L’avanguardia della globalizzazione, del mondialismo, è rappresentata, oggi, dall’élite del sapere, dal “circo mediatico” formato dagli intellettuali di sinistra. Un gruppo sociale che affonda le proprie radici culturali «nella Nuova Sinistra degli anni Sessanta, i cui interessi si concentravano, per citare una felice espressione di Denning, sul modo di “inventare un marxismo senza classe”», senza nazione, senza Stato, senza famiglia, senza religione, senza territori, senza identità e appartenenze collettive. Questa élite del sapere si propone infatti come «sempre più “transnazionale”», globalizzata, unificata al Pensiero Unico Neoliberale. Questa sinistra intellettuale postmoderna sa perfettamente che, nell’ambito di un capitalismo totalmente finanziarizzato, «i mercati di capitali e dei prodotti si sono trasferiti in un nuovo spazio socialmente extraterritoriale che si colloca ben al di sopra dello Stato-Nazione, e dunque ben oltre la capacità di questo di sovrintendere/riequilibrare/ridurre», e interpreta la soggezione degli Stati nazionali al «processo di globalizzazione del capitale» come una tappa verso la costruzione di un mondo de facto già potenzialmente “comunista”, poiché privato dei “residui borghesi” (lo Stato), “patriarcali” (la nazione) e “repressivi” (la morale sessuale borghese otto-novecentesca, fino al Sessantotto), costituenti ostacoli all’affermazione del “comunismo consumistico globalizzato” postmoderno, auspicato dagli intellettuali di sinistra come fattore di risoluzione dei conflitti intercapitalistici e interimperialistici. L’élite del sapere vive entusiasticamente «la propria condizione come “transnazionale”», rielabora se stessa (attraverso una gigantesca operazione trasformistica e autoapologetica) «nell’idea di “cultura globale”, la cui tendenza prevalente è l’“ibridazione”» e stigmatizza come “fascista” il resto dell’umanità, in particolar modo le classi popolari e piccolo-borghesi periferiche, pauperizzate e sradicate dai processi di globalizzazione, non altrettanto disponibili o consenzienti alla “mobilità” postmoderna, ossia alla «sostituzione di gruppi e associazioni definiti su basi territoriali con “reti” elettronicamente mediate» e all’adattamento «della propria realtà quotidiana» alla forma mentis cosmopolita, neoedonistica e neoborghese. Tutti coloro i quali, attori socio-politici piccolo-borghesi “nazionalisti” o ceti popolari provinciali legati a particolari identità collettive (religiose, comunitarie, ecc.), si dimostravano, a livello più o meno riflessivo, contrari al processo di omogeneizzazione culturale cosmopolita e di mediatizzazione della sfera privata, tramite lo strumento del web in generale e del social network in particolare, venivano immediatamente diffamati, dall’élite del sapere politicamente corretta, come “fascisti” e “trogloditi”.
Paolo Borgognone