La guerra americana al clima

“In un periodo in cui è alta l’attenzione mediatica intorno al tema dell’ambiente – con annesse campagne etiche rivolte al consumo individuale senza intaccare il modello produttivo capitalistico che devasta l’ambiente – balza agli occhi una recente inchiesta pubblicata da una delle più importanti riviste internazionali di ricerca geografica, Transactions della Royal Geographical Society, in cui viene calcolata l’incidenza delle forze armate statunitense sui cambiamenti climatici. E il dato che viene fuori è tanto emblematico, quanto sconcertante il silenzio che lo accompagna.
Secondo questa indagine, che si basa sui dati della US Defense Logistics Agency – Energy (DLA‐E) – una grande agenzia all’interno del Dipartimento della Difesa degli USA, principale punto di acquisto dei combustibili a base di idrocarburi per le forze armate – l’esercito americano infatti risulta esser uno dei maggiori inquinatori della storia, consumando per la sua vasta infrastruttura e le sue operazioni militari, sia a livello nazionale che internazionale, più combustibili liquidi ed emissioni di CO2e rispetto a molti paesi di medie dimensioni (più di 140 paesi) che lo fanno il più grande singolo consumatore istituzionale di idrocarburi nel mondo. Nel 2017, l’esercito USA ha acquistato circa 269.230 barili di petrolio al giorno ed emesso, bruciando quei combustibili, 25.375,8 kt-Co2e. Se le forze armate statunitensi fossero un paese, solo per il loro uso di carburante (escludendo emissioni di elettricità, cibo, cambiamenti di uso del suolo dalle operazioni militari o qualsiasi altra fonte di emissione) sarebbero il 47° più grande emettitore di gas serra del mondo. Basta pensare che questo dato corrisponde alle emissioni totali – non solo di carburante – della Romania. Inoltre, bisogna anche osservare che questi dati sulle emissioni riguardanti l’esercito statunitense non sono considerate parte delle emissioni aggregate degli USA a seguito dell’esenzione concessa nella negoziazione del protocollo di Kyoto del 1997 che doveva esser rimossa dall’Accordo di Parigi sul Clima a cui l’amministrazione Trump ha ritirato la firma.
(…) Ma non sono solo questi i dati che collocano l’esercito statunitense ai vertici dei principali attori della devastazione ambientale: le basi militari statunitensi, sia interne che straniere, si collocano costantemente in alcuni dei luoghi più inquinati del mondo, poiché il perclorato e altri componenti contaminano le fonti di acqua potabile, falde acquifere e suolo.
(…) Se riportiamo ciò alle basi militari statunitensi dislocate in tutto il mondo – compreso particolarmente il nostro paese – il quadro è ben definibile in tutta la sua portata. Un esempio è la contaminazione delle forniture di acqua potabile locale della base dell’aeronautica militare di Kadena ad Okinawa (Giappone).
Un altro esempio che ci riguarda molto da vicino è la Base della Marina USA sita a Niscemi (CL), in Sicilia, all’interno di una Riserva Naturale della Sughereta (fra le più antiche e importanti d’Europa) deturpata e devastata con l’installazione di un sistema di telecomunicazioni satellitare, il MUOS (che si combina con le antenne NRTF dal 1991), le cui emissioni elettromagneti­che bucano la ionosfera e possono ri­sultare letali per le persone come dimostrano i dati sull’incidenza dei tumori nell’area superiori alla media nazionale, come alla tiroide che raggiunge il 14% dei cittadini a fronte di una media nazionale del 4%, mentre il 7% patisce tumori ai testicoli di fronte ad una media nazionale del 2%.
Un altro esempio che possiamo citare a dimostrazione dell’incidenza dei siti militari statunitensi sulla salute e l’inquinamento è l’isola portoricana di Vieques – per anni discarica delle munizioni nocive degli Stati Uniti – dove il tasso di tumori è di molto superiore rispetto al resto dei caraibi.
Tutto questo senza dimenticare che gli USA sono la potenza che ha condotto più test nucleari di tutte le altre nazioni messe insieme (oltre ad esser l’unica ad averle sganciate sulla popolazione civile), responsabili dell’enorme quantità di radiazioni che continua a contaminare molte isole dell’Oceano Pacifico. Le Isole Marshall, dove gli USA hanno lasciato cadere più di sessanta ordigni nucleari tra il 1946 e il 1958, sono un esempio particolarmente significativo, con gli abitanti di quest’area che continuano a sperimentare sulla loro pelle un tasso di cancro estremamente alto.
Un altro capitolo non certo irrilevante sono le missioni di guerra – non solo per l’uso di carburante prima citato. Come esempio citiamo l’azione militare statunitense in Iraq che ha portato alla desertificazione del 90% del territorio iracheno, paralizzando il settore agricolo del paese e costringendolo ad importare più dell’80% del suo cibo. L’uso da parte degli USA dell’uranio impoverito in Iraq durante la Guerra del Golfo ha causato inoltre un enorme onere ambientale per gli iracheni, così come lo smaltimento attraverso pozzi di combustione all’aperto dei rifiuti dell’invasione del 2003 ha causato un’ondata di cancro tra i civili iracheni e tra gli stessi militari statunitensi.
Secondo uno studio dell’Istituto Watson per gli Affari Internazionali e Pubblici del progetto Costs of War della Brown University, tra il 2001 e il 2017, l’esercito statunitense ha emesso 1,2 miliardi di tonnellate di gas serra, equivalente a 255 milioni di veicoli passeggeri in un anno. Più di 400 milioni di tonnellate di gas serra sono direttamente dovute alla guerra (Afghanistan, Pakistan, Iraq e Siria) a causa del consumo di carburante correlato, equivalente alle emissioni di quasi 85 milioni di auto in un anno. Il Dipartimento della Difesa risulta esser di gran lunga il più grande consumatore di combustibili fossili del governo degli USA, rappresentando circa l’80% di tutto il consumo energetico del governo federale dal 2001.
(…) Questi dati, fra l’altro parziali (che rigurdano solo gli USA e non prendono in considerazione altre questioni come ad esempio l’impatto devastante dei prodotti chimici utilizzati in contesti bellici così la distruzione di edifici, ponti, industrie, equipaggiamenti, i resti di munizioni, bombe e mine inesplose, rifiuti tossici ecc.), dimostrano l’elevato impatto – diretto ed indiretto – della guerra nei processi di cambiamento climatico e distruzione del patrimonio ambientale, naturalistico e storico che tanto preoccupano gli scienziati per il futuro del pianeta.”

Da L’esercito USA tra i più grandi inquinatori al mondo.

Il sacro spazzatura

“Il liberismo non seduce più ma continua a soggiogare culturalmente, avendo ottenuto un’egemonia passiva, un’interiorizzazione delle forme ideologiche che il dissenso non riesce a scardinare. L’ideologia liberista si impone reprimendo, anche con la forza, alternative valide; e con una massiccia opera di manipolazione culturale. Il suo apparato propagandistico ha varie armi difensive, che conviene esaminare. Come molte specie di batteri che sulla membrana citoplasmatica hanno una parete cellulare e sopra ancora uno strato mucoso, anche diverse operazioni liberiste sono rivestite da un doppio strato protettivo. Lo strato interno è dato dalla complessità tecnica: non è facile per il cittadino comune (compreso lo scrivente) capire il reale significato e le conseguenze di una operazione liberista in campo economico. O – l’aspetto che conosco e che viene trattato qui – il reale significato degli annunci di “nuove cure” in medicina; un campo che è ormai un settore di punta dell’economia liberista. Lo strato protettivo esterno è dato dal sacro, in una forma artefatta e distorta, ottenuta inventando una sacralità o usando come scudi temi portatori di una effettiva sacralità. Gli spin doctor del liberismo rivestono atti inconfessabili di un sacro “fake”, sollecitando ad arte la tendenza a non mettere in discussione e a riverire ciò che appare appunto sacro. Può essere definito “sacro spazzatura”, perché come i titoli spazzatura si fa “comprare” dal pubblico promettendo tanto al costo di un investimento modesto; promettendo la partecipazione al sacro per il costo di un consenso che sembra del resto doveroso; ma lascia con un pugno di mosche quelli che sono divenuti “piccoli azionisti” di operazioni che vanno in realtà a loro danno. Come la capsula esterna protegge i batteri dalla fagocitosi, il muco tenace del sacro spazzatura protegge le operazioni del liberismo dalle denunce e dal dissenso.
Alcuni esempi di sacro spazzatura, rilevanti per l’argomento del presente articolo. a) La lotta alla mafia. Qualsiasi cosa sia fatta nel nome della lotta alla mafia non può che essere giusta e buona. Appoggiandola da bravi spettatori si diviene, al costo del battere le mani o del godersi lo sceneggiato tv, partecipi dell’acume, del coraggio, della nobiltà d’animo di Falcone, Borsellino, Boris Giuliano, e degli altri valorosi uccisi (e forse lasciati uccidere per il loro essere troppo capaci nel combattere la mafia). Mentre criticando l’antimafia si svela di essere come minimo fiancheggiatori della mafia. b) La lotta all’inquinamento. Non può che essere a fin di bene. Chi l’appoggia mostra spirito civico, mentre chi indica i casi dove i contenuti e le finalità sono fortemente distorti è un prezzolato dell’industria. c) Gli allarmi su minacce alla salute, il bene supremo; coraggiose denunce che trovano terreno fertile nelle nostre paure fin dai tempi apparentemente lontani della teoria miasmatica delle malattie e degli untori. Chi grida al lupo lo fa certo per il tuo bene. Allarmi che ne parafrasano con scarso merito altri che invece sono fondati vanno creduti senza se e senza ma. d) La scienza, in realtà ciò che viene presentato come tale. Non può che avere il sigillo della verità e quello del disinteresse; come se ciò che un ricercatore che deve la sua fortuna a una multinazionale proclama su un giornale, in televisione o sui social fossero le leggi del moto di Newton o di Einstein. Chiunque non accetti gli oracoli delle sibille che parlano avendo come fondale un laboratorio e strumenti misteriosi non può che essere un ignorante superstizioso, che crede alle scie chimiche e porta il cappello di stagnola. e) Un corrispondente incremento di alcuni servizi medici. E’ lapalissiano che più medicina vuol dire più salute. Curioso che diversi medici e ricercatori lo neghino, sostenendo al contrario che in alcuni casi abbiamo troppa medicina e che ciò riduca la salute. Ma quale altro scopo potrebbe esserci nell’introdurre più medicina? Quale mente contorta può pensare che non sia un atto di amore per l’umanità sofferente. f) L’adeguamento della medicina del Meridione alle pratiche in vigore al Nord. Solo un eccentrico come Illich può sostenere che a volte alcune regioni per il fatto di essere economicamente arretrate sono risparmiate dagli aspetti “più sinistri” della “civilizzazione medica”. Quando poi g) a condurre simili battaglie siano, come avviene, dei preti, i professionisti del sacro (nonché grossi imprenditori della medicina commerciale), il contestare assume i caratteri dell’empietà.”

La post-camorra. Dai tagliagole alla chirurgia ingiustificata della tiroide, di Francesco Pansera, continua qui.

I caccia della NATO sganciarono ordigni inesplosi

“Undici zone di rilascio al largo delle coste pugliesi. La mappa diffusa dalla Capitaneria di Porto di Molfetta durante il conflitto in Kosovo, parla chiaro: i caccia della NATO sganciarono ordigni inesplosi – probabilmente caricati con uranio impoverito – nel basso Adriatico in undici aree, due delle quali a 12 miglia dalla costa.
Questa mappa si infranse, qualche mese dopo la fine della guerra, nel disconoscimento dell’unità di crisi italiana che si occupava della vicenda bombe. «Circa la mappa del basso Adriatico indicante 11 siti di “probabile rilascio”… i rappresentanti del Comando Generale delle Capitanerie di Porto e del Ministero della Difesa non ne hanno riconosciuto l’attendibilità». Ma è difficile credere che allora la mappa non sia stata sconfessata proprio per prevenire possibili rivendicazioni. Quella mappa, redatta sulla base delle indicazioni fornite dalle Autorità militari, avrebbe legittimato la richiesta di una bonifica del basso Adriatico. Disconoscerla ha significato “legittimare” una bonifica mai avvenuta. Le operazioni di sminamento condotte dalla Marina militare e dalla NATO, si sono fermate al di là del Gargano, escludendo la costa pugliese a sud di Manfredonia. Il fermo bellico disposto dal governo nel ’99 fu imposto anche ai pescatori pugliesi, ma accertato che la bonifica del basso Adriatico non è mai stata realizzata, ci chiediamo perché all’epoca del conflitto sia stato ordinato anche a quelle marinerie la sospensione delle attività: un intervento indispensabile, si diceva allora, per il recupero degli ordigni. In Puglia il fermo bellico ha garantito, peraltro con un anno di ritardo, solo gli indennizzi agli operatori. Un tardivo rimborso spese, insomma: il contentino fatto apposta per tacitare gli animi. Di misure di sicurezza e prevenzione degli incidenti sul lavoro, neanche a parlarne. “Continueremo comunque a pescare bombe” – ci disse all’epoca un pescatore, profeta suo malgrado.
Di contro alla rassegnazione dei pescatori, le autorità militari ostentavano sin d’allora il successo delle prime operazioni di bonifica. Ancora, dai documenti ufficiali si apprendeva che le aree designate per il rilascio del carico bellico fossero sei in tutto l’Adriatico (mentre la sola mappa redatta a Molfetta, ne segnalava undici) e che le zone dove erano stati “effettivamente affondati gli ordigni” fossero state “tutte indagate” con le prime operazioni di bonifica. Ma i dati ufficiali sembrano smentiti dalla realtà: molti i ritrovamenti accidentali di bombe finite nelle reti dei pescatori anche dopo la bonifica, mentre sempre l’Icram dichiarava già nel ’99 (verbale della riunione del 30 agosto 1999 dell’Unità di crisi per gli ordigni NATO affondati in Adriatico) l’eventualità che, a operazioni concluse, fosse “rimasto sui fondali adriatici un numero rilevante, probabilmente dell’ordine delle migliaia, di ordigni dispersi” rappresentati soprattutto da piccole bomblets, dell’ordine di grandezza di una ventina di centimetri, provenienti dall’apertura delle bombe a grappolo. La portata di queste dichiarazioni fu tale da indurre il governo ad avviare una nuova fase di bonifica qualche mese più tardi (gennaio 2000). Ma sull’attendibilità della mappa con le zone di rilascio nei mari di Puglia pendeva ancora l’invalicabile veto della NATO, e così le autorità decisero che, di nuovo, il Basso Adriatico potesse attendere.
Nessuna bonifica neppure per gli ordigni a caricamento speciale (iprite e composti contenenti arsenico), affondati nel basso adriatico nel corso della seconda guerra mondiale.
A seguito di specifiche campagne di indagine, l’allora Icram, oggi Ispra, ha accertato la presenza sui fondali del Basso Adriatico di almeno ventimila ordigni con caricamento chimico…”.

Da Armi chimiche: un’eredità ancora pericolosa. Mappatura, monitoraggio e bonifica dei siti inquinati dagli ordigni della seconda guerra mondiale, a cura di Legambiente e Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche, pp. 12-13.

Oggi, sul Portale Ambientale della Regione Puglia, alla voce Disinquinamento del Basso Adriatico, si legge:
“La verifica della presenza degli ordigni bellici nelle aree individuate (già effettuata nel Porto di Molfetta) sarà effettuata dall’ISPRA con il concorso del Centro di Ricerca della NATO “NURC” (NATO Underwater Research Centre). Il piano prevede che la bonifica degli ordigni bellici sia attuata dallo SDAI – Corpo Speciale dello Stato Maggiore della Marina Militare.
Il nucleo SDAI, una volta rinvenuti gli ordigni a caricamento speciale, si avvale del supporto del Centro Tecnico Logistico Interforze Nucleare Biologico e Chimico (CETLI NBC) di Civitavecchia e dell’11° Reggimento Genio Guastatori di Foggia. Obiettivo complementare del Piano è quello di definire lo stato di qualità dei fondali delle aree in esame (prioritarie e non, per un totale di 19) e accertare eventuali successivi interventi di messa in sicurezza e bonifica, a tal fine l’ARPA Puglia, di concerto con il CETLI NBC, effettuerà le apposite determinazioni analitiche dei fondali marini.
L’ARPA Puglia, di concerto con la Direzione Marittima di Bari, sta curando l’organizzazione di corsi di informazione e formazione rivolti agli operatori della pesca circa le migliori pratiche da adottare nel caso di salpamento a bordo di residuati bellici o altri rifiuti pericolosi.”

Ma il sito web specifico per il programma risulta inattivo.

[Il Pentagono, ovverossia Il peggior inquinatore del Pianeta]

Italia, USA e getta

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“Ogni frase, ogni elemento di questo libro è fondato anche su documenti classificati e riservati, senza tesi precostituite: solo così ha la sua efficacia. Senza illazioni ed imprecisioni. Ricostruire il come di ogni falsità e di ogni segreto, e dimostrarlo.”
Gianni Lannes

Italia, USA e getta rivela la verità su uno degli eco-scandali peggiori della storia italiana: la trasformazione in discarica nucleare dei nostri mari ad opera degli Stati Uniti. I danni all’ambiente e alla salute e gli enormi interessi in gioco.
I nostri mari sono stati usati come discarica di ordigni nucleari dello Zio Sam, e mai bonificati.
Nella Penisola albergano centinaia di potenti ordigni (bombe, missili, mine) nucleari di proprietà degli Stati Uniti d’America. In caso di incidente, sabotaggio, bombardamento o altro, per l’Italia sarebbe la fine.
Nei mari del giardino d’Europa transitano, attraccano, sostano e giocano alla guerra unità a propulsione ed armamento nucleare.
L’Adriatico e il Tirreno sono stati trasformati segretamente dalle Forze Armate anglo-americane, in discariche di armi vietate dalle Convenzioni internazionali di Ginevra e di Parigi. In base ai resoconti dell’Alleanza Atlantica, le stime istituzionali fanno riferimento a circa un milione di bombe eterogenee caricate con aggressivi chimici e nucleari.
Le radiazioni sono invisibili, ma tutti gli esseri viventi in natura ne risentono, l’organismo umano si ammala e muore.
Abbiamo il diritto di sapere cosa stanno facendo alla flora e alla fauna, quali implicazioni ha tutto questo sulla catena alimentare e i delicati equilibri ecologici dei nostri mari.
Le conseguenze potrebbero essere drammaticamente irreversibili.

Italia, USA e getta.
I nostri mari: discarica americana per ordigni nucleari
,
di Gianni Lannes
Arianna editrice, € 9,80

[Dello stesso autore: NATO: colpito e affondato. La tragedia insabbiata del Francesco Padre]

Sovranità in Sardegna

codonesu

L’uso e l’abuso del territorio sardo per esercitazioni militari e sperimentazioni di vario genere, per oltre 50 anni, senza alcun controllo ambientale e sanitario da parte delle istituzioni preposte, ha creato seri danni ambientali e sanitari, difficilmente quantificabili e sanabili, e impedito lo sviluppo economico e sociale di ampie zone di territorio.
L’autore affronta il tema generale delle servitù militari, proponendone il loro superamento in una logica sovranista, e sviluppa un’analisi approfondita del Poligono Interforze del Salto di Quirra (PISQ), a partire dal problema noto come “sindrome di Quirra”. Nella seconda parte del libro, l’autore svolge un’analisi critica del modello della grande industria ormai in crisi e non più sostenibile e affronta alcuni temi politici della Sardegna, come la questione dell’energia, sulla quale, nell’Isola, si scontrano opinioni diversificate e divergenti. L’ultima parte del libro è dedicata alle prospettive di sviluppo nel contesto europeo, con particolare attenzione al tema della sovranità.

Servitù militari modello di sviluppo e sovranità in Sardegna,
di Fernando Codonesu
Cuec, 2013, € 15

Fernando Codonesu è nato a Villaputzu nel 1951. A Milano, ha conseguito la laurea in Fisica presso l’Università degli Studi e la laurea in Ingegneria Elettronica presso il Politecnico.
Si occupa di ambiente, energia rinnovabile e sviluppo sostenibile. Già componente della Commissione Tecnico Mista di Esperti per l’attività di caratterizzazione del PISQ promossa dal Ministero della Difesa nel periodo 2008-2011, è stato consulente della Commissione parlamentare di inchiesta sull’uranio impoverito fino all’elezione a Sindaco del Comune di Villaputzu, con una giunta civica di centro sinistra, nel mese di giugno 2012.

Una forma di pressione territoriale

Buona lettura, e buon anno nuovo!

La ricostruzione delle vari fasi nelle quali si è sviluppata la presenza militare estera degli Stati Uniti, e delle motivazioni che ne hanno guidato i cambiamenti, permette di tracciare un quadro delle varie funzioni che le basi militari all’estero hanno svolto.
La presenza militare all’estero, a partire dagli avamposti coloniali degli imperi del XIX secolo, non svolge esclusivamente funzioni belliche. Le basi militari all’estero, che spesso trovano nei conflitti il momento di maggiore incremento, svolgono una funzione di supporto alle attività commerciali e produttive e costituiscono un elemento centrale nelle relazioni diplomatiche tra differenti Paesi.
Il loro utilizzo come sostegno ed assistenza alle rotte commerciali costituisce una delle caratteristiche della presenza militare all’estero della Gran Bretagna che gli Stati Uniti hanno fatto proprie. L’attività di sostegno all’espansione economica svolta dalle basi militari all’estero, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, si è estesa anche alla creazione di un clima favorevole per le imprese statunitensi all’estero, in particolar modo in Europa.
La presenza militare svolge un ruolo centrale anche nelle relazioni politico/diplomatiche che si instaurano con gli altri Stati necessitando di un corredo di relazioni diplomatiche, in molti casi sancite da specifici accordi, tra i due Paesi. Allo stesso tempo, la presenza di installazioni militari contribuisce al rafforzamento delle relazioni; attraverso la presenza militare, il Paese ospitato mantiene il Paese ospitante all’interno della propria area di influenza.
Le relazioni tra Paesi possono assumere differenti spessori. La presenza di forze armate su un altro territorio può, in molti casi, costituire una forma di pressione territoriale in grado di esercitare influenza nelle politiche interne del Paese ospitante. La presenza militare, oltre alle sue dinamiche a scala locale, plasma i Paesi riceventi, influenzandone cultura e società ed alterandone anche il processo di democratizzazione.
Le basi militari possono svolgere un ruolo di controllo territoriale anche sui Paesi nei quali non sono presenti. Il controllo esercitato a distanza, tramite quindi la creazione di basi e lo stanziamento di truppe ad una distanza che permette il rapido dispiegamento in caso di conflitto, esercita una pressione sui Paesi riceventi anche senza un diretto coinvolgimento.
Il controllo a distanza rende quindi maggiormente complesso per i Paesi che lo subiscono, liberarsene, non essendoci legami diplomatici con il Paese che lo esercita.
La presenza militare estera ha assunto quindi una valenza simbolica che scavalca, ed in alcuni casi esula, la possibilità di un diretto impiego in attività belliche. Il valore simbolico della presenza militare estera, nei confronti dei Paesi ospitanti e di coloro che ne subiscono il controllo indiretto, assume un’importanza maggiore all’interno degli attuali equilibri internazionali e delle odierne metodologie di guerra.
[pp. 100, 101]

Per quanto riguarda le infrastrutture, il principale accordo bilaterale tra Italia e Stati Uniti è l’Accordo Bilaterale sulle Infrastrutture (BIA) del 1954. L’accordo venne preceduto da due accordi in materia di difesa nel 1950 e nel 1952 nonché da uno scambio di note del 1952. L’accordo venne firmato dal ministro degli esteri italiano (Giuseppe Pella) e dall’ambasciatrice statunitense in Italia (Clara Booth Luce), non venne mai sottoposto a ratifica parlamentare. Il fondamento giuridico di tale procedura viene fatto risalire alla “procedura semplificata”, un comportamento consuetudinario che prevede l’entrata in vigore di un atto non appena siglato da un rappresentante dell’esecutivo. Questa procedura, di norma utilizzata per accordi di natura tecnica, non si sarebbe potuta applicare anche all’accordo relativo alle installazioni militari. In virtù degli articoli 80 ed 87 della Costituzione, l’accordo circa le installazioni militari, rientrando tra gli accordi di natura politica e non essendo inquadrabile in fattispecie di natura finanziaria, costituisce un caso per il quale la procedura semplificata non potrebbe essere applicata. Il ricorso alla procedura semplificata nella risoluzione delle problematiche connesse alla installazione militare potrebbe configurare l’incostituzionalità dei procedimenti adottati; l’incostituzionalità degli accordi circa le basi militari statunitensi, anche nei casi in cui è stata sollevata, non ha tuttavia sortito conseguenze giuridiche nella validità degli accordi. La volontà politica di mantenere le relazioni con gli Stati Uniti in linea con quanto previsto nel 1954 e di celare alla popolazione italiana la conoscenza del contenuto degli accordi bilaterali prevarica la stessa costituzionalità dell’atto. La segretezza degli accordi con gli Stati Uniti del 1954 ed i successivi accordi, altrettanto segreti, circa le differenti installazioni si è estesa non solo ai contenuti degli accordi, ma alla loro stessa esistenza.
L’esistenza di un accordo con gli Stati Uniti in tema di basi militari venne infatti resa nota in occasione dei fatti del Cermis, quando l’allora presidente del consiglio D’Alema rese pubblica l’esistenza dei memorandum d’intesa con gli Stati Uniti. La segretezza degli accordi, motivata principalmente nel clima di contrapposizione caratteristico del momento della loro stipulazione, lascia tuttavia interrogativi legati principalmente alla necessità di mantenere ancora segreti i contenuti di un accordo risalente ad un’epoca distante, e alla necessità di secretare non solo le informazioni riguardanti i siti, giustificabili da esigenze di difesa, ma anche l’intero quadro delle relazioni. La norma, oltre che dal segreto militare, è coperta da un vincolo di segretezza bilaterale imposto al momento della stipulazione. Il trattato non può infatti essere reso pubblico autonomamente da nessuno dei due Paesi.
Nel 1959 l’Italia siglò con gli Stati Uniti un accordo che garantiva loro la possibilità di impiantare sul territorio italiano missili Jupiter dotati di una potenza nucleare superiore a quella delle bombe sganciate in Giappone. L’accordo, che generò tensioni con l’Unione Sovietica, non venne mai ratificato in parlamento e la sua sottoscrizione appare potesse essere ignota anche all’allora presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi. Attraverso questo accordo l’Italia utilizzava la possibilità atomica, esponendo i propri cittadini ad un potenziale attacco da parte sovietica, per rinsaldare le interrelazioni economiche con gli Stati Uniti e manifestare con decisione la propria volontà di aderire al patto atlantico.
Gli accordi stipulati dall’Italia con gli Stati Uniti non hanno subito, nel corso della loro evoluzione, una rinegoziazione, come nel caso degli accordi stipulati da Grecia, Turchia e Spagna, per i quali venne richiesta l’approvazione parlamentare e, conseguentemente, venne reso pubblico il contenuto.
La normativa circa la presenza di installazioni militari statunitensi in Italia è stata incrementata nel 1995 dallo Shell Agreement o “Memorandum d’intesa tra il ministero della difesa della Repubblica italiana ed il dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America, relativo alle installazioni/infrastrutture concesse in uso alle forze statunitensi in Italia”. Questo accordo, ugualmente entrato in vigore attraverso procedura semplificata ed inizialmente secretato, costituisce principalmente un documento di natura tecnica, attraverso il quale viene indicato lo schema necessario alla formulazione degli accordi relativi alle varie installazioni.
[pp. 124-126]

Le problematiche di sovranità si sviluppano anche riguardo alla presenza e la gestione delle armi nucleari. Gli Stati Uniti hanno, nel corso della loro presenza in Italia, utilizzato molte delle installazioni per finalità connesse agli ordigni nucleari. Depositi e basi abilitate all’utilizzo, sia terrestre che aereo, di ordigni nucleari hanno costituito una parte centrale e conclamata, soprattutto dalla letteratura estera, della presenza militare statunitense in Italia.
La prima presenza nucleare statunitense in Italia, risale agli ’50 quando, nella base di Gioia del Colle vennero ospitati 30 missili Jupiter. La presenza di testate nucleari e di missili Jupiter venne mantenuta segreta da parte delle autorità italiane nello stupore delle forze armate statunitensi “Non ha evidentemente senso continuare a mantenere segreta l’esistenza degli Jupiter ed il loro dislocamento, ma il governo italiano sembra volere questo per motivi politici”. La presenza nucleare degli Stati Uniti in Italia si amplia negli anni ’80, prima attraverso il processo di installazione di ordigni nucleari a Comiso, installazione che portò alla nascita dei principali movimenti anti-nucleare in Italia, e successivamente con lo stanziamento del 401° Squadrone Tattico ad Aviano.
Attualmente 90 ordigni nucleari dovrebbero essere presenti nelle basi di Aviano e di Ghedi Torre. Gli ordigni presenti in Italia potrebbero essere difficilmente utilizzabili, stando ai giudizi di Hans M. Kristensen, ed il loro valore è soprattutto simbolico. La presenza di ordigni nucleari assume quindi un ruolo di deterrenza, nei confronti dei potenziali avversari, ma costituisce allo stesso tempo un elemento di pressione nei confronti del Paese ospitante.
Il tema della presenza di ordigni nucleari in territorio italiano, oltre alle problematiche connesse circa il loro significato in termini di relazioni internazionali e di accettazione da parte dell’opinione pubblica, suscita problematiche connesse alla legittimità della loro presenza. Stati Uniti ed Italia sono entrambi aderenti al Trattato di non proliferazione nucleare. Il differente status dei due Paesi, in tema di ordigni nucleari li pone in situazioni differenti. Gli Stati Uniti, in quanto Stato detentore di ordigni nucleari è autorizzato a possederne, disporne la collocazione in altri Paesi, ma non a cederne ad altri Stati. L’Italia non può produrre né ricevere armi nucleari.
La presenza di ordigni nucleari in Italia, ed analogamente negli altri Paesi che non rientrano in quelli autorizzati a detenere armi nucleari ma nei cui territori gli Stati Uniti stanziano testate nucleari, porterebbe una violazione da parte di entrambi i Paesi del trattato di non proliferazione. La presenza di ordigni nucleari è dal punto di vista legislativo risolto con il sistema della “doppia chiave” per il quale gli Stati Uniti sono detentori degli ordigni e ne sono autorizzati all’utilizzo ma questo è permesso solo previo autorizzazione italiana, che di per sé non possiede testate nucleari. L’escamotage utilizzato per ovviare alle problematiche giuridiche, connesse alla presenza di testate nucleari, non incide tuttavia sui suoi effetti. L’aderenza al trattato di non proliferazione dovrebbe ricondurre non solo ad un aspetto legale, ma dovrebbe piuttosto essere rappresentativo di una scelta politica definita. La presenza di testate nucleari, la cui effettiva presenza non è mai stata dichiarata dai vertici istituzionali sia militari che civili, costituisce uno degli aspetti della presenza militare maggiormente osteggiati dall’opinione pubblica.
[pp. 127, 128]

Gli effetti economici della presenza militare su un territorio sono in molti casi sopravvalutati. Le odierne basi militari, in particolar modo all’estero, sono costruite cercando di dare ai propri abitanti la disponibilità di beni e servizi anche di rango elevato. Le loro dotazioni non attengono esclusivamente alle attività per le quali vengono costruite, ma sono sviluppate anche al fine di migliorare la vivibilità da parte dei militari stanziati.
Accanto ad attrezzature belliche, è quindi sempre più frequente trovare anche luoghi di incontro e di divertimento, oltre alla disponibilità di negozi e servizi per l’istruzione; le interrelazioni con l’esterno da parte degli abitanti della base sono quindi notevolmente ridotte. Le basi militari tendono ad essere autosufficienti anche per quanto attiene all’approvvigionamento di beni necessari, spesso derivanti da un processo di distribuzione proprio del dipartimento della difesa.
Il contributo che la presenza di un’installazione militare in termini di incremento di consumi appare quindi essere considerato marginale rispetto alle attività che vengono svolte a favore dei residenti; ne discende che i benefici economici tendono ad essere limitati temporalmente al periodo di costruzione, spesso svolto da società appaltatrici del Paese ospitante, e spazialmente alle poche attività localizzate in prossimità della base.
La presenza di installazioni militari, o di servitù militari, può costituire anche un vincolo allo sviluppo economico di un territorio. Essa impedisce infatti lo sfruttamento delle zone in prossimità della base per finalità commerciali. La presenza di basi militari potrebbe inoltre rendere minore la possibilità di sfruttamento a fini turistici del territorio dove la base è impiantata, poiché potrebbero portare a decise modifiche del paesaggio, nonché alla presenza di fattori di disturbo, come ad esempio l’inquinamento sonoro, che potrebbero costituirne elemento deterrente.
L’ostacolo che la presenza militare potrebbe arrecare alla crescita economica di un territorio ha, nel caso italiano, manifestazione evidente nella Sardegna. La presenza di vincoli nell’utilizzo degli spazi a terra, con le relative implicazioni di natura turistica, e gli effetti sulla pesca e sulle varie attività nautiche di zone di sgombero a mare, che si estendono su una superficie maggiore di quella dell’isola stessa, vengono indicate come cause del mancato sviluppo di intere parti dell’isola, maggiormente evidenti nel caso de La Maddalena.
[pp. 136, 137]

Le attività militari esercitano un’elevata pressione sul territorio nel quale vengono svolte, in particolar modo per quanto attiene all’utilizzo delle risorse naturali. Il loro consumo ed i danni operati all’ambiente emergono evidenti in occasione dei conflitti che, accanto alla perdita di vite umane, mostrano un deciso impatto sulle risorse naturali. L’impatto ambientale delle guerre, delle quali le immagini della prima guerra del Golfo costituiscono la rappresentazione più nota ed evocativa, hanno costituito oggetto di approfondite analisi. Inoltre le attività militari, nelle loro molteplici forme, provocano decise ripercussioni sull’ambiente anche in momenti di non conflittualità.
L’inquinamento dell’atmosfera e l’inquinamento acustico costituiscono le più evidenti manifestazioni delle conseguenze ambientali ma i principali effetti, in particolar modo a lungo termine, risiedono nella presenza di rifiuti tossici, contaminazioni chimiche e derivanti dall’utilizzo di oli e combustibili.
Come evidenziato da uno studio svolto su siti dimessi da parte del dipartimento difesa statunitense, gran parte dei siti manifestava questa problematica ed in molti casi più forme di inquinamento insistevano sullo stesso territorio.
L’utilizzo e la sperimentazione di materiali tossici, nucleari e radioattivi sono sottoposti a regolamentazioni internazionali; il loro utilizzo e la loro sperimentazione continua ad essere tuttavia diffuso e comune a molti Paesi. A partire dalla seconda guerra mondiale, utilizzo in attività belliche e sperimentazioni in fase di non conflittualità di materiali nucleari, tossici e biologici si sono susseguiti senza soluzione di continuità fino all’utilizzo dell’uranio impoverito nei conflitti in Iraq e nei Balcani.
Le conseguenze ambientali e per la salute dei cittadini non è legata esclusivamente all’utilizzo in conflitto. La presenza di alterazioni nello stato di cittadini prossimi a basi militari, in particolar modo poligoni, mostra la presenza di alterazioni ambientali anche a seguito dell’utilizzo delle basi e delle altre installazioni militari in fase di non conflittualità.
Un caso emblematico legato all’utilizzo di sostanze nucleari/chimiche/battereologiche, anche in fase di non conflittualità è rappresentato dalla Sardegna che costituisce, con i suoi 24.000 ettari di demanio militare, un territorio altamente militarizzato. Tra le varie installazioni presenti, una menzione tristemente particolare deve esser riservata al poligono di Quirra.
[pp. 142, 143]

Da Le basi militari degli Stati Uniti in Europa: posizionamento strategico, percorso localizzativo e impatto territoriale, di Daniele Paragano.
[grassetti nostri]

L’eredità americana de La Maddalena

Negli anni scorsi, da alcune alghe recuperate dai fondali marini, vengono trovate tracce di uranio e torio 234 molto superiori alla media, insieme alla presenza di plutonio 239.
Di fronte a tutto questo il governo italiano cosa fa? Sposta il G8. Obbliga gli Stati Uniti a fare la bonifica de La Maddalena? No, non fa nulla.
La lotta per la bonifica della ex base militare è una lotta necessaria che invece è stata sottovalutata dalla politica, che deve cercare e trovare soluzioni. La base dell’Isola dipendeva direttamente dal Pentagono. E allora è necessario un protocollo d’intesa con l’amministrazione Obama che stabilisca le modalità di intervento per studiare quali sono i problemi creati e giungere ad una bonifica totale, bonifica che crei lavoro e sviluppo, e riqualifichi l’Isola in senso turistico.
La Maddalena deve divenire un nuovo polo di sviluppo economico, e deve essere risanato. Perché chiediamo questo?
Il rapporto sullo stato di salute delle popolazioni residenti in aree interessate da poli industriali, minerari e militari della regione Sardegna, ha visto registrare sull’Isola un eccesso di mortalità per il linfoma non-Hodgkin (tumori maligni del sistema linfatico) nel ventennio 1981-2001. E perché non esistono studi che analizzino l’eventuale impatto degli inquinanti dell’Arsenale nella catena alimentare, relativamente alla contaminazione di pesci, molluschi e crostacei. E allora tali studi vanno fatti.
Sono stati spesi inutilmente 377 milioni a carico delle casse dello Stato e della regione Sardegna, e che come proprietaria della struttura, dovrebbe pagare la nuova bonifica. Ma sappiamo chi ha inquinato!
PERTANTO CHIEDIAMO:
* Che La Maddalena venga bonificata e riconvertita, e che nel nostro sistema venga introdotta l’obbligatorietà della valutazione d’impatto ambientale delle basi militari.
* Che venga concordato con l’amministrazione USA un protocollo d’intesa per la bonifica dell’area.
* Che la Marina Militare e lo Stato italiano facciano la loro parte nella bonifica della Maddalena.
* Che i progetti di bonifica vengano svolti con lavoratori locali, per non essere costretti ad emigrare.
* Chiediamo, soprattutto, lavoro stabile per i 2mila disoccupati e per i lavoratori precari de La Maddalena.

Da Non rubateci il futuro de La Maddalena, comunicato dell’Unione Sindacale di Base – Federazione Sardegna.

Il peggior inquinatore del Pianeta

Il ruolo del Pentagono nella catastrofe globale: aggiungere la devastazione climatica ai crimini di guerra, di Sara Flounders per Global Research

Tirando le somme della Conferenza di Copenhagen dell’ONU sul cambiamento climatico – con più di 15.000 partecipanti da 192 Paesi, compresi oltre 100 Capi di Stato, così come 100.000 manifestanti in piazza – è importante chiedersi: com’è possibile che il peggior inquinatore del Pianeta riguardo l’anidride carbonica ed altre emissioni tossiche non sia al centro di alcuna discussione della conferenza o proposta di restrizioni?
Sotto ogni rilevamento, il Pentagono è il maggiore fruitore istituzionale di prodotti petroliferi e di energia in generale. Eppure il Pentagono ha un esonero totale in tutti gli accordi internazionali sul clima.
Le guerre del Pentagono in Iraq ed Afghanistan; le sue operazioni segrete in Pakistan; il suo dislocamento su più di mille basi statunitensi nel mondo; le sue 6.000 infrastrutture negli USA; tutte le operazioni NATO; i suoi trasporti aerei, i jet, i test, l’addestramento e le vendite di armamenti non saranno calcolati nei limiti statunitensi riguardanti i gas serra o inclusi in alcun conteggio.
Il 17 febbraio 2007 il Bollettino Energetico calcolò il consumo di petrolio solo per aerei, navi, veicoli terrestri ed infrastrutture del Pentagono, che lo rendono il principale consumatore individuale di idrocarburi al mondo. All’epoca, la Marina statunitense aveva 285 navi da combattimento e da supporto e circa 4.000 velivoli operativi. L’Esercito statunitense aveva 28.000 mezzi corazzati, 140.000 veicoli multifunzionali su ruote ad alta mobilità, più di 4.000 elicotteri da combattimento, diverse centinaia di velivoli ad ala fissa ed un parco macchine pari a 187.493 veicoli. Eccezion fatta per 80 fra sommergibili e velivoli aerei a propulsione nucleare, i quali diffondono inquinamento radioattivo, tutti i loro altri veicoli sono alimentati con petrolio.
Perfino secondo le graduatorie dell’Annuario Mondiale CIA del 2006, solamente 35 Paesi (fra i 210 al mondo) consumano più carburante al giorno del Pentagono.
Le forze armate statunitensi usano ufficialmente 320.000 barili di petrolio al giorno. Comunque, questa somma non comprende la benzina consumata dai contractors o in strutture appaltate o privatizzate. Neppure comprende l’enorme quantità di energia e le risorse usate per produrre e mantenere il loro equipaggiamento apportatore di morte o le bombe, granate o missili che vengono sparati.
Steve Kretzmann, direttore di Oil Change International, riferisce: “La guerra in Iraq è stata responsabile di almeno 141 milioni di tonnellate decimali di diossido di carbonio equivalente da marzo 2003 a dicembre 2007… La guerra emette più del 60% di tutti i Paesi… quest’informazione non è disponibile alla lettura… perché le emissioni militari all’estero sono esenti dai rilevamenti del rapporto nazionale sotto la legge statunitense e dalla Convenzione Quadro dell’ONU sul Cambiamento Climatico.” (www.naomiklein.org, 10 dicembre 2009). La maggioranza degli scienziati condanna le emissioni di biossido di carbonio con riferimento ai gas dell’effetto serra ed al cambiamento climatico.
Bryan Farrell nel suo nuovo libro, La zona verde: i costi ambientali del militarismo, afferma che “il maggior singolo assalto all’ambiente, a tutti noi nel mondo, proviene da un agente… le Forze Armate degli Stati Uniti”.
Allora il Pentagono come fa ad essere esentato da tutti gli accordi sul clima? Al tempo dei negoziati per i Protocolli di Kyoto, gli USA chiesero come condizione per sottoscriverli che tutte le loro operazioni militari nel mondo e tutte le operazioni cui partecipano con l’ONU e/o la NATO venissero completamente escluse da rilevamenti o riduzioni.
Dopo aver ottenuto quest’enorme concessione, l’amministrazione Bush rifiutò in seguito di sottoscrivere gli accordi.

Nell’articolo del 18 maggio 1998 intitolato Istanze di sicurezza nazionale e di politica militare coinvolte nel trattato di Kyoto, il dottor Jeffrey Salmon delineò la posizione del Pentagono. Egli cita quindi il rapporto annuale 1997 del Segretario alla Difesa William Cohen al Congresso: “Il Dipartimento della Difesa raccomanda fortemente che gli Stati Uniti insistano su un’esenzione per la sicurezza nazionale nel Protocollo sul cambiamento climatico che ora stanno negoziando”. (www.marshall.org)
Secondo Salmon, quest’esenzione della sicurezza nazionale era stata portata avanti in una bozza che richiedeva “la completa esenzione militare dai limiti delle emissioni dei gas serra. La bozza include operazioni multilaterali così come azioni avvallate dalla NATO e dall’ONU, ma comprende pure attività connesse assai marginalmente con la sicurezza nazionale, che sembrerebbe comprendere tutte le forme di azioni militari unilaterali e l’addestramento per siffatte azioni”.
Salmon cita anche il Sottosegretario di Stato Stuart Eizenstat, che guidava la delegazione statunitense a Kyoto. Eizenstat riferiva che “ogni richiesta, che il Dipartimento della Difesa ed i militari in uniforme che erano a Kyoto al mio fianco dicevano di volere, la ottenevano. Vale a dire legittima difesa, peacekeeping, operazioni umanitarie”.
Benché gli Stati Uniti avessero già ricevuto queste assicurazioni nei negoziati, il Congresso statunitense approvò un provvedimento che esplicitamente garantiva l’esenzione militare americana. L’Inter Press Service riportava il 21 maggio 1998: “I legislatori statunitensi, nel più recente colpo agli sforzi internazionali per fermare il riscaldamento globale, oggi hanno esentato le operazioni militari statunitensi dall’accordo di Kyoto che definisce gli impegni vincolanti per ridurre le emissioni di “gas serra”. La Camera dei Rappresentanti ha approvato un emendamento alla legge di autorizzazione militare (ovverosia la legge che annualmente autorizza gli stanziamenti finanziari per la “difesa” – ndr) dell’anno prossimo che “proibisce l’assoggettamento delle forze armate al Protocollo di Kyoto”.”
Oggi a Copenaghen gli stessi accordi e guide linea sui gas serra destano ancora attenzione. Tuttavia è estremamente difficile trovare una sola menzione di questa clamorosa omissione.
Secondo la giornalista ambientale Johanna Peace, le attività militari continueranno ad essere esentate da un ordine esecutivo firmato dal Presidente Barack Obama che chiede alle agenzie federali di ridurre le loro emissioni di gas serra entro il 2020. La Peace calcola che “l’esercito costituisce un buon 80% delle domanda energetica del governo federale”. (www.solveclimate.com, 1 settembre)
L’esclusione totale delle operazioni globali del Pentagono fa apparire le emissioni statunitensi di diossido di carbonio minori di quanto in realtà siano. Tuttavia pur senza considerare il Pentagono, gli Stati Uniti hanno le maggiori emissioni di diossido di carbonio al mondo.

Più che emissioni
Oltre ad emettere diossido di carbonio, le operazioni militari statunitensi rilasciano altri materiali estremamente tossici e radioattivi nell’aria, nell’acqua e nel suolo.
Le munizioni statunitensi fatte con uranio impoverito hanno sprigionato decine di migliaia di libbre di microparticelle di scarto radioattivo ed altamente tossico nel Medio Oriente, in Asia Centrale e nei Balcani.
Gli USA vendono mine terrestri e bombe a grappolo che sono la principale causa di esplosioni ritardate, le quali mutilano e rendono invalidi specialmente contadini e popolazioni rurali in Africa, Asia ed America Latina. Per esempio, Israele disseminò più di un milione di bombe a grappolo fornite dagli USA in Libano durante la sua invasione del 2006.
La guerra americana in Vietnam lasciò enormi aree così contaminate con l’erbicida Agente Arancio che oggi, a più di 35 anni di distanza, la contaminazione da diossina è da 300 a 400 volte più alta dei livelli “sicuri”. Gravi difetti alla nascita ed elevati casi di cancro conseguenti alla contaminazione ambientale stanno manifestandosi nella terza generazione.
La guerra statunitense del 1991 in Iraq, seguita da 13 anni di pesantissime sanzioni, l’invasione americana del 2003 e l’occupazione che continua, hanno trasformato la regione – la quale ha una storia di 5.000 anni come paniere del Medio Oriente – in una catastrofe ambientale. La terra arabile e fertile dell’Iraq è diventata un deserto devastato in cui il più semplice venticello alza una tempesta di sabbia. Una volta esportatore di prodotti alimentari, oggi l’Iraq importa l’80% del suo cibo. Il Ministro iracheno dell’Agricoltura calcola che il 90% del territorio stia subendo una grave desertificazione.

La guerra ambientale in casa
Inoltre, il Dipartimento della Difesa si è costantemente opposto alle disposizioni dell’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA) relative alla bonifica delle basi statunitensi contaminate (Washington Post del 30 giugno 2008). Le basi militari del Pentagono sono in vetta alla lista di Superfund dei luoghi maggiormente inquinati, giacché agenti contaminanti filtrano nelle falde acquifere e nel suolo.
Il Pentagono ha anche combattuto gli sforzi dell’EPA per fissare nuovi livelli di inquinamento riguardo due agenti chimici tossici trovati in gran misura nei siti militari: il perclorato, trovato nel propellente di razzi e missili; ed il tricloroetilene, uno sgrassante per parti metalliche.
Il tricloroetilene è il più diffuso contaminante dell’acqua nelle campagne, poiché s’infiltra nelle falde acquifere in California, a New York, in Texas, Florida e altrove. Più di 1.000 siti militari negli Stati Uniti sono contaminati dall’agente chimico. Le comunità più povere, specialmente le comunità di colore, sono le più duramente colpite da quest’avvelenamento.
I test statunitensi di armi nucleari negli Stati del sud-ovest e sulle isole del Pacifico meridionale hanno contaminato enormi quantità di terra e acqua con radiazioni. Montagne di scarti di uranio radioattivo e tossico sono state lasciate nei territori dei Nativi del sud-ovest. Più di 1.000 mine di uranio sono state abbandonate nelle riserve Navajo in Arizona e Nuovo Messico.
In giro per il mondo, in basi sia vecchie sia ancora operanti a Portorico, nelle Filippine, in Corea del Sud, Vietnam, Laos, Cambogia, Giappone, Nicaragua, a Panama e nell’ex Jugoslavia, bidoni arrugginiti di agenti chimici e solventi e milioni di contenitori di munizioni sono stati abbandonati in maniera criminale dal Pentagono.
Il modo migliore per pulire in maniera radicale l’ambiente è abbattere il Pentagono. Ciò che serve per combattere il cambiamento climatico è una modifica totale del sistema.

Traduzione a cura di L.Salimbeni
[grassetti nostri]