La NATO culturale

Di Federico Roberti

Nel pieno della Guerra Fredda, il governo degli Stati Uniti destinò grandi risorse ad un programma segreto di propaganda culturale rivolto all’Europa occidentale, messo in atto con estrema riservatezza dalla CIA. L’atto fondamentale fu l’istituzione del Congress for Cultural Freedom (Congresso per la libertà della cultura), organizzato dall’agente Michael Josselson tra il 1950 ed il 1967. Al suo culmine, il Congresso aveva uffici in trentacinque Paesi (alcuni extraeuropei) ed a libro paga decine di intellettuali, pubblicava una ventina di prestigiose riviste, organizzava esposizioni artistiche, organizzava conferenze internazionali di alto livello e ricompensava musicisti ed altri artisti con premi e riconoscimenti vari. La sua missione consisteva nel distogliere gli intellettuali europei dall’abbraccio del marxismo, a favore di posizioni più compatibili con l’american way of life, facilitando il conseguimento degli interessi strategici della politica estera statunitense.

I libri di alcuni scrittori europei furono promossi nel mercato editoriale come parte di un esplicito programma anticomunista. Fra questi, in Italia, “Pane e Vino” di Ignazio Silone, il quale registrò così la prima di molte apparizioni sotto l’ala del governo statunitense. A dire il vero, durante il suo esilio svizzero in tempo di guerra, Silone era stato un contatto di Allen Dulles, allora capo dello spionaggio statunitense in Europa e nel dopoguerra ispiratore di Radio Free Europe, altra creazione CIA sotto la maschera del National Committee for a Free Europe; nell’ottobre 1944, Serafino Romualdi, un agente dell’OSS (Office of Strategic Services, il precursore della CIA), fu inviato sul confine franco-svizero con il compito di introdurre clandestinamente Silone in Italia.
Silone, insieme ad Altiero Spinelli e Guido Piovene, rappresentò l’Italia alla conferenza fondativa del Congresso tenutasi a Berlino nel 1950, per la quale Michael Josselson era riuscito ad ottenere un finanziamento di $ 50.000 dalle risorse del Piano Marshall. Essa fu sconfessata pubblicamente da Jean-Paul Sartre ed Albert Camus che, invitati, si rifiutarono di parteciparvi.

Inizialmente, fra i presidenti onorari del Congresso, tutti filosofi rappresentanti di un nascente pensiero euro-atlantico, accanto a Bertrand Russell troviamo Benedetto Croce. Egli, ad ottant’anni di età, era riverito in Italia come padre nobile dell’antifascismo avendo sfidato apertamente Mussolini. Sicuramente, all’epoca dello sbarco alleato in Sicilia, era stato un utile contatto per William Donovan, allora il massimo responsabile dell’intelligence statunitense.

La sezione italiana del Congresso, denominata Associazione italiana per la libertà della cultura, fu istituita da Ignazio Silone alla fine del 1951 e divenne il centro propulsivo, anche e soprattutto sotto il profilo logistico ed economico, di una federazione di circa cento gruppi culturali quali l’Unione goliardica nelle università, il Movimento federalista europeo di Altiero Spinelli, i Centri di Azione democratica, il movimento Comunità di Adriano Olivetti e vari altri.
Essa pubblicò la prestigiosa rivista “Tempo Presente” diretta dallo stesso Silone e da Nicola Chiaromonte, ed altre non meno conosciute come “Il Mondo”, “Il Ponte”, “Il Mulino” e, più tardi, “Nuovi Argomenti”. Nel suo gruppo dirigente, accanto a laici come Adriano Olivetti e Mario Pannunzio, figurava anche Ferruccio Parri, il padre della sinistra indipendente. Poi, in posizione più defilata, uomini politici di estrazione azionista e liberaldemocratica come Ugo La Malfa.
Uno degli uffici del Congresso era stato aperto a Roma nel palazzo Pecci-Blunt, dove Mimì, la padrona di casa, animava uno dei salotti più esclusivi e meglio frequentati della capitale. A due passi dalla storica dimora di palazzo Caetani che, prima di divenire tragicamente celebre per avere visto, sotto le sue finestre, l’ultimo atto del rapimento Moro, vedeva regnare un’altra regina dei salotti, la mecenate statunitense legata agli ambienti del Congresso Marguerite Chapin Caetani. Ella, con la sua rivista “Botteghe oscure”, promosse non pochi grandi nomi della letteratura e poesia italiana del Novecento. Suo genero era, guarda caso, Sir Hubert Howard, ex ufficiale dei servizi segreti alleati specializzato nella guerra psicologica ed in rapporti di fraterna amicizia con il nipote del presidente Roosevelt, quel Kermit Roosevelt che dapprima nell’OSS e poi, reclutato dalla CIA, fu tra i più convinti fautori del programma di guerra psicologica.
Una delle più strette collaboratrici della Caetani era Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto, il cui marito Raimondo Craveri, agente dei servizi segreti partigiani, dopo la Liberazione indicava all’ambasciata statunitense i politici di cui fidarsi. Elena invece selezionava gli uomini di cultura con cui valeva la pena parlare. Nella loro casa si potevano intrecciare le relazioni più cosmopolite, incontrandovi Henry Kissinger così come il futuro presidente FIAT Gianni Agnelli, ma su tutti dominava il magnate della finanza laica italiana, fondatore di Mediobanca, (don) Raffaele Mattioli. Gli Americani si fidavano a tal punto del commendator Mattioli che nel 1944, a guerra evidentemente ancora in corso, avevano già discusso con lui i programmi per la ricostruzione. Oltre a finanziare abbondantemente la cultura, don Raffaele prestò le sue non disinteressate, pur se discrete, attenzioni anche al PCI, con il quale aveva canali aperti già durante il Ventennio.
Ecco, dunque, che in Italia, oltre alla P2 e Gladio, esisteva anche un anticomunismo altrettanto tenace ma illuminato, progressista e persino di sinistra. La rete del Congresso ne costituiva la facciata pubblica o, se si preferisce, presentabile.

Le risorse per la propaganda culturale euro-atlantica furono reperite in modo davvero geniale. Nei primi tempi del Piano Marshall, ciascun Paese beneficiario dei fondi doveva contribuire depositando nella propria banca centrale una somma equivalente al contributo americano. Poi un accordo bilaterale tra il Paese in questione e gli Stati Uniti permetteva che il 5% di tale somma diventasse proprietà statunitense: era proprio questa parte dei “fondi di contropartita” (circa 10 milioni di dollari all’anno su un totale di 200) che furono messi a disposizione della CIA per i suoi progetti speciali.
Così circa $ 200.000 di tali fondi, che già avevano giocato un ruolo cruciale nelle elezioni italiane del 1948, furono destinati a finanziare i costi amministrativi del Congresso nel 1951. La filiale italiana, ad esempio, riceveva mille dollari mensili che venivano versati sul conto di Tristano Codignola, dirigente della casa editrice La Nuova Italia.

La libertà culturale non venne a buon mercato. Nei diciassette anni successivi alla fondazione, la CIA avrebbe pompato nel Congresso ed in progetti collegati ben dieci milioni di dollari. Una caratteristica della strategia di propaganda culturale fu la sistematica organizzazione di una rete di gruppi privati “amici” in un consorzio ufficioso: si trattava di una coalizione di fondazioni filantropiche, imprese e privati che lavorava in stretto collegamento con la CIA per dare a quest’ultima copertura e canali finanziari al fine di sviluppare i suoi programmi segreti in territorio europeo. Nello stesso tempo, l’impressione era che questi “amici” agissero unicamente di propria iniziativa. Mantenendo il loro status di privati, essi apportavano il capitale di rischio per la Guerra Fredda, un po’ quello che fanno da un certo tempo a questa parte le ONG sostenute dall’Occidente in giro per il mondo.

L’ispiratore di questo consorzio fu Allen Dulles, che già nel maggio 1949 aveva diretto appunto la formazione del National Committee for a Free Europe, apparentemente iniziativa di un gruppo di privati cittadini americani, in realtà uno dei più ambiziosi progetti della CIA. “Il Dipartimento di Stato è molto lieto di assistere alla formazione di questo gruppo” annunciò il segretario di Stato Dean Acheson. Questa pubblica benedizione serviva ad occultare le vere origini del Comitato e che operasse sotto il controllo assoluto della CIA, che lo finanziava al 90%. Ironia della sorte, lo scopo specifico per il quale era stato creato, cioè fare propaganda politica, era categoricamente escluso da una clausola dell’atto costitutivo.
Dulles era ben cosciente che il successo del Comitato sarebbe dipeso dalla sua capacità “di apparire come indipendente dal governo e rappresentativo delle spontanee convinzioni di cittadini amanti della libertà”.

Il National Committee poteva vantare un insieme di iscritti di grandissimo rilievo pubblico, uomini d’affari ed avvocati, diplomatici ed amministratori del Piano Marshall, magnati della stampa e registi: da Henry Ford II, presidente della General Motors, alla signora Culp Hobby, direttrice del Moma; da C.D. Jackson della direzione di “Time-Life” a John Hughes, ambasciatore presso la NATO; da Cecil De Mille a Dwight Eisenhower. Tutti costoro erano “al corrente”, ossia appartenevano consapevolmente al club. Il suo organico, già al primo anno, contava più di 400 addetti, il suo bilancio ammontava a quasi due milioni di dollari.
Un bilancio separato di 10 milioni fu riservato alla sola Radio Free Europe, che nel giro di pochi anni avrebbe avuto 29 stazioni di radiodiffusione e trasmesso in 16 lingue diverse, fungendo anche da canale per l’invio di ordini alla rete di informatori presente al di là della Cortina di Ferro.

Il nome della sezione incaricata di reperire fondi per il National Committee era Crusade for Freedom e ne era portavoce un giovane attore di nome Ronald Reagan…

L’uso delle fondazioni filantropiche si rivelò il modo più efficace per far pervenire consistenti somme di denaro ai progetti della CIA, senza mettere in allarme i destinatari sulla loro origine. Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nella fondazioni: durante il periodo 1963-1966, delle 700 donazioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni durante lo stesso periodo nel campo delle attività internazionali.
Si riteneva che le fondazioni prestigiose, quali Ford, Rockfeller e Carnegie, assicurassero “la migliore e più credibile forma di finanziamento occulto. Questa tecnica risultava particolarmente opportuna per le organizzazioni gestite in modo democratico, dato che devono poter rassicurare i propri membri e collaboratori ignari, come pure i critici ostili, di essere in grado di contare su forme di finanziamento privato, autentico e rispettabile – sottolineava uno studio interno della stessa CIA risalente al 1966.
Addirittura, all’interno della Fondazione Ford venne istituita un’unità amministrativa specificamente addetta a curare i rapporti con la CIA, che avrebbe dovuto essere consultata ogni volta che l’agenzia avesse voluto usare la fondazione come copertura o canale finanziario per qualche operazione. Essa era formata da due funzionari e dal presidente della fondazione stessa, John McCloy il quale era già stato segretario alla Difesa e presidente, nell’ordine, della Banca Mondiale, della Chase Manhattan Bank di proprietà della famiglia Rockfeller e del Council on Foreign Relations, nonché legale di fiducia delle Sette Sorelle. Un bel curriculum, non c’è che dire.

Uno dei primi dirigenti della CIA ad appoggiare il Congresso per la libertà della cultura fu Frank Lindsay, veterano dell’OSS che nel 1947 aveva scritto uno dei primi rapporti interni in cui si raccomandava agli Stati Uniti di creare una forza segreta per la Guerra Fredda. Negli anni fra il 1949 ed il 1951, come vicedirettore dell’Office of Policy Coordination (OPC), dipartimento speciale creato all’interno della CIA per le operazioni segrete, Lindsay divenne responsabile dell’allestimento dei gruppi Stay Behind in Europa, meglio conosciuti in Italia come Gladio. Nel 1953 passò alla Fondazione Ford, senza per ciò perdere i suoi stretti contatti con gli ex colleghi dell’intelligence.

Quando, nel 1953, Cecil DeMille accettò di diventare consigliere speciale del governo statunitense per il cinema al Motion Picture Service (MPS), si recò all’ufficio di C.D. Douglas, il quale avrebbe poi scritto di lui: “ E’ completamente dalla nostra parte ed (…) è ben consapevole del potere che i film americani hanno all’estero. Ha una teoria, che condivido pienamente, secondo cui l’uso più efficace dei film americani si ottiene non con il progetto di un’intera pellicola che affronti un determinato problema, ma piuttosto con l’introduzione in un’opera “normale” di un certo dialogo appropriato, di una battuta, un’inflessione della voce, un movimento degli occhi. Mi ha detto che ogni volta che gli darò un tema semplice per un certo Paese o una certa regione, troverà il modo di trattarlo e di introdurlo in un film”.
Il Motion Picture Service, sommerso dai finanziamenti governativi tanto da diventare una vera e propria impresa di produzione cinematografica, dava lavoro a registi-produttori che venivano preventivamente esaminati ed assegnati al lavoro su film che promuovevano gli obiettivi degli Stati Uniti e che avrebbero dovuto raggiungere un pubblico sul quale bisognava agire attraverso il cinema. L’MPS forniva consulenze ad organismi segreti sulle pellicole appropriate per una distribuzione sul mercato internazionale; si occupava, inoltre, della partecipazione statunitense ai vari festival che si svolgevano all’estero e lavorava alacremente per escludere i produttori statunitensi ed i film che non sostenevano la politica estera del Paese.

Il principale gruppo di pressione per sostenere l’idea di un’Europa unita strettamente alleata agli Stati Uniti era il Movimento Europeo, cui facevano capo molte organizzazioni, e che copriva una serie di attività dirette all’integrazione politica, militare, economica e culturale. Guidato da Winston Churchill in Gran Bretagna, Paul Henri Spaak in Belgio ed Altiero Spinelli in Italia, il movimento era attentamente sorvegliato dall’intelligence statunitense e finanziato quasi interamente dalla CIA attraverso una copertura che si chiamava American Committee on United Europe. Braccio culturale del Movimento Europeo era il Centre Européen de la Culture, diretto dallo scrittore Denis de Rougemont. Fu attuato un vasto programma di borse di studio ad associazioni studentesche e giovanili, tra cui la European Youth Campaign, punta di diamante di una propaganda pensata per neutralizzare i movimenti politici di sinistra.
Per quanto poi riguarda quei liberali internazionalisti fautori di un’Europa unita intorno ai propri principi interni, e non conforme agli interessi strategici statunitensi, a Washington essi non erano considerati migliori dei neutralisti, anzi portatori di un’eresia da distruggere.

Nel 1962, la notorietà del Congresso per la libertà della cultura calamitò anche attenzioni tutt’altro che desiderate dai suoi ispiratori.
Durante un programma televisivo della “BBC”, That Was The Week That Was, il Congresso fu oggetto di una penetrante e brillante parodia ideata da Kenneth Tynan. Essa iniziava con la battuta: “E’ ora, le novità della Guerra Fredda nella cultura”. Poi continuava mostrando una mappa rappresentante il blocco culturale sovietico, dove ogni cerchietto indicava una postazione culturale strategica: basi teatrali, centri di produzione cinematografica, compagnie di danza per la produzione di missili “ballettistici” intercontinentali, case editrici che lanciano enormi tirature di classici a milioni di lettori schiavizzati, insomma dovunque si guardasse un massiccio indottrinamento nel suo pieno sviluppo. E si chiedeva: noi, qua in Occidente, abbiamo un’effettiva capacità di risposta?
Sì, era la risposta, c’è il buon vecchio Congresso per la libertà della cultura sostenuto dal denaro americano che ha allestito un certo numero di basi avanzate, in Europa e nel mondo, funzionanti come teste di ponte per rappresaglie culturali. Basi mascherate con nomi in codice, come “Encounter” – la più conosciuta delle riviste patrocinate dal Congresso – che è l’abbreviazione, si ironizzava, di Encounterforce Strategy.
Entrava allora in scena un portavoce del Congresso, con un mazzo di riviste che rappresentavano a suo dire una sorta di NATO culturale, il cui obiettivo era il contenimento culturale, cioè mettere un recinto intorno ai rossi. Con missione storica quella di raggiungere la leadership mondiale dei lettori, succeda quel che succeda, “noi del Congresso sentiamo come nostro dovere tenere le nostre basi in allarme rosso, ventiquattro ore su ventiquattro”.
Una satira mordace ed impeccabilmente documentata, che provocò notti insonni a Michael Josselson, organizzatore del Congresso.

Durante l’estate del 1964, sorse una questione assai preoccupante.
Nel corso di un’inchiesta parlamentare sulle esenzioni fiscali alle fondazioni private, diretta da Wright Patman, si verificò una fuga di notizie che identificava otto di queste come coperture della CIA. Esse sarebbero state nient’altro che buche per lettere cui corrispondeva solo un indirizzo, approntate dalla CIA per ricevere denaro dalla stessa, in modo apparentemente legale. Una volta che i soldi arrivavano, le fondazioni facevano una donazione ad un’altra fondazione largamente conosciuta per le sue legittime attività. Contributi, questi ultimi, che venivano debitamente registrati secondo la normativa fiscale vigente nel settore no profit, sui moduli denominati 990-A. L’operazione si concludeva infine con il versamento del denaro all’organizzazione che la CIA aveva previsto dovesse riceverlo.
Le notizie filtrate dalla commissione Patman aprirono, seppure solo per un breve momento, uno squarcio sulla sala macchine dei finanziamenti segreti. Alcuni giornalisti particolarmente curiosi, ad esempio quelli del settimanale “The Nation”, riuscirono a mettere insieme i pezzi del puzzle, chiedendosi se fosse legittimo che la CIA finanziasse, con questi metodi indiretti, vari congressi e conferenze dedicate alla “libertà culturale” o che qualche importante organo di stampa, sostenuto dall’agenzia, offrisse lauti compensi a scrittori dissidenti dell’Europa orientale.
Sorprendentemente (sorprendentemente?), non un solo giornalista pensò di indagare ulteriormente. La CIA eseguì una severa revisione delle sue tecniche di finanziamento, ma non ritenne opportuno riconsiderare l’uso delle fondazioni private come veicoli per il finanziamento delle operazioni clandestine. Anzi, secondo l’agenzia, la vera lezione da apprendere in seguito allo scandalo suscitato dalla commissione Patman era che la copertura delle fondazioni per erogare i finanziamenti doveva essere usata in maniera più estesa e professionale, innanzitutto sborsando fondi anche per i progetti realizzati sul suolo degli Stati Uniti.
Michael Josselson, dalla fine di quel anno, tentò di proteggere la sua creatura dalle rivelazioni, considerando pure di mutarne il nome, e cercò persino di recidere i legami economici con la CIA sostituendoli in toto con un finanziamento della Fondazione Ford.
Tutto ciò non valse a nulla se non a posticipare un esito ormai segnato. Il 13 maggio 1967 si tenne a Parigi l’assemblea generale del Congresso per la libertà della cultura che ne sancì la sostanziale fine, pur se le attività si trascinarono, stancamente ed in tono assai minore, fino alla fine degli anni settanta.

Era infatti successo che la rivista californiana “Ramparts”, nell’aprile 1967, aveva pubblicato un’inchiesta sulle operazioni segrete della CIA, nonostante una campagna di diffamazione lanciata a suo danno nel momento in cui l’agenzia era venuta a conoscenza del fatto che la rivista era sulle tracce delle sue organizzazioni di copertura. Le scoperte di “Ramparts” furono prontamente rilanciate dalla stampa nazionale e seguite da un’ondata di rivelazioni, facendo emergere le coperture anche al di fuori degli Stati Uniti, a cominciare dal Congresso e le sue riviste.
Già prima delle denunce di “Ramparts”, il senatore Mansfield aveva chiesto un’indagine parlamentare sui finanziamenti clandestini della CIA, alla quale il presidente Lyndon Johnson rispose istituendo una commissione di soli tre membri. La commissione Katzenbach, nella sua relazione conclusiva emessa il 29 marzo 1967, sanzionava ogni agenzia federale che avesse segretamente fornito assistenza o finanziamenti, in modo diretto od indiretto, a qualsiasi organizzazione culturale statale o privata, senza fini di lucro. Il rapporto fissava la data del 31 dicembre 1967 come limite per la conclusione di tutte le operazioni di finanziamento segreto della CIA, dandole così l’opportunità di concedere un certo numero di sostanziose assegnazioni finali (nel caso di Radio Free Europe, questo importo le avrebbe permesso di continuare a trasmettere per altri due anni).
In realtà, come si evince da una circolare interna poi emersa nel 1976, la CIA non vietava le operazioni segrete con organizzazioni commerciali statunitensi né i finanziamenti segreti di organizzazioni internazionali con sede in Paesi stranieri. Molte delle restrizioni adottate in risposta agli eventi del 1967, più che rappresentare un significativo ripensamento dei limiti alle attività segrete dell’intelligence, appaiono piuttosto misure di sicurezza volte ad impedire future rivelazioni pubbliche che potessero mettere a repentaglio delicate operazioni della stessa CIA.

Ne vogliamo riparlare?

N.B.: la fonte principale delle informazioni presentate in questo articolo è il libro “Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale” di Frances Stonor Saunders, pubblicato per la prima volta nel Regno Unito nel 1999 ed in traduzione italiana da Fazi Editore nel 2004 nella collana “Le terre” e nel 2007 in quella “Tascabili saggi”.

Questa è sovranità limitata


“C’è un episodio che bisogna richiamare. Quando nel 1973 capita la guerra del Kippur, Moro rifiuta [di concedere] l’utilizzo delle basi militari della NATO per aiutare Israele. Sostiene la tesi, diventata di tutto il governo italiano, che quella guerra esorbita dall’area della NATO, quindi gli Americani non possono utilizzare le basi che sono nel nostro territorio per svolgere un’azione che è sì di aiuto anche ad un Paese nostro alleato come Israele, ma che deve tener conto che noi abbiamo una politica per il Medio Oriente di pacificazione, tendiamo alla soluzione di quel problema e non possiamo metterci contro i Paesi arabi. Pertanto, il nostro governo ritiene di assumere quella posizione e Kissinger “se la lega al dito”. Moro farà riferimento all’acredine che, a seguito di quel fatto, Kissinger crea. E’ una causa che probabilmente ha giocato.
(…) Non ci soffermiamo qui a parlare di quello che avviene a Portorico quando si riunisce lo stato maggiore atlantico e lasciano Moro fuori dalla porta, proprio nel momento in cui si discute sugli aiuti da dare all’Italia e si finisce col condizionare quegli aiuti. Siamo dopo le elezioni del 1976. E’ bene che guardiate cosa avviene a Portorico. In quel momento Moro viene lasciato fuori, eppure è ancora Presidente del Consiglio italiano; ma lui e Mariano Rumor, che è ministro degli Esteri, vengono lasciati alla porta mentre si discute degli aiuti all’Italia. Se ne escono con un comunicato in cui danno l’incarico al tedesco Helmut Schmidt di esprimere la posizione che era quella della discriminazione: “Se voi mettete al governo i comunisti, non vi daremo gli aiuti”.
Questa è sovranità condizionata, limitata, indiscutibilmente, dopo il suffragio popolare che aveva dato quei risultati e che non permetteva il grande gioco politico, perché i rapporti di forza erano quelli che erano e la politica di Moro era lungimirante. Dunque, il fatto di liberarsi di un personaggio che rappresentava quella politica era una tentazione non solo di Kissinger, anche di altri dirigenti di Stato nei Paesi europei, perché avevano timore di una diffusione della stessa formula di collaborazione in altri Paesi.”

Dall’audizione del senatore Sergio Flamigni, svoltasi il 2 dicembre 2014, nell’ambito della II Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro.
Ora in Rapporto sul caso Moro. Il sequestro di Aldo Moro, Steve Pieczenik e il golpe atlantico quarant’anni dopo, di Sergio Flamigni, 2019, Kaos edizioni, pp. 75-76.

“Una strategia fallita ma che ha lasciato un effetto duraturo”

L’intervento del dott. Guido Salvini, magistrato presso il Tribunale di Milano, presentato al convegno “La rete eversiva di estrema destra in Italia e in Europa (1964-1980)”, svoltosi a Padova l’11 novembre 2016.

“Il quinquennio 1969-1974 rappresenta il periodo cruciale e più sanguinoso, l’apice di quella che è stata chiamata la strategia della tensione: in Italia si verificano ben cinque stragi, un’altra mezza dozzina di stragi almeno, soprattutto su linee ferroviarie, falliscono per motivi tecnici perché l’ordigno non esplode o il convoglio riesce a superare il tratto di binario divelto, vi è il tentativo di colpo di Stato del principe Valerio Borghese seguito da altri progetti che durano fino al 1974, vi è infine un attentato in danno dei Carabinieri quello di Peteano, con tre vittime, del maggio ‘72 caratterizzato, come vedremo, da una propria specificità.
Già l’anno 1969 in Italia anno è denso di avvenimenti politici.
In quel momento il governo è un debole monocolore guidato dall’on. Rumor che si muove in una situazione incandescente per il rinnovo dei più importanti contratti e la mobilitazione quindi di centinaia di migliaia di operai; inizia la protesta studentesca nei licei e nelle università con un anno di ritardo rispetto al 1968 francese. Sono poi in discussione in quella fase politica riforme decisive sul piano strutturale e culturale come lo Statuto dei Lavoratori, l’approvazione del sistema delle Regioni, la legge sul divorzio.
Nixon è presidente gli Stati Uniti e sono gli anni della dottrina Kissinger, quella secondo cui i governi italiani e i partiti politici di centro dovevano respingere ogni ipotesi di accordo e di compromesso con il PCI e le forze di sinistra, scelta facilitata in passato, come ha ricordato anche Aldo Moro nel suo memoriale scritto dalla prigionia, da continui flussi di finanziamenti distribuiti nascostamente dall’amministrazione americana a partiti e organizzazioni di centrodestra talvolta tramite il SID del gen. Miceli. Il 27 febbraio 1969 il presidente della Repubblica americano fa una visita in Italia ed incontra al Quirinale il presidente Saragat. Vi è stata da poco la scissione del PSI e attorno al PSDI, cui Saragat appartiene, si radunano le correnti più determinate in senso filo-atlantico e più contrarie al mantenimento dell’esperienza di centro-sinistra.
Secondo un dossier contenuto negli archivi di Washington e desecretato il Presidente italiano concorda con quello americano sul “pericolo comunista” e afferma che agli occhi degli italiani il PCI si fa passare per un partito rispettabile ma è dedito agli interessi del Cremlino.
Il giorno della visita del presidente Nixon a Roma la città è blindata e scoppiano gravissimi incidenti tra la polizia ed extraparlamentari di sinistra cui seguono nell’Università scontri tra questi ultimi e militanti dell’estrema destra: vi è la prima vittima di quell’anno Domenico Congedo, uno studente anarchico, Congedo che durante un attacco dei fascisti alla facoltà di Magistero precipita da una finestra.
Del resto a livello internazionale la situazione è critica per il blocco occidentale in quanto molti Paesi afro-asiatici sotto la spinta della decolonizzazione entrano nell’orbita dei Paesi socialisti e alcuni passaggi di campo vengono impediti solo attraverso guerre civili o colpi di Stato molto sanguinosi da quello in Indonesia nel 1965 a quello in Cile nel 1973.
Non sembra un caso che la stagione delle stragi si collochi all’interno di questo quadro internazionale e coincida quasi perfettamente con la durata della presidenza Nixon e declini nel 1974 dopo la crisi del Watergate e lo sfaldarsi dei regimi dittatoriali in Europa, la Grecia, la Spagna, il Portogallo con il conseguente venir meno dell’ipotesi di un colpo di Stato anche in Italia che s’ispiri a quelle esperienze.”

Gli anni 1969-1974 in Italia: stragi, golpismo, risposta giudiziaria continua qui.

Chi pensa semplice ha già perso

12033023_10153594940201678_4473867248670549344_n

Lezioni di metodo

“Chi pensa semplice ha già perso: se agisce in buona fede, altrimenti è soltanto strumento di coloro che organizzano, in centri di necessità segreti, le diverse strategie. Alle volte si fanno i nomi di alcuni strateghi, più o meno grandi. Basti pensare a Kissinger, tuttavia conosciuto come singolo individuo (che, a suo tempo, consigliò Nixon), più o meno messo alla pari del finanziere Soros o di altri personaggi similari. Perché chi pensa – o vuol far pensare gli altri – semplice, formula sempre nomi di singoli individui. Kissinger sarebbe ben poco se non fosse la punta di diamante, ma pure il nome rappresentativo, di dati centri strategici, i cui componenti non sono conosciuti; ma nemmeno si conosce la loro esistenza. Quando si mettono nomi, allora salta fuori, ad es., il gruppo Bilderberg o il Club di Roma, che non sono centri strategici e hanno altre finalità.
Gruppi del genere possono certo intrecciarsi con i centri, ma soprattutto quali loro strumenti, solo dotati di maggiore rappresentatività “pubblica”, appunto quella più superficiale e solo necessaria a nascondere ciò che deve restare nei “segreti meandri” delle più autentiche autorità strategiche. Certamente tali gruppi si riuniscono abbastanza spesso, e a queste riunioni partecipano uomini di potere, ma a volte solo rappresentativi per nome e fama più che dotati di poteri propri. Insomma, il loro potere dipende da altri poteri assai più discreti e nascosti. Servono da “specchietto per le allodole”, dove queste sono rappresentate sia da superficiali individui in buona fede, affascinati dalle sembianze (e i paramenti) del potere, sia da altri invece lautamente pagati (non in solo denaro) dai centri strategici (e gruppi di governo e di potere che ne seguono le indicazioni) per distogliere l’attenzione dalle loro effettive mene e indirizzarla verso le “rappresentanze più ufficiali”; le quali, per assolvere tale funzione, devono spesso dare comunque l’impressione di essere “massonerie” attive in gran segreto. Solo che poi, guarda caso, il segreto viene in parte svelato (con distorsioni varie), ma sempre ammantato di misteriosità per affascinare e deviare l’attenzione del “gran pubblico”.
E’ inutile chiedere: allora chi sono questi centri strategici? Se avessero nome e cognome, sarebbero centri del piffero. Nemmeno si può sapere con sicurezza come agiscano a meno di non avere a disposizione dei servizi di intelligence, ben preparati e con buoni addentellati presso gli avversari. Noi, persone comuni, non possiamo sapere, possiamo solo usare il cervello evitando d’essere dei “sempliciotti”. Per capire le strategie è indispensabile prendere atto che i centri ci sono, non sono noti (e nominativi), agiscono dietro le quinte e con manovre tendenti a finalità in genere opposte o comunque assai differenti da quelle realmente perseguite; a meno che, in qualche caso, compiere le mosse più ovvie non sia proprio il modo migliore per trarre in inganno. Bisogna procedere, nell’interpretazione della politica, secondo i principi del sapere indiziario; inoltre formulare ipotesi, perfino quelle che sembrano più strampalate. S’incorrerà in errori, ma precisamente da questi il sapere indiziario trarrà informazioni utili per correzioni molteplici e che consentono – non sempre ma nemmeno raramente – di giungere a conclusioni molto vicine alla realtà. Con aggiustamenti successivi si può arrivare a cogliere il “segreto” o comunque sospettare e prevedere quanto poi verrà in luce.
A questo punto bisogna diffidare dei semplicisti e dei mentitori spudorati e consapevoli che ingannano sulle vere finalità strategiche di questo o quel Paese, di questo o quel gruppo politico o economico, ecc. Oggi, ad es., per quel che riguarda la politica internazionale, si sono andati consolidando due precisi indici dell’imbroglio a cui – per faciloneria o per consapevole menzogna – si va incontro da un bel po’ di tempo in qua. Il primo e principale di questi indici è appunto l’enfasi posta sul settore finanziario che tutto fa, tutto può. Chi comanderebbe sarebbe anzi, più precisamente, il “grande finanziere”; perché nominare esplicitamente il “potente”, colui che sarebbe all’origine di ogni misfatto, è la mania dei semplici o di quei mentitori assoldati per mascherare i reali centri del potere e finanziati per organizzare convegni, manipolare stampa, girare mezzo mondo a fare conferenze, apparire in TV, ecc. E spesso con l’abito del più accanito critico del sistema capitalistico.
L’altro indice è l’attacco alla Germania come il vero cattivo all’opera, come la principale causa di ogni nostra difficoltà. Dimenticando bellamente, o comunque mettendo in sordina, il ruolo degli Stati Uniti. Una variante può essere quella di attaccare, per quanto riguarda il lato statunitense del potere, la presidenza Obama, sostenendo inoltre che ha fallito tutto, e che continua a provocare danni alla “nostra” causa. Indizi secondari sono quelli del can can per l’uscita dall’euro e dalla UE. Intendiamoci bene, l’attacco a Obama o la polemica accesa contro UE ed euro non sono negativi al 100%. L’importante è però l’obiettivo “ultimo”, il quale deve essere l’appoggio a tutto ciò che indebolisce sul serio il prepotere statunitense e favorisce il multipolarismo. Altrimenti, simili critiche destano sospetti. Anche una certa simpatia verso la Russia, sempre con distinguo di vario genere, può essere manifestazione di ambiguità, di retropensieri nebulosi; lascia dubbi perfino il mettere in luce che essa ha adesso l’iniziativa e ha messo in difficoltà gli USA di Obama in Siria.
Il vero punto cruciale è che la UE è puro strumento degli USA (e non soltanto di quelli dell’attuale presidenza, lo è da sempre e lo sarà in futuro); per questo va attaccata. Non ci si deve battere per la semplice uscita da essa; e nemmeno però per una sua “riforma”. Decisiva è invece la ripresa di certe autonomie nazionali, sulla base di una indipendenza dagli USA e di un diverso sistema di contatti internazionali (senza dubbio pure con la Russia) onde mettere in crisi ogni possibile ritorno verso un monocentrismo americano. E nemmeno l’uscita dall’euro è questione centrale; va soprattutto denunciata la BCE come ulteriore organo del predominio statunitense. Vi sembra fondamentale che ogni Paese riconquisti il suo potere di controllo monetario? E l’autonomia politica concreta, l’affrancamento dagli USA (e non solo da quelli di Obama) – implicanti lo scontro assai duro con il Paese più potente al mondo senza semplici rivalse contro la Germania, ecc. – dove vanno a finire per favore? E mi dite come intendete procedere politicamente, non monetariamente, per ottenere un tale risultato di autentica indipendenza e sovranità?
Su problemi del genere balbettate perché in effetti nessuno ha al momento idee chiare in proposito. Allora smettetela di blaterare su misure che semplicemente aggirano il compito primario: affrontare in condizioni assai difficili lo scontro politico con gli USA, avendo la NATO sempre tra i piedi, una miriade di loro basi militari in Europa, i Servizi di tutti i Paesi europei largamente influenzati e controllati da quelli statunitensi. Dibattete questi problemi e non svicolate. Altrimenti, sapremo che siete o del tutto superficiali al limite dell’incoscienza o al servizio di chi ancora comanda oggi nel mondo: i centri strategici americani.”

Da Non dimentichiamo né aggiriamo le questioni centrali, di Gianfranco La Grassa.

Per un debito di gratitudine

CRIMINAL & QUIRINAL

Kissinger premia Napolitano, il suo “comunista preferito”.
L’ex Segretario di Stato consegnerà all’ex Presidente il riconoscimento

Caro Giorgio, ci vediamo a Berlino. Con una e-mail Henry Kissinger ha confermato a Giorgio Napolitano che sarà lui a consegnargli il Premio Kissinger, il prossimo 17 giugno all’American Academy a Berlino. Del resto, non sarebbe stato possibile diversamente, non solo quella è la tradizione del premio: soprattutto, l’uomo che per un quarto di secolo ha rappresentato la personificazione della politica americana all’estero e il suo «comunista preferito» («ex comunista», reagì Napolitano alla battuta), si sentono spesso, il filo è sempre acceso. L’ultima volta che si sono incontrati, per un lungo faccia-a-faccia, fu due anni fa a New York, quando Henry salì a trovare il vecchio amico Giorgio nelle Torri del Waldorf Astoria. Adesso, si rivedranno a Berlino.
Per Napolitano è il secondo riconoscimento in politica estera nel giro di pochi giorni, avendo recentemente accettato la presidenza onoraria dell’ISPI, il più importante e storico think-tank italiano sulle relazioni internazionali. Il Kissinger Prize dal 2007 premia la personalità della politica europea che si sono distinte nei rapporti transatlantici.
Ed è la prima volta che il prestigioso premio, che ha avuto come destinatari tra gli altri Helmut Kohl, George Bush (senior), James Baker e quell’Helmut Schmidt del quale lo stesso Napolitano apprezzò l’analisi fortemente critica della politica tedesca nella crisi dell’eurozona, va a un italiano. Di più: è la prima volta che va a un politico del Sud dell’Europa, a un uomo del Mediterraneo. Napolitano, che lo condividerà con l’ex ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher, è stato designato l’11 marzo scorso «in riconoscimento degli straordinari contributi al consolidamento dell’integrazione e stabilità europea», segno di quanto si abbia consapevolezza anche all’estero del certosino lavoro di tessitura nei rapporti interni ed internazionali e del polso saldo con cui dal Colle si affrontarono, nel 2011 e nel 2013, due crisi politiche italiane che avrebbero potuto minare con la stabilità dell’eurozona anche quella dell’area del dollaro.
Genscher verrà premiato «per il contributo alla soluzione della Guerra Fredda». Verso entrambi, ha detto il presidente dell’Accademia Americana di Berlino Gerhard Casper, «abbiamo un debito di gratitudine». L’uso del Kissinger Prize è che i premiati vengano presentati da una personalità di rilievo. Per Genscher non si esclude possa essere Angela Merkel.
Antonella Rampino

Fonte

Il caso Moro

In questi giorni si sta rievocando sui media il “caso Moro”. Si ricorda cioè il rapimento e l’uccisione del leader della DC, ufficialmente rapito ed assassinato dalle “Brigate Rosse”.
Non mi ha mai convinto la versione ufficiale. Né tutto il polverone, i depistaggi, le balle spaziali, le carriere esplose o finite del sottobosco di potere che si agitò in quel periodo. E dopo.
E mi sono fatta un’idea mia. Assolutamente pazza e fuori dal coro. Ma che alla mia zucca ha il pregio di stare in piedi. Oltretutto ha una logica.
Vediamo un po’.
Aldo Moro è la testa pensante della D.C. Ed ha un progetto: aggregare il P.C.I. nella gestione del potere. Per due motivi essenziali: “fagocitarlo” politicamente e avviare una democrazia dell’alternativa che l’osservanza sovietica dei trinariciuti impediva. Non sto a dare giudizi di valore: ognuno la pensi come vuole.
Però il P.C.I. era forte sostenitore di Assad, il dittatore della Siria, padre dell’attuale leader siriano, fortemente sostenuto dall’U.R.S.S..
La Siria era uno dei maggiori nemici di Israele, col quale già aveva fatto guerre e guerricciole.
Il premier di Israele era Rabin, antico terrorista durante il pasticciaccio della creazione dello Stato ebreo.
Rabin quindi non vedeva di buon occhio l’ascesa del P.C.I. nella gestione del potere, visti anche i buoni rapporti con gli arabi che da sempre ha avuto l’Italia, fino ad arrivare a Mussolini, la Spada dell’Islam.
Quindi Rabin si rivolge ad un altro ebreo, Kissinger, allora Segretario di Stato USA (ministro degli esteri), potentissimo personaggio, che molti hanno definito “criminale”.
Kissinger chiama Moro a Washington e gli dà una lavata di testa memorabile. Tanto che al ritorno Aldo Moro ha un attacco di cuore, e lo curano due cardiologi (ricordate questo particolare, vedremo poi).
Però Moro va avanti nel suo progetto catto-comunista.
Ed allora i padroni israeloamericani decidono di intervenire: eliminare Moro, utilizzando i sicuri lacché presenti nel governo: Andreotti e Cossiga, da sempre filo (leggi: servi) USA.
E chi deve fare il lavoro sporco? Continua a leggere

Non si deve dire ma si deve sapere

misteri d'italia

“Bisogna distinguere tra valore di verità e giustificazione di una credenza, quando si tratta di argomenti come i Misteri d’Italia. Nel caso Moro appare esserci stato almeno un altro caso di giustificazione falsa di una verità. Cossiga diceva che lui e i DC avevano ucciso Moro; intendendo di avere causato la morte di Moro indirettamente, come effetto collaterale previsto ma non voluto, e per una scelta autonoma di difesa dello Stato; mentre fu una responsabilità di tipo diretto, e in esecuzione di volontà esterne. L’affermazione di Cossiga, anch’essa una risposta alle accuse, nella sua arrogante ambiguità ha alcune somiglianze con quella di Scelba a Catanzaro.
Non va dimenticato d’altra parte che se i dettagli non sono ricostruibili con certezza, il quadro generale è abbastanza chiaro. Personalmente non ho bisogno di studi interminabili per comprendere che coloro che occupano le istituzioni dello Stato sono corrotti e venduti a forze sovranazionali: lo vedo coi miei occhi ogni giorno. Bisogna anche evitare che, come tendono a fare accademici e magistrati, venga sabotata l’accuratezza in nome della precisione; cioè che si neghi il quadro generale perché alcuni particolari vengono periodicamente messi in discussione e corretti.
Oltre che un depistaggio, le rivelazioni false che indicano la verità e la loro successiva demolizione possono essere una forma di intimidazione, e hanno un effetto demoralizzante. Col conseguente procedimento per calunnia il paradosso intimidisce il pubblico dal profferire ciò che d’altro canto gli si lascia capire. Una nota, questa del negare e mostrare, presente in tutta la vicenda Moro. Sembra anzi che faccia parte della strategia del terrore il far intravedere chi sono i veri mandanti, prima ai politici e alla classe dirigente, ora al pubblico generale; dando così un esempio e lanciando una minaccia. E rivelando quindi il senso di un’operazione altrimenti folle, oltre che scellerata; di una “follia” che apparentemente pervase anche la risposta dello Stato.
Gli atti terroristici del potere, come ho potuto apprezzare a Brescia, hanno, dopo la frazione di secondo dell’esplosione, o della penetrazione del proiettile, un lungo fall-out di corruzione e di degrado, che dura anni e decenni. Con Moro si può ancora intimidire il popolo e addestrarlo alla sottomissione. Pochi giorni prima dell’indagine per calunnia, Pieczenik, emissario di Kissinger presso il governo italiano in veste di consulente per il caso Moro, intervistato da Minoli ha affermato, similmente a quanto aveva fatto negli anni precedenti, che vi era un interesse USA a eliminare Moro, e che egli agì in questo senso; attribuendo a sé stesso “il sacrificio” di Moro, come un merito. Con un discorso simile nella struttura formale a quello di Cossiga.
Appare che vi sia la volontà di imporre, mediante ammissioni parziali e distorte da un lato e smentite e minacce giudiziarie dall’altro, una forma di omertà particolarmente umiliante, che si può chiamare “manzoniana”, descritta nella sua perversità da Manzoni, a proposito della dominazione spagnola sull’Italia (v. epigrafe): non si deve dire ma si deve sapere. Così il mostro può circolare liberamente nelle menti ma non nel discorso pubblico. Già nell’agorà la convinzione privata dell’omicidio di Stato in esecuzione di ordini sovranazionali diviene un argomento poco maneggevole e opinabile, al quale vengono affibbiate connotazioni da chiacchiera da bar, complici la diffusa vigliaccheria e il diffuso atteggiamento ruffiano verso il potere. E nelle assemblee ufficiali la terribile accusa di essersi venduti agli stranieri nel partecipare a un assassinio politico non entra se non per essere condannata come una calunnia, che getta fango sui fieri rappresentanti di un popolo fiero.”

Da L’omertà manzoniana su Moro, di Francesco Pansera.

Imposimato, giudice bendato

14029337-illustration-of-lady-with-blindfold-holding-scales-of-justice-with-american-stars-and-stripes-flag-sA proposito del caso Imposimato, è certo che questo magistrato condusse istruttorie giudiziarie gravemente manchevoli, anche di circostanze visibilissime agli occhi di tutti, sull’assassinio della sua scorta, il rapimento di Aldo Moro e la sua successiva eliminazione, 16 Marzo-9 Maggio 1978: come progettato nel 1976, da carte già declassificate del Foreign Office, dal nazista e razzista Henry Kissinger, feroce anti-cristiano ancora adesso (è tra i più accaniti sostenitori, con gli ashke-nazisti Shimon Peres e Benjamin Netanyahu, dell’attacco alla romana Siria di Paolo apostolo… E coi beduini di Wall Street loro colleghi, la cosiddetta Famiglia ‘Reale’ saudita, i bidelli dei pozzi di petrolio USA del Golfo Persico: stella uncinata&scimitarra wahabita unite contro la croce di nostro signore Gesù Cristo, e del suo Popolo, peraltro niente affatto più disarmato, come era ai tempi di Aldo Moro…).
Ma per tornare a Imposimato.
Grazie alle gravi lacune delle sue inchieste, che “istruirono” secondo un preciso indirizzo, “negazionista” di ogni pista estrinseca ai quattro sfigati dei suoi carcerieri-assassini tra cui l’ancora “ignoto” assassino, Imposimato venne cooptato nell’aeropago eurocomunista del P.C. B.R.linguerinnegato e anti-nazionale, asservato a stelle-strisce, tanto da diventare parlamentare inamovibile per ben tre legislature consecutive alla Camera e al Senato, prima di ritornare giudice di Cassazione (!).
Immaginate quanto equanime.
La commissione d’inchiesta del Congresso USA sull’11 Settembre si è ispirata al suo metodo, detto “dei quattro sfigati”, nel concludere che i soli responsabili della strate delle Twin Towers, 3.000 morti, era stato un quartetto di pastori erranti per l’Asia, casualmente nei cieli di Manhattan alla guida di due jumbo-jet!!!
Grazie ancora alle sue manchevoli indagini Imposimato è diventato fortunato ‘dietrologo’ best-sellerista, proprio dei “misteri del caso Moro”, con numerosi libri a carico… sostenendo tesi contrarie a quanto da egli stesso “giudicato” negli anni degli interminabili processi-Moro!!!
Con un’ultima piroetta scandalistica, egli attribuisce, figuratevi voi che serietà, a una fonte pseudonima (tale “Puddu”, invece Ladu), di notizie inviate “via post-el”, le balle esposte nel suo ultimo libello: dove mischia abilmente verità inconfessabili (=Cossiga assassino consapevole di Aldo Moro) con palesi menzogne (Andreotti, che invece subì tutta la vicenda venendo pure estromesso dal governo che presiedeva, sei mesi dopo “il fatto”, e proprio dal vincitore Enrico B.R.linguer: mentre Cossiga suo cugino diretto, divenne Presidente del Qui-orinale, da allora totalmente massonizzato).
Perché questi sono “fatti evidenti”, e non dietrologie fumiste.
Incredibilmente un magistrato invece di indagare “per calunnia di organi dello Stato”, l’autore Imposimato, firmatario e pubblicante le notizie false con nome e cognome, inquisisce invece il privatissimo pseudonimo estensore di alcune “post-el”, il detto Ladu-Puddu…!!!
Tutto ciò a quale scopo? Quello di vanificare i risultati della sconvolgente intervista di Giovanni Minoli a Steve Pieczenik, il “consulente” inviato a Roma-Viminale direttamente da Washington, durante il colà soggiorno dell’attuale Bresidende Sir George Nazolitano, ossia proprio durante il sequestro di Aldo Moro, che confessa candidamente il suo scopo: assicurare che Aldo Moro fosse ucciso. Intervista che avrebbe richiesto una immediata riapertura delle indagini, per fatti nuovi occorsi, e di grande evidenza.
Ora non c’è più alcun pericolo: caso Moro? Calunnia!!!
Imposimato, come giudice, bendato.
Ma come agente confusionario, veramente abilissimo.
Gianni Caroli

“La star culturale del polo ‘pro-occidente’ del partito”

stop-communism

‘Quel comunista non deve entrare’

Giorgio Napolitano? «E’ un’intellettuale, un’eminenza grigia che esercita una grande influenza morale sulla spesso rissosa arena politica italiana». A scrivere queste parole nel settembre del 2009 è l’attuale ambasciatore americano a Roma, David Thorne. E se questo giudizio franco e pieno di slancio su Napolitano è uscito dalle stanze discrete della diplomazia USA, è grazie a WikiLeaks, che tre anni fa pubblicò 251.287 file segreti degli anni 2002-2010. Oggi che però l’organizzazione di Julian Assange pubblica un’intera libreria di 2milioni di documenti che includono le corrispondenze diplomatiche degli anni Settanta – un database che l’Espresso ha potuto consultare in esclusiva per l’Italia – pare incredibile che quel Giorgio Napolitano tanto stimato dall’ambasciatore Thorne sia lo stesso di cui l’ambasciatore di via Veneto, John Volpe, nell’agosto del 1975 scriveva: «Nell’aprile scorso, abbiamo raccomandato di non rilasciare un visto a Giorgio Napolitano, che voleva recarsi negli Stati Uniti per tenere conferenze in quattro università».
E’ l’estate del 1975, le elezioni regionali hanno portato il partito comunista italiano a fare un nuovo balzo a scapito della DC. Sono anni in cui il PCI è il nemico numero dell’America e il terrore è il compromesso storico, quell’abbraccio, secondo gli americani mortale, che rischia di portare i comunisti di Berlinguer al governo in uno dei paesi più caldi e instabili della NATO. Come vedono Napolitano, gli americani? Come un’eminenza grigia: «La star culturale del polo ‘pro-occidente’ del partito». A definirlo così in un cablo della libreria di WikiLeaks è Kissinger in persona, che nel ’76 scrive «i comunisti non sono tutti uguali», rilevando la profonda differenza tra intellettuali comunisti che non disprezzano lo stalinismo e Napolitano che invece «ha confessato le proprie perplessità su come sviluppare il socialismo all’interno di uno stato democratico, tenuto conto della specificità dell’esperimento sovietico». Il principe della realpolitik americana, dunque, non vede il PCI come un monolite. E allora perché negare il visto a un comunista moderato?
A tirare fuori qualche indiscrezione in quegli anni è il settimanale l’Espresso, che rivela come Kissinger stesso si fosse occupato della faccenda e che gli Stati Uniti si erano consultati con gli alti papaveri della democrazia cristiana prima di procedere. L’Espresso scrive, l’ambasciatore Volpe prende nota dell’articolo. Nei cablo rivelati da WikiLeaks il pezzo è citato ampiamente: dopo aver riferito al dipartimento di Stato i contenuti del servizio de l’Espresso, Volpe commenta che probabilmente dietro quelle rivelazioni ci sono le soffiate ai giornalisti da parte dei contatti accademici di Napolitano in America, che hanno fatto filtrare informazioni sul caso, mentre «la nostra impressione è che il PCI, per la sua agenda politica, avrebbe preferito tenere i giornali lontani da questa storia, perché è improbabile che giochi a favore del partito in termini di propaganda». A supporto di questa idea, Volpe cita due evidenze: il fatto che l’Espresso non citi alcuna fonte del PCI nel suo pezzo a supporto di quanto riportato e il fatto che il giornale di partito, “L’Unità”, non abbia ripreso la storia. Il giorno dopo Kissinger risponde all’ambasciatore americano a Roma: «se il governo italiano chiede del caso di Napolitano, potete rispondere usando le domande e risposte inviate. Per ogni altra richiesta, l’ambasciata deve continuare a non fare commenti».
Le domande e le risposte preparate dal potente segretario di Stato sono asciutte e asettiche. Perché il visto, dunque, è stato negato? «In base alle disposizioni della legge ‘Immigration and Nationality Act’ del 1952, i membri di tutti i partiti comunisti sono ineleggibili per ricevere un visto». Kissinger aggiunge che esistono eccezioni, ma in questo caso non sono state sollevate e la ragione per cui non lo sono state non viene spiegata. Il potente segretario nega di essersi occupato personalmente della cosa, ma aggiunge che il Dipartimento ha contattato le persone che avevano invitato Napolitano negli USA per raccogliere ulteriori informazioni e che ha considerato questa visita “intempestiva” (untimely).
Stefania Maurizi

Fonte

Gli USA, non la Russia, speculano contro l’Europa

Con la vittoria di Vladimir Putin la ruota inizia a girare in senso inverso per il premio Nobel per la pace, Hussein Barak Obama. La macelleria umanitaria accesa in nord Africa e nel Vicino Oriente ebbe lo scopo di distruggere la triade Gheddafi-Berlusconi-Putin. La vittoria elettorale di Putin lascia in piedi, più forte di prima, l’asse portante russo di quell’alleanza, la quale fallì solo per l’inconsistenza politica del Cavaliere e del suo inetto ministro della difesa, Ignazio La Russa. Quando lo scontro s’è fatto duro, quando Silvio Berlusconi ha visto l’amico Gheddafi in difficoltà, dopo gli abbracci e i baci in mondovisione, l’ha lasciato al suo destino. Ha fatto il maramaldo e non passerà alla storia neppure come Maramaldo, ma solo per le disavventure giudiziarie.
Chiuso questo capitolo, ora è fallito anche il tentativo statunitense di separare Dmitri Medvedev da Putin; fallito l’assalto umanitario alla Siria; fallita la diabolica manovra per costringere Israele ad attaccare l’Iran; in via di esaurimento le speculazioni sui mercati valutari, esattamente come avevamo previsto, con l’approssimarsi della primavera; portato nel dimenticatoio Julian Assange, Mr. Wikileaks, esattamente come avevamo previsto. Obama, Nobel per la pace, che in sostanza ha fatto più morti lui in tre anni che il generale Augusto Pinochet in venticinque, è ridotto a complottare contro il Vaticano con scandalismi d’accatto, cui si prestano di buon gioco i soliti collaborazionisti; non bastasse, opprime i cattolici statunitensi con leggi liberticide.
L’estate che s’approssima sarà calda perché gli USA, il paese più forte militarmente, sono a zero in quanto a credibilità politica, economica e morale. Sull’altro versante, la Cina, non ha la capacità militare statunitense ma non è sufficientemente debole per metterla nell’angolo, come sognarono in coro gli staff di Londra, Bruxelles e Washington. La strategia non è un sogno e neppure è arroganza basata sulla forza effimera. Putin ritorna ora, con più d’un conto da regolare. Una vecchia carampana internazionale, gran maestro degli illuminati, Henry Kissinger, va dicendo che i tamburi di guerra s’approssimano, rullando minacciosi. Con tutto il rispetto, non sembra uno scoop illuminante. Se gli Stati Uniti volessero ritrovare la saggezza che li fece grandi, dovrebbero mandare a casa questa amministrazione di criminali e aprire subito un grande negoziato globale, senza escludere nessuno degli antagonisti antichi e recenti, con tre temi interconnessi in agenda: scambi economici, mercati finanziari e sicurezza. Chi preferisce scorciatoie militari e speculative (come capita a Londra, Bruxelles e Washington) dopo le soddisfazioni effimere a Tripoli, Tunisi e Il Cairo, deve prepararsi a delusioni tragiche, assumendosi la responsabilità della terza guerra mondiale. In tal caso, altro che No-Tav nelle piazze. Neppure la sorniona Berlino ne sarà risparmiata. Qualunque cosa sia detta nelle prossime settimane dell’ex agente del Kgb, Vladimir Putin, ricordiamo che giungerà da giornalisti prezzolati che non si accorsero che la speculazione contro i Btp, l’impennarsi dei prezzi e la crisi economica non nacquero a Mosca, bensì a causa dei nostri alleati e dei loro manutengoli.
Piero Laporta

Fonte: italiaoggi.it

L’Anello contro Aldo Moro

Giovanni Maria Pedroni, classe 1927, partigiano a Trieste, illustre chirurgo conosciuto in tutto il mondo è la prima persona a parlare pubblicamente dell’esistenza dell’Anello, una struttura segreta la cui esistenza è stata confermata anche da Licio Gelli. Su questa struttura, di cui si sta interessando anche il Copasir, è uscita da poco tempo una dettagliata inchiesta di Stefania Limiti, edita da Chiarelettere che Pedroni così commenta: “Tutto esatto. L’Anello avrebbe potuto liberare molto facilmente Aldo Moro, fece fuggire Herbert Kappler, l’uomo delle Fosse Ardeatine per superiori esigenze di Stato, intervenne direttamente nella vicenda Cirillo”. Pedroni – intervistato da Paolo Cucchiarelli dell’Ansa, giornalista investigativo di primo piano, denuncia la “grande ipocrisia politica” che pesa ancora su tutta la vicenda visto che il servizio segreto clandestino passato alla storia come L’Anello inizia la sua vita nell’immediato dopoguerra e attraversa tutta la storia dell’Italia Repubblicana: “C’è una sacco di gente che sa di queste cose; soprattutto a livello politico. L’Anello era una struttura operativa che era riconosciuta ufficialmente dal governo. Il Viminale sapeva tutto. Tanti politici sapevano. Con una struttura segreta si potevano ottenere certi risultati senza che nessuno si scottasse le mani: questo era il compito dell’Anello”.
Pedroni racconta che questo speciale servizio segreto era stato fondato da un israeliano, Otimsky, “una persona anziana che mandava avanti operativamente le cose ma era politicamente nelle mani di Giulio Andreotti”. A Pedroni sta a cuore soprattutto il capitolo Moro. “Noi – scandisce – potevamo liberarlo, tranquillamente, senza problemi. La politica ci ha sbarrato la strada affinché non intervenissimo. C’era un ordine superiore di non intervenire, e potevamo farlo”. Aggiunge Pedroni con un’espressione non proprio felice: “Moro d’altra parte se l’è proprio cercata. Un dato è certo: alle cancellerie internazionali Moro non piaceva per nulla; Kissinger non lo poteva vedere. Aveva espressioni durissime per Moro che dava fastidio in Italia ma anche all’estero. Si scelse di non intervenire, lasciando le cose al loro destino. Lasciando che Moro venisse ucciso. Chi fa fuori Moro? Le BR? Mah… Non lo so… Si è deciso di lasciare morire Moro: le ragioni e il perché riguardano però la politica. Tutti i servizi italiani e stranieri si mossero per cercare di utilizzare tutto ciò che era utile a risolvere la questione. Alla fine non fu così. Moro pensava di essere vicino ad una soluzione positiva per sé. Sapeva però benissimo chi erano gli oppositori alle sua linea in Italia e all’estero. E’ una storiaccia… Moro fu lasciato morire. Questo lo sanno tutti. E nessuno parla”.

[Fonte: misteriditalia; grassetto nostro]

La sovversione come professione

Nel 2006, il Cremlino ha denunciato il proliferare di associazioni straniere in Russia, alcuni dei quali presumibilmente coinvolte in un piano segreto per destabilizzare il paese, orchestrato dalla Fondazione Nazionale per la democrazia (National Endowment for Democracy- NED). Per evitare una “rivoluzione colorata”, Vladislav Surkov ha sviluppato una severa regolamentazione di queste “organizzazioni non governative” (ONG). In Occidente, questo provvedimento amministrativo è stato descritto come un nuovo attacco del “dittatore” Putin e del suo consigliere alla libertà di associazione.
Questa politica è stata seguita da altri Stati che, a loro volta, sono stati presentati dalla stampa internazionale come “dittature”.
Il governo degli Stati Uniti garantisce che lavora per “promuovere la democrazia in tutto il mondo.” Sostiene che il Congresso può sovvenzionare la NED e che può, a sua volta e in modo indipendente, direttamente o indirettamente portare assistenza a associazioni, partiti politici o sindacati, lavorando in tal senso in tutto il mondo. Le ONG essendo, come suggerisce il nome, “non governative” possono prendere iniziative politiche che le ambasciate non potrebbero prendere senza violare la sovranità degli stati che le ospitano. L’intera questione è dunque questa: la NED e la rete di ONG che finanzia, sono esse iniziative della società civile ingiustamente punite dal Cremlino o coperture dell’intelligence statunitense colte in piena interferenza?
Per rispondere a questa domanda, torniamo alle origini e dal funzionamento del National Endowment for Democracy. Ma soprattutto, dobbiamo analizzare cosa significa il progetto ufficiale degli Stati Uniti per “l’esportazione della democrazia”.
(…)
Nel suo famoso discorso dell’8 giugno 1982 davanti al Parlamento britannico, il presidente Reagan ha denunciato l’Unione Sovietica come “l’impero del male” e si offrì di aiutare i dissidenti lì e altrove. “Si tratta di contribuire a creare le infrastrutture necessarie per la democrazia: la libertà di stampa, di sindacato, di partiti politici e delle università, i popoli saranno liberi di scegliere la strada che gli converrà per sviluppare la loro cultura e risolvere le controversie con mezzi pacifici”, aveva detto.
Sulla base di questo consenso per la lotta contro la tirannia, una commissione di riflessione bipartisan auspicò l’istituzione a Washington della National Endowment for Democracy (NED). Fu fondata dal Congresso nel novembre del 1983 e immediatamente finanziata.
La Fondazione supporta quattro strutture indipendenti che ridistribuiscono denaro all’estero, mettendolo a disposizione di associazioni, sindacati e padronati, partiti di destra e di sinistra. Esse sono:
l’Istituto dei Sindacati Liberi (Free Trade Union Institute – FTUI), ora rinominato Centro Americano per la Solidarietà Internazionale dei Lavoratori (American Center for International Labor Solidarity – ACILS), gestita dal sindacato AFL-CIO;
il Centro Internazionale per le Imprese Private (Center for International Private Enterprise – CIPE), gestito dalla Camera di Commercio degli Stati Uniti;
l’Istituto Repubblicano Internazionale (International Republican Institute – IRI), gestito dal Partito Repubblicano;
e l’Instituto Nazionale Democratico per gli Affari Internazionali (National Democratic Institute for International Affairs – NDI), gestito dal Partito Democratico.
Presentati in questo modo, la NED e i suoi quattro tentacoli appaiono basati sulla società civile, riflettendo la diversità sociale e il pluralismo politico. Finanziate dal popolo statunitense, attraverso il Congresso, avrebbero lavorato a un ideale universale. Esse sarebbero completamente indipendenti dall’amministrazione presidenziale. E l’azione trasparente non potrebbe nascondere operazioni segrete che servano a interessi nazionali inconfessati.
La realtà è completamente diversa.
(…)
Con il voto per la fondazione della NED, il 22 novembre 1983, i parlamentari non sapevano che già esistesse in segreto, con una direttiva presidenziale del 14 gennaio.
Questo documento, che è stato declassificato vent’anni dopo, organizza la “diplomazia pubblica”, termine politicamente corretto per indicare la propaganda. Esso crea alla Casa Bianca dei gruppi di lavoro interni al Consiglio di Sicurezza Nazionale, tra cui uno con la responsabilità di guidare la NED.
Henry Kissinger, direttore del NED. “Un rappresentante della società civile”? Di conseguenza, il consiglio d’amministrazione della Fondazione non è che una cinghia di trasmissione del Consiglio di Sicurezza Nazionale. Per mantenere le apparenze, si decise che, in modo generale, agenti ed ex agenti della CIA non potessero essere nominati amministratori.
Le cose sono tuttavia trasparenti. La maggior parte dei funzionari che hanno giocato un ruolo centrale nel Consiglio di Sicurezza Nazionale, sono stati amministratori della NED. Questo è per esempio il caso di Henry Kissinger, Frank Carlucci, Zbigniew Brzezinski e Paul Wolfowitz; personalità che non passeranno alla storia come l’ideale della democrazia, ma della strategia cinica della violenza.
Il bilancio della Fondazione non può essere interpretato in modo isolato, ricevendo istruzioni dal Consiglio di Sicurezza Nazionale per intraprendere azioni all’interno di ampie operazioni inter-agenzie. I fondi soprattutto provengono dall’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale (USAID) e passano senza che figurino nel bilancio del NED, proprio per “non-governalizzarli”. Inoltre, la Fondazione riceve soldi indirettamente dalla CIA, dopo essere stata riciclata da intermediari privati, come la Smith Richardson Foundation, la John M. Olin Foundation o la Lynde and Harry Bradley Foundation.
Per valutare la portata di questo programma, dobbiamo combinare il bilancio della NED con le corrispondenti voci di bilancio del Dipartimento di Stato, dell’USAID, della CIA e del Dipartimento della Difesa. Tale stima è impossibile.
Tuttavia, alcuni elementi noti consente di avere un ordine di grandezza. Gli Stati Uniti hanno speso negli ultimi cinque anni, un miliardo di dollari per le associazioni e i partiti in Libano, un piccolo paese di 4 milioni di abitanti. Nel complesso, la metà di questa manna è stata pubblicamente rilasciato da Dipartimento di Stato, USAID e NED, e l’altra metà è stata versata segretamente dalla CIA e del Dipartimento della Difesa. Questo esempio viene utilizzato per estrapolare il bilancio generale della corruzione istituzionale da parte degli Stati Uniti, che è nell’ordine delle decine di miliardi di dollari ogni anno. Inoltre, il programma equivalente dell’Unione europea, che è interamente pubblico e propone l’integrazione delle azioni degli Stati Uniti, è di 7 miliardi di euro all’anno.
In definitiva, la struttura giuridica della NED e il volume del suo bilancio ufficiale sono solo delle esche. In sostanza, non è un organismo indipendente per le azioni legali precedentemente assegnate alla CIA, ma è una vetrina a cui il Consiglio di Sicurezza Nazionale da l’incarico di eseguire gli elementi legali delle operazioni illegali.
(…)

Da NED vetrina legale della CIA, di Thierry Meyssan.

Divi di (quello) Stato 2°

Hollywood sforna ambasciatori di alto profilo e Clooney ce lo siamo beccati noi.
Il fatto che abbia flirtato con la Canalis, che prenda case in Toscana e sul lago di Como, che sia perennemente in mostra qui da noi… casualità?

Angelina Jolie era stata membro temporaneo all’importante Council on Foreign Relations, uno dei più prestigiosi concili di politica estera degli Stati Uniti. Con lei, altri importanti personaggi di spicco nel corso della storia, dalla nascita nel 1921, tra cui Henry Kissinger, Colin Powell, Condoleezza Rice e Madeleine Albright.
Il Council, con sede a New York a Park Avenue e a Washington ha aperto le porte anche ad un pluripremiato attore/regista di Hollywood, il bel George Clooney.
Oltre a personaggi famosi, il Concilio è rappresentato da ex segretari, ex ambasciatori ed esperti di economia. Prima di Clooney era stato chiesto ad altri due attori di far parte dei membri; Michael Douglas e Warren Beatty.
Clooney ha dunque raggiunto l’importante traguardo come membro a vita del Concilio, grazie al suo apporto umanitario in Darfur, dove ha dato una mano per i profughi insieme al rappresentante del New York Times Nick Kristof che tra l’altro lo ha fatto entrare nel Concilio.
Al Washington Post, Clooney, ha confermato poi che la carica che gli hanno assegnato lo riempie di orgoglio ed è onorato di essere stato prescelto per tale mansione.
Ha poi scherzato ai microfoni sull’importante carica di membro a vita, dicendo: “Parteciperò alle riunioni e mi hanno detto che il rito di iniziazione è tremendo”.
Insieme a Clooney, anche l’ex capo della FED (la Federal Reserve) Alan Greenspan e l’ex vice presidente degli Stati Uniti al tempo della carica di George W. Bush Dick Cheney, hanno avuto questa importante carica.
(…)

Da Clooney come Kissinger: membro a vita del Foreign Relations, di Andrea Bandolin.
[grassetto nostro]

“Distruggere tutto quello che fa ostacolo alla potenza USA”

sight-gunner

Per capire le attuali poste in gioco, bisogna comprendere quello che accade da nove anni.
Nel 2000, quando la classe dirigente USA truccò le elezioni ed impose George W. Bush alla Casa Bianca, il progetto era quello di fondare «un nuovo secolo americano». Alcune persone pensavano che gli Stati Uniti dovessero approfittare del loro vantaggio militare per diventare un impero globale. Esse avevano programmato uno choc psicologico, «un nuovo Pearl Harbour» secondo la loro espressione, per operare tale virata. Questo è stato l’11 settembre. Quel giorno, Henry Kissinger definì la «guerra globale al terrorismo». Spiegò che il fine non sarebbe stato la punizione degli autori degli attentato, ma la distruzione del «sistema» che ostacola la potenza USA, come la risposta a Pearl Harbour non aveva avuto il fine di punire il Giappone, ma di distruggere tutto quello che poneva ostacoli alla potenza degli Stati Uniti.
Ora, nel 2003, l’amministrazione Bush-Cheney scartò dal mandato che le era stato dato dalla classe dirigente USA. Decise di colonizzare l‘Iraq e lo fece sfruttare da una società privata, l’Autorità della Coalizione in Iraq, costituita sul modello della Compagnia delle Indie. Il generale Brent Scowcroft fu il primo leader USA ad opporsi a quel progetto. Non come Dominique de Villepin in nome del diritto internazionale, ma perché quel progetto d’altri tempi avrebbe «distolto gli Stati Uniti dalla guerra al terrorismo».
Scowcroft era l’ideologo dei generali che nel 2006 si rivoltarono contro il progetto di attacco all’Iran. L’anziano esercitava un’influenza preponderante sulla Commissione Baker-Hamilton tramite il suo figlio spirituale, Robert Gates, da lui ben presto imposto al dipartimento della Difesa. Ancor oggi è Scowcroft a consigliare Obama su tutte le nomine relative alla Difesa e alla politica estera. Ed il generale James Jones, consigliere per la Sicurezza nazionale, ha ammesso anche lui di prendere quotidianamente i suoi ordini non dal presidente Obama ma dagli eterni complici Brent Scowcroft e Henry Kissinger.
Dopo la parentesi 2003-06 della colonizzazione dell’Iraq, eccoci tornati alla casella dell’11 settembre. L’obiettivo assegnato all’amministrazione Obama è la ripresa della «guerra al terrorismo» che il duo Bush-Cheney non avrebbe mai dovuto relegare in seconda fila.
La NATO, che i signori Bush e Cheney non erano riusciti a mobilitare in Iraq, sarà sollecitata alla guerra al terrorismo — eventualmente anche alla presunta prevenzione dei genocidi —. È, per quanto riguarda l’Afghanistan. Robert Gates e poi Barack Obama hanno sottolineato che se gli Europei non venissero in Asia centrale, dovrebbero affrontare degli 11 settembre sul loro stesso territorio. Il ricatto non potrebbe essere più chiaro. Una cosa simile si presenta pure nell’Oceano Indiano, dove gli USA stanno collaudando un nuovo alibi, la pirateria. Pochi straccioni, che dispongono di informazioni eccezionali e di armi ultimo modello, abbordano navi di ogni categoria, che vanno dai battelli da diporto per far piangere le casalinghe ai cargo che trasportano armi per stuzzicare gli alleati. È stata recentemente messa in scena una story hollywoodiana con il coraggioso capitano Philips disposto a sacrificare la vita per salvare il suo equipaggio, prima di essere salvato a sua volta dai commando dell’US Seal. In ogni caso, il fine è lo stesso: trovare una nobile causa che giustifichi uno spiegamento militare in grado di distruggere tutto quello che fa ostacolo alla potenza USA.

Da Dal G20 a Durban II, che cosa bolle in pentola. Un’intervista a Thierry Meyssan, di Silvia Cattori.
[grassetto nostro]

Il nuovo Kissinger

james_jones

Persa nell’enfasi che ha accompagnato, in patria e nel mondo, l’inaugurazione della 44° presidenza degli Stati Uniti, è stata la nomina del generale dei Marines in pensione James Jones quale prossimo maggiore architetto ed esecutore della politica estera USA.
Il 22 novembre scorso, il Washington Post si riferiva all’allora pendente designazione di Jones come Consigliere per la Sicurezza Nazionale in questi termini: “Obama sta considerando di espandere la sfera di competenza per dare al Consigliere lo stesso tipo di autorità una volta esercitata da alcuni potenti personaggi fra i quali Henry Kissinger”. L’analogia è con il ruolo svolto da Kissinger come Consigliere per la Sicurezza Nazionale nelle due amministrazioni Nixon (1969-1977), durante la seconda delle quali coprì anche il posto di Segretario di Stato, con un’influenza nel determinare le linee della politica estera che mai nessuno precedentemente aveva avuto. Un paragone potrebbe essere tratteggiato anche con il Consigliere durante l’amministrazione Carter, il ben noto Zbigniew Brzezinski, vero artefice della politica estera nel periodo 1977-1981, con i Segretari di Stato dell’epoca (prima Vance, poi Muskie) che recitavano un ruolo da comparse.
James Jones è il primo ex comandante supremo della NATO (e del Comando Europeo delle Forze Armate statunitensi, EUCOM) – incarico svolto dal 2003 fino al dicembre 2006, poco prima (febbraio 2007) di ritirarsi dalla carriera militare – a diventare Consigliere. Con il Segretario alla Difesa Robert Gates. egli costituisce i due terzi di quel triumvirato che, nell’ambito della politica estera, l’amministrazione Obama ha ereditato da quella Bush.
Dopo la sua inclusione nella lista dei papabili per il posto di Consigliere, lo scorso novembre, Jones aveva dichiarato che, come comandante supremo della NATO, la sua principale preoccupazione fosse stata di proteggere le infrastrutture energetiche e le linee di trasporto dall’Africa, dal Golfo Persico e dal Mar Caspio. Jones ha più volte sottolineato come la politica energetica sia per gli Stati Uniti una questione di sicurezza nazionale ed al tempo stesso una priorità nella sicurezza mondiale. Non per nulla, dopo il pensionamento è stato presidente dell’Istituto per l’Energia nel 21° Secolo, emanazione della Camera di Commercio statunitense, e membro del consiglio di amministrazione della società petrolifera Chevron.
Jones è quindi stato piuttosto esplicito nell’indicare in quale aree del pianeta cadano le priorità del Pentagono. Si tratta di tre delle cinque zone del mondo che ospitano le più ricche e non (o poco) sfruttate riserve di petrolio e gas naturale: appunto il Golfo di Guinea, i mari Caspio e Nero, il Golfo Persico. Le altre due zone, già terreno di battaglia fra l’Occidente e la Russia e le altre potenze emergenti, sono l’Artico e la regione Caraibi – parte nord dell’America indiolatina, con il sud-est asiatico candidato ad aggiungersi all’elenco. Sia ben chiaro che questa non è una semplice competizione per il petrolio ma piuttosto una mobilitazione internazionale di carattere strategico, condotta da un consorzio di potenze occidentali declinanti riunite sotto l’egida della NATO, per impadronirsi delle risorse energetiche mondiali e delle rotte di rifornimento al fine di mantenere ed incrementare la propria egemonia – politica ed economica – globale.