentale era riuscita a rilanciarsi poderosamente dal punto di vista industriale. Il banchiere considerava gli squilibri debitori un vero e proprio “rischio sistemico”, e propose pertanto di mitigarli attraverso l’istituzione a Varsavia di un organismo modellato sul calco del KFW, l’ente che aveva gestito con grande successo il rilancio dell’economia tedesca disintegrata dalla Seconda Guerra Mondiale. Un organismo alternativo a Banca Mondiale e FMI preposto all’erogazione dei prestiti nell’ambito di un “nuovo Piano Marshall” finalizzato al rilancio dei Paesi est-europei, e non alla loro conversione immediata al sistema neoliberale. Conformemente a questa “nuova Ostpolitik”, il banchiere tedesco premeva per l’abolizione del debito “intra-im¬prese”, un dato contabile che gravava sulle industrie ex comuniste (nel 1994 raggiunse i 200 miliardi di marchi) grazie al quale Banca Mondiale e FMI tenevano in pugno i Paesi dell’Europa orientale. Il presidente della Deutsche Bank arrivò persino a sottolineare che il rilancio economico dello spazio ex sovietico e la sua integrazione con l’assetto produttivo dell’Europa occidentale erano nell’interesse della Germania, che per realizzare tutto ciò avrebbe dovuto destinare risorse alla costruzione di linee ferroviarie veloci in grado di assicurare il rapido trasporto di materie prime dalla Russia ai poli industriali tedeschi. Si trattava proprio del tipo di progetto che Gran Bretagna prima e Stati Uniti poi avevano irriducibilmente ostacolato nel corso dei decenni precedenti, come ammesso candidamente dallo stesso Kissinger: «se le due potenze [Germania e Russia] si integrassero economicamente intrecciando rapporti più stretti, si verrebbe a creare il pericolo della loro egemonia» (3). Nella visione profondamente innovativa di Herrhausen, la Germania si sarebbe dovuta trasformare in un ponte fra est ed ovest e in motore della riconversione industriale dell’Europa orientale – della Polonia soprattutto, considerata la nazione chiave della regione. Mentre si prodigava per mettere in pratica i suoi piani, che comportavano l’affrancamento di tutto il “vecchio continente” dalla “tutela” statunitense esercitata sotto il profilo economico da Banca Mondiale e FMI, Herrhausen rivelò di essersi imbattuto in “massicce critiche” formulate soprattutto dal presidente di Citibank Walter Reed, specialmente dopo aver caldeggiato pubblicamente l’applicazione di una moratoria di qualche anno sul debito dell’Europa orientale. Nonostante le forti resistenze con cui era costretto a fare i conti, Herrhausen riuscì comunque ad allargare il campo d’azione di Deutsche Bank assorbendo la Banca d’America e d’Italia, le merchant bank Mdm (portoghese), Albert de Bary (spagnola) e Morgan Grenfell (prestigiosa banca d’investimento londinese). Il potenziamento di quello che si configurava già come il maggior istituto di credito tedesco risultava necessario a costituire un valido e potente polo economico che fungesse da contraltare ai grandi gruppi finanziari anglo-americani, i quali stavano portando avanti una vasta campagna di espansione monetaria mediante la concessione di crediti ad alto tasso di interesse ai Paesi poveri. Dal punto di vista di Washington, il disegno di Herrhausen rappresentava una minaccia particolarmente insidiosa perché metteva in discussione la presa statunitense sui Paesi in via di sviluppo (il presidente messicano Miguel de la Madrid, colpito dalle idee di Herrahusen, lo invitò a Città del Messico nel 1987 per analizzare le sue proposte) da cui dipendeva il mantenimento dell’ordine economico istituito nel periodo reaganiano. «I mercati finanziari e valutari globalizzati oggi sono una questione di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti» (4), dichiarò senza mezzi termini il direttore della CIA William Colby facendo eco al suo collega della CIA William Webster, secondo cui, con la caduta del Muro di Berlino, «gli alleati politici e militari dell’America sono ora [diventati] i suoi rivali economici» (5).L’1 dicembre 1989, un ordigno esplosivo dotato di innesco laser posizionato all’uscita dell’abitazione di Herrhausen di Bad Homburg (ricco sobborgo di Francoforte) fece saltare l’automobile blindata su cui il banchiere era appena salito. La responsabilità venne attribuita al gruppo terroristico di ispirazione comunista Rote Armee Fraktion (RAF), benché la sofisticazione dell’attentato suggerisse di allargare lo spettro delle indagini. Non a caso, i tre membri della “nuova generazione” della vecchia Baader-Meinhof che erano stati arrestati durante le prime indagini risultarono in seguito estranei alla consumazione del fatto. Ancora oggi la giustizia tedesca non è riuscita a individuare i colpevoli. Il colonnello Fletcher Prouty, veterano della CIA che in passato aveva dipinto al procuratore Jim Garrison lo sfondo politico sul quale si era materializzato l’assassinio di John F. Kennedy, rivelò che l’omicidio di Herrhausen era avvenuto «quattro giorni prima che [il banchiere] venisse negli Stati Uniti a pronunciare un discorso che avrebbe potuto cambiare i destini del mondo. Era crollato il Muro di Berlino ed Herrhausen voleva spiegare agli Americani i nuovi orizzonti dell’Europa […]. Herrhausen parlava di una grande Europa unita, senza più le interferenze della Banca Mondiale. Parlava di un progetto di integrazione tra est e ovest europeo. Un’operazione che avrebbe mutato i rapporti internazionali e che è stata freddata sul nascere» (6). Per questo, a detta di Prouty, l’assassinio del presidente della Deutsche Bank rientra nello stesso quadro generale in cui si sono verificati gli omicidi di Enrico Mattei e Aldo Moro.

Giacomo Gabellini

Note

1) Cfr. Engdahl, William, What went wrong with East’s Germany economy?, «Executive Intelligence Review», 2 ottobre 1992.

2) Herrhausen, Alfred, Die zeit ist reif. Schuldenkrise am wendepunkt, «Handelsblatt», 30 giugno 1989.

3) Cfr. Kissinger: «Der western mussß sich an das neue selbstbewußtsein der Deutschen gewöhnen», «Welt am Sonntag», 3 maggio 1992.

4) Cfr. Taino, Danilo, Belzebù sullo yacht, «Corriere della Sera», 10 marzo 1993.

5) Cfr. CIA director Webster targets US allies, «Executive Intelligence Review», 13 ottobre 1989.

6) Cfr. Cipriani, Antonio, Il colonnello Prouty: «Vi spiego chi governa il mondo», «L’Unità», 19 marzo 1992.

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L’opinione pubblica sul Covid-19 viene formata dai fatti o è “terrorizzata” dalla propaganda?

Di Piers Robinson, ricercatore e scrittore su tematiche riguardanti la propaganda e i sistemi di comunicazione, autore di The CNN Effect: The Myth of News, Foreign Policy and Intervention, 2002, e Pockets of resistance: British news media, war and theory in the 2003 invasion of Iraq, 2010.

La censura degli scienziati, i messaggi allarmistici e le calunnie sulla teoria del complotto sono stati usati per rinforzare la narrativa ufficiale sul coronavirus? Possono mai essere giustificate distorsioni come queste?

Uno dei problemi riguardanti la ricerca e la scrittura su tematiche relative alla propaganda è che molta gente crede che sia un qualcosa del tutto estraneo agli Stati democratici.
Ciò che Edward Bernays, considerato da molti come una figura chiave nello sviluppo delle tecniche per la propaganda del ventesimo secolo, disse era che “la manipolazione intelligente e consapevole delle abitudini organizzate e delle opinioni delle masse popolari è un elemento importante nelle società democratiche”
Sebbene attualmente siamo soliti dare a queste tecniche nomi diversi, utilizzando eufemismi come “pubbliche relazioni” o “comunicazione strategica”, è un fatto che le tecniche di manipolazione sono parte integrante delle democrazie liberali contemporanee.
Benché tali attività di persuasione possano comprendere tecniche consensuali, esse pure frequentemente includono modalità meno consensuali, tra cui forme di inganno, incentivazione e coercizione. In quale misura tali metodi di persuasione non consensuali – che è come dire, la propaganda – sono stati usati nel caso del Covid-19? Continua a leggere

Buone vacanze a tutti

“A meno di eventi eccezionali al momento del tutto imprevedibili, Matteo Salvini diventerà prima o poi presidente del Consiglio con una maggioranza di destra, Lega, Fratelli d’Italia e frattaglie di Forza Italia. Non essendoci in campo, né all’orizzonte, neppure l’ombra di un’attendibile opzione alternativa, Salvini può aumentare i suoi consensi pescando in tutti i bacini elettorali: a destra come a sinistra, fra i pro-euro e gli anti-euro, fra la tradizionale Lega secessionista del Lombardo-Veneto che vuole più “autonomia” cioè danè, schei, e la nuova Lega clientelare sudista, fra coloro che desiderano tanti immigrati per abbassare sempre più il costo del lavoro e quelli che vorrebbero invece fermare l’invasione…
Insomma, Salvini è in una botte di ferro, magistratura consentendo e nonostante le contraddizioni del composito blocco sociale che lo sostiene. E questo accade perché può godere di un vitalizio politico infinito, frutto della coglionaggine dei suoi “avversari”, la cosiddetta “opposizione” che è diuturnamente impegnata a fornirgli incredibili assist. I più indefessi attivisti leghisti stanno proprio a “sinistra”, e infatti educatamente, con un sorriso, Salvini sovente li ringrazia mandando “bacioni” a chi lo insulta o lo contesta dandogli del “fascista, nazista, razzista, populista, xenofobo …”. Afferma Marco Travaglio: “Ogni volta che si accosta Salvini a Mussolini gli si fa un favore perché l’unico che avrebbe piacere a essere scambiato per Mussolini è Salvini” (Tagadà, 13 giugno). E, come hanno sommessamente notato anche il sociologo Domenico De Masi e l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli, ogni ONG che forza il blocco e sbarca immigrati in Italia nel tripudio della “sinistra” regala un punto percentuale in più nei sondaggi alla Lega. Per fermare almeno temporaneamente l’avanzata di Salvini non resta ormai che seguire le previsioni meteo e sperare che il maltempo freni le partenze dalle coste africane.
(…) L’immigrazione non è “un’arma di distrazione di massa”, come si sostiene ancora oggi a “sinistra”, di cui si serve Salvini per nascondere la corruzione nel suo partito, per distogliere l’attenzione dai temi economici e dalle inchieste della magistratura sui finanziamenti alla Lega. Non c’è più bisogno di sotterfugi. Ormai il popolo italiano si è assuefatto all’illegalità, anzi ognuno nel suo piccolo ci sguazza, ha imparato a convivere con la corruzione, con le varie mafie, o con quelle che pudicamente vengono declassate a lobby; non gli importa nulla se i partiti si finanziano con rubli o dollari. Con la fame di lavoro e di salario che c’è, il popolo italiano non sta neppure a sottilizzare se il lavoro creato con fondi pubblici è utile al Paese o no. L’illegalità, la corruzione e le mafie sono il principale motore di sviluppo del Paese. L’avventura di Virginia Raggi a Roma dimostra che inimicandosi le mafie la macchina municipale stenta a funzionare, s’inceppa, fra boicottaggi, piccole e grandi truffe ai danni dell’amministrazione, bandi che vanno deserti , l’esercito che presidia qualche sito della monnezza e la stampa tutta di proprietà delle lobby che spinge per far tornare in Comune i cari vecchi partiti da sempre loro complici. Gli scandali che colpiscono la Lega, dove le varie lobby hanno già spostato i loro uomini, non scalfiscono minimamente la sua lenta, ma inesorabile avanzata nei sondaggi.
L’immigrazione, assieme al lavoro e al welfare, è da tempo, volenti o nolenti, il tema dei temi, non solo in Italia. Le tre materie sono fra loro strettamente collegate. Non sono venute per caso le vittorie del repubblicano Trump negli USA o di Farage (Brexit Party) in Gran Bretagna che, al contrario della “sinistra” che a ogni latitudine vuole accogliere tutti i migranti, promettevano di proteggere la manodopera autoctona. Interessante il caso della Danimarca dove il 5 giugno scorso si è votato per il rinnovo del Parlamento. Un risultato sorprendente, in controtendenza: i cosiddetti “populisti” (Partito del Popolo Danese) perdono la metà dei voti. Vincono i socialdemocratici che in campagna elettorale promettono però “una linea meno permissiva sui migranti”. La vincitrice Mette Frederiksen dichiara: “Al primo posto rimetteremo il welfare, il clima, l’educazione, i bambini, il futuro”; in netto contrasto con le ragioni fondative dell’Europa di Maastricht nata invece per adeguare il capitalismo europeo a quello USA, innanzitutto con il ridimensionamento o l’abolizione del welfare.
Questo rovesciamento della rappresentanza dei ceti sociali – la destra che difende gli interessi dei lavoratori autoctoni (ad esempio Marine Le Pen in Francia), mentre tutta la sinistra (partiti, centri sociali e troika sindacale) è allineata sulle posizioni di mafie e lobby, ne sposa le esigenze di manodopera schiavile a basso costo partecipando attivamente in vario modo alla deportazione dall’Africa – non è una novità delle ultime tornate elettorali.
(…) Se, invece, si pensa che il fenomeno migrazioni merita complessivamente un giudizio negativo, se si ritiene che la globalizzazione capitalista non è irreversibile, che le migrazioni non sono inarrestabili, che da questi fenomeni c’è chi ci guadagna, ma la stragrande maggioranza delle popolazioni ne esce sconfitta, più povera, allora si aprono praterie politiche sconfinate, territori inesplorati soprattutto per una sinistra che volesse collocarsi a sinistra. Si prenda ad esempio il Mezzogiorno d’Italia, da sempre terra di emigranti, dove oggi si assiste a una fuga di massa soprattutto dei suoi giovani: “Così radicale, estesa, imponente la fuga da poter essere considerata la terza ondata migratoria dopo quella dei primi del ‘900 verso le Americhe, del secondo dopoguerra verso la Germania e Milano del miracolo economico o Torino di mamma FIAT (…) Non più solo cervelli in fuga, la cui formazione è comunque costata 30 miliardi di euro alle casse pubbliche, ma anche camerieri in fuga, dentisti in fuga, tubisti, saldatori, operai generici, infermieri, insegnanti delle elementari, autisti, baristi, pizzaioli. Un intero popolo scomparso così folto che gli arrivi degli immigrati, o di coloro che ritornano a casa, non riescono a compensare. Il saldo demografico è paurosamente negativo. 783.511 italiani (che sono parte di quei quasi due milioni di migranti) che hanno avviato le pratiche per i cambi di residenza o nuovi passaporti, di cui 218.771 in possesso della laurea. Dal Sud è fuggita, persa ai radar, la meglio gioventù: mezzo milione di giovani (564.796 per la precisione) di cui 163.645 laureati. (Antonello Caporale, Quasi due milioni via dal Meridione, e mezza Italia sta diventando un deserto, Millennium, novembre 2018). Un Paese che costringe i suoi giovani più preparati a fuggire all’estero per trovare un lavoro e uno stipensio che consenta di vivere, ma che ha bisogno di importare raccoglitori di pomodori a due euro l’ora, è una colonia, un Paese fallito.
Prosegue Caporale, che si basa sul rapporto SviMez dell’agosto 2018: “Oltre il Garigliano i paesi cadono come foglie in autunno. Scompaiono silenziosamente e nell’indifferenza, il conto lo tiene l’ISTAT che stila periodicamente la lista dei morituri: a oggi sono più di 1.650 i Comuni colpiti da un abbandono che s’annuncia definitivo, una morte triste e non più lenta che nei prossimi anni si gonfierà di altre vittime e presto certificheremo la desertificazione. (…) Un quinto dei Comuni italiani è infatti in cammino verso il nulla, un sesto della superficie nazionale resterà disabitata. Mura cadenti, pietre rotolate giù e rovi, solo rovi. Sarà il cimitero la nuova dimensione di questo svuotamento che infragilisce fino a consumarla tutta la colonna vertebrale del Paese, la linea montuosa centrale costellata fino a due decenni fa di villaggi, di comunità, insomma di vita, che invece cederà alla morte per via della fame che l’attanaglia. (…) Né capannoni né vacche, né sviluppo industriale né agricoltura sostenibile. Né strade, né treni. Tolti, tagliati, inutilizzati più di 6.000 km di ferrovia, il treno, da vettore economico e popolare, si è via via trasformato nel costoso ed efficiente connettore dell’Italia ricca, nella direttrice verticale tra le grandi città. Il Frecciarossa è il simbolo di un’Italia che ha scelto non due, ma una sola velocità. Biglietti alti, ma puntualità quasi sempre garantita per quelli che ce la fanno. Poi la seconda classe nel resto del Paese, specialmente al Nord, un reticolo di tratte per i pendolari mal tenute e mal gestite, mentre al Sud – terza classe – semplicemente il nulla”.
Come facilmente si intuisce, le migrazioni sono un furto. Perpetrato da tutti i Nord del mondo ai danni dei Paesi eternamente in via di sviluppo che permarranno sempre tali se rapinati continuamente delle loro risorse naturali, se privati soprattutto delle migliori risorse umane di cui dispongono. Da decenni l’Africa produce i migliori atleti, i migliori calciatori del mondo di statura fisica e tecnica eccezionale, ai quali però lo Stato colonizzatore offre subito la naturalizzazione: la nazionale francese di calcio è diventata campione del mondo di calcio nel 2018 con più della metà dei titolari di origine africana naturalizzati o diventati francesi attraverso lo ius soli. E così nessun Paese africano, nonostante i suoi ottimi calciatori, è mai riuscito a diventare campione del mondo. Non riesco ad immaginare che succederebbe in Africa se ciò accadesse.
Negli anni 60 e 70 dello scorso secolo c’erano i cosiddetti “movimenti terzomondisti” che appoggiavano le lotte anticoloniali di liberazione nazionale dei popoli del cosiddetto “Terzo Mondo”. Erano l’anima della sinistra. Oggi invece nel pantheon della “sinistra” ci sono Carola e le ONG. Oltre che democristiani, ho la certezza che moriremo anche leghisti. Buone vacanze a tutti.”

Da Salvini per sempre, di Cesare Alllara.

Monaco 1938: strategia franco-britannica per contenere l’URSS

“Ottanta anni fa, il 30 settembre 1938, venne firmato uno dei più famosi documenti diplomatici nella storia dell’umanità, l’accordo di Monaco.
In questo articolo scopriremo come dietro la firma di quell’accordo si celava la strategia franco-britannica, consistente nell’indirizzare l’aggressività di Hitler verso l’Unione Sovietica. Risulterà evidente il motivo per cui questa strategia è praticamente ignorata dai testi di storia delle scuole occidentali. Soffermarci a riflettere sugli eventi di 80 anni fa è utile in questo momento in cui contro la Russia si conduce una implacabile guerra psicologica e continuare ad ignorare quanto accaduto nel recente passato è più che un errore.
La domanda che dobbiamo porci è: chi ha liberato Hitler dalle “catene di Versailles”? La risposta risulterà chiara nel proseguo della lettura: la responsabilità fu della Gran Bretagna e della Francia.
Infatti alla fine della prima guerra mondiale furono firmati i trattati di Versailles e di Saint-Germain in base ai quali la Germania, in quanto potenza sconfitta, veniva privata di tutti i suoi territori e delle colonie, la maggior parte delle quali passavano sotto il dominio inglese, e inoltre gli fu impedito di disporre di un esercito regolare, di un’aviazione e di una marina militare.
A partire dal 1924, violando apertamente il trattato di Versailles, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna diedero piena attuazione al piano Dawes col quale, mediante ingenti investimenti di capitale a breve e a lungo termine da parte dei monopoli americani con a capo le famiglie Du Pont, Morgan, Rockefeller, Lamont ecc., si mirava alla ricostruzione dell’industria pesante tedesca e del suo potenziale bellico-industriale. Tutto ciò era addirittura stato messo nero su bianco nel trattato di Locarno del 1925, di cui Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti furono i promotori, e col quale praticamente si dava via libera alla Germania di riarmarsi.
Con l’ascesa di Hitler al potere nei primi anni trenta l’economia tedesca venne reimpostata sul piede di guerra. L’economista Hjalmar Schacht, banchiere e politico liberale, nonché co-fondatore nel 1918 del “Partito Democratico Tedesco”, diventò il collegamento fra l’industria tedesca e gli investitori stranieri. A quel punto, anche il mondo commerciale e bancario britannico cominciò a canalizzare importanti donazioni verso il partito nazista: il 4 gennaio 1932 Montagu Norman, governatore della Banca d’Inghilterra dal 1920 al 1944, incontrò Hitler e il cancelliere tedesco Franz von Papen, per stringere un accordo segreto volto al finanziamento di quel partito. Alla fatidica riunione erano rappresentati anche gli Stati Uniti, coi fratelli John Dulles, futuro segretario di Stato e suo fratello Allen, futuro direttore della CIA.
Le prime tracce della strategia franco-britannica risultarono già evidenti subito dopo che i nazisti salirono al potere in Germania.”

Accordo di Monaco e la strategia franco-britannica contro l’Unione Sovietica di Luca D’Agostini continua qui.

Il capitalismo speculativo anglo-americano contro l’Italia

Un’analisi dei dati di ciò che è accaduto a fine maggio, attraverso il metodo di studio delle operazioni di guerra convenzionali/non convenzionali.
E un monito…

“A febbraio, negli stessi giorni in cui Trump preannunciava la guerra dei dazi, che metteva in fibrillazione più che la Cina, l’intero sistema di scambi commerciali europei con l’ex padre padrone dello Zio Sam, tre colossi della speculazione finanziaria, il Bridgewater, forte dei suoi 160 miliardi di dollari gestiti, il già citato londinese Marshall Wallace forte di 30 miliardi di dollari amministrati e che ha sede nella City di una Inghilterra avviata nella Brexit e che ha tutto l’interesse di una svalutazione dell’Euro onde far pesare meno i costi della sua uscita dall’Unione Europea, ed un terzo super colosso della speculazione finanziaria, l’AQR, con sede negli Stati Uniti, Connecticut e amministrante ben 225 miliardi di dollari premeditavano una formidabile incursione sull’economia europea.
La strategia di attacco di questi tre gruppi era prevedere in una fase di forti attriti tra USA, Cina ed Europa, di puntare con opzioni ribassiste sugli anelli deboli del sistema finanziario della zona Euro, utilizzando una forza totale di capitali gestiti pari a quasi 500 miliardi di dollari, ovvero l’equivalente del finanziamento di dieci guerre del Golfo degli anni ’90.
Esattamente a 75 anni di distanza la potente macchina militare anglo-americana per distogliere truppe e armamenti germanici dal Vallo Atlantico, identificando il fianco sud dell’alleanza italo-germanica come l’anello debole del dispositivo militare italo-tedesco in Europa, lanciava l’operazione in codice Husky, con lo sbarco in Sicilia, determinando la caduta di Mussolini e mettendo in crisi il Patto d’Acciaio da lui stretto nel 1938 con la Germania di Hitler.
Nei primi mesi del 2018, con la stessa ottica, i colossi dell’accumulazione capitalista, fiduciosi della nuova politica aggressiva globale di Trump, preparavano una serie di attacchi speculativi, in coincidenza con le fibrillazioni che avrebbero scosso il sistema politico italiano nella fase post elettorale e i nervosismi dell’intero establishment europeo se da essa fosse scaturito un quadro di instabilità politica in Italia.
Attacchi che come un timer di un ordigno ad alto potenziale che si può riprogrammmare a distanza rinviando lo scoppio, sono stati messi in atto nelle fasi più convulse della trattativa di governo.
(…) Rifacendo i conti di questa opzione ribassista organizzata nel febbraio 2018, (un vero e proprio” Kill him!”, con il dito verso il basso lanciato contro il gladiatore giudicato perdente da parte ripetiamo non della “perfida Merkel”, ma bensì dai colossi speculativi che han sede nelle capitali finanziarie anglo-americane) constatiamo che è di 3 miliardi del Bridgewater, di 600 milioni del Marshall Wallace e di circa un altro miliardo da parte dell’AQR.
Una cifra enorme alla quale si sono aggiunti altri fondi speculativi che han costruito tutti insieme una Spada di Damocle di circa CINQUE MILIARDI DI DOLLARI sull’anello debole del sistema politico e finanziario della fortezza Europa, quello italiano.
Un timer che si è attivato automaticamente grazie agli algoritmi dei programmi che ho precedentemente citati allorchè le fibrillazioni del quadro politico italiano han raggiunto il parossismo. In pochi giorni, per non dire poche ore , il risultati delle puntate ribassiste speculative, che aveva fatto il Bridgewater sin dal febbbraio 2018 , han superato gli obbiettivi che si era prefissato e tutte le 18 banche italiane contro cui il fondo speculativo aveva puntato il dito con tre miliardi di dollari, l’equivalente di una incursione di migliaia di Fortezze Volanti B-17 scagliate sui gangli vitali della economia italiana.
Ecco un parziale elenco delle banche italiane su cui il Bridgewater in testa e poi gli altri fondi hanno lanciato a maggio 2018 l’attacco speculativo organizzato sin dal febbraio 2018: UniCredit, Bper e Banco BPM, Ubi Banca, Azimut, Mediobanca, Atlantia, Intesa SanPaolo.
(…) Ci saranno a breve altri e più forti attacchi speculativi? La risposta dei mercati è SI!
Sono cifre tratte direttamente da Piazza Affari , inconfutabili, ma che non rendono ancora l’idea di come quello che abbiamo assitito è solo l’assaggio del nuovo “sbarco in Sicilia” visto che di quella cifra potenziale di cinque miliardi di dollari, solo una piccolissima parte è stata realmente impiegata ( vi risparmio la trattazione del valore dei titoli trattati in quei giorni e il rapporto tra operazioni di vendita e quelle di acquisto) mentre il resto dopo aver incassato il surplus dell’attacco speculativo, viene tenuto pronto per il prossimo che oggi 5 giugno 2018, l’agenzia di informazioni finanziarie Bloomberg assicura essere in preparazione a breve con un’ altra opzione ribassista.
Le truppe scelte del Capitale han fatto un’ incursione per prendere prigionieri, distruggere importanti installazioni miltari, e creare delle teste di ponte sul mussoliniano bagnasciuga del suolo italico. Il cammino per risalire verso il cuore del birichino vecchio Continente che sognava di camminare con i propri piedi, e riportarlo sotto la tutela a stelle e strisce potrà essere più o meno lungo se a gettare la sponda ad Anzio e a Salerno non ci saranno i partigiani in nome della liberazione del proletariato, ma quella classe trasformista che oggi sta muovendo i suoi primi passi al governo, pronta a vendersi al caro vecchio Zio Sam pur di salvare se stessa, le posizioni acquisite e quella coalizione mafioso-clientelar-razzista serva del capitale più retrivo che mai ha abbandonato le redini del comando in questo Paese.”

Da La Verita’ su chi ha speculato scommettendo contro l’Italia e la falsità delle accuse sulla Germania, di Antonio Camuso.

Uno scontro epocale, un momento pericoloso

Mentre tutti i giornali e le TV nostrane sono impegnati sulle modeste vicende politiche di casa nostra fatte di patteggiamenti di basso livello, veti incrociati, piccoli ricatti, false promesse, a molti sfugge la drammaticità del contesto internazionale dove assistiamo ad uno scontro epocale dai risvolti molto pericolosi.
Le potenze nord-atlantiche, guidate dagli USA, puntano in modo sempre più aggressivo sulla Russia di Putin, rea di non inchinarsi agli interessi imperiali statunitensi come ai bei vecchi tempi di Gorbaciov ed Eltsin. Contemporaneamente cercano di far fronte alla perdurante stagnazione economica occidentale, ed ai continui pericoli di nuove crisi, cercando di tamponare l’ascesa impetuosa di concorrenti politici ed economici, tra cui si distingue la Cina. Questo grande ex-Paese coloniale, un tempo preda privilegiata di imperialismi occidentali e giapponesi, non solo ha da tempo superato gli USA in termini di produzione globale (espressa in termini reali, cioè tenuto conto dei prezzi interni), ma ormai supera gli USA anche in settori tecnologici di avanguardia come quello dei supercomputer e della computazione quantistica.
Dopo le ridicole mai provate accuse lanciate agli hacker russi che avrebbero determinato la sconfitta della povera Clinton, ora la campagna denigratoria è stata lanciata dagli Inglesi, capeggiati dal borioso ministro degli Esteri Boris Johnson. Il cattivo Putin in persona è accusato di aver fatto avvelenare col gas Sarin (perbacco! Lo stesso che sarebbe stato usato anche in Siria!) una ex-spia di basso livello ormai in tranquilla pensione in Inghilterra da otto anni. Questa follia sarebbe stata commessa da Putin giusto alla vigilia delle elezioni presidenziali russe e dei Campionati di Calcio in Russia cui quel Paese teneva moltissimo come rilancio di immagine. Un vero autogol! Peccato che gli Inglesi, pur di fronte alle argomentate richieste russe, non abbiano fornito alcuna prova. Continua a leggere

L’errore principale dell’Occidente

“Viste in Russia, le elezioni sono ben diverse da come le hanno raccontate in Occidente. E’ una barriera culturale quella che impedisce di vedere con più oggettività quanto accade a Mosca: la democrazia russa si esprime nei modi, linguaggi e forme tipiche di una cultura diversa dalla nostra. L’errore principale che l’Occidente commette è quello di voler imporre al popolo russo il proprio punto di vista: dalla caduta del comunismo in poi, l’Occidente, talvolta in maniera inconsapevole, talaltra in maniera deliberata, motivi per urtare la suscettibilità russa non sono mancati e spesso il popolo russo ha sofferto come pesante umiliazione molti passaggi della politica occidentale ad iniziare dall’allargamento dell’ambito di influenza della NATO”. Così all’Adnkronos il presidente del Consiglio regionale del Veneto Roberto Ciambetti, appena rientrato dalla Russia dove ha svolto il ruolo di osservatore per conto dell OSCE commenta le reazioni in Occidente al risultato elettorale.
“Per noi italiani è difficile capire quale sia il sentimento che lega i cittadini alla Grande Madre Russia, immagine che risale all’epoca zarista ma che fu rilanciata dal Comunismo durante la Grande Guerra Patriottica, quella che per noi è la II Guerra Mondiale: me lo ha spiegato l’interprete ricordandomi che il popolo russo ha pagato il prezzo più alto in termini di morti e distruzioni per liberare l’Europa, -spiega Ciambetti- aggiungendomi poi che non c’è stato Piano Marshall per ricostruire il Paese, un Paese rinato con la propria forza e che ha ricostruito la propria identità puntando anche negli ultimi vent’anni a rilanciare il ruolo della Chiesa ortodossa, ruolo importantissimo soprattutto, ma non solo, nelle campagne”.
“Putin ha saputo impersonificare questo processo interpretando il sentimento popolare e il bisogno di vedere riconosciuta l’anima e la ‘grandeur’ russa, che in verità si manifesta non solo nel ricordo di un passato epico, ma anche in un presente altrettanto importante: per le elezioni sono stato oltre che a Mosca anche in Crimea dove il voto a Putin è stato, non casualmente, plebiscitario -sottolinea-. Se l’ISIS ha perso più del 70 per cento del territorio che controllava, se ha visto tagliate le fonti del suo finanziamento, lo si deve anche all’esercito e all’aviazione russa che ha retto il peso della guerra a DAESH.” “Ma non solo: assieme a Cina, India, Brasile e Sud Africa la Russia con Putin ha dato vita al BRICS che chiaramente hanno come collante il risentimento verso l’Occidente, e gli USA in primo luogo, verso le regole e le istituzioni finanziarie globali ad iniziare dal FMI -spiega Ciambetti-. Queste grandi nazioni, che hanno interessi talvolta in conflitto tra loro, condividono l’essere “falchi della sovranità” e la volontà di tenere l’Occidente lontano dai loro affari interni. Non è casuale se USA e Gran Bretagna alimentino accuse contro Mosca o alzino barriere doganali verso la Cina dopo aver imposto sanzioni assurde alla Russia che hanno avuto l’esito da danneggiare la nostra economia: la posta in gioco è alta e in questo gioco i veleni sparsi sulle elezioni rientrano in una strategia di delegittimazione agli occhi dell’opinione pubblica occidentale”.
“Una strategia vissuta a Mosca come una provocazione che ha portato anche i più restii a compattarsi attorno a Putin al momento del voto -continua-. Tuttavia, vista dalla Russia la situazione è molto più delicata di quanto non si possa immaginare o forse di quanto non si capisca in Italia. Faccio solo un esempio: da noi hanno avuta scarsa eco le dichiarazioni del generale russo Sergei Rudskoy, Capo del Dipartimento Operazioni Principali della Stato Maggiore delle Forze Armate della Federazione russa, il quale sabato scorso ha spiegato che “gruppi navali di attacco alleati nel Mediterraneo orientale, Mar Rosso, Golfo Persico si preparano ad un attacco alla Siria. Verrà usato come pretesto un falso attacco chimico”. Un attacco, secondo i Russi, voluto dagli USA a preservare a l’enclave di Ghouta Est, attualmente in buona parte sotto il controllo dell’ISIS, indispensabile per il proseguimento del conflitto siriano e necessaria per impedire che le truppe di Assad, sostenute dai Russi, smantellino la rete jihadista”. “E’ vero, e più volte in queste ore me lo sono ripetuto: in diplomazia e per gli affari esteri non esiste tutto bianco e tutto nero, né si può dividere il mondo in buoni e cattivi pretendendo sempre di stare dalla parte giusta e gli altri tutti dalla parte sbagliata -spiega ancora-. Muoversi per le strade di Mosca come per Simferopoli serve a smontare tanti pregiudizi e aiuta a guardare oltre quella cortina dell’ignoranza che divide parte dell’Occidente dalla Russia e nella quale si possono coltivare tesi assurde. Ad iniziare dalla straordinaria capacità di Putin di influenzare le elezioni negli USA, il referendum Brexit voluto dai conservatori, e persino le elezioni politiche italiane”, conclude Ciambetti.

Davos: dove parlare di “diseguaglianza” è conveniente, ma un hamburger in piatto costa 59 dollari

Neil Clark per rt.com

La località svizzera di Chateaux-d’Oex è nota per le sue mongolfiere. La località svizzera di Davos è conosciuta per l’aria fritta. O almeno per una settimana all’anno, quando alcuni dei più grandi chiacchieroni del mondo si incontrano per discutere di questioni “significative”.
Quest’anno, la cosa interessante e di tendenza circa la quale esprimere preoccupazione per il World Economic Forum è (stata) la “disuguaglianza”. Ok, yes? Tutti sembravano d’accordo sul fatto che bisognava fare qualcosa per restringere lo “sconcertante” divario tra ricchi e poveri – per ripetere la frase usata dal Primo Ministro liberale hipster canadese Justin Trudeau, l’uomo con quei graziosi calzini gialli e viola.
Il presidente francese Emmanuel Macron, che ci è stato detto essere stato salutato come una “rockstar”, ha dichiarato: “Nel processo globale, il capitalismo è diventato un capitalismo di superstar, la diffusione del valore (a quelli più in basso della scala) non è più equa.”
Ma le soluzioni che avrebbero effettivamente ridotto la disuguaglianza erano meno imminenti. Mi ha ricordato le espressioni annuali di “preoccupazione” quando gli aumenti delle tariffe dei treni al di sopra dell’inflazione  sono annunciati in Gran Bretagna, il Paese con le tariffe più alte in Europa. I politici che sostengono il governo dicono che “questo è deludente” – e indovinate un po’ – l’anno prossimo le tariffe saliranno di nuovo. Nessuno vuole essere citato per dire che sono favorevoli al fatto che l’82% della ricchezza è goduto dall’1% più ricco, ma allo stesso tempo non sono disposti a prendere i provvedimenti che renderebbero ciò impossibile.
Questo l’estratto dal discorso del Primo Ministro britannico Theresa May: “Dobbiamo fare di più per aiutare la nostra gente nella mutevole economia globale, per ricostruire la loro fiducia nella tecnologia come motore del progresso e garantire che nessuno rimanga indietro mentre facciamo il prossimo salto in avanti… Dobbiamo ricordare che i rischi e le sfide che affrontiamo non superano le opportunità. E nel cercare di aggiornare le regole per affrontare le sfide di oggi, non dobbiamo perdere quelle di domani”.
Qualcuno sa capire di cosa stesse effettivamente parlando la May? C’era verbosità in abbondanza nel suo discorso, ma soluzioni pratiche?
È la cosa più facile del mondo affermare che “dobbiamo fare in modo che nessuno resti indietro mentre facciamo il prossimo salto in avanti”, ma farlo è tutta un’altra cosa.
In un certo senso, Davos ci fa rimpiangere i tosti thatcheriani del passato che, almeno, erano onesti riguardo a ciò che speravano di ottenere. Ora abbiamo dei thatcheriani mascherati da “centristi” sdolcinati in una stazione alpina del jet set dove il costo di un hamburger in piatto ha raggiunto i 59 dollari americani e una camera d’albergo oltre i 500 dollari a notte – e ciò non sembra giusto. Continua a leggere

Trump, Syriza & Brexit provano che il voto è solo una piccola parte della battaglia


Di Neil Clark per rt.com

Se il voto cambiasse qualcosa, l’avrebbero abolito. Potrebbe sembrare un po’ scontato ma considerate questi eventi recenti.
Nel gennaio del 2015, il popolo greco, malato e stanco di austerità e di un modello di vita frenetico, ha votato per Syriza, un partito radicale anti-austerità. La coalizione della sinistra, che era stata costituita solo undici anni prima, ha conseguito il 36,3% del voto e 149 dei 300 posti del Parlamento ellenico. Il popolo greco aveva ragionevoli speranze che il suo incubo di austerità finisse. La vittoria di Syriza è stata salutata dai progressisti in tutta Europa.
Ma cosa è successo?
E’ stata applicata dalla “Troika” pressione sulla Grecia per accettare condizioni onerose per un nuovo salvataggio. Syriza si è rivolto alla gente nel giugno 2015 per chiederle direttamente in un referendum nazionale se dovessero accettare i termini.
“Domenica non stiamo semplicemente decidendo di rimanere in Europa, stiamo decidendo di vivere con dignità in Europa”, dichiarò Alexis Tsipras, leader di Syriza. Il popolo greco ebbe doverosamente a concedere a Tsipras il mandato che aveva chiesto e respinse i termini del salvataggio con il 61,3% di ‘No.’
Tuttavia, poco più di due settimane dopo il referendum, Syriza accettò un pacchetto di salvataggio che conteneva tagli più alti delle pensioni e maggiori aumenti di imposta rispetto a quello offerto in precedenza.
Il popolo greco avrebbe potuto starsene comodamente a casa dato che il voto non ha fatto grande differenza.
Molti sostenitori di Donald Trump negli Stati Uniti la pensano senza dubbio allo stesso modo. Continua a leggere

Con l’esempio Manchester ci si doveva dare una spintarella

“E, guarda caso, mentre The Donald si aggira tra sunniti decapitatori di donne, fomentando la grande alleanza di tutti i sunniti decapitatori di donne e di tutto ciò che di non sunnita gli capita sotto la mannaia, perché facciano il favore a Israele di togliergli dai piedi l’Iran sciita che, come il resto degli sciiti, il massimo del terrorismo l’ha praticato con i fuochi d’artificio di capodanno, ecco che a Manchester viene telefatto saltare per aria un ragazzo libico con bomba. 22 ragazzi morti e oltre cento feriti mentre stavano al concerto. Target centrato: concerti, giovani incazzati con i vecchi, Corbyn (Manchester è laburista) e Brexit “con la quale Brexit sarebbe andato a ramengo il prezioso coordinamento europeo dell’intelligence per combattere terrorismo ed estremismi vari”. Effetto collaterale: un po’ di benzina sul sacro fuoco dello scontro di civiltà che ci arruola tutti, seppure al traino e in catene, nelle armate della civiltà superiore. Avete sentito? E’ ripartita la cantilena degli islamici tutti cattivi, da cui quei pochi buoni, se vogliono che non li affidiamo ai roghi salviniani, si decidano finalmente a prendere sincere distanze.
Quale è il collegamento? Beh, visto che al pupazzo giallo chiomato viene fatto proclamare che dobbiamo tutti quanti fare la guerra al terrorismo, a forza di decapitatori sunniti fuori e sorveglianza e militarizzazione totali dentro, sotto la guida di chi dall’11 settembre in qua ci fotte col terrorismo, con l’esempio Manchester ci si doveva dare una spintarella, no? Che vogliamo lasciare tutta l’incombenza ai tagliateste sunniti? Anche stavolta, come ogni volta, il terrorista era noto e seguito da Scotland Yard, Mi5 e Mi6, la più efficiente attrezzatura spionistica del mondo (oltreché, ovviamente, da CIA e Mossad), ma, a dispetto di smartphone connessi anche spenti alla Questura, delle telecamere che ci spiano perfino dai cartelloni pubblicitari e dai nostri frigoriferi (vedi “Report” di lunedì 22 maggio) e nonostante l’andirivieni di Salman Abedi tra Inghilterra e quell’oasi di pace e ordine che è la Libia, guarda un po’ la sfiga, proprio in quei giorni e momenti nessuno se ne curava. Tutti a festeggiare la rinnovata sinergia tra le democrazie d’Occidente e della penisola arabica per farla finita con quei regimi arabi, tirannici e terroristici, che si erano permessi di emancipare le donne, garantire istruzione, sanità, scuola, casa e lavoro, avviarsi a un progresso davvero blasfemo. Inaccettabili dittature, dicono a Riad e al “manifesto”.
Dopodichè si rimedia alla figuraccia, che tanto aveva innervosito la regina al suo Garden Party, figuraccia aggravata dai servizi USA e dal New York Times che ci fanno sapere di essere stati i primi a sapere tutto (noblesse oblige), rastrellando un po’ di presunti radicalizzati e stupefatti parenti. Così, almeno ex post, ci si rivela occhiutissimi e si può ringhiare dell’esistenza di una “rete”. E contro una rete che va fatto? Ma è risaputo: si mettono in strada 5000 soldati. Funzione? Individuare tra le milionate che gli passano sotto il naso agli ingressi del metrò il losco figuro dallo sguardo torvo che sicuramente nello zainetto tiene 5 chili di tritolo con chiodi.
Tutto quello che vado scrivendo odora di stantìo, di deja vu, di già detto. Come se tutti quanti non sapessimo da almeno 16 anni, dall’11 settembre, attraverso Londra, Madrid, Parigi, Bruxelles, Bali, Amman, Monaco, Berlino, che quelli fanno rete. Magari differiamo un tantino su chi è che fa rete…
Invece la cosa da dire, a essere originali quanto il signor de Lapalisse, tanto che nessuno la dice per non sembrare banalotto, è una domanda. Ma visto che queste orrende forze del male, come le stampigliano Bush, Obama e ora Trump, proclamano incessantemente ai quattro venti che ci faranno fare la fine in quanto sacrilego, perverso e infedele Occidente, com’è che se la prendono sempre e solo con coloro che dell’Occidente sono meramente le comparse, i figuranti, le plebi, la massa inerte, più spesso che no le vittime? Com’è che neanche in uno dei mille attentati hanno cercato di sfondare i glutei di un solo bonzo in posizione di qualche eminenza in Occidente? O uno dei meccanismi che lo fanno funzionare. Che so, una banca, l’insegna di una multinazionale, il cuoco di Obama, Lady Gaga che perverte animi e corpi, Hillary o la sua estetista (oltretutto colpevole di inettitudine), Descalzi che intreccia danze con l’infame scita Rouhani, un capoufficio della Roche, un fattucchiere della Monsanto, qualcuno della Lockheed , quella degli F35, mentre beve mohjitos a Bahia, un broker di Wall Street che rifila derivati a poveri arabi…
Non è mai successo. Ah no, una volta è successo. Ad Amman, 9 novembre 2005, insieme ai soliti figuranti di una festa di nozze, saltarono in aria due delegazioni incontratesi in segreto nell’hotel Radisson. Ma quelli erano Palestinesi e Cinesi. E agli Israeliani era stato detto di lasciare l’albergo il giorno prima.”

Da Terrorismo islamico in Occidente: sempre comparse, mai una star, di Fulvio Grimaldi.

In morte di Martin McGuinness

“Erano le cinque della sera e anche in Irlanda a quell’ora si finiva di morire. E iniziava l’inganno dei vivi, di quelli che lo subirono, di quelli che lo inflissero. Erano le cinque della sera tra il 30 e il 31 gennaio 1972 e si era compiuta la mattanza di Derry, quella che poi avremmo chiamato la Domenica di Sangue. Gli U2 ci avrebbero fatto una canzone, Paul Greengrass ci avrebbe fatto un film che avrebbe perpetuato l’inganno scaricando la mattanza ordinata dal governo di Sua Maestà su qualche militare fuori di testa, Ci feci un film anch’io. Anzi, era il momento culminante di un film che avevo iniziato a girare due anni prima e che dei “troubles”, dei guai, come chiamavano la guerra di liberazione nordirlandese,.raccontava ciò che non è mai più stato raccontato. Me lo aveva montato Marco Ferreri, nientemeno. Non c’è più, disperso nei caveau delle polizie nordirlandese, irlandese e di Scotland Yard. che lo confiscarono. La mia copia andò dispersa con il resto dell’archivio di Lotta Continua, quando l’organizzazione fu uccisa dai suoi fondatori.
Alle cinque della sera gli spari del 1° Reggimento Paracadutisti erano finiti. Camminando per i vicoli di Bogside, il cuore del ghetto repubblicano, nazionalista, cattolico, irridentista, come lo volete chiamare, si udivano lamenti e imprecazioni terribili. Ogni casa trasudava il dolore per la perdita di un figlio, un padre, un marito, un fratello, un amico. Da ogni casa usciva l’urlo della verità: 14 esseri umani, inermi e innocenti, massacrati a freddo dai sicari in divisa di chi a Londra aveva ordinato che alle manifestazioni, alle proteste, agli scontri con sassi e molotov, andava posto fine. O questi “bastardi fenians” (antica definizione ingiuriosa della minoranza autoctona) si sarebbero lasciati intimidire, terrorizzare e l’avrebbero smessa di rivendicare parità con i coloni protestanti, unionisti con la Corona, classe dirigente, classe ricca. Ma anche un proletariato e sottoproletariato altrettanto escluso, ma fanatizzato dall’illusione di essere della stessa “razza” dei padroni, nel giro nobile, comunque non quello degli ultimi. Destino tragicomico dei sudditi operai dei signori colonialisti. Avrebbero, i cattolici, rinunciato a chiedere lavoro, case che non fossero “match boxes”, accesso alla pubblica amministrazione, alla sanità, a scuole decenti e non britannizzate, la fine delle sevizie degli “Special B”, il corpo di picchiatori della polizia, e quella degli incursori e piromani unionisti dai quartieri dove sventolava l’Union Jack.
O, se non l’avessero capita, testa dura quella degli irlandesi, in lotta contro il colonizzatore da oltre due secoli, che lo scontro da civili contro le forze d’occupazione si militarizzasse pure. Che tirassero fuori dalle vecchie pagine di storia – ultima insurrezione dell’IRA negli anni ’50 – la fanfaluca dell’Irlanda unita e da sottoterra le vecchie spingarde. Per l’esercito di Sua Maestà sarebbe stata un passeggiata e la simpatia del mondo verso chi brandiva miseria, discriminazione, apartheid, repressione, volontà di riscatto, si sarebbe tramutata in revulsione verso i “terroristi” dell’IRA. Vecchio trucco. Che non funzionò, neanche dopo vent’anni, dato che era la lotta di un popolo. Funzionò solo quando una delle due parti accettò di disarmare. La parte di Martin McGuinness.
Alle cinque della sera stavo davanti a una tazza di tè, accanto a un camino, in una “casa sicura”, nelle parti di Free Derry dove l’esercito di occupazione non osava penetrare. Sullo schermo un TG esibiva un tronfio e arrogante generale, tronfio e arrogante come solo i generali sanno essere, quelli anglosassoni poi… Generale Ford, comandante in capo delle forze britanniche in Nordirlanda, cosa cazzo stai dicendo? Che a ignari e pacifici parà i cecchini dell’IRA avevano sparato dai tetti (neanche un ferito tra i militari) e che i parà a malincuore avevano dovuto difendersi, rispondere ai terroristi? Che pare ci siano alcuni feriti…..
Dopo la mia esperienza di inviato di guerra in Palestina, Guerra dei Sei Giorni del 1967, dove si raccontava di un popolo, qui insediato dalla Bibbia, a rischio di essere gettato in mare da sbrindellate armate arabe, mentre invece il suo esercito, il quarto al mondo, radeva al suolo villaggi con i vivi dentro, pensavo di essermi corazzato rispetto alle verità dei padroni. Ma qui la faccia tosta arrivava al sublime e ti insegnava che di quelle “verità” non devi fidarti mai, che il padrone, il dominatore, il capitalista mente sempre e sempre per la gola. La sua gola di antropofago.”

A Martin si è rotto il cuore, all’Irlanda la speranza. In morte di Martin McGuinness, già comandante dell’IRA, di Fulvio Grimaldi continua qui.

Libia

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Nei primi mesi del 2011, a cent’anni esatti dall’impresa coloniale italiana in Libia, si è consumato un nuovo intervento militare contro il Paese nordafricano. Artefici di quest’attacco piratesco, come è qui documentato con precisione, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, a cui presto si è dovuta accodare anche l’Italia, il più stretto e importante partner economico-commerciale della Libia. Ne è seguito un disastro immane le cui vere ragioni sono state tenute nascoste al pubblico internazionale.
Con molta lentezza, mentre si consumava la tragedia che ha dilaniato l’ex colonia italiana, sono emersi qua e là taluni brandelli di notizie sulle cause che hanno portato all’entrata in guerra della NATO contro Mu’ammar Gheddafi. Ma, come già era avvenuto, i media mainstream hanno continuato a tacere sul disegno e le finalità complessive dell’operazione. Oltre a non reclamare giustizia per gli «uomini di Stato» responsabili di una tale catastrofe sociale e umanitaria.
Il libro di Paolo Sensini rappresenta un contributo imprescindibile per chiunque voglia davvero capire cos’è accaduto in Libia e, più in generale, su ciò che è ormai passato alla storia con il roboante nome di «Primavera Araba». È un racconto avvincente, che ci guida per mano nel labirinto libico e di cui l’autore, che ha completato il quadro pubblicando importanti contributi sulla strategia del caos nel Vicino e Medio Oriente, ci aggiorna con dovizia fino agli ultimissimi eventi e oltre.

Libia. Da colonia italiana a colonia globale
di Paolo Sensini
Jaca Book, 2017, pp. 224, € 16

Cercano di condizionarvi. Cercano di intimidirvi. Non permettetelo

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“Tu popolo, sei esangue, ma ti viene chiesto di donare altro sangue; in un ciclo che sembra non aver mai fine. Perché aumentano la povertà e la criminalità, mentre i giovani non trovano lavoro e sono costretti a emigrare; mentre il debito pubblico, per quanti sforzi si faccia, non cala mai.
Lo scopo finale è chiaro: far implodere gli Stati nazionali e delegare ogni potere a quegli stessi organismi internazionali, magari attraverso la creazione degli Stati Uniti d’Europa dove i singoli popoli non conterebbero più nulla.
I premier che si sono succeduti in Italia negli ultimi anni sono funzionali a questo disegno: Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi.
Confesso: ero pessimista sul futuro dell’Europa. Ma poi, lo scorso giugno, qualcosa è cambiato.
I Britannici hanno detto basta, sebbene avessero in teoria molto da perdere perché la loro economia era tra le migliori al mondo e perché all’interno dell’Unione Europea – oltre a tenere la sterlina – avevano il diritto di sottrarsi a diversi vincoli. Quando c’è stato il referendum le élite hanno cercato di terrorizzarli in ogni modo. Non è servito. I Britannici hanno voluto riprendersi la libertà e preservare i valori fondanti della loro democrazia, della loro identità nazionale e hanno votato per la Brexit.
Anche gli Americani si sono ribellati a un processo economico che ha provocato un continuo impoverimento della classe media e alla rottura del patto sociale con le élite, incapace di autocritica e di discernimento. Anche loro sono stati sottoposti a una campagna martellante da parte dei media e alla minaccia di uno tsunami finanziario, ma non si sono lasciati spaventare e hanno eletto Trump, che era il candidato più temuto dall’establishment transanazionale.
Un’onda si è alzata, portentosa e inaspettata. Un’onda che potrebbe diventare travolgente il 4 dicembre se gli Italiani voteranno no e se gli Austriaci eleggeranno presidente il candidato della destra Hofer, inviando un altro segnale di netta rottura all’establishment di Bruxelles.
Ma come, dirà qualcuno, questa è una riforma che consente all’Italia di cambiare, di diventare più efficiente… Sicuri? quali riforme? E con quali scopi? Renzi vuole pieni poteri per poter realizzare ancor più rapidamente l’agenda delle élite globaliste e, dunque, per spogliare ancor di più l’Italia. E non lasciatevi ingannare dall’Economist che improvvisamente lo abbandona e invita a votare No. L’Economist forse ha capito che il premier è bruciato o forse mette semplicemente le mani avanti, avendo già pronta la soluzione alternativa: un altro governo tecnico. Grazie. Ma abbiamo già dato.
E non lasciatevi ingannare dai titoli terroristici sullo spread che torna a salire e da quelli del Financial Times secondo cui se il referendum venisse bocciato, otto banche fallirebbero; come se ci fosse un nesso casuale tra il dissesto degli istituti e il voto popolare. Se le banche devono fallire, falliranno comunque, statene certi. Questa è propaganda, come quella per il sì che occupa ogni spazio pubblico, soprattutto, martellando senza tregua gli Italiani, con logiche da regime autoritario.
Cercano di condizionarvi. Cercano di intimidirvi. Non permettetelo.
Fate come gli Americani e i Britannici. E votate NO.”

Da Italiani, fate come Britannici e Americani: votate NO, di Marcello Foa.

2 Novembre 1917

2-novembre-1917

“Sono passati 99 anni dalla dichiarazione di sostegno al progetto sionista di una “homeland” ebraica in Palestina rilasciata da sir Arthur James Balfour davanti al governo britannico.
Era il 2 novembre del 1917. Data nefasta per milioni di Palestinesi: da quella dichiarazione e dalle scelte politiche, dagli eventi storici che ne seguirono, verranno espulsi, privati della patria, segregati, imprigionati, torturati, uccisi, a centinaia di migliaia, a milioni.
Una immane tragedia per un Popolo con una Patria, i Palestinesi e la Palestina, che da sempre vi hanno vissuto, generazione dopo generazione, per secoli e secoli.
Una tragedia che non vede all’orizzonte soluzione alcuna…”

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Libia, la grande spartizione

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Petrolio, immense riserve d’acqua, miliardi di fondi sovrani. Il bottino sotto le bombe

«L’Italia valuta positivamente le operazioni aeree avviate oggi dagli Stati Uniti su alcuni obiettivi di DAESH a Sirte. Esse avvengono su richiesta del Governo di Unità Nazionale, a sostegno delle forze fedeli al Governo, nel comune obiettivo di contribuire a ristabilire la pace e la sicurezza in Libia»: questo il comunicato diffuso della Farnesina il 1° agosto.
Alla «pace e sicurezza in Libia» ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma gli stessi che, dopo aver destabilizzato e frantumato con la guerra lo Stato libico, vanno a raccogliere i cocci con la «missione di assistenza internazionale alla Libia». L’idea che hanno traspare attraverso autorevoli voci. Paolo Scaroni, che a capo dell’ENI ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è oggi vicepresidente della Banca Rothschild, ha dichiarato al Corriere della Sera che «occorre finirla con la finzione della Libia», «Paese inventato» dal colonialismo italiano. Si deve «favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi», spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi regionali, eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo. Intanto «ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche», presenti in Tripolitania e Cirenaica.
È la vecchia politica del colonialismo ottocentesco, aggiornata in funzione neocoloniale dalla strategia USA/NATO, che ha demolito interi Stati nazionali (Jugoslavia, Libia) e frazionato altri (Iraq, Siria), per controllare i loro territori e le loro risorse. La Libia possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che ottenevano prima dallo Stato libico. Per di più, eliminando lo Stato nazionale e trattando separatamente con gruppi al potere in Tripolitania e Cirenaica, possono ottenere la privatizzazione delle riserve energetiche statali e quindi il loro diretto controllo.
Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche.
Agli odierni raid aerei USA in Libia partecipano sia cacciabombardieri che decollano da portaerei nel Mediterraneo e probabilmente da basi in Giordania, sia droni Predator armati di missili Hellfire che decollano da Sigonella. Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi «autorizza caso per caso» la partenza di droni armati USA da Sigonella, mentre il ministro degli esteri Gentiloni precisa che «l’utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al Parlamento», assicurando che ciò «non è preludio a un intervento militare» in Libia. Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi – confermano il Telegraph e Le Monde – operano da tempo segretamente in Libia per sostenere «il governo di unità nazionale del premier Sarraj».
Sbarcando prima o poi ufficialmente in Libia con la motivazione di liberarla dalla presenza dell’ISIS, gli USA e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Infine, con la «missione di assistenza alla Libia», gli USA e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti.
Parte dei fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi, venne investita per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana. USA e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – decisero di bloccare «il piano di Gheddafi di creare una moneta africana», in alternativa al dollaro e al franco CFA. Fu Hillary Clinton – documenta il New York Times – a convincere Obama a rompere gli indugi. «Il Presidente firmò un documento segreto, che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino a poco prima classificati come terroristi, mentre il Dipartimento di Stato diretto dalla Clinton li riconosceva come «legittimo governo della Libia». Contemporaneamente la NATO sotto comando USA effettuava l’attacco aeronavale con decine di migliaia di bombe e missili, smantellando lo Stato libico, attaccato allo stesso tempo dall’interno con forze speciali anche del Qatar (grande amico dell’Italia). Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia.
Manlio Dinucci

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Questa retorica in merito alla Brexit non vi ha tremendamente rotto i coglioni?

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Dunque, andando sempre con un certo disordine che con l’ordine sono bravi tutti, il trauma è cominciato quando andando a prendere un caro Negroni venerdì pomeriggio dopo l’ufficio, il barista mi sorprende econfidandomi che era molto preoccupato per la Brexit.
Paro paro quegli anziani che non hanno nulla in banca, figurarsi titoli o btp ttp fff ggg + vari, ma che si deprimono quando le borse sono –quanto orrore in questa espressione – “depresse o sottotono”.
Per paura della crisi faccio diventare il Negroni un Americano, togliendo il gin che potrebbe essere di provenienza britannica, quindi extracomunitaria, quindi nemica, oggigiorno.
Mi dice il mio caro barista che la sera prima Monti – che a suo dire non avrebbe mai ragione quando apre bocca, ma questa volta sì, sì sìsì (e a stento trattiene l’entusiasmo, manco fosse Eszter) – ha detto che l’UE serviva per non farci fare guerra tra noi Stati europei, mentre adesso…
E questa silenziosa sospensione delle parole suona più minacciosa del cristoforesco “Verrà un giorno…”.
E poi mi chiede: “Tu che sei (cosa?)… un po’ mitteleuropeo (sic!), cosa ne pensi di questa Brexit”?
Vorrei ricordargli che Pescara non è Trieste e che più che mitteleuropeo posso essere del Regno delle Due Sicilie – che so terroneuropeo – e che l’unico Ferdinando dal quale posso avere qualche lontana origine è quello di Borbone non di Asburgo, ma più che altro mi preme tranquillizzarlo del fatto che non c’è nessuna guerra imminente con i Britannici, che al massimo ci possono mandare gli amici uligani per qualche partita, ma dopo le botte che hanno preso dai Russi a Marsiglia, non so se usciranno ancora di casa così tranquilli e giulivi. Ma non me ne da il tempo, perché come cerco di parlare del mio non-catastrofismo mi comincia a parlare di tutti gli Italiani che sono lì, che adesso cosa gli succederà, dovranno tornare qui etcetcetc. Fortuna vuole che mi chiami mio padre che si dice preoccupato, non per la Brexit, come me non crede nell’immediatezza degli effetti negli eventi della storia, ma per il mio colesterolo, uscito dalle analisi del sangue. Continua a leggere

NATO/Exit, obiettivo vitale

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Mentre l’attenzione politico-mediatica è concentrata sulla Brexit e su possibili altri scollamenti della UE, la NATO, nella generale disattenzione, accresce la sua presenza e influenza in Europa. Il segretario generale Stoltenberg, preso atto che «il popolo britannico ha deciso di lasciare l’Unione Europea», assicura che «il Regno Unito continuerà a svolgere il suo ruolo dirigente nella NATO». Sottolinea quindi che, di fronte alla crescente instabilità e incertezza, «la NATO è più importante che mai quale base della cooperazione tra gli alleati europei e tra l’Europa e il Nordamerica».
Nel momento in cui la UE si incrina e perde pezzi, per la ribellione di vasti settori popolari danneggiati dalle politiche «comunitarie» e per effetto delle sue stesse rivalità interne, la NATO si pone, in modo più esplicito che mai, quale base di unione tra gli Stati europei. Essi vengono in tal modo agganciati e subordinati ancor più agli Stati Uniti d’America, i quali rafforzano la loro leadership in questa alleanza. Il Summit NATO dei capi di Stato e di governo, che si terrà a Varsavia l’8-9 luglio, è stato preparato da un incontro (13-14 giugno) tra i ministri della difesa, allargato all’Ucraina pur non facendo essa parte ufficialmente della NATO. Nell’incontro è stato deciso di accrescere la «presenza avanzata» nell’Europa orientale, a ridosso della Russia, schierando a rotazione quattro battaglioni multinazionali negli Stati baltici e in Polonia.
Tale schieramento può essere rapidamente rafforzato, come ha dimostrato una esercitazione della «Forza di punta» durante la quale un migliaio di soldati e 400 veicoli militari sono stati trasferiti in quattro giorni dalla Spagna alla Polonia. Per lo stesso fine è stato deciso di accrescere la presenza navale NATO nel Baltico e nel Mar Nero, ai limiti delle acque territoriali russe. Contemporaneamente la NATO proietterà più forze militari, compresi aerei radar Awacs, nel Mediterraneo, in Medioriente e Africa. Nella stessa riunione, i ministri della difesa si sono impegnati ad aumentare nel 2016 di oltre 3 miliardi di dollari la spesa militare NATO (che, stando ai soli bilanci della difesa, ammonta a oltre la metà di quella mondiale), e a continuare ad accrescerla nei prossimi anni. Queste sono le premesse dell’imminente Summit di Varsavia, che si pone tre obiettivi chiave: «rafforzare la deterrenza» (ossia le forze nucleari NATO in Europa); «proiettare stabilità al di là dei confini dell’Alleanza» (ossia proiettare forze militari in Medioriente, Africa e Asia, anche oltre l’Afghanistan); «allargare la cooperazione con la UE» (ossia integrare ancor più le forze europee nella NATO sotto comando USA).
La crisi della UE, emersa con la Brexit, facilita il progetto di Washington: portare la NATO a un livello superiore, creando un blocco militare, politico ed economico (tramite il TTIP) USA-UE, sempre sotto comando USA, contrapposto all’area eurasiatica in ascesa, basata sull’alleanza Russia-Cina. In tale quadro, l’affermazione del premier Renzi al forum di San Pietroburgo, «la parola Guerra Fredda è fuori dalla storia e dalla realtà, UE e Russia tornino ad essere ottimi vicini di casa», è tragicamente grottesca. L’affossamento del gasdotto South Stream Russia-Italia e le sanzioni contro la Russia, ambedue per ordine di Washington, hanno già fatto perdere all’Italia miliardi di euro. E i nuovi contratti firmati a San Pietroburgo possono saltare in qualsiasi momento sul terreno minato della escalation NATO contro la Russia. Alla quale partecipa il governo Renzi che, mentre dichiara la Guerra Fredda fuori dalla realtà, collabora allo schieramento in Italia delle nuove bombe nucleari USA per l’attacco alla Russia.
Manlio Dinucci

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Euro vostro

Preghiera euroscettica.
Da recitare più volte al giorno ponendosi in direzione di Francoforte.

Euro vostro che sei in Banca Centrale, sia maledetto il tuo nome, crolli il tuo regno e sia incrinata la tua volontà come in città così in campagna. Dacci oggi il nostro precariato quotidiano e aumenta i nostri debiti come noi li nascondiamo ai nostri creditori e non ci indurre in rivoluzione ma liberaci da quel Tale.
Amen.

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Come Napoleone 200 anni fa

12742123_10153972546296204_1780401827931378062_n“Ho osservato la storia e ho concluso che tutta questa russofobia è iniziata quando Carlo Magno ha creato l’Impero occidentale 1.200 anni fa, ponendo le basi per il grande scisma religioso del 1054. Carlo Magno creò il suo impero in opposizione alla situazione esistente, quando il centro del mondo civilizzato era Bisanzio.
La cosa più sconvolgente di cui mi sono reso conto era che tutto quello che ci hanno insegnato a scuola era sbagliato. Sostenevano che i dissidenti appartenevano alla Chiesa d’Oriente, che si era divisa da Roma. Ora so che quello che è successo è proprio il contrario: è stata la Chiesa cattolica occidentale a dissentire dalla Chiesa universale, mentre la Chiesa d’Oriente è rimasta ed è ancora ortodossa.
Al fine di spostare la colpa da se stessi, i teologi occidentali di quel tempo lanciarono una campagna giustificatoria per dare la colpa alla Chiesa d’Oriente. Hanno usato argomentazioni che sono ritornate ancora e ancora come parte del confronto tra l’Occidente e la Russia. Allora, nel Medioevo, hanno cominciato a riferirsi al mondo greco, o bizantino, come un “territorio di tirannia e barbarie”, al fine di sconfessare la responsabilità dello scisma.
Dopo la caduta di Costantinopoli, quando la civiltà bizantina si è conclusa, e la Russia ne ha preso il posto come Terza Roma, tutte quelle superstizioni, tutte quelle bugie circa la desacralizzazione del mondo ellenico, sono state trasferite automaticamente alla Russia.
È strano vedere le note di viaggiatori occidentali in Russa a partire dal XV secolo: tutti descrivono la Russia negli stessi termini che avevano usato per descrivere Bisanzio. Questa critica artefatta è considerevolmente aumentata dopo le riforme di Pietro il Grande e Caterina la Grande, quando la Russia è diventata potente sulla scena politica europea. Ed entro la fine del XVIII secolo, la critica è diventata russofobia.
Nata in Francia sotto Luigi XV, è stata utilizzata per un po’ da Napoleone per giustificare un’animosità verso la Russia, che era un ostacolo alla politica espansionistica della Francia. Il “Testamento di Pietro il Grande” [un documento politico contraffatto, NdT] fu utilizzato da Napoleone come giustificazione per la sua campagna di Russia.
Possiamo confrontare questo caso con i tempi moderni, in cui, al fine di raggiungere i loro obiettivi, gli Americani hanno inventato la menzogna che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa. La russofobia è rimasta in Francia come ideologia politica fino al XIX secolo, quando dopo aver perso la guerra franco-prussiana, la Francia si rese conto che il suo principale nemico non era più la Russia, ma la Germania, diventando alleata della Russia.
Per quanto riguarda l’Inghilterra, la russofobia vi apparve intorno al 1815, quando la Gran Bretagna, alleata con la Russia, sconfisse Napoleone. Una volta che il nemico comune fu sconfitto, l’Inghilterra invertì la rotta e fece della Russia il suo nemico, alimentando la russofobia. Dal 1820, Londra utilizzò un’ideologia anti-russa per mascherare le sue politiche espansionistiche, sia nel Mediterraneo sia in altre regioni – Egitto, India e Cina.
In Germania, la situazione non cambiò fino alla fine del XIX secolo, quando fu creato l’impero tedesco. Non aveva colonie, e non c’era posto per ottenerne, poiché Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo avevano avuto un vantaggio iniziale. Poiché tutte le colonie erano state assegnate senza la Russia, apparve in Germania un movimento politico che cercava una “espansione verso l’Oriente”, vale a dire, le moderne Ucraina e Russia. Questo tentativo fallì durante la Prima Guerra Mondiale, e più tardi, Hitler usò la stessa ideologia.
Non è un caso che gli storici tedeschi siano stati all’origine di quello che è conosciuto come “revisionismo”, la tendenza a sottovalutare il contributo dell’URSS alla vittoria sul Terzo Reich, sopravvalutando il contributo degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.
Il terzo tipo di russofobia è americano, ed è iniziato nel 1945. Non appena hanno sconfitto la Germania attraverso iniziative comuni con l’URSS, a costo di milioni di vite sovietiche, hanno disseminato la stessa storia creata dopo la vittoria su Napoleone nel 1815. Gli Stati Uniti hanno invertito la rotta e l’alleato del giorno prima è diventato il loro principale nemico. Così è iniziata la Guerra Fredda.
Gli Americani hanno usato gli stessi argomenti degli Inglesi nel 1815, sostenendo che essi “combattevano contro il comunismo, la tirannia, l’espansionismo”, e i loro argomenti erano ben poco diversi, fatta eccezione per la cosiddetta lotta contro il comunismo. Questa si è rivelata un trucco, perché al crollo dell’Unione Sovietica il confronto tra l’Occidente e la Russia non è terminato.
La storia del XIX secolo si ripete: gli Stati Uniti continua a parlare di una “minaccia” presumibilmente proveniente dalla Russia, al fine di raggiungere i propri obiettivi, promuovere i propri interessi, e perseguire la propria espansione. Oggi si demonizza la Russia in modo da mettere i missili della NATO in Polonia, usando le stesse parole e gli stessi argomenti che usava Napoleone 200 anni fa.”

Da Guy Mettan: le radici della russofobia, intervista all’autore di Russofobia. Mille anni di diffidenza.

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Have a Brexit!

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“Si avvicina così la fatidica data del 23 giugno e l’eventualità del Brexit è più concreta che mai: nonostante i sondaggi segnalino un vantaggio del “Remain” nell’ordine dei dieci punti percentuali (52% vs 43%)*, è ormai assodato che queste rilevazioni servano ad influenzare più che a sondare l’opinione pubblica, come testimoniato dalla clamorosa vittoria del no al referendum greco sulle condizioni della Troika, dato per perdente da quasi tutti i sondaggi pubblicati prima della consultazione.
Chi ovviamente è deciso a scongiurare l’eventualità di un Brexit, con effetti esplosivi sulla tenuta complessiva della UE, è la City di Londra (con la solita stampa annessa, dal Financial Times al The Economist), che si spende per l’integrazione europea sin dai primi decenni del secolo scorso: Goldman Sachs e JP Morgan Chase sono tra i maggiori finanziatori della campagna per il “sì” alla permanenza in Europa (“Goldman Sachs makes large donation to pro-EU campaign” scrive il Financial Times) ed i maggiori nomi della finanza e dell’industria inglese (Shell, BAE Systems, BT, Rio Tinto, etc. etc.) si sono schierate compatte a fianco di David Cameron per restare nella UE (“Big business backs Cameron’s push to keep Britain in the EU. Bosses of about half of 100 largest companies to sign letter of support for In campaign” titola ancora il Financial Times).
Come nel caso del referendum ellenico ( ad ulteriore testimonianza di quanto sia alta la probabilità del Brexit) scatta poi la consueta campagna intimidatoria che pronostica le dieci piaghe d’Egitto nel caso in cui i cittadini votino contro la UE: sterlina in avvitamento, PIL in contrazione, costi annui nell’ordine delle 4.000 sterline per famiglia, mercati chiusi per le esportazioni (ma non esiste il WTO?), etc. etc..
I rischi che le oligarchie finanziarie corrono nel caso che Londra esca dall’Unione Europea sono sinteticamente riassunti nell’articolo apparso il 27 febbraio su The Economist col titolo “The real danger of Brexit. Leaving the EU would hurt Britain—and would also deal a terrible blow to the West”, di cui merita di essere riportato uno stralcio:
“Europe would be poorer without Britain’s voice: more dominated by Germany; and, surely, less liberal, more protectionist and more inward-looking. Europe’s links to America would become more tenuous. Above all, the loss of its biggest military power and most significant foreign-policy actor would seriously weaken the EU in the world. The EU has become an increasingly important part of the West’s foreign and security policy, whether it concerns a nuclear deal with Iran, the threat of Islamist terrorism or the imposition of sanctions against Russia. Without Britain, it would be harder for the EU to pull its global weight—a big loss to the West in a troubled neighbourhood, from Russia through Syria to north Africa. It is little wonder that Russia’s Vladimir Putin is keen on Brexit—and that America’s Barack Obama is not. It would be shortsighted for Eurosceptics to be indifferent to this. A weakened Europe would be unambiguously bad for Britain, whose geography, unlike its politics, is fixed.”
Gli argomenti sono gli stessi già impiegati da William Hague: Londra è il garante della natura atlantica dell’Unione Europea, è la cancelleria che tiene Bruxelles nell’orbita di Washington, è la potenza che ha imposto al resto dei 28 membri le sanzioni all’Iran ed alla Russia (spalleggiata da Angela Dorothea Kasner, alias “Merkel”), è il baluardo degli interessi angloamericani nella UE, intesa in termini geopolitici come la “testa di ponte” di Washington sul continente euroasiatico. Non c’è quindi da meravigliarsi che Barack Obama si spenda pubblicamente contro il Brexit (intervenendo a gamba tesa negli affari di un Paese terzo), a differenza di Vladimir Putin che, in privato, tiferà quasi sicuramente per il Brexit e la sua conseguente implosione della UE.
Già, perché sono basse le probabilità che la City e Wall Street risparmino l’Unione Europea nel caso di un addio inglese: sarebbe troppo grande il rischio la UE si evolva in nuovo “blocco continentale” napoleonico, egemonizzato dalla Germania, oppure, ancor peggio, in quell’Europa “dall’Atlantico agli Urali” preconizzata da Charles De Gaulle, il vero incubo strategico delle potenze marittime anglosassoni. Sarebbe più concreto invece lo scenario di un Brexit seguito a ruota dall’assalto speculativo che infligga il colpo di grazia alla già debilitata eurozona, sancendo così l’implosione dell’Unione Europea: il pericolo di un blocco continentale a guida tedesca sarebbe così scongiurato e si tornerebbe alla tradizionale politica dell’equilibrio tra potenze con cui Londra ha gestito per secoli gli affari europei, magari nella cornice del TTIP per ostacolare lo scivolamento dell’Europa verso est.
Concludendo, il 23 giugno sarà probabilmente la prima tappa dello smantellamento formale della UE (quello sostanziale risale alle restrizioni sui movimenti dei capitali adottate a Cipro nel 2013): sommando altre emergenze, come l’atteso picco migratorio, il rigurgito della Grexit, la riedizione delle elezioni spagnole ed i probabili sconquassi borsistici di accompagnamento, l’estate 2016 si preannuncia la più bollente degli ultimi decenni.”

Da Brexit: tutto finirà là dove tutto è cominciato?, di Federico Dezzani.

*Precisazione importante: l’articolo è stato pubblicato il 21 aprile u.s..


Intervento di Paolo Maddalena, già presidente di sezione presso la Corte dei conti e vice-presidente della Corte Costituzionale, in occasione della manifestazione No TTIP del 7 maggio 2016 a Roma.

Una nuova operazione “Mani pulite”?

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La miseria della politica italiana

Il 17 febbraio del 1992 veniva arrestato Mario Chiesa mentre riceveva delle tangenti presso il Pio Istituto Trivulzio di Milano. Era l’inizio dell’operazione, poi definita “Mani Pulite” condotta da un gruppo di procuratori della Repubblica di Milano, tra cui Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Francesco Saverio Borrelli.
Molti si illusero che fosse un’operazione che avrebbe spazzato via dall’Italia la corruzione e la mala politica. I principali esponenti del vecchio regime (definito la Prima Repubblica) , Andreotti, Craxi, Forlani, furono defenestrati. La Democrazia Cristiana si dileguò. Il Partito Socialista fu ridotto ad un gruppetto. Ma si trattò essenzialmente di un passaggio di consegne ad un nuovo regime (la Seconda Repubblica), probabilmente perché – senza voler togliere nulla alla buona fede di molti giudici – dopo la caduta dell’URSS i vecchi esponenti del regime non erano più utili ai poteri forti nazionali ed internazionali.
Oggi un superstite di quel gruppo di procuratori, Davigo, divenuto presidente dell’Associazione dei Magistrati, rilancia una campagna moralizzatrice. Ed in effetti il nuovo regime, prima dominato a lungo dall’avventuriero Berlusconi, ed oggi da un partito di regime, il PD, non risulta essere migliore del vecchio.
Pesano gli scandali che hanno sfiorate il ministro Maria Elena Boschi, figlia dell’ex -vicepresidente Pier Luigi, oggi indagato, di quella Banca Etruria, commissariata dopo aver ricevuto una serie di favori dal governo, e dopo aver trascinato nel baratro chi le aveva dato fiducia. L’ex-presidente della Banca, Rosi, risulta in affari con la famiglia Renzi ed in ottimi rapporti con il sindaco renziano di Firenze, Nardella. Pesa lo scandalo che ha visto implicata la dimissionaria ministra Federica Guidi, per i favori verso la TOTAL, legata al suo compagno Luca Gemelli, favori che vedono implicata la stessa Boschi, madrina della famigerata legge di “stabilità”. Oggi è indagato il presidente regionale del PD per la Campania, Stefano Graziano, per sospetti appalti truccati che avrebbero addirittura favorito la famiglia camorristica dei Casalesi.
Il governo appare sempre più come l’espressione di un regime che copre gli interessi di una serie di lobbies, come del resto erano anche i precedenti governi Letta e Monti, mentre Berlusconi difendeva evidentemente altre lobbies in parte diverse. Il dato comune è il varo di una serie di leggi tese ad aumentare la precarietà del lavoro e limare salari e pensioni, che hanno colpito soprattutto i giovani, condannati al 40% alla disoccupazione: dai famigerati decreti Fornero, fino al Jobs Act varato da un ministro già re delle cooperative rosse, ormai diventate aziende capitaliste. Il capitalismo, ed in particolare quello italiano, è ben lontano da quegli schemi di comportamento “classici” teorizzati anche da Marx (quando parlava anch’egli della concorrenza), ma si dimostra un coacervo di sordidi interessi e imbrogli per favorire gli “amici”.
Ma lo squallore di questo Governo non è dimostrato solo dalla politica interna. La politica estera renziana è persino peggiore di quella di Berlusconi, che , evidentemente anche per difendere interessi di gruppi a lui vicini, aveva usato il buon senso di intrattenere buoni rapporti con la Russia di Putin, la Bielorussia di Lukascenko e la Libia di Gheddafi. Oggi invece, come soldatini pronti ad obbedire a tutti gli ordini che ci vengono da Washington e dalla UE, imponiamo disastrose (per noi) sanzioni alla Russia, imponiamo sanzioni durissime ad un paese già martirizzato da bande terroriste come la Siria (di cui eravamo il principale partner economico europeo), provocando impressionati ondate di profughi. Poi scattano ipocrite lamentele sulla sorte dei “migranti” ed addirittura si aderisce al pazzesco piano della Merkel che, per fronteggiare il ricatto dalla Turchia, che minaccia di destabilizzare l’Europa con nuove ondate di profughi, approva la corresponsione di 6 miliardi di euro al criminale Erdogan, che li utilizzerà per alimentare il terrorismo in Siria, Iraq e Libia.
Nuove ondate di migranti arrivano anche da quest’ultimo disgraziato paese che abbiamo destabilizzato aderendo nel 2011 al piano franco-statunitense di bombardamenti. Diamo atto a Renzi, preoccupato per la sua stessa sopravvivenza politica, di aver finora resistito alle pressioni degli USA che ci chiedono un intervento armato a difesa del nuovo governo a trazione islamica imposto dalla cosiddetta “comunità internazionale” a Tripoli (mai votato dai Libici) e basato su alcune frazioni dei Fratelli Musulmani locali. Ma le ultime notizie sembrano confermare che questa resistenza sta per finire, anche perché gli USA, la Gran Bretagna, ed i loro alleati, come la Turchia ed il Qatar non vogliono permettere il rafforzamento del parlamento “laico” di Tobruk (l’unico legale e votato dai Libici) e dal suo esercito, guidato dal generale Haftar, che, pur con tutti i suoi limiti, ha comunque ottenuto grandi progressi in Cirenaica liberando Derna dai miliziani dello Stato Islamico e Bengasi dai jihadisti di Ansar al Sharia.
Politica interna ed estera convergono verso una visione dell’Italia come di uno Stato vassallo degli USA, della NATO e della UE, in continua stagnazione e dove la classe politica si limita a difendere modesti interessi localistici, talvolta anche legati a vere organizzazioni criminali.
Vincenzo Brandi

Afghanistan, il mercato fiorente di oppio ed eroina

COVER_afghanistan“Perché ci riguarda ciò che accade così lontano in una terra da decenni martoriata da guerre come quella afgana? Leggi, ascolti, ti indigni, va bene, ma tutto ciò ha una ricaduta concreta su di noi: il ritorno dell’eroina”. Parto dalle parole conclusive di Enrico Piovesana, giornalista e autore di “Afghanistan 2001-2016: la nuova guerra dell’oppio” pubblicato da Arianna Editrice, per introdurre l’incontro/confronto ospitato al CostArena di Bologna.
Tra il 2014 e il 2015, il consumo di eroina nel Vecchio continente è raddoppiato, soprattutto tra gli adolescenti. Secondo i più recenti dati resi pubblici dal CNR, l’Italia è seconda soltanto alla Gran Bretagna, in Europa, in termini di consumo. Un dato che, da solo, dovrebbe spingerci a ritroso nella via che porta la droga in Europa, attraverso quella rotta balcanica che fino a qualche anno fa era abbandonata, e ancora indietro attraverso i Paesi mediorientali per approdare in Afghanistan.
Enrico Piovesana ha iniziato a frequentare la regione di Helmand nel 2003 e ci è tornato regolarmente fino al 2013, in teoria doveva occuparsi prevalentemente di temi umanitari per Emergency, tuttavia qualcosa si è evoluto in corso d’opera: “Quando ti trovi a lavorare nella zona capitale mondiale dell’oppio, tutti ne hanno a che fare ed è vissuta come una cosa normale“.
La gente della zona ha ripreso a coltivare l’oppio dopo la guerra del 2001 (precedentemente un editto del Mullah Omar ne aveva vietato la coltivazione) e oggi si susseguono operazioni NATO, presente nell’area con contingenti prevalentemente statunitensi, britannici e canadesi, che vanno a sequestrare ampie quantità di oppio da contadini. ”Vengono colpiti soprattutto – spiega Piovesana – quelli che non hanno pagato la ‘decima’ al Governo. Ciò accade, solitamente, per due ragioni: c’è chi non ha soldi per pagarla e chi si trova a vivere in zone controllate dai Talebani e quindi è a loro che va la tassa“. Il risultato è un clima di guerriglia costante per il controllo economico della produzione dell’area.
In questa battaglia per il potere politico-economico sono molti gli attori in gioco: il governo, l’ex presidente Karzai, i potenti locali, i vari contingenti internazionali, i clan con le loro milizie private, i Talebani, la DEA e le altre agenzie anti-droga. “Il punto assurdo – commenta Piovesana – è che almeno i trafficanti andrebbero colpiti, invece si lascia tutto com’è e chi perde è la povera gente. Un esempio su tutti: il fratello dell’ex presidente Karzai è legato al mondo del narcotraffico, tutti lo sanno, ma è troppo potente per essere colpito. Un’inchiesta del 2009 del New York Times ha denunciato il fatto che Karzai, come altri narcotrafficanti legati al mondo afgano, era a libro paga della CIA.”
Non si tratta poi di un caso isolato, anche i documenti resi pubblici da Wikileaks raccontano una storia simile: in Afghanistan, il mercato dell’oppio e dell’eroina è rinato, fiorente, in questi 15 anni di presenza militare internazionale e proprio le autorità occidentali non hanno agito, se non in casi isolati, per contrastare queste attività criminose.
La priorità è, ancora oggi, quella di assicurare la sicurezza interna al Paese. Un obiettivo cui vengono sacrificati molti altri fattori fondamentali per uno state building efficace: stato sociale, lotta a criminalità e corruzione, diritti umani sono scesi nell’agenda politica lasciando un grande vuoto in cima dove logiche da realpolitik la fanno da padrone. Enrico Piovesana si spinge oltre ipotizzando che la connivenza tra le forze USA e il business di oppio ed eroina non sia determinato da un semplice laissez-faire, ma sia ormai frutto di una vera e propria strategia consapevole orchestrata dalla CIA. ”Anche nei mercati dove andavo per incontrare contadini e mercanti, ricorda il giornalista, nessuno si stupiva della presenza di un bianco. Erano assolutamente abituati. Anzi, mi raccontavano di come grossi quantitativi venivano portati nelle basi NATO“. Da lì alla Turchia, al Kosovo grazie alla mafia macedone e poi nei mercati europei: questa è la nuova/vecchia via dell’eroina.
Per il giornalista la chiave per comprendere il conflitto e il coinvolgimento dei vari attori è quella storica: “Mi sono documentato e mi sono accorto che siamo di fronte ad un sistema che si ripete dall’Ottocento e la guerra dell’oppio, sistematicamente dal 1947. I casi sono molti, dalla Sicilia a Marsiglia, poi l’Indocina, l’America Centrale. L’Afghanistan è solo l’ultimo caso in cui ci si appoggia a narcotrafficanti per opportunità politica passando dal chiudere un occhio al prendere parte alla gestione del sistema.”
Un sistema oliato ed esportabile, tant’è che le autorità antidroga russe e britanniche hanno già denunciato che l’ISIS ha messo le mani sulla tratta balcanica dell’eroina, un commercio più “sicuro” rispetto a quello del petrolio e una consistente fonte di finanziamento. “L’indignazione non basta, conclude Piovesana, tutto ciò ci tocca da vicino. Alcune statistiche parlano di 100.000 morti all’anno in Europa. Non è un prezzo troppo alto da pagare?”.
Angela Caporale

Fonte

C’è chi dice NO?

unnamed“Trident Juncture interesserà lo spazio aereo e marittimo compreso tra lo Stretto di Gibilterra e il Mediterraneo centrale e i grandi poligoni di guerra di Spagna, Portogallo e Italia. Sotto la supervisione del JFC – Joint Force Command Neaples (JFC), il comando alleato con quartier generale a Lago Patria (Napoli), prenderanno parte alla maxi esercitazione oltre 30.000 militari, 200 velivoli e 50 unità navali di 33 nazioni (i 28 membri NATO più 5 partner internazionali). Ospiti d’eccezione, i manager delle industrie militari di 15 Paesi, onde consentire una “conoscenza più amplia e più profonda tra il settore produttivo e il regime addestrativo dell’Alleanza”, come dichiarato dal Comando NATO di Bruxelles. “Trident Juncture è finalizzata all’addestramento e alla verifica delle capacità dei suoi assetti aerei, terrestri, navali e delle forze speciali, nell’ambito di una forza ad elevata prontezza d’impiego e tecnologicamente avanzata, da utilizzare rapidamente ovunque sia necessario”, spiegano i vertici militari. “L’esercitazione simulerà uno scenario adattato alle nuove minacce, come la cyberwar e la guerra asimmetrica e rappresenterà, inoltre, per gli alleati ed i partner, l’occasione per migliorare l’interoperabilità della NATO in un ambiente complesso ad alta conflittualità”.
All’ultimo vertice dell’Alleanza tenutosi in Galles nel settembre dello scorso anno, è stato approvato il cosiddetto Readiness Action Plan (RAP) che prevede l’implementazione di una serie di strumenti militari per consentire alla NATO di “rispondere velocemente e con fermezza” alle minacce che intende affrontare nell’immediato futuro nell’area compresa tra il Medio Oriente e il Nord Africa e nell’Europa centrale ed orientale, specie alla luce della recente crisi in Ucraina. “Il nuovo Piano di pronto intervento prevede anche un cambiamento della postura delle forze armate alleate di fronte alla minaccia rappresentata dalla guerra ibrida (sovversione, uso dei social network per diffondere foto false, intimidazione con la presenza massiccia di truppe ai confini, disinformazione, propaganda, ecc.), in aggiunta alla guerra convenzionale”, spiegano gli strateghi NATO. Tra le adaption measures più rilevanti adottate in Galles, quella di triplicare il numero dei militari assegnati alla NATO Response Force (NRF), la forza di pronto intervento in grado di essere schierata in tempi rapidissimi in qualsiasi parte del pianeta e che proprio Trident Juncture 2015 dovrà certificarne centri di comando e controllo e capacità di risposta.
(…)
L’esercitazione Trident Juncture 2015 consentirà di sperimentare per la prima volta in scala continentale quella che è destinata a fare da corpo d’élite della NRF, la Very High Readiness Joint Task Force (VJTF), la forza congiunta di pronto intervento opportunamente denominata Spearhead (punta di lancia). Prevista dal Readiness Action Plan, la VJTF sarà pienamente operativa a partire dal prossimo anno e verterà su una brigata di terra di 5.000 militari, supportata da forze aeree e navali speciali e, in caso di crisi maggiori, da due altre brigate con capacità di dispiegamento rapido, fornite a rotazione e su base annuale da alcuni paesi dell’Alleanza. La leadership sarà assunta alternativamente da Germania, Italia, Francia, Gran Bretagna, Polonia e Spagna. “La Spearhead force sarà in grado di essere schierata in meno di 48 ore”, afferma il Comando NATO.”

Da Trident Juncture 2015. Il più grande spettacolo dopo il big bang…, di Antonio Mazzeo.
[I collegamenti inseriti sono nostri]

Russia Today come Roj TV?

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“Tenteranno di farvi chiudere”: incontrando Assange & l’ininterrotta “Guerra contro Russia Today”
di Margarita Simonyan, capo redattore di RT

La scorsa settimana, mentre ero a Londra, sono andata a far visita a Julian Assange presso l’ambasciata ecuadoregna. Abbiamo parlato in modo confidenziale ovviamente, perciò non renderò pubbliche troppe cose, ma diffonderò solo ciò che Julian ha insistito che divulgassi. Prima è troppo tardi.
Assange ha condiviso un illuminante racconto su una stazione televisiva curda che è stata chiusa in Danimarca. La storia, come molte altre – dai cablogrammi diplomatici con commenti non diplomatici a centinaia di crimini di guerra non indagati in Irak – è giunta alla sua attenzione mediante una fuga di notizie.
C’era una volta in Danimarca una rete televisiva curda. Altrettanto felicemente avrebbe potuto essere altrove, ma al canale erano interdetti mercati più adeguati. La stazione, Roj TV, si rivolgeva ai Curdi turchi, e ciò rendeva le autorità turche molto arrabbiate.
Funzionari turchi fecero pressioni sulla Danimarca loro alleata nella NATO affinché chiudesse il canale televisivo con qualche scusa plausibile. Ma la Danimarca era riluttante, dicendo che varie ispezioni non avevano riscontrato alcuna incitazione al terrorismo e non c’erano ragioni per chiuderla. Cose simili non si facevano là; dopotutto, la Danimarca è una democrazia.
La “democrazia” non ha prevalso a lungo. Solo fino al momento in cui il Principe di Danimarca Primo Ministro Rasmussen decideva di diventare Segretario Generale della NATO. Ma la Turchia insorse e bloccò la sua candidatura! Sì, riguardo la televisione curda circa la quale la Danimarca era così ostinata. Allora i pezzi grossi si riunirono e decisero che il canale che rappresentava un faro per una intera nazione non fosse un prezzo alto da pagare per una così importante posizione in una tanto importante organizzazione. E hanno cercato di tirar fuori un po’ di estremismo, dannata democrazia. Ancora non riuscivano a trovare alcuna evidenza di ciò, ma sputarono qualche altra spiacevolezza. Wikileaks possiede un cablo nel quale il Presidente USA Barack Obama stesso sollecita i suoi alleati a pensare di risolvere la questione della televisione curda “creativamente”, in modo tale che le nazioni civilizzate non siano accusate di sopprimere la libertà di parola. E così fecero.
“La stessa cosa è in programma per voi”, mi ha detto Julian. Sfortunatamente, ho pochi dubbi che egli sia nel giusto. Ero appena ritornata da Londra quando la Camera dei Rappresentanti statunitense approvava a grande maggioranza una risoluzione che, tra le altre cose, impegnava i funzionari USA in Europa a “valutare l’influenza politica, economica e culturale dei mezzi di informazione russi e finanziati dalla Russia e a coordinarsi con i governi ospitanti circa le adeguate contromosse.”
In altre parole, gli Stati Uniti spingerebbero l’Europa a sbatterci fuori. E ciò che sta già succedendo. Negli anni scorsi abbiamo assistito a una serie di tendenze meno che gradite. Continua a leggere

La falsità è il ​​segno distintivo del moderno imperialismo statunitense

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“La falsità è allora il ​​segno distintivo del moderno imperialismo statunitense.
L’attuale impero USA è un progetto più subdolo dell’impero britannico – perché almeno allora i Britannici riconoscevano apertamente di avere un impero.
Ma gli Stati Uniti non riconoscono mai la costruzione del proprio impero – non solo ciò, i propagandisti imperiali hanno la faccia tosta di accusare falsamente altri di espansionismo territoriale e di cercare di costruire i loro propri imperi – ad esempio sostenendo che il leader jugoslavo Slobodan Milosevic voleva costruire una “Grande Serbia” o che la Russia ha “invaso” l’Ucraina.
E’ chiaro, da qualsiasi valutazione oggettiva, che l’imperialismo USA è la principale causa di instabilità nel mondo di oggi e lo è da molti anni. La più grave minaccia alla pace globale certamente non era Milosevic, Ahmadinejad, Assad, o uno qualsiasi degli altri “Nuovi Hitler” emersi negli ultimi trenta anni – ma l’aggressore seriale che mette nel mirino i loro Paesi.
Il sorgere dello Stato Islamico (IS) e la crescita di gruppi jihadisti in generale è direttamente causata dalle aspirazioni egemoniche degli Stati Uniti in Medio Oriente – e la loro decisione di colpire i governi secolari, dalla mentalità indipendente come quelli in Irak e Siria, che erano baluardi contro il fondamentalismo islamico.
Mentre in Europa, la sponsorizzazione USA di un “cambio di regime” in Ucraina – al ritmo di 5 miliardi di dollari – e i tentativi di portare il Paese nel suo impero, ha contribuito a causare una crisi umanitaria, in cui più di 2.000 persone hanno perso la vita e oltre 100.000 sono diventate profughi, secondo le Nazioni Unite.
“I nostri Paesi”, allora. Quanto sangue ancora verrà versato nei piani espansionistici di Washington? Quanti Paesi saranno ancora distrutti? E per quanto tempo ancora ci dovremo aspettare che l’esistenza stessa dell’Impero USA venga negata?”

Da “I nostri Paesi” – il piccolo lapsus così rivelatore, di Neil Clark (traduzione nostra).

Un tacchino politicamente corretto e il maccartismo britannico

ThanksgivingPare proprio che, all’agenzia di spionaggio statunitense NSA, abbia preso servizio la reincarnazione di un personaggio proveniente direttamente dalla penna di George Orwell.
Costui ha infatti elaborato un documento di due pagine che l’agenzia ha indirizzato ai propri dipendenti, pochi giorni prima che iniziasse il periodo festivo legato ai festeggiamenti del cosiddetto Thanksgiving Day, specificando loro cinque argomenti, puntualmente dettagliati, circa i quali sarebbero stati “autorizzati” ad interloquire con parenti e amici durante gli incontri conviviali organizzati per l’occasione.
Si tratta chiaramente di un (vano?) tentativo di arginare il disincanto originato dalle recenti rivelazioni dello spifferatore Edward Snowden sulle attività condotte dalla NSA in patria e soprattutto all’estero, ma vale la pena di esaminare brevemente il codice di condotta in questione.
Punto primo. “La missione dell’agenzia è di grande valore per la Nazione”, in quanto essa agisce a sostegno delle forze armate alleate, dei programmi anti-terrorismo e della sicurezza in campo informatico.
Secondo. “La NSA svolge i suoi compiti nella giusta maniera – lecita, rispettosa delle leggi, proteggendo i diritti civili e la riservatezza”. In particolare, essa sorveglia i cittadini statunitensi o gli stranieri, residenti negli USA in maniera permanente, soltanto nel caso di fondato sospetto che l’interessato sia “l’agente di una potenza straniera” o comunque colluso con essa.
Terzo. “La NSA svolge i suoi compiti eccezionalmente bene. Ci sforziamo di essere il meglio che possiamo, poiché ciò è quanto l’America richiede come parte della sua difesa in un mondo pericoloso”. Questo è il motivo per cui l’agenzia obbliga i fornitori di servizi di posta elettronica a rilasciare i dati identificativi di “terroristi e trafficanti di armi”.
Quarto. “Le persone che lavorano per la NSA sono Americani leali e di grandi capacità che si sacrificano per contribuire a proteggere le libertà che tutti amiamo”. In particolare, essi “sono acutamente consapevoli dell’importanza di rispettare il Quarto Emendamento della Costituzione, 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana”.
Quinto, e ultimo. “La NSA è impegnata nell’incrementare la trasparenza, nel dialogo pubblico e nell’accurata implementazione di ogni cambiamento richiesto dai nostri responsabili”, cioé il Presidente e i funzionari anziani dell’amministrazione.
C’è quasi di che sentirsi sollevati, se non fosse che proprio ieri il direttore del Guardian, Alan Rusbridger, è stato ascoltato davanti la commissione speciale istituita dal Parlamento britannico, a seguito della pubblicazione delle informazioni riservate sui programmi di sorveglianza da parte della sua testata.
E, nonostante abbia affermato che solo una piccolissima parte dei documenti forniti da Snowden -26 su 58.000- sia stata resa di dominio pubblico dopo una attenta valutazione, i commissari non hanno risparmiato a Rusbridger l’accusa di aver violato la normativa britannica contro il terrorismo.
Ragion per cui il direttore del Guardian è ora indagato da Scotland Yard, che nei giorni seguenti lo scoppio del Datagate aveva già provveduto a perquisire la sede del quotidiano e a distruggere gli apparati informatici nei quali erano conservati i documenti fatti filtrare dallo spifferatore riparato in Russia.
Federico Roberti

Iraq: la più grande “non-storia” dell’epoca moderna

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Di Neil Clark per rt.com

Un altro giorno e ancora più morte e distruzione nel Paese mediorientale.
L’ultimo atto di violenza ha ucciso almeno 54 persone e ne ha ferite oltre un centinaio. Nel mese di luglio, oltre 1.000 persone sono state uccise e oltre 2.300 ferite.
Probabilmente pensate che stiamo parlando della Siria. Ma non è così. Stiamo parlando dell’Iraq. Il paese che Bush e Tony Blair “liberarono” nel 2003. L’intervento militare occidentale, ci è stato detto, stava per inaugurare una meravigliosa era di democrazia, libertà e diritti umani. Ha dato, invece, il via ad una spaventosa carneficina che dura ormai da dieci anni, con la popolazione irachena che deve sopportare l’incubo a occhi aperti della vita in quello che è diventato uno dei Paesi più pericolosi sulla terra.
Ancor più che nella novella di Sherlock Holmes “Il curioso incidente del cane notturno”, il silenzio di commentatori e politici guerrafondai riguardo lo spargimento di sangue in corso in Iraq è davvero rivelatore.
La stesse figure di spicco in Occidente, che non potevano smettere di scrivere o di parlare di Iraq nel 2002 e a inizio 2003, raccontandoci di quale terribile minaccia per tutti noi fossero le “armi di distruzione di massa” di Saddam, e di come fosse necessario andare in guerra con l’Iraq non solo per disarmare il suo malvagio dittatore, ma per liberare la sua gente, ora tacciono alla luce del perdurante spargimento di sangue e del caos causati dall’illegale invasione. Nella corsa all’invasione del marzo 2003, non si poteva passare su un programma televisivo di notizie in Gran Bretagna o in America senza trovare un neo-con o un “interventista liberale” ossessionato dall’Iraq. Nel precipitarsi alla guerra, questi “umanitaristi” si finsero assai preoccupati per le sofferenze degli iracheni che vivevano sotto la dittatura di Saddam, tuttavia oggi mostrano poca o alcuna preoccupazione per la situazione degli iracheni fatti a pezzi dalle bombe a cadenza regolare, quasi giornaliera. Non riscontriamo appelli da parte dei “soliti noti” per un intervento “umanitario” occidentale atto a fermare la strage in Iraq. Per questi interventisti seriali, l’Iraq post-invasione è diventato la più grande “non-storia” dell’età moderna. D’altro canto, le stesse persone che non potevano smettere di parlare dell’Iraq nel 2002-2003, ora non possono smettere di parlare di Siria, fingendo preoccupazione in merito alla difficile situazione dei siriani, nello stesso modo in cui hanno versato lacrime di coccodrillo sugli iracheni all’inizio del 2003.
È interessante notare che quando si tratta di quantificare le vittime, i politici guerrafondai possono dirci esattamente quante persone sono morte in Siria dal momento che le violenze hanno avuto inizio nel 2011 (e ovviamente per loro, tutti i decessi sono responsabilità esclusiva del Presidente Assad), laddove, allorché si tratta di Iraq e del numero di persone che sono state uccise lì dal marzo 2003, c’è molta più vaghezza. “Non facciamo la conta dei morti di un altro popolo” dichiarò pubblicamente Donald Rumsfeld nel novembre 2003. Gli iracheni uccisi da marzo 2003 (e il conto delle vittime varia da circa 174.000 a ben oltre 1 milione) sono, per la nostra élite politica, “non-persone”. Nel 2013, ci sono solamente morti siriani (e siriani le cui morti possono essere imputate alle forze governative siriane) che contano, non i morti iracheni.
Poiché l’Iraq è considerato una “non-storia” e i nostri capi non ci parlano mai di quella situazione, non è una sorpresa vedere che la percezione del pubblico riguardo le morti è ben al di sotto anche delle stime più basse. Il 66% dei britannici in un sondaggio svolto all’inizio di quest’anno reputa che gli iracheni deceduti dall’invasione del 2003 siano 20.000 o meno. Donald Rumsfeld sarebbe senza dubbio felice di sentirlo.
Se provassero un po’ di vergogna, le persone che hanno distrutto l’Iraq avrebbero dovuto almeno avere la grazia di ritirarsi dalla vita pubblica. Ma neo-cons e imperialisti liberali non provano vergogna o rimorso. Lo stesso mucchio di interventisti ‘umanitari’ e di falchi che ha sollecitato l’invasione dell’Iraq nel 2003 ha trascorso gli ultimi due anni svolgendo propaganda per un attacco alla Siria. Questi maniaci guerrafondai preferirebbero “andare avanti” dall’Iraq e concentrarsi sul prossimo Paese mediorientale nella loro lista. Ma noi non dobbiamo mai “andare avanti” dall’Iraq finché coloro i quali hanno distrutto il Paese non verranno portati sul banco degli imputati. Il caos e lo spargimento di sangue che vediamo oggi in Iraq è una diretta conseguenza delle politiche neo-con destabilizzanti e distruttive di Stati Uniti e Gran Bretagna e tali responsabili del “supremo crimine internazionale” di una guerra di aggressione contro uno Stato sovrano dovranno rispondere dell’enorme quantità di miseria umana che hanno causato.

[Traduzione a cura di L.Salimbeni]