A proposito di censura…

“Il mio contratto rescisso con la Rai”, di Michelangelo Severgnini

Il professore Alessandro Orsini si vede sfumare un contratto con la RAI per le partecipazioni al programma televisivo “Carta Bianca”, in seguito alle pressioni esercitate dal Partito Democratico.
Durante il programma avrebbe offerto al pubblico italiano le sue oneste analisi geopolitiche da fedele atlantista e convinto europeista.
E’ comunque uno scandalo.
Il servizio pubblico. La mancanza di pluralità. La censura anche nei confronti di chi ha visioni simili.
Sconcertante. Proteste (sempre più sparute) e indignazione (sempre più inconcludente).
Bene.
Voglio fare anch’io “outing”, come dicono gli anglosassoni: voglio confessare.
Nell’aprile 2019, come da foto, avevo firmato un pre-contratto per la RAI (certamente non il lauto contratto offerto al professor Orsini, ma vuoi mettere per le mie finanze?).
Il feldmaresciallo Khalifa Haftar aveva appena lanciato la campagna militare “Operazione Diluvio di Dignità” e aveva mosso le sue truppe verso Tripoli
Nella morsa si erano trovati decine di migliaia di migranti-schiavi ostaggio delle milizie in Tripolitania.
A me denunciavano di essere usati come scudi umani dalle milizie, non da Haftar. E la quasi totalità di coloro con cui parlavo in quelle settimane (diverse decine di loro) chiedeva di essere rimpatriata. Chiedeva di essere tirata fuori da una zona di guerra ed essere riportata a casa. Non c’era un minuto da perdere: rischiavano la vita in ogni momento, ancora più di quanto normalmente non sia per loro.
Il programma della RAI (di cui per riservatezza non faccio il nome) mi aveva chiesto l’acquisto di un’ora di messaggi vocali ricevuti via internet da migranti-schiavi in Libia. In quest’ora c’erano moltissimi messaggi che chiedevano, imploravano, il rimpatrio immediato, così come la denuncia delle milizie di Tripoli responsabili delle stragi poi attribuite ad Haftar.
Dopo alcune settimane di contatti di circostanza con gli autori del programma, spesi da parte loro a giustificare inspiegabili ritardi, scomparvero e non se ne fece più nulla.
Gli autori del programma sono di area piddina, altre volte avevano lavorato a stretto contatto con le ONG.
Se ci sono state pressioni, e ci sono state, io non lo saprò mai. O meglio: lo so che ci sono state ma non avrò mai il piacere di vederle confessate.
Né nessun parlamentare farà un’interrogazione sul mio caso.
Né nessun cittadino-spettatore si indignerà per ciò che il servizio pubblico gli ha negato.
Per me “L’Urlo” significa questo.
Quando nel tuo Paese, nel tuo continente, nella tua società, l’informazione è diventata narrazione al punto da trasformare i carnefici in salvatori umanitari di fronte a fenomeni disumani come la schiavitù, la tortura e la tratta di esseri umani, allora è finita.
Allora la sola libertà che mi resta è quella di urlare al cielo.
Perché non ho altro potere. Non tanto di fronte alla menzogna, di fronte alla menzogna posso usare la Parrhesia. Quanto di fronte allo stato di ipnosi collettiva in cui è caduta la mia gente.
Quella in Libia era una guerra nostra, combattuta con le nostre armi, vendute alle milizie libiche in cambio del petrolio saccheggiato allo Stato libico e inviato sotto banco all’Europa. Ma l’errore prospettico mostrava la campagna militare di Haftar come un’aggressione, non come una liberazione, così come invece la definivano i Libici di Tripoli.
Anni di soldi inviati alla Libia per fermare i migranti, dicevano. No signori, quei soldi servivano per armare le milizie libiche e difendere Tripoli dalla legittima richiesta di sovranità libica, dando mano libera alle bande armate che trafugavano il petrolio per conto nostro, dopo aver ridotto in schiavitù decine di migliaia di Africani.
Ancora oggi ti raccontano che i Libici non riescono a mettersi d’accordo, ora ci sono persino 2 premier! Come il compianto Edward Said ci aveva insegnato, il mito del mediorientale litigioso è da sempre stato uno strumento retorico per giustificare il colonialismo occidentale.
Infatti ora ci sono 2 premier perché uno è il premier legittimo votato dal parlamento (Fathi Bashagha) e l’altro è il Guaidò della Libia (Abdelhamid Dabaiba), quello riconosciuto solo dalla NATO.
Non sono i Libici a litigare. E’ la NATO a umiliare la sovranità libica e a coltivare il caos, per poterne saccheggiare le risorse.
Ma forse il paradigma in Libia sta cambiando. I cavalli della NATO sono zoppi. Se i Libici chiudono i rubinetti all’Europa ci sarà un’altra guerra. Diranno che il processo democratico è in pericolo e la dittatura sta tornando in Libia.
Haftar, definito oggi come allora “signore della guerra” dalla NATO, era ed è niente meno che la figura militare più legittima che si potesse trovare in Libia, a capo dell’Esercito Nazionale Libico istituito con voto del Parlamento nel marzo del 2015.
Gli esperti europei hanno studiato sui libri delle fiabe, non sul libro della realtà.
La realtà era che i migranti-schiavi nell’aprile del 2019 (come in qualsiasi altro momento) volevano tornare a casa. Quella era informazione, quella che volevo fare io.
Queste voci e molte altre stanno nel film “L’Urlo” che nessuno vuole trasmettere o distribuire. Questo è il trailer.
Ma in RAI gli elementi piddini si potevano permettere di fare informazione. Dovevano puntellare la narrazione della NATO.
Come fanno oggi: Putin ha sostituito Haftar nello schema e ciò che davvero succede sul campo è lavoro di fantasia, è prodotto di narrazione fiabesca, oggi in Ucraina come allora in Libia.
Giù la saracinesca. Niente contratto. Per altro io non fornivo analisi politiche, io fornivo fonti dirette sul campo che parlavano liberamente in forma anonima con la loro voce.
Tu da che parte stai? Io sto dalla parte della verità. La verità è rivoluzionaria. “Quasi tutte le guerre iniziate negli ultimi 50 anni sono state il risultato di bugie dei media” ci dice Julian Assange.
Non c’è altro interesse da difendere. Le notizie vanno date.
La censura di guerra è partita da molto lontano ed è da più di un decennio, dalla sbornia colorata del 2011, che siamo abbondantemente sotta la linea di galleggiamento. Dirottare l’opinione pubblica di un intero continente in queste forme significa una sola cosa: preparare la guerra.
La menzogna ha intaccato in profondità ogni nostro ragionamento sull’esistente.
Quando chiudi entrambi gli occhi puoi solo andare a sbattere.
Io ho urlato più che ho potuto.
Ora teniamoci forte prima dello schianto.

Michelangelo Severgnini è un regista indipendente, esperto di Medioriente e Nord Africa, musicista. Ha vissuto per un decennio a Istanbul. Ora dalle sponde siciliane anima il progetto “Exodus” in contatto con centinaia di persone in Libia. Di prossima uscita il film “L’Urlo”.

(Fonte)

L’Occidente, simulacro di libertà

L’Occidente ha cercato con ogni mezzo di mettere a tacere i cittadini che ne hanno rivelato la reale politica del dopo-11 Settembre e che vi si sono opposti.

Nel 2002 pubblicavo L’Effroyable imposture [L’incredibile menzogna, ed. Fandango], un saggio di scienze politiche di denuncia della versione ufficiale degli attentati di New York, Washington e Pennsylvania, nonché di anticipazione della nuova politica USA che ne sarebbe seguita: sorveglianza generalizzata dei cittadini e dominio sul Medio Oriente Allargato. Dopo un articolo del New York Times, che si stupiva del mio impatto in Francia, il dipartimento USA della Difesa incaricò il Mossad di eliminarmi. Il presidente Jacques Chirac, dopo aver fatto verificare all’Intelligence le mie tesi, prese le mie difese. In un colloquio telefonico, Chirac informò il primo ministro israeliano Ariel Sharon che ogni atto contro di me, eventualmente compiuto non solo in Francia ma ovunque nel territorio dell’Unione Europea, sarebbe stato interpretato come atto ostile alla Francia. Il presidente incaricò inoltre un suo collaboratore di occuparsi del mio caso e d’informare gli Stati non-europei che mi avessero invitato che avrebbero dovuto assumersi la responsabilità della mia sicurezza. In effetti in tutti i Paesi dove tenni conferenze mi venne assegnata una scorta armata.

Nel 2007 Nicolas Sarkozy successe al presidente Chirac. Secondo l’alto funzionario incaricato da Chirac della mia sicurezza, il nuovo presidente aderì alla richiesta di Washington di ordinare alla DGSE (Direction générale de la sécurité extérieure, Direzione Generale per la Sicurezza Esterna, ndt) di eliminarmi. Avvisato, senza indugio feci le valige e lasciai la Francia. Due giorni dopo arrivai a Damasco, dove mi venne assegnata la protezione di Stato.

Alcuni mesi dopo decisi di trasferirmi in Libano e di accettare la proposta di realizzare una trasmissione settimanale in francese su Al-Manar, canale televisivo dello Hezbollah. Il progetto non fu mai realizzato. Al-Manar rinunciò a trasmettere in francese, sebbene fosse lingua ufficiale del Libano. Fu allora che la ministra francese della Giustizia, Michèle Alliot-Marie, emise una rogatoria contro di me, prendendo a pretesto l’accusa di diffamazione di un giornalista che contro di me già aveva scritto un libro. Da trent’anni non c’erano più state richieste giudiziarie di questo tipo indirizzate al Libano. La polizia mi consegnò una convocazione da cui potei desumere che secondo il diritto francese la rogatoria non aveva alcun fondamento. Lo Hezbollah mi protesse e mi resi irreperibile. Pochi mesi dopo, in seguito al tentativo del primo ministro libanese Fouad Siniora di disarmare la Resistenza, lo Hezbollah rovesciò i rapporti di forza. Mi presentai quindi al giudice, applaudito dalla polizia che solo tre giorni prima mi ricercava. Il giudice mi comunicò che Alliot-Marie aveva aggiunto di proprio pugno sulla rogatoria la richiesta all’omologo libanese di arrestarmi e tenermi in prigione il più a lungo possibile, frattanto che la vicenda avrebbe seguito il suo corso in Francia. Era il medesimo principio soggiacente alle lettres de cachet [lettere che recavano un ordine del re, chiuse con il suo sigillo, ndt] dell’Ancien Régime: la facoltà d’imprigionare senza processo gli oppositori politici. Il magistrato mi lesse la rogatoria e m’invitò a rispondere per iscritto. Nella replica precisai che, secondo il diritto francese nonché libanese, l’articolo incriminato era prescritto da tempo e che in ogni caso non era affatto diffamatorio. Copia della lettera della ministra Alliot-Marie e della mia risposta furono depositate alla Corte di Cassazione di Beirut.

Alcuni mesi dopo fui invitato a una cena organizzata da un’alta personalità libanese. Vi partecipava anche un collaboratore del presidente Sarkozy, di passaggio in Libano. Ci confrontammo duramente sui rispettivi concetti di laicità. Questo signore assicurò ai convitati di non volersi sottrarre al dibattito, ma subito si congedò per prendere un aereo e rientrare all’Eliseo. Il giorno successivo ero convocato da un giudice per un problema amministrativo: quando mi trovavo a non più di due minuti d’auto dal luogo dell’appuntamento, il gabinetto del principe Talal Arslane mi avvertì telefonicamente che secondo lo Hezbollah stavo per cadere in una trappola e che dovevo immediatamente invertire la rotta. Risultò poi che quel giorno, anniversario della nascita di Maometto, i funzionari, salvo alcune eccezioni, non erano al lavoro. In compenso, sul posto c’era una squadra della DGSE incaricata di prelevarmi e consegnarmi alla CIA. L’operazione era stata organizzata dal consigliere presidenziale con cui avevo cenato la sera prima.

Seguirono numerosi altri tentativi di uccisione, di cui mi fu difficile stabilire il mandante.

Per esempio, durante una conferenza al ministero della Cultura del Venezuela, la guardia del presidente Chàvez mi raggiunse sul palco da cui parlavo. Un ufficiale mi prelevò di forza e mi spinse verso le logge. Ebbi soltanto il tempo di vedere nella sala uomini estrarre le armi. Due fazioni si minacciavano a vicenda. Uno sparo e sarebbe stata una carneficina. Altro fatto, pure accaduto a Caracas: fui invitato con il mio compagno di battaglie a una cena. Quando ci portarono i piatti, constatai che il mio era stranamente meno abbondante degli altri. Sicché, con discrezione, lo scambiai con quello del mio compagno, che aveva poco appetito. Rientrati in albergo, il mio amico fu improvvisamente preso da convulsioni, perse conoscenza, si rotolò a terra con la bava alla bocca. All’arrivo, i medici furono categorici: quest’uomo è stato avvelenato. Fu salvato in tempo. Due giorni dopo una delegazione di una decina di ufficiali in alta uniforme della SEBIN (servizi segreti) venne a scusarsi e a dirci che era stato identificato l’agente straniero che aveva organizzato l’operazione. Il mio amico, costretto in carrozzina, impiegò sei mesi a rimettersi.

In una fase successiva, cominciata nel 2010, gli attacchi contro la mia persona videro sempre coinvolti degli jihadisti. Un esempio: un discepolo dello sceicco Ahmed al-Assir tese un’imboscata al mio compagno di battaglie e tentò di ucciderlo. Fu salvato da un intervento del PSNS [Partito Nazionalista Sociale Siriano, ndt]. L’aggressore fu arrestato dallo Hezbollah, consegnato all’esercito libanese, giudicato e infine condannato.

Nel 2011 la figlia di Muammar Gheddafi, Aisha, m’invitò in Libia. Mi aveva visto su una televisione araba concionare contro il padre. Voleva che andassi in Libia per constatare quanto fosse errato il mio giudizio. Accettai l’invito. Un passo dopo l’altro finii con l’unirmi al governo libico e venni incaricato di preparare l’intervento all’Assemblea Generale dell’ONU. Quando la NATO attaccò la Jamahiriya Araba Libica mi trovavo all’hotel Rixos, dove alloggiava la stampa straniera. La NATO esfiltrò i giornalisti che collaboravano con l’Alleanza, ma non riuscì a evacuare quelli che si trovavano al Rixos, difeso da Khamis, il figlio più giovane di Gheddafi. Quest’ultimo si trovava nell’interrato dell’hotel, i cui ascensori erano stati sbarrati. Gli jihadisti libici, che in seguito formeranno l’Esercito Siriano Libero comandati da Mahdi al-Harti e inquadrati da soldati francesi, assediarono l’hotel, uccidendo chi s’avvicinava alle finestre.

Alla fine, la Croce Rossa Internazionale ci prelevò e ci portò in un altro hotel, ove si stava formando il nuovo governo. Quando arrivammo all’albergo due Guardiani della Rivoluzione iraniani mi vennero incontro: erano stati mandati dal presidente Mahmud Ahmadinejad e dal vicepresidente Hamid Baghaie per mettermi in salvo. Le autorità iraniane erano in possesso di un rapporto su quanto deciso in una riunione segreta della NATO a Napoli, che prevedeva tra l’altro che venissi ucciso al momento della presa di Tripoli. Il documento attestava che al summit era presente il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, amico di mio padre. In seguito la segreteria di Juppé sosterrà che la riunione non ebbe luogo e che il ministro quel giorno si trovava in vacanza. Credendo risolto il problema, i Guardiani della Rivoluzione lasciarono la Libia. Ma in città era stato distribuito un manifestino con le foto di dodici persone ricercate: 11 libici e io. Un gruppo di “ribelli” iniziò a perquisire l’hotel per cercarmi. Dapprima fui salvato da un giornalista di RT, che mi nascose in camera sua e si rifiutò di fare entrare i “ribelli”, poi da altri colleghi, fra cui una giornalista di TF1. Dopo peripezie di ogni genere, dalle quali riuscii a uscire vivo svariate decine di volte, con altre quaranta persone fuggii come un clandestino a bordo di un piccolo peschereccio che navigava verso Malta, in mezzo a navi da guerra della NATO. A La Valletta ci attendevano il primo ministro e gli ambasciatori dei Paesi dei miei compagni di viaggio. Di tutti i Paesi tranne che della Francia.

Quando in Siria ebbe inizio la “primavera araba”, ossia l’operazione segreta dei britannici per piazzare al potere i Fratelli Mussulmani, come un secolo prima avevano fatto con i wahabiti, tornai a Damasco per aiutare chi mi aveva accolto quattro anni prima. Ovviamente ho corso più volte il rischio di morire, ma era la guerra. In un’occasione però fui bersaglio diretto degli jihadisti. Durante uno degli attacchi a Damasco, i “ribelli”, ufficialmente sostenuti dal presidente François Hollande, tentarono di assaltare la mia abitazione. L’esercito siriano installò sul tetto un mortaio e li respinse: un centinaio di “ribelli” contro cinque soldati. Ma dopo tre giorni ininterrotti di combattimenti i “ribelli” dovettero ritirarsi. Tra loro non c’erano siriani, solo pakistani e somali senza addestramento militare. Mi ricordo che prima di scagliarsi contro la casa cantavano ripetutamente e istericamente «Allah Akbar!». Ancora oggi, quando sento questo nobile grido mi viene la pelle d’oca.

Nel 2020 sono tornato in Francia per riunirmi alla famiglia. Molti miei amici mi avevano assicurato che, a differenza dei due predecessori, il presidente Emmanuel Macron non ricorreva agli assassinii politici. Ciononostante non godetti dei diritti di uomo libero. La dogana ricevette una segnalazione che il container marittimo che trasportava le cose personali mie e del mio compagno conteneva esplosivi e armi. Intercettarono il container e inviarono una quarantina di agenti a perquisirlo. Era una trappola di un servizio straniero. La dogana consentì a una società di riprendersi la merce contenuta nel container: impiegarono due giorni, il container fu saccheggiato, le nostre cose distrutte, i documenti spariti.

Il mio non è un caso isolato. Quando svelò il sistema Vault 7, che permette alla CIA di entrare in qualsiasi computer o telefono portatile, Julian Assange divenne bersaglio degli Stati Uniti. Il direttore della CIA Mike Pompeo orchestrò, con l’assenso del Regno Unito, diverse operazioni per rapire o uccidere Assange. E quando Edward Snowden pubblicò moltissimi documenti che attestavano come la NSA violasse la vita privata dei cittadini, tutti i Paesi membri della NATO si coalizzarono contro di lui. La Francia, credendo che Snowden fosse a bordo dell’aereo del presidente della Bolivia Evo Morales, si spinse sino a chiudere il proprio spazio aereo. Oggi Snowden è rifugiato in Russia.

La libertà non abita più in Occidente.

Thierry Meyssan

Consulente politico, presidente-fondatore della Rete Voltaire, l’ultima opera in italiano di Thierry Meyssan è Sotto i nostri occhi. La grande menzogna della “Primavera araba”. Dall’11 settembre a Donald Trump, Edizioni La Vela, 2018.

(Fonte)

“Col sangue l’Italia è stata avvertita”


“Ci hanno avvertito, ci hanno mandato a dire con la strage che l’Italia deve stare al suo posto sulla scena internazionale. Un posto di comparsa, di aiutante. Ci hanno fatto sapere col sangue che il nostro Paese non può pensare di muoversi da solo nel Mediterraneo. Ci hanno ricordato che siamo e dobbiamo restare subalterni. E noi non abbiamo un sistema di sicurezza nazionale capace di opporsi a questi avvertimenti. I nostri servizi di sicurezza sono inefficienti perché così li hanno voluti gli accordi internazionali. Non difendono l’Italia perché non debbono difenderla. Sono funzionali alla nostra condizione di inferiorità. Altro che strage fascista: è accaduto qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa che pone il problema della nostra autonomia internazionale”.
Rino Formica è capogruppo dei deputati del PSI, il partito del Presidente del Consiglio. E’ stato commissario nell’indagine parlamentare sulla P2. Sa quello che il Parlamento conosce dell’ attività dei nostri servizi segreti. Sa quello che il governo davvero temeva prima della strage e soprattutto quello che il governo teme oggi. Ragiona sul macello del treno 904 e arriva a una conclusione che gli appare ferrea: “La strage è un avvertimento venuto da fuori ma questo non assolve nessuno. Anzi, evidenzia drammaticamente la debolezza del nostro Stato, la precarietà della nostra democrazia, la pigrizia mentale delle nostre forze politiche. Ci hanno avvertito e facciamo finta di non capire”.
Un momento, onorevole, chi ci ha avvertito?
“Da due anni abbiamo una presenza internazionale più autonoma. Con un atto di guerra ci hanno detto di smetterla”.
E’ solo una mezza risposta la sua. Le chiedo: anche lei parla di pista internazionale. Si riferisce alle minacce di vendetta degli estremisti islamici, a Paesi spesso tirati in ballo per atti di terrorismo come la Libia?
“Per carità, le vendette internazionali si consumano in modo mirato. Se qualcuno vuole che l’ Italia liberi i Libanesi che ha messo in carcere sequestra degli Italiani. Se qualcuno volesse punirci per fatti specifici fa presto a far fuori tecnici o diplomatici italiani. La pista internazionale di cui parlo io non è il folklore sui cattivi nel mondo. E’ purtroppo una cosa più seria”.
E allora ci dica dove porta questa pista.
“Voglio partire da quanto ho visto l’altro giorno in Parlamento, mentre si discuteva della strage: uno spettacolo desolante, un’assemblea stordita. Tutti contenti nel dire fascismo contro antifascismo, rifacciamo l’unità e stiamo a posto. Che pochezza emiliana. E allora io provo a ragionare. Abbiamo avuto due fenomeni terroristici: uno rosso che nasce dalla costola dell’ estremismo marxista e cattolico e che è stato qualcosa di carattere sostanzialmente nazionale, un terrorismo che mirava ai simboli, un terrorismo logico. L’altro crea paura di massa. Ma ci domandiamo cosa vuol dire: significa che non dobbiamo compiere passi azzardati, non dobbiamo andare oltre certi confini. Questo è il senso delle stragi. La strage è una decimazione indiscriminata. Può venire dall’interno se si è in presenza di una guerra civile. Altrimenti appartiene a una logica esterna, anche se può trovare pali, manovalanza e supporti in sede locale”.
Questa, onorevole, è la premessa di un ragionamento. Dove sta la conclusione?
“Ci arrivo, ci arrivo. Ma ancora qualche considerazione: la strage di Natale è così perfettamente copiata su quella dell’Italicus da avere dentro di sé le caratteristiche del depistaggio. Ce la prendiamo col fascista assassino così come abbiamo fatto per le altre stragi. E non a caso non abbiamo mai trovato nessun colpevole. Tranne in un caso: il 17 maggio del 1973 in via Fatebenefratelli Gianfranco Bertoli, ex informatore del SIFAR, lancia una bomba contro il presidente del Consiglio Rumor. Quattro morti, decine di feriti. Sedicente anarchico veniva da un kibbutz israeliano. Se lo sono dimenticato tutti, eppure è l’unico filo, l’ unico nome che abbiamo in materia di stragi”.
E allora?
“Allora vuol dire che non sappiamo o non vogliamo indagare e ragionare sulle stragi. Le voglio ricordare un’altra cosa: il 5 novembre del 1972 Forlani, il cauto Forlani, parlava della Rosa dei venti come del tentativo più pericoloso della destra italiana dal dopoguerra e aggiungeva: un tentativo ancora in corso. Un tentativo con collegamenti internazionali. Da allora Forlani non ne ha parlato più. Di Bertoli nessuno ha parlato più”.
E quale sarebbe la verità che nessuno in fondo vuol conoscere?
“Quella per cui le stragi servono per introdurre avvertimenti a fini interni e quella per cui il nostro Paese è troppo debole per difendersi”.
Torniamo alla domanda originaria. Difendersi da chi?
“Non puoi crescere in democrazia, non puoi accettare sfide mondiali, stare al centro di un’area di guerra come il Mediterraneo e avere dei servizi di sicurezza funzionali, nati e cresciuti per la subalternità internazionale. Non puoi essere fino in fondo autonomo all’interno delle alleanze se i nostri servizi di sicurezza nemmeno hanno la parità dei flussi d’informazione con quelli alleati”.
Insomma, qualcuno ci ha avvertito, dall’estero e col sangue, che stavamo diventando troppo autonomi. E i nostri servizi di sicurezza non sono serviti a nulla. E’ così?
“E’ così e io credo che vada rinegoziata l’integrazione dei sistemi di sicurezza con i servizi analoghi dei Paesi alleati”.
Onorevole Formica, l’avvertimento di cui lei parla, la richiesta che i nostri servizi di sicurezza siano messi su un piano di parità con quelli alleati, vogliono dire che quella bomba sul treno è stata messa per iniziativa di qualche servizio segreto straniero. Qualcosa che i nostri avrebbero potuto sapere e non hanno saputo.
“E’ plausibile che sia andata così”.
E quale servizio è plausibile che sia l’ organizzatore dell’ avvertimento?
“Forse l’ uno, forse l’ altro. A certi livelli si scambiano favori. Io questo non lo so ma so che i nostri non funzionano”.
Già, se non sanno quello che fa il KGB o la CIA o altri che ci stanno a fare?
“Le racconterò tra un attimo dei servizi. Ma prima voglio spiegare meglio perché ci mandano questi avvertimenti. A metà e alla fine degli anni Settanta ci dissero che non potevamo procedere speditamente ad un’evoluzione democratica perché questo metteva in circolo forze politiche di cui era discutibile la fedeltà internazionale”.
Si riferisce a quello che fu il tentativo di Moro?
“Anche. Quello che di Moro all’estero non potevano accettare era la sua disponibilità a stare con i comunisti. Potevano accettare dei comunisti al governo, come poi accadrà in Francia. Non potevano accettare una sorta di democrazia popolare in Occidente”.
E anche la morte di Moro fu un avvertimento?
“Questo non posso dirlo. Non posso stabilire rapporti di causa ed effetto. Posso dire che quel tentativo in parte ambiguo di autonomia nazionale fu osteggiato. Oggi però il problema è diverso”.
Oggi per che cosa ci hanno avvertiti?
“Perché stavamo diventando un Paese che cominciava a dire la sua. In campo economico, sullo scacchiere del Mediterraneo. Perché stavamo diventando nazione all’interno delle alleanze. E invece ci ricordano che al massimo possiamo mandare qualche corvetta da qualche parte. Oggi non è problema di questa o quella forza politica al governo. Chiunque comandi in Italia deve ricordarsi di stare al suo posto”.
E deve smettere di far girare ministri degli Esteri e presidenti del Consiglio nel Mediterraneo?
“Deve ricordarsi delle nostre dipendenze internazionali. Questo è l’avvertimento. In quest’area un’Italia protagonista dà fastidio sia ad Est che ad Ovest”.
Dicevamo dei nostri servizi segreti…
“Il giorno 20 dicembre viene Scalfaro in Parlamento. Dice: l’ Italia è un Paese senza frontiere, entra ed esce chi vuole, il libanese ammazzato a Roma non sappiamo come si chiama, come è venuto. Promette: metterò ordine negli stranieri all’Università di Perugia. Gli dico: bravo, ma ricordati che perfino i finti studenti di Perugia sono stati contrattati internazionalmente. Voglio dire che nei nostri servizi la devianza è certamente rilevante ma peggio è la loro inefficienza. Inefficienza voluta al loro atto di nascita sancita negli accordi. E nel buco nero dell’inefficienza nasce la devianza: Non potendo, non dovendo difendere il Paese, s’industriano a spiare i politici, a stendere dossier”.
Che vuol dire inefficienza?
“Vuol dire che quando gli Americani hanno deciso tempo fa di sospendere il flusso delle informazioni in loro possesso, siamo rimasti ad aspettare che cambiassero idea. Vuol dire che i sistemi di reclutamento sono incredibili. Poiché i servizi sono segreti, una delle garanzie di riservatezza è che ognuno tira dentro un parente. Vuol dire che riciclano le informazioni delle Questure. Vuol dire, un esempio: dieci anni fa segnalano Freda in Grecia. Si discute come andarlo a prendere. Si decide: lo rapiamo. Si appalta l’ operazione al camorrista Zaza in cambio di denaro e impunità. Zaza subappalta il rapimento. Il rapimento fallisce. Freda resta libero. Zaza vola via con i soldi. Ecco i nostri servizi”.
Ma non sono gli stessi servizi che avevano detto a Craxi che “signori con la valigia giravano per l’ Italia”?
“Ma quelle sono soffiate che arrivano a centinaia. Col senno di poi ci si ripensa. Ma se volessimo ascoltarle i treni bisognerebbe fermarli tutti ogni giorno. Quando ero ministro dei Trasporti il direttore generale mi diceva: fermiamo solo quando la telefonata arriva ai Carabinieri perché i Carabinieri si presentano in stazione, altrimenti potremmo chiudere tutte le linee per sempre”.
Craxi, perché non è andato a Bologna?
“Sbaglia chi critica la sua assenza. Non ha potuto, ma sarebbe stata una risposta vecchia. Altre sono le risposte: non smettere una politica di pace nel Mediterraneo…”.
Ignorare l’avvertimento?
“Possiamo fare solo due cose: o rientrare nei ranghi o dotare il Paese di sistemi di difesa e di sicurezza adeguati alle nostri ambizioni. Ci sarebbe una terza cosa da fare: diventare una democrazia compiuta, ma altri ci hanno messo secoli, noi ci proviamo da appena due generazioni. E purtroppo, nel dopoguerra si è scelta una democrazia del compromesso, una democrazia lenta”.
Onorevole, che vuol dire non smettere una politica di pace nel Mediterraneo?
“Vuol dire che una volta si sta con Israele e una volta no”.
E che vuol dire capire l’avvertimento senza subirlo?
“Vuol dire sofferenza per tutti i partiti. Perché significa imparare a discriminare il bene e il male sullo schieramento internazionale senza garanzie e certezze. Vuol dire diventare nazione. L’unità antifascista, purtroppo, non basta più né per capire né per fermare le stragi. E’ questo il dramma della pista internazionale, quella vera”.

Intervista di Mino Fuccillo, 29 dicembre 1984

Libia: tanto casino per nulla

“Ma perchè tanto casino per nulla? Sarebbe interessante capire quali attori hanno avuto interesse a far uscire certe notizie proprio in questo momento. Gli stessi che probabilmente avevano diffuso false dichiarazioni attrribuite alla presidenza tunisina di aver negato il passaggio sul suo territorio alle truppe di Haftar, quando invece Erdogan non ne aveva neanche fatto richiesta. Ma quello che fa sorridere maggiormente, al di là delle congetture sul perchè Serraj non sia venuto a Roma, è la notizia del suo rapimento. E’ chiaro a tutti – e chi non lo ricorda o nega – mente, che Serraj è stato rapito il primo giorno del suo Governo. Una chiara descrizione di questo concetto ci viene fornita da Wolfram Lacher and Alaa al-Idriss nel rapporto “Capitale delle milizie, i gruppi armati catturano lo Stato libico”.
“Quando arrivò a Tripoli – si legge nel rapporto – il Consiglio presidenziale poteva contare sulla promessa di una manciata di gruppi armati nella capitale che lo avrebbero sostenuto. Una serie di altre milizie erano esplicitamente ostili, mentre la maggior parte dei gruppi armati a Tripoli non era schierata. Dal 2011, il panorama della sicurezza di Tripoli è stato un mosaico altamente frammentato e instabile di più gruppi armati. Ma nell’anno che seguì l’arrivo del Consiglio Presidenziale, quattro milizie che si erano associate a Serraj fin dall’inizio divisero la capitale tra di loro. Queste quattro milizie – la Special Deterrence Force (SDF), il Tripoli Revolutionaries Battalion (TRB), il Nawasi Battalion e l’unità Abu Slim dell’apparato di sicurezza centrale – hanno ampliato il loro controllo sul centro, il sud e l’ovest di Tripoli, spostando gradualmente i gruppi armati rivali durante una serie di pesanti scontri. Parallelamente, hanno convertito il loro controllo territoriale in influenza politica e finanziaria guadagnando e consolidandosi in un cartello”.
Ma non è tutto. Vale la pena ricordare alcuni crimini commessi da queste milizie che hanno preso in ostaggio Serraj dal primo giorno del suo insediamento. Tralasciando quelli più lontani nel tempo, ci limitiamo qui a citare solo i fatti più recenti verificatisi nella capitale Tripoli. Il 4 dicembre 2019, alcuni gruppi di uomini armati, probabilmente appartenenti alla città di Misurata e diverse formazioni, hanno attaccato mercoledì mattina la sede del Ministero delle Finanze, nei pressi di Dahra, circondadolo e sequestrando mezzi e armi. Lo stesso giorno gli stessi gruppi armati hanno circondato gli uffici presidenziali di Fayez al-Serraj, sequestrando armi e alcuni mezzi delle forze di sicurezza incaricate di proteggere il presidente. La notizia è stata confermata dal ministro dell’Interno, Fathi Pashagha, che promise giustizia e avvertì l’indomani l’avvio dell’ennesima indagine che rimarrà inconclusa, per la totale assenza dello stato di diritto a Tripoli.
Ancora prima, il 26 settembre 2019, pubblicando una nota del governo libico, riportavamo l’attacco da parte delle milizie al ministro dell’Economia, Faraj Boumtari. Il ministro aveva rivelato che, mentre si trovava nel suo ufficio, era stato attaccato da una persona di nome Taher Erwa, meglio noto come capo dell’intelligence di Tripoli. In una missiva indirizzata al procuratore generale e al Ministero degli Interni, il ministro spiegava di essere stato assalito nel suo Ministero perchè l’uomo sosteneva che il suo gruppo non aveva ricevuto il suo salario. Ma ancora prima, il 12 gennaio 2017, Federica Bianchi sull’Espresso scriveva: “i ribelli hanno attaccato le sedi dei principali dicasteri: è la dimostrazione di quanto la situazione nel paese africano sia ancora instabile nonostante le vittorie contro l’Isis”. Bianchi aggiunge: “Nonostante le milizie di Misurata, fedeli ai Fratelli Musulmani di cui Haftar è acerrimo nemico, abbiamo cacciato l’Isis da Sirte, il governo di Serraj su cui ripongono le speranze americani ed europei non solo ha perso importanti pezzi da novanta nell’ultimo anno ma non è riuscito ancora a garantire la ripresa della vita nella capitale libica, in questi giorni addirittura in preda al freddo per mancanza di elettricità”.
Tutto ciò – sebbene di esempi ce ne siano ancora tanti dal 2015 ad oggi – conferma che Serraj è solo un ostaggio dei suoi gruppi armati e della Fratellanza Musulmana con cui ha solo recentemente preso pubblichi accordi, firmando due Memorandum d’Intesa con Recep Tayyp Erdogan. Nuovo e non ultimo padrone a cui Serraj dovrà rendere conto e che probabilmente gli avrebbe “sconsigliato” di andare a Roma, qualora veramente la visita fosse stata in programma, visto che il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, nelle stesse ore era al Cairo e Conte aveva ricevuto lo spietato aggressore Haftar che ha cacciato Daesh ed al-Qaeda dalle principali città libiche.
E’ chiaro che non bastavano le notizie false diffuse da Anadolu, dai media russi e turchi, su chi nei giorni scorsi ha preso il controllo di Sirte, dove l’esercito era stato accolto dalla popolazione in festa. Più i gruppi armati della Fratellanza e gli estremisti inviati da Erdogan perdono terreno, più si fa aggressiva la loro reazione sui media. Più aumenta il coinvolgimento di attori esterni, più risulta difficile stabilire quali siano le notizie vere e quali quelle false. Ma dire che Serraj è stato rapito solo ieri sera, vuol dire ignorare cinque anni del suo governo.”

Da Serraj fu rapito il primo giorno del suo Governo, di Vanessa Tomassini.

Salvini non vede e provvede

“Davvero strano che nessuno tra i media mainstream che stanno inneggiando a Asmae Dachan “martire dell’attacco islamofobo sferrato dalla Meloni”, si sia domandato il perché del silenzio di Matteo Salvini. Il quale, con una presenza davvero assillante sui social, non ha dedicato, per cinque mesi, a questa faccenda nemmeno un tweet.
Ma riepiloghiamo i fatti.
Il 30 maggio con il mio articolo precedente denunciavamo l’imminente consegna ad Asmae Dachan del titolo di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica evidenziando, quanto meno, l’inopportunità di una onorificenza del Presidente della Repubblica ad una persona che, al di là delle sue posizioni oltranziste sull’Islam (e, in particolare, sulla sudditanza delle donne in questo) si è distinta, come giornalista, nel sostegno ai “ribelli siriani” (in realtà, tagliagole importati in Siria da al-Nusra ISIS). Più o meno contemporaneamente, un attivista del movimento contro la guerra alla Siria, per sua stessa ammissione su Facebook, compila un dossier su Asmae Dachan inviandolo a Giorgia Meloni, (leader della formazione di destra “Fratelli di Italia”) la quale presenta una interrogazione parlamentare imperniata, oltre che sul sostegno della giornalista ai terroristi che stanno insanguinando la Siria, principalmente, sulle sue oltranziste posizioni inerenti l’Islam. (“l’onorificenza sarebbe un clamoroso atto di sottomissione all’Islam radicale”). Ovviamente, l’interrogazione della Meloni scatena la “sinistra” in una isterica campagna mediatica “contro l’islamofobia” trasformando la Dachan in una “martire del razzismo”.
Si, ma che c’entra Salvini in tutto questo?”

L’onorificenza a chi parteggia per i tagliagole in Siria e l’inquietante silenzio (assenso) di Salvini, di Francesco Santoianni continua qui.

Forze ed operazioni militari USA in Africa – una rassegna

Di Benjamin Cote in esclusiva per SouthFront

L’importanza delle Forze Militari in Africa
Il 4 ottobre 2017, forze nigerine e Berretti Verdi americani sono stati attaccati da militanti islamici durante una missione di raccolta di intelligence lungo il confine con il Mali. Cinquanta combattenti di una affiliata africana dello Stato Islamico hanno attaccato con armi di piccolo calibro, armi montate su veicoli, granate lanciate con razzi e mortai. Dopo circa un’ora nello scontro a fuoco, le forze americane hanno fatto richiesta di assistenza. I jet Mirage francesi hanno fornito uno stretto supporto aereo e i militanti si sono disimpegnati. Gli elicotteri sono arrivati per riportare indietro le vittime per l’assistenza medica.
Quando la battaglia finì quattro Berretti Verdi sono risultati uccisi nei combattimenti e altri due furono feriti. I sergenti maggiori Bryan Black, Jeremiah Johnson, Dustin Wright e il più pubblicizzato di tutte le vittime il sergente La David Johnson sono stati uccisi in missione. Il presidente Trump si è impegnato in uno scontro politicizzato con la vedova di Johnson e la deputata della Florida Federica Wilson in merito alle parole da lui usate in una telefonata consolante.
La battaglia politica sui commenti del Presidente Trump ha avuto l’effetto non intenzionale di spostare l’attenzione della nazione sulle attività americane in Africa. In precedenza il pubblico americano, e buona parte dell’establishment politico, mostrava scarso interesse o conoscenza delle missioni condotte dai dipartimenti di Stato e della Difesa all’interno delle nazioni africane in via di sviluppo. Il 5 maggio, un Navy SEAL era stato ucciso vicino a Mogadiscio mentre assisteva le forze somale nel combattere al-Shabaab. Questa morte è arrivata un mese dopo che l’amministrazione Trump aveva revocato le restrizioni sulle operazioni di antiterrorismo nelle regioni della Somalia.
Certamente l’evento non ha registrato la stessa attenzione del mainstream come la polemica circa il sergente Johnson; tuttavia, tutto rivela come l’Africa stia lentamente diventando un’area di interesse nazionale cruciale per gli Stati Uniti. Le questioni concernenti le nazioni africane riguardanti le minacce terroristiche sia esterne sia interne, così come i loro problemi economici, servono a garantire che i responsabili politici degli Stati Uniti si concentrino sul continente. Iniziative globali come la Combined Joint Task Force for Operation Inherent Resolve coinvolgono diverse nazioni africane fondamentali per combattere l’ascesa dell’estremismo islamico radicale. L’ascesa di gruppi estremisti coesi insieme all’espansione degli investimenti economici nell’Africa post-coloniale ha comportato un aumento dei dispiegamenti militari stranieri e americani nella regione. Continua a leggere

La benedizione siriana

Di Michel Raimbaud*

Durante questi anni interminabili di nebbia e d’inferno che hanno attraversato la Siria, che sarebbe stata la vita senza la speranza? Pensiamo soprattutto al popolo siriano martoriato ed esposto ad un etnocidio, al suo esercito nazionale che avrà pagato un tributo così pesante all’aggressione barbara lanciata dal gruppo dei suoi “amici”, e ai responsabili che di fronte alla “comunità internazionale” hanno dovuto portare a forza di braccia lo Stato fatto oggetto di una congiura politica…
Pensiamo anche agli amici, difensori e partigiani della Siria legale, a tutti quelli che amavano questa società pluralista, tollerante, amichevole ed altamente civilizzata, e temevano che essa scomparisse per sempre.
Di certo, la fiamma non si è mai spenta, ma era permesso ai più ottimisti di interrogarsi talvolta o di dubitare del futuro di fronte agli assalti di una coalizione islamo-israelo-occidentale innaffiata di centinaia di miliardi di petrodollari e che pesca i suoi combattenti in un mare infinito di mercenari venuti da cento orizzonti. La Siria  ci sarebbe, di fronte alla massa feroce delle potenze imperiali – grandi, piccole o medie – dell’”Asse del Bene”, contro l’orda selvaggia dei jihadisti democratici, dei terroristi moderati, dei rivoluzionari travestiti da conigli? Resisterebbe alle coorti dei disertori, dei transfughi che si davano appuntamento dentro un “esercito libero” teleguidato dai suoi peggiori nemici, agli ordini e al soldo degli islamisti e dei loro sponsor, facendo la ruota per sedurre l’antico “nemico sionista”?
Come tutti i Paesi immersi in situazioni turbolente, la Siria ha sperimentato l’inevitabilità delle infedeltà, delle viltà, del compromesso, delle piccole o grandi corruzioni, ma il suo popolo, nel senso più nobile del termine, resisteva vigorosamente, le sue istituzioni rimasero salde e i suoi governanti hanno tenuto bene. Grazie alla sua incredibile resilienza, lo Stato siriano si è fatto solidi alleati dei quali ha saggiato la lealtà: la Russia e la Cina da un lato, l’Iran, Hezbollah e i suoi alleati dall’altro. Una realtà che stava per proibire la ripetizione nel “Paese di Cham” [nome antico della Siria – n.d.r.] di uno scenario iracheno, libico o yemenita.
Tuttavia, le “grandi democrazie” non potevano che rimanere cieche e sorde a queste realtà inquietanti e scomode, essendo la Siria dalla fine della Guerra Fredda un Paese da distruggere e da abbattere. Le élite acquisite ormai al neoconservatorismo non hanno trovato niente di meglio da fare che sottomettere le “opinioni” ad un martellamento mediatico senza precedenti andando di pari passo con un’ostinata omertà e ad uno stupefacente lavaggio del cervello. I media occidentali sul conflitto in Siria hanno speso solo una o due frasi lapidarie, simboli abbastanza desolanti della poca sensibilità dei nostri governanti, dei nostri analisti e dei nostri intellettuali, espressione dell’incorreggibile arroganza degli Occidentali. “Bashar deve andarsene”, “nessun posto per Bashar nel futuro della Siria”…
È allora che entra in gioco la “maledizione siriana” che ha sanzionato i decisori, gli opinionisti, tutti coloro che avevano perso l’opportunità di tacere. E’ lungo l’elenco di questi imprecatori che hanno mandato a morte Bashar Al Assad all’Aia, a Mosca, a sei metri sotto terra o altrove, e che hanno architettato piani sulla Siria, scrivendo un futuro che non vedrebbero mai. Quanti hanno ripetuto la canzone come pappagalli per anni prima di essere inviati dagli elettori, dalla provvidenza o dalla giustizia immanente al cestino dei rifiuti o all’oblio della storia. Ecco usciti fuori i numerosi buffoni e gli impostori “amici della Siria”.
Da parte sua, Bashar Al Assad è sempre lì, imprescindibile, popolare a casa sua come molti altri sognerebbero… La Siria, che sta andando verso una vittoria decretata “impensabile” contro tanti nemici così potenti, sta in piedi, mentre la discordia, frutto della sconfitta, si è instaurata dalla parte degli aggressori e il caos vi regna sovrano…
Non c’è bisogno affatto di credere nel cielo per ammettere che c’è una “maledizione siriana” che ha colpito e colpisce i nemici di questa “terra santa” che “Dio protegge” (Allah hami-ha), ma in ogni caso, è necessario parlare di una benedizione siriana. Quello che sta accadendo è logico e giusto, ma l’esito previsto di questa guerra universale è una sorta di miracolo e soprattutto per coloro che hanno fede nel futuro.
Questa vittoria, la Siria l’avrà ampiamente meritata! Malgrado tutto quello che diranno gli uccelli del malaugurio, che ammirabile gente, quale esercito di eccezione! E cederemo alla tentazione di dire: se c’è un uomo di Stato che merita di essere sulla terra, è questo Presidente che avrà saputo incarnare la speranza, avrà saputo rimanere fedele alle sue alleanze e guidare il suo Paese alla vittoria.
La Siria, secondo tutti gli auspici, ha vinto la guerra. Non gli resta che conquistare la pace. Ma il coraggioso Paese che ha combattuto per noi ha sicuramente tutte le capacità necessarie per raccogliere con successo questa nuova sfida in modo che questa guerra non sia stata “una guerra inutile”. Ciò che a Dio non piace! Sarà una ricompensa che, molto meglio della vendetta, pagherà il sacrificio delle innumerevoli vittime, dei morti come dei vivi.

*Già ambasciatore di Francia in diversi Paesi, dopo il ritiro professionale si dedica alla scrittura.
L’ultima sua opera pubblicata è Tempête sur le Grand Moyen-Orient, Editions Ellipses, Parigi, 2017, seconda edizione arricchita e aggiornata.

Fonte – traduzione di C. Palmacci

Impressioni d’inizio autunno: dalla liberazione di Deir Ez-zor a quella di Al Mayadin

Di quest’ultimo mese si ricorderà l’accelerazione impressa agli eventi da parte della cosiddetta “Coalizione”, capitanata dagli USA e, come ormai alla luce del sole e oltre ogni minimo accenno di pudore, composta di un esercito di manodopera di riserva estremamente variegato, tipico della guerra ibrida in corso, e che va dalle milizie curde ai terroristi dell’ISIS.
Il tentativo era abbastanza evidente e, come vedremo, prevedibile: colpire il nemico – che, a scanso di equivoci, era ed è Assad e alleati – su più fronti, simultaneamente, efficacemente, per frantumarne le linee di difesa, affondare i colpi e seminare il panico fra le retroguardie di colpo proiettate in prima linea, tagliare i canali di comunicazione e approvvigionamento, obbligare le forze di élite dell’esercito siriano a ripiegare per ripristinare confini e mettere in sicurezza situazioni altrimenti compromesse. Ripiegare da dove? Ma da Deir Ez-zor, dove simultaneamente i Curdi avanzavano senza sparare un colpo, pappandosi fette di territorio sempre maggiori, allungando linee di fronte di decine di chilometri lungo sottili lingue di terra che sfidavano ogni logica di tattica e strategia militare (prima fra tutte, il consolidamento della linea di fronte per evitare contrattacchi fatali sulle retrovie lasciate scoperte e la conseguente formazione di sacche in cui circondare e chiudere le avanguardie), lasciando soltanto come unica ipotesi quella infima, meschina, della combine. Ebbene, la strategia americana verteva su queste due leve: da una parte bloccare (o fatalmente rallentare) l’avanzata siriana nella provincia dei pozzi, dall’altra occupare per prima il ricco Eldorado.
Ci eravamo lasciati con prodromi di questa strategia, ma mai ci saremmo aspettati che si sviluppasse fino a questi livelli. Quanto accaduto in questi trenta giorni circa ha dell’incredibile, e quanto è riuscita a fare l’alleanza Russia-Siria-Iran ha ancora più dell’incredibile, fino al risultato di oggi: la liberazione di Al Mayadin. Ma andiamo con ordine e, per farlo, ci serviamo di un’ottima sintesi a opera del buon Colonel Cassad. Continua a leggere

In memoria di Mohsen

Il Martire Mohsen Hojaji apparteneva ai Guardiani della Rivoluzione Islamica iraniana e, al pari di molti altri musulmani, si era volonariamente recato in Siria per combattere contro i terroristi di DAESH (ISIS) e di altri gruppi takfiri che – sostenuti da Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita e altri Paesi europei e arabi – si sono resi autori di efferati e inumani crimini contro la popolazione siriana e irachena (a prescindere da quale fosse la loro confessione religiosa), di barbare distruzioni e della dissacrazione di numerosi luoghi santi.
Il venticinquenne combattente iraniano è stato catturato dai terroristi dell’ISIS il 7 settembre scorso al confine tra Siria e Iraq e il 9 settembre è stato decapitato. La foto e il video della sua cattura, nei quali il giovane appare con un volto calmo, sereno e risoluto, sono diventati l’emblema dell’amore puro, della fede sincera, del coraggio, della fedeltà, del sacrificio e del martirio, tanto in Iran quanto in molti altri Paesi islamici. Il martirio di Mohsen Hojaji ha letteralmente scosso la sua patria, suscitando un’ondata di emozione, rispetto e ammirazione di rara estensione e profondità. Poche ore prima di essere catturato dai terroristi il Martire ha inviato due messaggi audio a sua moglie, uno rivolto al figlio Ali di 2 anni e uno proprio alla sua consorte. Quella che segue è la traduzione integrale del messaggio rivolto al piccolo Ali.

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Col Nome d’Iddio Clemente e Misericordioso

Salam alaykum Ali Agha, Salam mio caro, salam figlio mio, vorrei rivolgerti qualche parola.
Perdonami se ti ho lasciato mentre eri molto piccolo. Se non ci fossimo recati in Siria, il Mausoleo della Nobile Zaynab (1) sarebbe stato dissacrato. Che Dio non voglia…nuovamente sarebbe stato distrutto il mausoleo della Nobile Ruqayya (2). Caro Ali, è mio desiderio diventare con il volto illuminato lungo questo sentiero e diventare martire su questa strada. Desidero diventare martire una volta prima della manifestazione dell’Imam del Tempo (l’Imam Mahdi) e una volta dopo la sua manifestazione. Questo, dal mio punto di vista, è essere furbi: diventare due volte martiri per l’Islam. Dio possa esaudirmi per il Suo compiacimento. Se diventerò martire, alhamdulillah; ma qualora ciò non fosse, o sarà perché non lo merito o perché il bene di Dio è in altro.
Caro Ali, il mondo diventa ogni giorno più insidioso. Il peccato si annida in ogni suo angolo. Rimanere puri in questa società è sempre più arduo. Più ci avviciniamo alla manifestazione dell’Imam del Tempo, più aumentano le sedizioni, i peccati, i pericoli e Satana diventa più potente. Devi aver cura non solo di te ma anche di tua madre e delle persone a te vicine.
Ti ho chiamato Ali affinché il tuo Mawla sia Ali, la tua Guida sia Ali e il tuo esempio e modello divenga Ali. Prendi sempre il Comandante dei Credenti (l’Imam Ali) come esempio e modello. Vorrei che vivessi come (l’Imam) Ali affinché tu possa godere del privilegio di diventare un soldato dell’Imam del Tempo (l’Imam Mahdi). Cerca di operare per questo sin da ora. Nello studio, nel lavoro, nelle scelte della vita, nei campi che vuoi scegliere, nella selezione degli amici, nella scelta del futuro che desideri, insomma devi lavorare molto su te stesso.
Sei sempre nei miei ricordi. Ti guarderò sempre. Se, a Dio piacendo, diventerò martire, verrò e sarò presente in ogni fase della tua vita. Non lascerò che tu patisca l’assenza di tuo padre.
Ho inciso queste parole affinché, se un giorno sentissi il bisogno di ascoltare la mia voce, tu possa avere almeno questo audio.
Devi sapere che ti amo molto, sia te che tua madre. Abbi cura di te stesso.
Alcune volte, separarsi dalle cose buone ti fa ottenere cose ancor migliori. Mi sono separato da te e da tua madre per poter diventare un servo della Nobile Zaynab (as). Spero che Dio in questo viaggio getti il Suo sguardo su di me. Ti amo molto, abbi molta cura di te.
Cerca di vivere così che Dio si innamori di te. Se Dio si innamora di te, ti comprerà per un prezzo alto. Abbi cura di te. Prega che il mio volto divenga illuminato (nel Giorno del Giudizio). Che Dio ti protegga.

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NOTE
1) Zaynab è la figlia dell’Imam Ali e di Fatima Zahra, nipote del Profeta dell’Islam e sorella dell’Imam Hasan e dell’Imam Husayn. La sua vita e grandezza è profondamente legata alla tragedia di Karbala, nella quale suo fratello Husayn, numerosi suoi parenti e diversi loro compagni vennero martirizzati dall’esercito del califfo usurpatore del tempo, Yazid. Portata insieme alle donne del campo dell’Imam Husayn come prigioniera dall’Iraq alla Siria dall’esercito di Yazid, dapprima nel corso del tragitto e poi alla corte del califfo illegittimo, la nobile Zaynab (as) con grande coraggio tenne vivo il messaggio dell’Imam Husayn (as) e infiammo’ i cuori dei presenti con i suoi sermoni e le sue parole. Il mausoleo che ospita la sua tomba si trova, secondo la maggior parte degli studiosi, a Damasco, in Siria, ed è stato ripetutamente minacciato dai gruppi takfiri, che hanno più volte provato ad attaccarlo e distruggerlo.
2) Secondo diversi storici e studiosi Ruqaya è la figlia dell’Imam Husayn. Dopo la battaglia di Karbala, le donne della famiglia dell’Imam Husayn insieme a suo figlio Zaynul al-Abidin (as), vennero fatti prigionieri e condotti dall’Iraq in Siria, a Damasco, dove risiedeva il califfo usurpatore Yazid. La piccola Ruqaya, che allora aveva quattro anni, mori’ nelle prigioni del califfo illegittimo. Al pari del mausoleo della nobile Zaynab, anche quello di Ruqaya è stato più volte minacciato e oggetto di attacchi terroristici da parte dei gruppi takfiri.

Fonte

La retorica sui “migranti”: il colmo dell’ipocrisia

Sollecitato dall’amico Geri, vorrei esprimere una personale opinione sull’ondata di retorica e di sospetto pietismo con cui viene affrontato, specie nella sedicente “sinistra” il fenomeno dei “migranti” (ma perché “migranti”? Migranti casomai sono gli uccelli migratori che si spostano secondo cicli naturali…).
Preciso che ho sempre militato nelle file dell’estrema “sinistra” (se questo termine ha ancora un significato, fatto su cui ho molti dubbi, ma questo è un altro discorso che ci porterebbe lontano…).
Sono lontanissimo da qualsiasi suggestione razzista, di superiorità dell’uomo bianco europeo o di missione dei popoli “civilizzati”.
Tuttavia trovo il pietismo nei confronti del fenomeno “migranti” caratterizzato da enormi dosi di ipocrisia e falsa retorica.
La prima causa dell’intensificarsi del fenomeno negli ultimi anni è certamente il contemporaneo intensificarsi di una serie di guerre scatenate dai Paesi “civili” contro Stati nuovi ed ex-coloniali, spesso su iniziative della “sinistra” (mentre la “destra” è stata in genere molto più prudente ed attenta) per presunti motivi “umanitari” e con formule del tipo “responsabilità di difendere i civili” dai “regimi” e dai “dittatori” locali.
Queste motivazioni sono state alla base della distruzione della Libia ad opera della NATO (con l’aiuto dei jihadisti locali). Il risultato è stato che un Paese che era, secondo le statistiche ufficiali dell’ONU, quello con il tenore e la qualità della vita più alti dell’Africa, ha visto la fuga di circa 2 milioni di Libici e di altri 2 milioni di Africani che lavoravano nel paese.
Ora la Libia, che prima funzionava da filtro per i lavoratori che si spostavano dall’Africa centrale, è diventato un buco nero dominato da milizie estremiste e scafisti che speculano sugli spostamenti di torme di disperati. Questi ultimi si spostano da Paesi tuttora sottoposti a sfruttamento post-coloniale da parte dei vecchi padroni (ad esempio la Francia) che in realtà non hanno mai mollato l’osso e organizzano colpi di Stato (come in Costa d’Avorio) se qualche presidente locale si mostra troppo indipendente. Oltre tutto uno dei motivi per cui fu fatto fuori Gheddafi era perché stava creando una Banca Africana per sottrarre il continente nero alle grinfie della grande finanza internazionale.
Altri Paesi riottosi, come il Sudan, o la Somalia, sono stati fatti a pezzi e altri, come l’Eritrea, sono indicati come “Stati canaglia” e sottoposti a sanzioni. Tutto questo alimenta spostamenti di popolazione e fenomeni di destabilizzazione.
Analogo discorso vale oggi per la Siria, sottoposta dal 2011 a sanzioni durissime e ad un attacco concentrico da parte dei Paesi occidentali, alleati con le peggiori dittature confessionali (come l’Arabia Saudita) e bande di jihadisti sunniti fanatici. Sei milioni di Siriani hanno lasciato il Paese, mentre altrettanti si sono dovuti spostare all’interno dalle zone occupate da Al Qaeda e dallo Stato Islamico a quelle poste sotto la protezione dell’esercito. Si badi bene che prima del 2011 nessuno fuggiva dalla Siria o si spostava all’interno. Il Paese era un modello di laicismo e tolleranza interreligiosa (Sunniti, Sciiti, Cristiani, Drusi, atei). Oggi la gente fugge, non dal “regime”, ma dalla guerra e dai terroristi fanatici diretti dall’esterno.
Discorsi analoghi possono farsi per l’Iraq, distrutto e fatto a pezzi dopo l’attacco anglo-americano del 2003 giustificato con la bugia delle “armi di distruzione di massa” e per l’Afghanistan invaso nel 2001 con la scusa della “guerra al terrore” e dove i combattimenti infuriano da 16 anni. Siriani, Afghani, Iracheni, Libici, Africani sub-sahariani formano almeno i due terzi dell’immigrazione complessiva.
E non dimentichiamo l’immigrazione dall’Est Europa, sottoposta alle delizie del capitalismo internazionale. Molti immigrati vengono dalla Romania che, ai tempi del tanto deprecato Ceausescu, conosceva una situazione di piena occupazione e non aveva debito estero. Oggi la popolazione rumena è diminuita di vari milioni rispetto a quei tempi per l’emigrazione massiccia. Situazioni analoghe si hanno, ad esempio, per Ucraina e Moldavia, mentre la Bielorussia, dove il presunto “dittatore” Lukaschenko ha mantenuto molte delle vecchie istituzioni sovietiche, se la passa molto meglio.
Infine, come ultimo esempio, ricordiamo la sfortunata Jugoslavia: prima massacrata dal Fondo Monetario Internazionale cui i dirigenti “riformatori” post-Tito si erano incautamente affidati; poi travolta dagli odi interreligiosi ed interetnici opportunamente alimentati dall’esterno (il presidente musulmano della Bosnia, Itzebegovic, appoggiato dagli estremisti di Al Qaeda, fu fatto passare per un “democratico”); infine bombardata e smembrata definitivamente dalla NATO (con la benedizione del nostro baffetto D’Alema).
Ma, anche se le ragioni dell’immigrazione clandestina, che cresce ogni giorno, fossero puramente economiche, avrebbe un senso la parola d’ordine: “facciamoli entrare tutti”?
Una parola d’ordine del genere può essere forse giustificata in bocca al Papa, visto che la Chiesa pratica il pietismo e la carità per motivi ideologici ed identitari, ma suona stonata e demagogica se pronunciata dai portavoce dell’ex-sinistra o addirittura da settori movimentisti dell’estrema “sinistra”. Sembra quasi che certi settori politici (come il PD, ma non solo), per far dimenticare il fatto di aver abbandonato tutti i loro programmi e le parole d’ordine più qualificanti, si affidino ad una demagogia umanitaria, di cui la difesa dei “migranti” è uno dei punti più caratteristici.
Nel mondo siamo ormai circa 7 miliardi. Ben oltre la metà della popolazione è povera o sull’orlo della povertà. Si può ragionevolmente risolvere il problema con emigrazioni di massa, di stampo biblico? Si può pensare che fenomeni del genere non abbiano effetti destabilizzanti e che possano risolvere il problema della povertà di massa?
E’ evidente che solo assicurando uno sviluppo adeguato dei Paesi di provenienza, rinunciando a sfruttarli, a sottoporli al ricatto finanziario del debito, alle aggressioni militari se cercano di rendersi indipendenti, si potranno dare soluzioni al problema. Altrimenti molti degli ex-Paesi coloniali faranno da soli, come ha fatto la Cina che è diventata la massima potenza mondiale di produzione di beni.
Intanto il fenomeno corrente non può non essere regolamentato, accettando solo quelle persone che richiedono realmente un asilo politico (ad esempio, so per esperienza diretta che molti ragazzi eritrei in cerca di fortuna ed avventura si fingono perseguitati per essere accolti) e, per quanto riguarda gli immigrati “economici”, accettare solo quelli che possano essere integrati con mutua soddisfazione, nostra e loro, evitando che siano ferocemente sfruttati in nero, o ridotti all’accattonaggio, alla prostituzione, o alla delinquenza. Si tratta di razionalizzare e sveltire tutte le procedure finalizzate a questa strategia.
Infine, non si possono non denunciare tutti quei settori che alimentano e si servono del fenomeno per propri fini, ammantandoli di bugie umanitarie. Schematicamente questi settori possono essere così indicati:
– alcuni settori capitalisti dei Paesi sviluppati che si servono dell’ondata immigratoria per abbassare i salari e le pretese dei lavoratori locali. In questa ottica vedo anche le dichiarazioni irresponsabili della Merkel di un paio di anni fa “venite tutti”, fatte in un momento in cui l’economia tedesca era in ascesa ed aveva bisogno di braccia, salvo poi essere costretta a fare marcia indietro. In quest’ottica ritengo sbagliato liquidare alcune obiezioni della Lega o di alcuni governi europei (ad esempio, Ungheria) come pure manifestazioni di razzismo;
– alcuni settori capitalisti e finanziari statunitensi, o di altri Paesi concorrenti della UE, che cercano di favorire il fenomeno in funzione destabilizzante della “concorrenza”. Questo tipo di azioni può avere anche risvolti di destabilizzazione politica e ricatto (vedi ad esempio i ricatti e le minacce della Turchia di Erdogan che si riserva di aprire i rubinetti dell’emigrazione);
– alcune ONG, opportunamente finanziate e manovrate da alcuni Paesi, che alimentano il traffico di carne umana, mandando, ad esempio, le loro navi in prossimità delle coste libiche a prelevare orde di disperati con la complicità di milizie jihadiste e scafisti locali. Alcune di queste ONG vanno per la maggiore, come Amnesty International e Save the Children, notoriamente finanziate da istituzioni e finanzieri USA (come George Soros) e che si attengono strettamente alla politica statunitense in tutte le crisi internazionali. Medici senza Frontiere è invece più legata alla politica francese, com’è dimostrato dalla figura del suo carismatico ex-presidente Kourchner, divenuto poi Ministro degli Esteri di Sarkozy, e grande sponsor delle guerre in Jugoslavia e Libia. Esiste poi una galassia di ONG più piccole create appositamente per gestire questo nuovo commercio degli schiavi sotto sembianze solidaristiche. Tutte queste ONG, così come molte istituzioni legate all’accoglienza gestiscono una fiorente “industria dell’immigrato”.
Vincenzo Brandi

La questione curda

Il ruolo della attuale dirigenza curda di fronte a un’occasione storica

Ho troppo rispetto per il popolo curdo, per la questione curda, per esprimere giudizi in quella che sarà una pura e semplice valutazione dell’attuale corso del maggior movimento curdo oggi – temporaneamente – alla guida di un territorio da essi denominato Rojava (letteralmente “Ovest”, in riferimento con ogni evidenza a un “Est” iracheno), un’area attualmente di oltre 42mila km quadrati a nord della Siria, superiore per estensione alla superficie di due Regioni come la Lombardia e il Veneto, distribuita in maniera discontinua a occidente (Afrin) e a oriente (il restante territorio) del cuneo occupato dai Turchi proprio per impedirne il ricongiungimento, unico successo ottenuto dall’operazione Scudo dell’Eufrate (Fırat Kalkanı); un’area che nel giro di tre anni è andata ben oltre i tradizionali confini dei villaggi curdi, giungendo a occupare:
– il 23% del territorio siriano;
– le sue tre maggiori dighe (importanti sia per la fornitura di energia elettrica, che per l’irrigazione);
– il 60% della sua superficie coltivabile (fonte).
Interessante, vero? Come si è arrivati a questo, temporaneo, status quo? Quali le cause, quali i presupposti, quali le possibili conseguenze e configurazioni future?
Occorre, come sempre, fare un passo indietro. Un popolo di trenta, quaranta milioni di persone (a seconda di come si considerano i Curdi della diaspora), distribuito principalmente – ma non solo – su quattro Stati indipendenti (Turchia, Siria, Iraq e Iran), la nazione più popolosa al mondo senza Stato, è da oltre un secolo che lotta per la propria indipendenza. All’inizio del secolo scorso, occorre sottolinearlo, i Curdi furono impiegati dai britannici in chiave antiturca (I conflitto mondiale) e tedesca (II conflitto mondiale), sempre con l’illusione di uno Stato promesso e mai realizzato (Dmitrij Minin, I segreti del conflitto siriano: il fattore curdo). Successivamente, si accostarono all’URSS, ma senza successo: la tragica vicenda della Repubblica di Mahabad (1946), primo nucleo di un Kurdistan indipendente in territorio iraniano, vide l’appoggio esterno dei Sovietici, che coprirono successivamente la ritirata del Molla Mustafa Barzani, padre dell’attuale capo del Kurdistan iracheno Mas’ud Barzani. Riparato in Azerbaigian, organizzò campi di addestramento a Tashkent e completò gli studi militari a Mosca (fonte). Fino a metà degli anni Cinquanta i Curdi furono gli unici alleati dei sovietici in Medio Oriente. Tuttavia, anche lì le cose stavano cambiando. L’appoggio sovietico alle rivoluzioni baathiste fece progressivamente spostare l’occhio dei Curdi verso Occidente. I britannici non c’erano più, ma c’era Israele. Sono databili da allora i primi contatti fra Mossad e Curdi (fonti: france-irak-actualite.com; the-american-interest.com), culminati nella visita vera e propria di Barzani padre in Israele. L’opzione rivoluzionaria in senso socialistico persisteva solo fra i Curdi di Turchia, culminante nel 1978 con la fondazione del PKK di Ocalan, ma risultava sempre più minoritaria, in termini di peso specifico sull’intero movimento indipendentistico curdo, a partire soprattutto dalla fine dell’URSS.

Moshe Dayan e Molla Mustafa Barzani, 1967

Il resto è storia recente: la strumentalizzazione della questione curda come fattore destabilizzante in Iraq e in Siria, è segno distintivo della politica mediorientale a stelle e strisce (o, visti anche i precedenti storici appena citati, US-raeliana nel suo complesso). In altre parole, questi due Paesi hanno conosciuto negli ultimi tre anni un’intrusione sempre maggiore degli Statunitensi sul loro territorio con l’istallazione di basi militari nei territori controllati dai Curdi, per combattere ovviamente i propri avversari che non sono, come ormai è sotto gli occhi di tutti, l’ISIS o Al Qaeda. La base aerea siriana di Tabqah, per esempio, abbandonata a causa dell’ISIS, ripresa dai Curdi catapultati oltre l’Eufrate dai mezzi anfibi e dalla copertura aerea americani, è stata seduta stante ceduta ai loro padroni. Un’altra base, ancora più grande, è in costruzione a Kobane, per rendere più costante e consistente l’approvvigionamento ai loro alleati. Forti di questo appoggio, le milizie curde dell’YPG hanno recentemente annunciato un’offensiva verso i territori dello “scudo turco” che li separano da Afrin. A sud di Raqqa, dopo esser stati fermati a Resafa dalla perentoria avanzata dell’esercito siriano, si stanno ritagliando fette di territorio lungo la striscia a sud dell’Eufrate, ufficialmente per chiudere da sud la capitale del sedicente Stato Islamico, in pratica per sondare la possibilità di ulteriori movimenti espansivi verso Sud.
Qui però si ferma la pars construens della loro iniziativa e iniziano problemi non da poco:
1. Afrin, separata dal resto di Rojava dallo “scudo turco” e posta sotto minaccia diretta di invasione, sempre da parte turca, è appena stata “visitata” da una folta rappresentanza di ufficiali russi. Questo avvenimento non può non essere legato alla visita ad Ankara del ministro della difesa russo Šojgu del giorno prima. I Russi ad Afrin si stanno costruendo la loro base, di fatto depotenziando il resto di Rojava in mano all’YPG, garantendo di fatto il ritorno di quella fetta di territorio nell’alveo della Repubblica Araba di Siria. Questo a Erdoğan basta. E avanza. I suoi movimenti di truppe e incidenti di confine sembrano aver sortito l’effetto deterrente voluto.
2. Un diamante è per sempre, ma non l’appoggio USA. Né Londra, né Washington hanno mai dato apertamente garanzie concrete alla costituzione di un Kurdistan indipendente e sovrano. Lo stesso ex-ambasciatore USA in Siria Robert Ford, in una recente intervista, ha definito “non solo politicamente stupida, ma immorale” l’attuale politica verso i Curdi, visto che alla fine “li tradirà”. I Curdi mancano di un appoggio costante a Washington, come sono, per esempio, la lobby ebraica e quella armena. Sembrano più che altro la “cara amica di una sera” del nostro repertorio canoro. Questo Rojava, nella figura del suo presidente Salih Muslim, lo sa benissimo, e infatti cerca – piuttosto maldestramente – di tenere il piede in più scarpe, senza inimicarsi troppo Mosca (da qui la cessione della base di Afrin, anzi, di Afrin punto) e Damasco (senza indire – almeno al momento – “referendum” sulla falsariga di quello appena svoltosi in Iraq). E cerca di trarre il maggior vantaggio dalla presenza USA sul territorio che controlla, di fatto svendendolo al potente alleato… inimicandosi però le popolazioni arabe locali, e non solo.
3. A differenza del Kosovo, dove a fronteggiare la protervia NATO c’era una Serbia indomita ma debole, oggi ci sono Iraq, Iran, Siria e Turchia. La Russia non solo sta vincendo sul campo un conflitto che nei primi sei mesi di quest’anno ha visto radicalmente mutare scenario (vedasi le ultime due cartine della Siria datate 01/01 e 30/06 di quest’anno), non solo ha permesso un graduale ma decisivo ripristino della sovranità nazionale da parte dell’unico governo legittimo, quello che – piaccia o no – fa capo ad Assad (per la prima volta, per esempio, la provincia di Aleppo vede prevalere come possesso di territorio il governo siriano sui suoi nemici e oppositori, come si vede nella cartina proposta sopra le due mappe già citate), ma è riuscita nella non facile impresa di mettere d’accordo Iran e Turchia nella costituzione di unico asse anti-ISIS e anti-Al Qaeda, ovvero anti-israeliano (vedasi, per ultimo ma non da ultimo, dopo i raid aerei israeliani contro le postazioni siriane sul Golan, l’origine degli equipaggiamenti sequestrati dall’esercito siriano ad Al Qaeda, sempre sulle alture del Golan), e anti-USA (vedasi, sempre per ultimo ma non da ultimo, oltre agli attacchi USA contro le postazioni siriane fatti “per errore”, come quello che l’anno scorso ridusse enormemente le difese di Deir Ez-zor prima dell’immancabile offensiva ISIS, anche le forniture dirette via Bulgaria e Jeddah ai terroristi). Il che non significa che siamo di fronte a un blocco compatto e monolitico che fronteggia un altro blocco altrettanto compatto e monolitico. I Turchi oggi ci sono, trattano coi Russi per l’acquisto di sistemi antiaerei e antimissile S-400 Triumf, domani non si sa. Gli Iraniani oggi sono pesantemente coinvolti nelle vicende irachene (delle cosiddette milizie popolari) e siriane, cercano una loro via al Mediterraneo, sono in piena e pluriennale sintonia coi Russi, anche sul versante geopolitico del Caspio in chiave di contenimento dell’iniziativa USA nella regione, poi chissà. Tuttavia, ora sono tutti, incondizionatamente, uniti contro i Curdi e la loro svolta filoamericana.
Gli affari sono affari. E di questo stiamo parlando, meglio, stanno parlando le potenze geopolitiche attualmente presenti sullo scacchiere mediorientale. Prima i Curdi lo capiranno, meglio riusciranno a promuovere la loro causa, cercando di coordinarsi non con chi sta a un oceano di distanza, ma con chi oggi li vede sempre più come un pericolo o, peggio ancora, come una minaccia. Hanno di fronte a sé, dopo un secolo di lotte, un’occasione storica. Non la devono e non la possono perdere. L’alternativa, sarebbe la ripetizione di tragedie già viste.
Paolo Selmi

Legenda delle cartine
Rosso: governativi e alleati
Grigio: Stato Islamico (ISIS-DAESH)
Verde: gruppi vari della galassia “ribelle” (Esercito Libero Siriano, etc.)
Bianco: gruppi derivati dallo scioglimento di Jabhat Al Nusra
Giallo: Curdi

1 gennaio 2017

30 giugno 2017

Siria e terrorismo

Se l’Occidente persevera nei suoi errori, il nostro futuro è tragico…

Mentre scriviamo, nel sud della Siria, presso Al Zagif (tra Al Tanf e il fiume Eufrate), forze speciali USA e britanniche mettono a punto un campo di addestramento avanzato per le cosiddette Guardie Rivoluzionarie, un gruppo islamista nato sulle ceneri del disciolto New Syrian Army, ex perla della CIA. I due gruppi, nati ufficialmente per combattere l’ISIS, in realtà sono stati istituiti con l’obiettivo di sottrarre ad Assad i confini tra Siria e Iraq, di cui il valico di Al Tanf è uno dei perni principali.
In queste ore, i ribelli, equipaggiati dagli USA con gli stessi materiali forniti agli arabo-curdi delle Syrian Democratic Forces, contrastano l’avanzata dell’esercito siriano che con l’aiuto di Russi e filoiraniani cerca di riprendere il controllo delle frontiere meridionali. I recenti raid aerei della Coalizione anti-ISIS, parlano chiaro (leggi articolo 1 e articolo 2).
Sempre mentre scriviamo, persiste l’abominevole campagna mediatica mainstream che davanti agli attentati di Londra e a decine di morti innocenti, continua a mascherare l’unica scomoda realtà: la jihad sunnita che alimenta il terrorismo internazionale è stata creata dall’Occidente (USA e UE con l’occhiolino di Israele), a cui è poi sfuggita di mano. Anziché colpire i responsabili e arginare il flusso che li foraggia, si continua a contrastare gli unici che combattono lo Stato Islamico, cioè il governo siriano e i suoi alleati. L’obiettivo principale è assecondare l’Arabia Saudita, proprietaria di molti assets finanziari in USA ed Europa, nel suo gioco di opposizione all’Iran sciita, unica potenza regionale “fuori controllo”.
Chiariamo alcuni aspetti.
Piuttosto che dibattere sulle ragioni di Assad, pedina di un gioco evidentemente più grande, o quelle di un Iran comunque non immune da responsabilità politiche e storiche, sembra più opportuno non perdere il lume della ragione, ormai sfuggito a molti.
Andiamo per passi.
Su queste pagine, da anni ricordiamo che lo Stato Islamico è nato dalle macerie del regime sunnita iracheno di Saddam Hussein. La geniale mossa americana del 2003 di sciogliere gli apparati politici e militari di un Paese a maggioranza sciita ma governato da un clan sunnita, è stato il primo passo; il secondo è stato approfittare del caos post-bellico per favorire una struttura parastatale (lo Stato Islamico appunto), che arginasse la crescita dell’Iran, unico vero incubo di Israele e dei suoi partner arabi (Arabia Saudita e Paesi del Golfo). La principale conseguenza dell’anarchia seguita a Iraqi Freedom è stata proprio il ritorno in cattedra degli sciiti arabi, maggioranza in Iraq ma abbastanza forti anche in Arabia Saudita, Bahrein e Yemen.
Ecco quindi il punto. Se comprendiamo che dietro lo sciismo incombe l’ombra della Persia, spauracchio di tutti i seguaci della Sunna, allora ne deriviamo una realtà incontrovertibile: la Seconda guerra del Golfo si è dimostrata un errore di calcolo di portata secolare dell’amministrazione Bush.
A quanto pare però, gli errori sono come le ciliegie: l’uno chiama l’altro. La violenza incontrollata della jihad sunnita, sfociata in atti di terrorismo inaccettabili per l’opinione pubblica globale, ha costretto l’Occidente a prendere le armi contro l’ISIS nel 2014. Inherent Resolve, l’armata dei buoni arrivata a togliere le castagne dal fuoco in Iraq, è nata però come un salto nel buio che ha indotto generali e politici in un inevitabile cul de sac: la crociata internazionale contro il terrorismo islamico in Iraq e Siria, prima o poi si sarebbe rivelato un boomerang.
Per capire meglio il perché, offriamo ai lettori uno spunto di riflessione: perché non si parla più della liberazione di Mosul in Iraq da parte della Coalizione anti-ISIS? La grande copertura mediatica e il rullo di tamburi scattati a ottobre 2016 sono improvvisamente cessati… Facendo una rassegna stampa di quei giorni, sembrava che il giudizio universale fosse prossimo e che il mondo libero avesse ormai in pugno i cattivi tagliagole di turno; passati sei mesi, le notizie di Mosul ormai liberata arrivano col contagocce.
Un caso? Niente affatto. La ragione è evidente.
Il grosso dello sforzo militare nell’Iraq nordoccidentale non lo fanno più le truppe irachene a guida americana, ma le PMU, le milizie sciite equipaggiate e controllate direttamente dall’Iran, con l’appoggio ambiguo del governo iracheno, il cui premier Al Abadi è sciita. Le milizie sciite hanno già raggiunto il confine tra Iraq e Siria all’altezza del territorio controllato dai curdi del Rojava (Kurdistan siriano). L’intenzione di scacciare l’ISIS per controllare i valichi fra i due Paesi con l’aiuto diretto iraniano, non è più un tabù. La presenza di alti ufficiali di Teheran al fronte per ispezionare le linee dei miliziani, è stata segnalata più volte nelle ultime settimane.
I nodi a quanto pare, sono arrivati al pettine. Non si potrà sfuggire per molto tempo ancora alla domanda cardine: per l’Occidente è più importante distruggere l’ISIS e il terrorismo islamista o arginare l’Iran e i suoi alleati?
La risposta nemmeno troppo maliziosa è semplice: se noi occidentali avessimo voluto chiudere la partita con lo Stato Islamico, lo avremmo fatto in due settimane al massimo.
Chiudiamo l’articolo mentre da Deir Ezzor, in Siria, arrivano notizie di una controffensiva jhadista contro le forze di Assad. La guerra non si fa solo con miliziani drogati e fucili: ci vogliono mezzi, equipaggiamenti, intelligence, esperienza, infrastrutture e soprattutto tanti, tantissimi soldi. Gli aiuti al Califfato continuano a piovere dal Governatorato iracheno di Anbar che arriva fino ai confini dell’Arabia Saudita. Lo sappiamo tutti, ma fingiamo che non sia così. Nel festival dell’ipocrisia non poteva mancare la notizia bomba dell’ultim’ora: Riad accusa il Qatar di finanziare Al Qaeda, l’ISIS e la jihad in genere. Si parla addirittura di rottura diplomatica con Doha. La corsa al capro espitario evidentemente è iniziata…
Il punto di non ritorno sembra dunque arrivato. Mentre a Londra si piange per gli attentati, una politica estera suicida continua in silenzio nella stessa direzione di sempre. Il fronte atlantista, pur nelle sfumature e nelle diversità che lo caratterizzano, insiste a trafficare con i Paesi che finanziano nemmeno troppo in sordina l’estremismo islamico. Per pura etica umana, sarebbe il caso di raccontarlo, cercando di spiegarlo magari alle famiglie di decine di innocenti che in Europa continuano a morire secondo un rituale macabro ormai passivamente accettato da tutti. Rinnoviamo le sanzioni alla Russia e bombardiamo Assad; seguiamo come un gregge intontito delle linee che ci portano verso non si sa quali interessi.
La nostra ipocrisia è più colpevole di mille bombe; i tramonti di morte della nostra civiltà hanno sempre più il colore rosso della vergogna.
Giampiero Venturi

Fonte

Lo dite voi ai ragazzi di Manchester?

Gli sponsor del terrorismo

“Lo dite voi ai ragazzi di Manchester che siamo amici degli sponsor dell’ISIS?”: è questa la domanda posta dal giornalista Fulvio Scaglione, non un pericoloso estremista, ma un pubblicista che è stato per 16 anni, dal 2000 al 2016, il vice direttore di Famiglia Cristiana.
La domanda di Scaglione non si deve riferire solo al fatto incontestabile che noi, Paesi europei e nordatlantici, siamo alleati con le orribili monarchie del Golfo Arabico: Arabia Saudita, Qatar, Emirati Uniti, Kuwait, Bahrein, finanziatori attraverso decine migliaia di moschee radicali ed “opere caritatevoli” del peggior integralismo islamico, e organizzatori e sostenitori con soldi ed armi di tutti i gruppi terroristi jihadisti. Non si deve riferire solo al fatto che forniamo a questi Paesi (all’Arabia Saudita in particolare) enormi quantità di armi come testimoniato dagli accordi di fornitura Italia-Sauditi e dall’ultima gigantesca fornitura degli Stati Uniti ai Sauditi, di cui si servono per le loro aggressioni dirette o indirette a Stati sovrani non allineati come lo Yemen o la Siria.
In realtà, il gioco di finanziare ed organizzare estremisti islamici fanatici per colpire gli Stati indipendenti, socialisti, o comunque scomodi perché non si piegavano al gioco imperialista e neo-colonialista, risale almeno agli anni ’70 del secolo scorso, quando gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, il Pakistan e altri alleati formarono l’organizzazione Al Qaeda, diretta da Bin Laden, e finanziarono ed armarono i più retrivi, misogini, feudali signori della guerra, i più feroci mercenari accorsi da tutto il mondo islamico, e gruppi di fanatici locali per scacciare il governo comunista in Afghanistan e far cadere in una trappola mortale i suoi alleati sovietici.
I fanatici islamici ed i soliti mercenari accorsi da vari Paesi servirono anche negli anni ’90 per spazzare via i resti della Jugoslavia socialista, prima con la guerra di Bosnia, poi con quella del Kosovo, entrambe finite con interventi diretti della NATO, e con la partecipazione diretta anche dell’Italia.
I miliziani musulmani bosniaci e kosovari furono fatti passare per vittime dei cattivi Serbi. La propaganda occidentale non ha mai detto la verità su episodi chiave come la presunta strage di Srebrenica (ovvero “la città dei Serbi”, chiamata sempre Srebrenica sui giornali nostrani), su cui non vi sono prove ma solo racconti di parte, mentre ha sempre ignorato i dossier (editi da Zambon o dalla Città del Sole) che documentano le stragi compiute nella zona dai fanatici musulmani a danno dei civili serbi (3.500 morti civili accertati). Non viene mai ricordata la “fake news” della falsa strage di Racak che fornì la scusa per la liquidazione finale dei resti della Jugoslavia nel 1999, con il plauso diretto di D’Alema.
Anche la rivolta della Cecenia fu in gran parte diretta ed attuata da fanatici musulmani integralisti, opportunamente sostenuti dall’esterno da Paesi islamici sunniti e organizzazioni occidentali, per mettere in difficoltà la Russia.
Le organizzazioni estremiste della Libia, come Ansar Al Sharia a Bengasi o le feroci milizie di Misurata legate ai Fratelli Musulmani ed armate dal Qatar e dalla Turchia di Erdogan, servirono come truppe di terra per appoggiare l’attacco della NATO che distrusse il Paese. Non è un caso che il “kamikaze” di Manchester era stato a capo di una di queste milizie di fanatici che odiavano il governo laico di Gheddafi, e che molti dei suoi parenti siano membri di formazioni estremiste.
Il nome del “kamikaze”, i suoi liberi spostamenti dall’Inghilterra alla Libia, alle zone occupate dall’ISIS in Siria, alla Turchia, erano note alle polizie di mezzo mondo (occidentale), ma nessuno è intervenuto.
Inutile ricordare i continui finanziamenti e le forniture di armi a tutte le formazioni armate estremiste che cercano di destabilizzare il governo laico socialista siriano, come Daesh, Al Qaeda, Jaish Al Islam, Ahrar Al Sham, e centinaia di altre milizie mercenarie e fanatiche in gran parte formate da Turcmeni, Uzbechi, Uiguri, Tunisini, Libici, Sauditi e gruppi militanti che sono stati fatti uscire liberamente dall’Europa e sono stati addestrati in Turchia o Giordania.
Ma a questo punto bisogna sottolineare un altro cinico uso che l’Occidente imperialista e neo-colonialista fa di questi terroristi, sfruttando anche gli attentati (non ostacolati), o addirittura i falsi attentati che avvengono sistematicamente in Occidente, a partire dalla “madre di tutti gli attentati” , quello delle Torri Gemelle che permise di scatenare la “guerra al terrore”, l’invasione dell’Afghanistan e la distruzione dell’Irak baathista.
Oggi, con la scusa di combattere Daesh, che per anni si è esteso in Siria ed Irak con gli Occidentali che facevano finta di combatterlo (in alleanza con Turchia ed Arabia Saudita, cioè insieme ai principali finanziatori di Daesh!), gli Statunitensi, i Turchi, ed ultimamente anche gli Inglesi provenienti dalla Giordania, hanno invaso zone della Siria. Nel nord gli USA hanno impiantato le loro basi con l’aiuto dei Curdi, che nel loro cieco nazionalismo sono disponibili ad allearsi anche col diavolo (che li scaricherà quando non serviranno più). Le difese siriane di Deir Ez-Zor, città assediata da 4 anni da Daesh, sono state bombardate “per sbaglio” da aerei USA, australiani e danesi. Non per sbaglio, ma in seguito ad una manifesta provocazione di Al Qaeda che si dichiarava vittima di un attacco chimico, è stato bombardato il più importante aeroporto del centro della Siria da cui partivano le missioni aeree che colpivano Al Qaeda. Oggi si sta verificando un fatto gravissimo che ha avuto scarsa eco sui mass media, ma che è gravido delle peggiori conseguenze.
L’esercito siriano e le milizie filo-governative irachene stavano convergendo sul punto di frontiera strategico di Al Tanf, posto all’incrocio tra le frontiere di Irak, Siria e Giordania, da dove passavano rifornimenti per Daesh attraverso il deserto. Truppe inglesi e statunitensi hanno occupato la zona, insieme a mercenari locali definiti Syria Democratic Forces ed aerei statunitensi hanno bombardato sia le truppe siriane che quelle irachene avanzanti “perché costituivano una minaccia ai soldati statunitensi”.
La Russia ha protestato (blandamente) dicendo che nessuno avrebbe minacciato i soldati USA se fossero rimasti a casa e non avessero apertamente violato il diritto internazionale.
Ora, capiamo sempre meglio perché nessuno ferma i “kamikaze” di Manchester e continua a fornire armi ai loro finanziatori.
Vincenzo Brandi

Con l’esempio Manchester ci si doveva dare una spintarella

“E, guarda caso, mentre The Donald si aggira tra sunniti decapitatori di donne, fomentando la grande alleanza di tutti i sunniti decapitatori di donne e di tutto ciò che di non sunnita gli capita sotto la mannaia, perché facciano il favore a Israele di togliergli dai piedi l’Iran sciita che, come il resto degli sciiti, il massimo del terrorismo l’ha praticato con i fuochi d’artificio di capodanno, ecco che a Manchester viene telefatto saltare per aria un ragazzo libico con bomba. 22 ragazzi morti e oltre cento feriti mentre stavano al concerto. Target centrato: concerti, giovani incazzati con i vecchi, Corbyn (Manchester è laburista) e Brexit “con la quale Brexit sarebbe andato a ramengo il prezioso coordinamento europeo dell’intelligence per combattere terrorismo ed estremismi vari”. Effetto collaterale: un po’ di benzina sul sacro fuoco dello scontro di civiltà che ci arruola tutti, seppure al traino e in catene, nelle armate della civiltà superiore. Avete sentito? E’ ripartita la cantilena degli islamici tutti cattivi, da cui quei pochi buoni, se vogliono che non li affidiamo ai roghi salviniani, si decidano finalmente a prendere sincere distanze.
Quale è il collegamento? Beh, visto che al pupazzo giallo chiomato viene fatto proclamare che dobbiamo tutti quanti fare la guerra al terrorismo, a forza di decapitatori sunniti fuori e sorveglianza e militarizzazione totali dentro, sotto la guida di chi dall’11 settembre in qua ci fotte col terrorismo, con l’esempio Manchester ci si doveva dare una spintarella, no? Che vogliamo lasciare tutta l’incombenza ai tagliateste sunniti? Anche stavolta, come ogni volta, il terrorista era noto e seguito da Scotland Yard, Mi5 e Mi6, la più efficiente attrezzatura spionistica del mondo (oltreché, ovviamente, da CIA e Mossad), ma, a dispetto di smartphone connessi anche spenti alla Questura, delle telecamere che ci spiano perfino dai cartelloni pubblicitari e dai nostri frigoriferi (vedi “Report” di lunedì 22 maggio) e nonostante l’andirivieni di Salman Abedi tra Inghilterra e quell’oasi di pace e ordine che è la Libia, guarda un po’ la sfiga, proprio in quei giorni e momenti nessuno se ne curava. Tutti a festeggiare la rinnovata sinergia tra le democrazie d’Occidente e della penisola arabica per farla finita con quei regimi arabi, tirannici e terroristici, che si erano permessi di emancipare le donne, garantire istruzione, sanità, scuola, casa e lavoro, avviarsi a un progresso davvero blasfemo. Inaccettabili dittature, dicono a Riad e al “manifesto”.
Dopodichè si rimedia alla figuraccia, che tanto aveva innervosito la regina al suo Garden Party, figuraccia aggravata dai servizi USA e dal New York Times che ci fanno sapere di essere stati i primi a sapere tutto (noblesse oblige), rastrellando un po’ di presunti radicalizzati e stupefatti parenti. Così, almeno ex post, ci si rivela occhiutissimi e si può ringhiare dell’esistenza di una “rete”. E contro una rete che va fatto? Ma è risaputo: si mettono in strada 5000 soldati. Funzione? Individuare tra le milionate che gli passano sotto il naso agli ingressi del metrò il losco figuro dallo sguardo torvo che sicuramente nello zainetto tiene 5 chili di tritolo con chiodi.
Tutto quello che vado scrivendo odora di stantìo, di deja vu, di già detto. Come se tutti quanti non sapessimo da almeno 16 anni, dall’11 settembre, attraverso Londra, Madrid, Parigi, Bruxelles, Bali, Amman, Monaco, Berlino, che quelli fanno rete. Magari differiamo un tantino su chi è che fa rete…
Invece la cosa da dire, a essere originali quanto il signor de Lapalisse, tanto che nessuno la dice per non sembrare banalotto, è una domanda. Ma visto che queste orrende forze del male, come le stampigliano Bush, Obama e ora Trump, proclamano incessantemente ai quattro venti che ci faranno fare la fine in quanto sacrilego, perverso e infedele Occidente, com’è che se la prendono sempre e solo con coloro che dell’Occidente sono meramente le comparse, i figuranti, le plebi, la massa inerte, più spesso che no le vittime? Com’è che neanche in uno dei mille attentati hanno cercato di sfondare i glutei di un solo bonzo in posizione di qualche eminenza in Occidente? O uno dei meccanismi che lo fanno funzionare. Che so, una banca, l’insegna di una multinazionale, il cuoco di Obama, Lady Gaga che perverte animi e corpi, Hillary o la sua estetista (oltretutto colpevole di inettitudine), Descalzi che intreccia danze con l’infame scita Rouhani, un capoufficio della Roche, un fattucchiere della Monsanto, qualcuno della Lockheed , quella degli F35, mentre beve mohjitos a Bahia, un broker di Wall Street che rifila derivati a poveri arabi…
Non è mai successo. Ah no, una volta è successo. Ad Amman, 9 novembre 2005, insieme ai soliti figuranti di una festa di nozze, saltarono in aria due delegazioni incontratesi in segreto nell’hotel Radisson. Ma quelli erano Palestinesi e Cinesi. E agli Israeliani era stato detto di lasciare l’albergo il giorno prima.”

Da Terrorismo islamico in Occidente: sempre comparse, mai una star, di Fulvio Grimaldi.

Oltre il canale

La Sicilia, le basi straniere e le guerre nel mondo islamico

Quello che abbiamo temuto, e denunciato, è avvenuto: la Sicilia è stata trasformata in una formidabile piattaforma militare, convenzionale e nucleare, in mano straniere, al servizio di progetti avventuristici e di dominio verso il mondo arabo e il Mediterraneo che nulla hanno a che fare con gli interessi veri dei Siciliani, anzi li danneggiano seriamente.
Storicamente, verso questo “mondo” la Sicilia, i suoi regnanti più illuminati, hanno tenuto un comportamento ispirato ai buoni rapporti, alla pace. Con risultati importanti per il bene dell’Isola e dell’Europa. Oggi, ci hanno arruolato in guerre, in pericolosi atti d’ingerenza in contrasto con il diritto internazionale vigente ed estranei alla nostra tradizione di Isola amante della pace e della cooperazione con i popoli del Mediterraneo e del mondo arabo. Tradizione rinverdita negli 70-80 del secolo trascorso, durante i quali abbiamo realizzato grandiosi progetti di cooperazione con il mondo arabo fra i quali ricordo: il metanodotto transmediterraneo Algeria, Tunisia, Sicilia, Italia (se volete vi spiego perché ho citato la Sicilia come un po’ a se stante) a quello con la Libia di Gheddafi, entrambi approdati sulle coste sud dell’Isola.
A proposito del “transmed” ricordo che, a un certo punto, a causa di pretese eccessive da parte tunisina, il progetto del metanodotto fu annullato. In quel caso, l’Italia non dichiarò guerra alla Tunisia che rifiutava il passaggio del “pipeline” sul suo territorio; non aprì le ostilità ma aprì una lunga e proficua trattativa (alla quale mi onoro di aver dato una mano, con alcuni deputati siciliani*) che portò a un accordo soddisfacente.
Oggi, la Siria è sotto attacco anche perché rifiuta di far passare, a certe condizioni, sul suo territorio alcuni oleodotti sauditi e degli emirati del Golfo Persico.
Questione di civiltà! Noi facemmo la trattativa, questi qui fanno la guerra!
Tutto ciò, conferma come la Sicilia, l’Italia con questi popoli desiderano convivere, lavorare, cooperare per far rinascere, in forme nuove e possibili, lo spirito della “civiltà mediterranea” (dai Greci ai Romani, dai Fenici agli Arabi, agli Egizi, ecc) che, per secoli, ha illuminato, illumina la “civiltà occidentale”.
Tale, forzato coinvolgimento, infatti, non solo contrasta col sentimento pacifista dei Siciliani, ma stride con una certa tradizione storica della Sicilia che, fin dall’antichità, quasi mai ha visto di buon occhio le guerre espansionistiche dell’Occidente contro i territori dell’Oriente islamico e ha fatto di tutto per evitare di parteciparvi.
Celebre è rimasto il comportamento, esemplare per saggezza e lungimiranza, di Federico II, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero, il quale, inviato, suo malgrado, in Terra Santa (nel 1228) a capo della IX Crociata, “conquistò” Gerusalemme senza colpo ferire, sulla base di un accordo, lungamente e piacevolmente negoziato, con Malik al Kamil, sultano musulmano.
Addirittura, Qirtay Al-Izzi nel suo “Gotha” (manoscritto arabo del 1655) rileva che: “Quando l’imperatore, principe dei Franchi, aveva lasciato la Terra Santa e si era congedato da Al-Malik Al-Kamil ad Ascalona, i due monarchi si erano abbracciati promettendosi mutua amicizia, assistenza e fraternità”.
Prima di questo evento memorabile, accadde a Palermo un altro episodio di uguale valenza che vide protagonista un illustre avo del grande Federico, Ruggero I, il normanno, il quale riuscì a preservare la Sicilia dal coinvolgimento diretto nella prima Crociata, anche per non inimicarsi i vari regni del nord-Africa con i quali i Normanni intrattenevano ottime relazioni politiche ed economiche.
L’episodio è riportato nella cronaca musulmana della prima Crociata, dallo storico arabo Ibn Al-Athir che, nel suo “Kamil” (Edizione Torneberg), scrive, fra l’altro: “Nel 484/1091, i Franchi portarono a termine la conquista della Sicilia… Nel 490/1097, essi invasero la Siria ed eccone i motivi: il loro re Baldovino era imparentato con Ruggero il Franco (il normanno n.d.r.) che aveva conquistato la Sicilia, e gli mandò a dire che, avendo riunito un grande esercito, sarebbe venuto nel suo Paese e da là sarebbe poi passato in Africa (in Tunisia) per conquistarla…
Ruggero convocò i suoi fedeli e chiese loro consiglio in merito a questo problema…
“Per il Vangelo – risposero – ecco un’occasione eccellente per loro come per noi, l’Africa sarà terra cristiana…”
“Allora – annota lo storico arabo con disarmante naturalezza – Ruggero sollevò l’anca, fece un gran peto (sic!) e disse: Affè mia, questa è buona. Come? Se essi verranno dalle mie parti, andrò incontro a spese enormi per equipaggiare le navi…”
Quindi convocò l’ambasciatore di Baldovino per notificargli la sua contrarietà acché l’esercito crociato attraversasse la Sicilia per raggiungere l’Africa e gli disse le testuali parole: “Per quanto concerne l’Africa, tra me ed i suoi abitanti ci sono impegni di fiducia e trattati.”
Oggi, purtroppo non c’è un nuovo Ruggero!
Agostino Spataro

*Su tale trattativa esistono ampi resoconti di stampa, documenti parlamentari e politici.

Fonte

False flag in Siria?

E se non fosse stato Assad

Attenzione, se oggi ci mettiamo a discutere su chi ha lanciato i gas a Khan Sheikun, rischiamo di cadere in una trappola mediatica. Le convinzioni le lasciamo a quel coro di benpensanti ‘politicamente corretti’ che, lanciando anatemi, puntano il dito contro Bashar al-Assad. Nessuno si può esimere, è il bersaglio più facile. I gas si diffondono con vari mezzi: aerei, granate speciali (obici e mortai), oppure, come nelle battaglie sul Carso, generatori posti sottovento. Nella Coalizione che non solo combatte quella parte dei ribelli non presente agli accordi di Astana, ma fa anche altre cose, gli aerei li hanno tutti. I Siriani, certo, ma anche i Russi, i Turchi, i Sauditi e i Qatarioti. I ribelli no, né i ‘buoni’ né i ‘cattivi’. Le armi terrestri gassificanti, quelle, per intenderci, sparite in massa nel 2011 dagli arsenali di Gheddafi, con alta probabilità sono in mano ai ribelli jihadisti non-ISIS. Restringendo il campo, sembrerebbero nella disponibilità dell’ex al-Qaeda, ex al-Nustra e oggi Jahbat Fatah al-Sham. Allora ragioniamo, partendo da Astana e da un fondamentale quesito: cui prodest? Ovvero: a chi giova. Forse non arriveremo a nulla, ma ci chiariremo un po’ le idee. In prospettiva, i ribelli del Free Syrian Army (quelli ‘buoni’) avranno un loro limitato spazio a nord, con tutela turca. Assad e Putin mirano a distruggere (con la sporadica partecipazione degli USA) tutti i gruppi jihadisti, concentrati ormai nella provincia di Idlib. Se perdono quell’area, sono praticamente finiti. Assad, se l’avanzata prosegue, ha già la vittoria in tasca. L’offensiva, allora, va delegittimata agli occhi del mondo con ogni mezzo. Indovinello: chi può aver interesse a farlo?
Mario Arpino

Fonte

“Il 9 novembre 1989 segnò la fine del ciclo storico socialdemocratico, il 9 novembre 2016 invece l’elezione di Trump a Presidente USA rappresenta la fine di quello neoliberale”

Intervista allo storico Paolo Borgognone (1981), autore di diversi saggi, tra cui presso Zambon editore una trilogia sulla disinformazione strategica, Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietiche, L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale, Deplorevoli? L’America di Trump e i movimenti sovranisti in Europa, nonché di Generazione Erasmus. I cortigiani della società del capitale e la “guerra di classe” del XXI secolo in corso di pubblicazione presso Oaks Editrice.
A cura di Federico Roberti.

Il tuo ultimo libro, “Deplorevoli? L’America di Trump e i movimenti sovranisti in Europa”, prende le mosse con l’affermazione che il 9 novembre 2016 è caduto il muro invisibile caratterizzato, nel suo lato economico, dal neoliberalismo e, in quello culturale, dalla retorica dell’antifascismo in assenza di fascismo volta a fidelizzare alla sinistra politicamente corretta i ceti popolari. Possiamo quindi considerare questa data una sorta di 9 novembre 1989, giorno della caduta del Muro di Berlino, al contrario?
Sì, perché il 9 novembre 1989 il Muro di Berlino fu abbattuto da una controrivoluzione di ceti medi cosmopoliti che desideravano recarsi all’Ovest per guadagnare di più, acquistare prodotti e merci capaci di assicurare loro maggior comfort e riconoscimento in termini simbolici e di status, ovvero accedere ai modelli di consumo e stili di vita europei e americani, entrare in possesso legalmente di valuta pregiata e gestire la propria esistenza secondo i ritmi scanditi dalla società di mercato. La retorica mainstream volta a celebrare la ritrovata libertà di opinione dei tedesco-orientali è poco meno che un orpello propagandistico utilizzato ad hoc per legittimare quello che l’Ottantanove esteuropeo in effetti fu, ossia il trionfo della pseudocultura della mobilità e delle velleità individuali al successo imprenditoriale di una parte rilevante delle società preconsumistiche dei Paesi fino a quel momento interni alle logiche del Patto di Varsavia, del Comecon e del socialismo concretizzato. Il 9 novembre 1989 segnò la fine del ciclo storico socialdemocratico. Il 9 novembre 2016 invece, Brexit e l’elezione di Trump a Presidente USA rappresentarono la fine del ciclo storico neoliberale, poiché questi fenomeni si verificarono all’intersezione tra la destra politico-culturale e la sinistra economica, ovvero ebbero come propria base di consenso un postproletariato nazionale sradicato dai processi di globalizzazione e ostile nei confronti della summenzionata, elitaria, sottocultura della mobilità. Ventisette anni prima il conflitto geopolitico e ideologico in corso tra USA e URSS fu vinto da attori sociali che avevano fatto propria l’articolazione concettuale e simbolica, nichilista, del capitalismo liberale, poiché la proposta politica che scaturì da quel ciclo storico di rivolte controrivoluzionarie si basava sull’egemonia di una cultura gauchiste e libertaria, tutta protesa alla retorica dei diritti cosmetici e sul predominio del neoliberismo in economia. Esattamente l’opposto accade oggi, per questo le citate élite del denaro che “non dorme mai” e della mobilità globale che avevano celebrato l’Ottantanove esteuropeo attivano tutto il potere di fuoco multimediale di cui dispongono per demonizzare, riproponendo l’ormai antistorica dicotomia novecentesca fascismo/antifascismo, l’ascesa degli eterogenei movimenti di insorgenza populista in Europa e Stati Uniti.

A tuo parere, sono fondati i timori che possa verificarsi una rivoluzione di velluto nei confronti del neoeletto Presidente USA? Oppure è più probabile che possa essere messo da parte attraverso un golpe che potremmo definire psichiatrico? Per non affrontare la complessa procedura congressuale prevista per il cosiddetto “impeachment”, infatti qualcuno potrebbe essere tentato di ricorrere al paragrafo 4 del 25° emendamento della Costituzione USA, che prevede la destituzione del Presidente nel caso non sia più in grado fisicamente o mentalmente di assolvere alle sue funzioni, le quali verrebbero assunte almeno temporaneamente dal Vice Presidente. Nella fattispecie, una diagnosi di psichiatri di chiara fama, sostenuti da un certo numero di membri dell’esecutivo, sarebbe sufficiente a rimuovere Trump.
Il ricorso alla psichiatria dovrebbe essere lo strumento di analisi con cui interpretare le idiosincrasie ideologiche di chi, e mi riferisco a Bernie Sanders e sodali, alle primarie del Partito Democratico ha fatto continuamente appello al richiamo populista e alla proposta economica socialdemocratica per sfidare le élite del capitalismo finanziario e l’establishment di Wall Street contigui a Hillary Clinton e poi, in sede elettorale, è rifluito sul sostegno alla paladina dello stato di cose presenti. Ora, non dico che Sanders avrebbe dovuto appoggiare Trump ma il sostegno che l’anziano esponente socialista democratico ha regalato incondizionatamente a Hillary Clinton è la riprova, ulteriore, della subalternità ideologica della sinistra al campo liberale. Una subalternità giustificata tramite il ritornello del “nemico principale” identificato nella destra populista e non nel capitalismo di libero mercato in quanto tale. Non dubito che i Millennials che alle primarie del Partito Democratico appoggiarono Sanders, oggi potrebbero fungere da massa di manovra controrivoluzionaria per un “golpe colorato” avente l’obiettivo di neutralizzare l’outsider Donald Trump. Le centrali ideologiche di questo golpe in itinere io le cercherei più nella Silicon Valley (culla degli apologisti dell’ideologia del progresso fondata sulle potenzialità taumaturgiche delle nuove tecnologie sulla strada della transizione al postumano) che non a Wall Street mentre le corporation dell’industria dello spettacolo hollywoodiana potrebbero offrire la sponda di copertura e legittimazione scenica di questa “rivoluzione colorata”. L’impeachment potrebbe essere una strada percorribile da parte degli oppositori di Trump, così come lo sono il sabotaggio parlamentare delle procedure di Brexit. Tuttavia, non credo che i cicli storici di cambiamento epocale dell’approccio pubblico alle questioni interne e internazionali possano essere fermati a colpi di decreto.

A seguito dell’elezione di Trump e degli eventi politici che hanno costellato il 2016 – citiamo, fra gli altri, la vittoria del “leave” al referendum sulla Brexit e la netta maggioranza con la quale in Italia è stato respinto il progetto di riforma costituzionale avanzato dal governo Renzi – quale è, se esiste, la strada tracciata dinanzi a quelli che tu chiami movimenti sovranisti in Europa, più frequentemente e spregiativamente denominati populisti?
Una strada che appare simile a un labirinto. I sovranisti sono attori politici con un’identità ideologica incerta, tra loro eterogenei e spesso incompatibili (la galassia politica sovranista si articola in un perimetro che va dal PVV olandese, liberal-liberista, atlantista, filoisraeliano e interno alla narrativa islamofoba fallaciana fino allo Jobbik ungherese, un partito eurasiatista e antisionista), frutto dei caratteri nazionali dei rispettivi contesti d’origine e piuttosto inclini alle logiche del partito imprenditore della rappresentanza dei ceti genericamente incazzati nei confronti di un’oligarchia i cui contorni politico-affaristici e i cui legami internazionali gli stessi sovranisti esitano a delineare con precisione. Detto questo, i sovranisti sono accomunati da alcune proposte programmatiche condivise, ad esempio il ripristino dei poteri pubblici statali sulle frontiere nazionali dei singoli Paesi, la contestualizzazione del conflitto di classe in corso su linee verticali (chi sta in alto vs chi sta in basso) e la narrativa anti-immigrazione. Quest’ultima sembrerebbe, per ovvi motivi di appeal in quanto l’immigrazione è un problema che tocca, nei Paesi della UE, la quotidianità delle persone assai più di altri sconvolgimenti frutto delle politiche neoliberali sistemiche, la direttrice propagandistica foriera di maggiori consensi pubblici ai partiti sovranisti. Certo, non sarebbe male se i sovranisti inquadrassero il fenomeno migratorio nel contesto del regime dei flussi imposto dal capitalismo finanziario e digitale globale, invece che ingannare l’opinione pubblica perseverando a sentenziare che, una volta giunti al governo dei rispettivi Paesi, avrebbero rispedito i migranti a casa propria con il proverbiale “calcio in culo” di leghista memoria. Nel momento in cui i partiti sovranisti della destra si convinceranno che il “calcio in culo” di cui sopra va assestato, più che agli immigrati, agli esponenti di quella upper class creativa di mode e stili di consumo, desiderio e capriccio forgiate ad hoc per dettare il tono della vita di tutti, potranno costituire un’alternativa di sistema ai partiti globalisti tuttora al governo nei principali Paesi della UE. Sull’altro versante, i partiti populisti di sinistra, qualora vi fossero forze politiche organizzate di questo tipo in Europa (e, francamente, a parte alcune eccezioni, come Unità Popolare in Grecia e spezzoni minoritari della Linke in Germania, non sono in grado di scorgerne), potranno risultare convincenti nel momento in cui si risolveranno a convenire sull’assunto concernente l’irriformabilità dall’interno della UE, abbandonando ogni velleità di “uscire” dalla crisi di sovranità in cui le politiche neoliberali dell’élite finanziaria globalista hanno precipitato popoli e nazioni rimanendo “dentro” le strutture di governance multilivello stabilite proprio dai ceti finanziari che, a parole, la sinistra ambisce contrastare.

In Francia, la pressione mediatica e giudiziaria sui candidati alle prossime elezioni presidenziali considerati filo-russi, François Fillon e Marine Len Pen, sta crescendo vertiginosamente. Con il paradossale esito che i consensi persi dal primo vadano a rafforzare ulteriormente la seconda…
E’ noto che un’eventuale vittoria elettorale di Marine Le Pen in Francia alle prossime presidenziali sconvolgerebbe definitivamente gli assetti neoliberali della UE e pertanto questa vittoria è, da parte di chi si ritrova nella prospettiva politica antiglobalista, auspicabile, al di là delle critiche che si possono muovere alla candidata del FN, come ad esempio l’essere piuttosto filoisraeliana in politica estera, il guidare un partito a direzione familiare o l’aver approntato un programma economico semi-liberista. C’è sempre qualche rivoluzionario più rivoluzionario di tutti pronto a giocare il gioco di un candidato come Macron prestando il fianco, da schizzinoso, agli strali anti-lepenisti della sinistra radicale.
In definitiva, se Marine Le Pen, che parla esplicitamente di fuoriuscita della Francia da UE, euro e strutture militari della NATO, nonché di dar vita a un’Europa di patrie, popoli e nazioni da Lisbona a Vladivostok, dunque alleata con la Russia in funzione anti-atlantista, è avversata dal 100 per cento dei media mainstream internazionali, significa che codesta candidata costituisce il male minore, ossia il bene maggiore, per il suo Paese. E le caste globaliste dei media aziendali faranno di tutto per gettare discredito su Marine Le Pen, rivolgendosi al discorso antifascista di autocelebrazione dello stato di cose presenti e costruendo pretesti scandalistici per incastrare la leader del FN. La strategia è infatti il “metodo Fillon”, utile per levare dai piedi a Macron un avversario potenzialmente urtante in termini di spartizione dei consensi dei ceti medi urbani pro-UE ma, rispetto al giovane banchiere dei Rothschild, percepito come “filo-russo” in politica estera (in passato infatti, Fillon, non si sa se per convinzione personale o per drenare alla propria causa politica, liberale di destra e dunque sistemica, voti appannaggio del FN, aveva denunciato l’«imperialismo americano» nel perimetro geopolitico ex sovietico e condannato le sanzioni imposta dall’amministrazione Obama contro la Russia). Tuttavia, credo che la Commissione Europea e la Merkel ripongano molta fiducia in Macron e abbiano mobilitato tutte le forze di cui dispongono per giungere, in Francia, a un ballottaggio presidenziale tra questi e Marine Le Pen, archiviando la prospettiva, inizialmente coltivata ma divenuta impraticabile nel dopo-Trump, di una presidenza Fillon più difficile da inquadrare nell’ottica di quel conflitto culturale e di classe che oppone flussi a luoghi e globalisti a sovranisti. Dopo Trump i ceti globalisti hanno deciso di serrare i ranghi, puntando tutto sullo showdown finale tra il loro candidato, Emmanuel Macron, banchiere internazionale fedelissimo alla linea liberale di centrosinistra, atlantista, filosionista e clintoniano ideologico, e Marine Le Pen. Le prossime elezioni francesi, il ballottaggio soprattutto, vedranno il concretizzarsi politico e mediatico del conflitto multilivello in corso tra i vincenti della globalizzazione e gli sradicati in cerca di sicurezza, identità e rappresentanza.

La serie di elezioni che sta per prendere il via in Europa rischia di ridisegnare la geografia politica del continente, seppellendo nelle urne l’eurozona e le istituzioni di Bruxelles. Quali potranno essere, a tuo parere, i nuovi possibili scenari di politica internazionale? Sarà possibile trovare una soluzione diplomatica ai conflitti in Siria e Ucraina, nonché avviarsi alla pacificazione del teatro libico? Diminuiranno le tensioni con la Russia oppure la NATO proseguirà nella sua strategia di accerchiamento-avvicinamento ai confini del gigante eurasiatico?
Accolgo con favore i patti di reciproca collaborazione firmati a Mosca tra Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, e alcuni soggetti politici a vario titolo considerati “populisti” dei Paesi della UE, come la Lega Nord e la FPӦ. Forse, e mi perdonerai se pecco di ottimismo, un comune sentire filo-russo da parte di questi partiti potrebbe smorzarne l’elemento sciovinistico interno, aiutandoli a convergere in direzione di una più spiccata sensibilità antiglobalista, rinunciando al nazionalismo e a una visione schematica e mistificatoria dell’Islam come sorta di unitario blocco terroristico antioccidentale. Penso che i populismi (reattivi e patrimoniali) europei odierni siano molto eterogenei tra loro e poco inclini alla prospettiva, propria di uno studioso come Dominique Venner, di uno Stato identitario europeo da contrapporre alla UE neoliberale e transatlantica. Tuttavia, i partiti populisti, esito finale della conversione ideologica della sinistra da partito delle classi lavoratrici autoctone a sponda politica privilegiata dei ceti medi creativi, cosmopoliti e affluenti, i cosiddetti figli della globalizzazione liberale, hanno il merito, pur nella loro inequivocabile eterogeneità ideologica di fondo, di contribuire a far emergere quelle contraddizioni interne al capitalismo globale che probabilmente contribuiranno a cortocircuitare questo regime della paranoia e del nichilismo istituzionalizzati. Per quanto riguarda la NATO, penso che continuerà a puntellare i pericolanti governi sciovinisti di destra dei Paesi baltici e dell’Ucraina in funzione anti-russa. Il tutto mentre il ceto politico-intellettuale pseudo-progressista europeo da un lato persevererà nel condannare colui che definisce il “dittatore” Putin e a sfilare, bandiera rossa (o meglio, arcobaleno) in pugno alle manifestazioni di memorialistica e folklore antifascisti del 25 aprile e, dall’altro, utilizzerà litri d’inchiostro per consolidare, nell’immaginario stereotipato dei lettori dei giornali liberal dove codesti intellettuali organici al politically correct ricoprono il ruolo di strapagati editorialisti, l’idea secondo cui la NATO, insieme ai “combattenti per la libertà” ucraini e baltici, costituirebbe un “baluardo democratico” per proteggere i “valori cosmopoliti europei” dall’“aggressione” russa. I media mainstream sono unanimi nella condanna di una invero inesistente “Internazionale Sovranista” coordinata, secondo tale vulgata, di volta in volta da Trump o Putin nonché finalizzata alla demolizione della UE transatlantica, liberista e cosmopolitica e, al contempo, si prodigano nell’apologia diretta e indiscutibile della, concreta e tangibile, “Internazionale Liberal” il cui scopo manifesto è annientare ogni traccia di etica comunitaria e identità collettiva caratteristiche dell’Europa come spazio geopolitico tradizionale propriamente inteso.

Soldi, petrolio, sabbia ed imbecilli

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Che cosa potrebbe fare una povera ex superpotenza fallita?

“Quello di cui il Presidente-eletto Trump ha bisogno è un progetto pronto all’uso, con cui trasferire in patria un quantitativo significativo di bottino imperiale, abbastanza fronzoli e carabattole da mostrare alla gente come simboli di una ritrovata grandezza. Ma il problema è: che cosa c’è rimasto da saccheggiare? I rapporto globale debito/PIL è attorno al 300%, e una nazione fallita che derubi un’altra nazione fallita non ha molte speranze di fare bottino. Le nazioni non in bancarotta, che hanno un debito basso e forti riserve di valuta pregiata e di oro (Russia e Cina) non sono esattamente dei bersagli facili. Attacca la Russia e ti ritrovi a terra, senza neanche sapere che cosa è successo. Attacca la Cina e ti becchi dieci anni di agopuntura, molto cara ed estremamente dolorosa. L’Iran potrebbe sembrare un bersaglio più facile, e Trump ha lanciato qualche grido di guerra più o meno in quella direzione, ma anche i Persiani sono molto insidiosi, e sono ormai quasi 26 secoli che stanno perfezionando l’arte dell’insidia. In più, Cina, Russia ed Iran capiscono benissimo il gioco, e vanno tutti mano nella mano, sfidando gli Stati Uniti a fare qualcosa di nuovo. Contro di loro, gli uomini di Trump sarebbero come bambini sperduti nel bosco.
E così, tramite un processo di eliminazione, arriviamo all’unica, ovvia, possibilità: le monarchie del Golfo Persico, con l’Arabia Saudita che fa da primo premio. Naturalmente, l’Arabia Saudita è un protettorato americano e deve la sua esistenza ad un accordo siglato nel 1945 fra Re Abdulaziz ibn Saud e il Presidente Franklin D. Roosevelt. Ma questo non è certo un problema: il sud di prima della guerra era America in tutto e per tutto, ma questo non ha impedito al nord di attaccarlo. Tutto quello che ci vorrebbe è l’annuncio di un drammatico cambio di politica estera: “L’Arabia Saudita si sta comportando male. Il Presidente Trump è molto deluso”.
Perché un cambio di politica? Perché è indispensabile e il tempo stringe. L’Arabia Saudita ha ancora riserve finanziarie in abbondanza, ma si stanno assottigliando rapidamente, dal momento che la nazione dissipa tutti i suoi averi nel tentativo di mantenere in un relativo benessere la sua popolazione di mangiapane a tradimento. Ha riserve petrolifere in quantità (anche se gradualmente diminuisce la qualità e aumentano i costi di estrazione, a causa della mancanza d’acqua e di altri problemi), ma le sta dilapidando molto più in fretta del dovuto. Vedete, l’Arabia Saudita è (come se fosse) un pusher di petrolio, ma è anche drogata di petrolio, e, gradualmente, ne sta consumando sempre di più. Questo fenomeno è conosciuto come Export Land Effect: le nazioni produttrici di petrolio tendono ad investire i ricavi petroliferi all’interno, creando una crescita economica che, a sua volta, fa aumentare i consumi energetici. Distruggere l’economia saudita, salvaguardando allo stesso tempo la sua industria petrolifera, renderebbe nuovamente disponibili per l’esportazione notevoli quantitativi di petrolio.
Ciò che rende questo progetto pronto all’uso è il fatto che l’Arabia Saudita è un bersaglio molto facile. Prima di tutto, è piena di imbecilli. Gente che per tutto il tempo non fa altro che sposarsi fra cugini, e dopo qualche generazione di simili incroci fra consanguinei il suo QI si può contare con le dita delle mani (pollici compresi, se è un numero veramente alto). Neanche il sistema educativo saudita è di molto aiuto: si basa sopratutto sulla ripetizione a memoria del Corano e dei testi ad esso correlati, e non tiene in nessuna considerazione il pensiero critico ed indipendente e quella forte voglia di rivolta che rendono le nazioni difficili da conquistare e da controllare. L’economia dipende quasi completamente dai lavoratori stranieri, dal momento che gli stessi Sauditi non amano lavorare troppo, e questa comunità di lavoratori provenienti dall’estero può essere facilmente intimorita e costretta a fare le valige. Infine, i Sauditi sono estremamente inconsistenti dal punto vista militare, come si è visto nell’attuale assenza di progressi nello Yemen (crisi umanitaria a parte). Tutti i loro sistemi d’arma sono realizzati negli Stati Uniti, e possono essere disabilitati con breve preavviso bloccando l’invio di mercenari, istruttori e pezzi di ricambio. (A differenza del materiale di fabbricazione russa, che può funzionare in maniera autonoma per decenni e che normalmente si riesce a riparare con martello e cacciavite, gli armamenti americani tendono ad essere complessi e necessitano di manutenzione specialistica continua).
(…)
La prima bordata potrebbe essere una serie di poche, semplici richieste. L’Arabia Saudita dovrebbe unirsi alla comunità delle nazioni civili e garantire gli stessi diritti alle donne ed alle minoranze sessuali, la libertà di culto per i non-Mussulmani e gli atei, il diritto al matrimonio fra persone appartenenti a gruppi religiosi diversi, una tabella di marcia verso il raggiungimento di un ordine costituzionale, una democrazia rappresentativa e la rinuncia all’applicazione della dottrina religiosa alle questioni civili. Da qui la situazione potrebbe facilmente degenerare, una bomba qui, un po’ di disordini laggiù e, dopo un po’, tutti i lavoratori stranieri se ne tornano a casa, i consumi petroliferi interni crollano e l’industria petrolifera ritorna sotto il controllo straniero, la ricchezza viene espropriata e utilizzata per “rendere nuovamente grande l’America”. Quest’ultima parte potrebbe non andare a genio a tutti, ma il piano generale ha così tanti aspetti positivi che la maggioranza lo accetterebbe comunque. Specialmente gli Europei, che si lamentano della marea di migranti islamici, molti dei quali radicalizzati dagli insegnamenti sauditi, accoglierebbero a braccia aperte un modo per rendere innocuo e socializzare l’Islam, trasformandolo così in un’altra religione, i cui praticanti evitino di usare la parola “infedele” come un pugno in faccia e non siano così stupidi da cercare di imporre gli atavici dettami della loro religione alla comunità, in gran parte secolare, che li circonda.
Se Trump non romperà quell’uovo di cioccolato che è l’Arabia Saudita e non scapperà con la sorpresa che contiene, allora lo farà qualcun’altro. I giorni dell’Arabia Saudita sono contati. Per adesso è ancora ricca di soldi, petrolio, sabbia ed imbecilli, ma sta consumando sempre più rapidamente i primi due. Aspettate solo una dozzina d’anni o giù di lì, e tutto quello che sarà rimasto saranno sabbia ed imbecilli. Ben prima di allora, qualcuno cercherà di arrivare fino a loro e di portar via quello che rimane del tesoretto. Potrebbero anche essere gli Americani: sono stati loro a dare il via a questo caotico regno nel deserto, potrebbero anche essere quelli che gli daranno il colpo di grazia.”

Da Come rendere nuovamente grande l’America con i soldi degli altri, di Dmitry Orlov.

Dal jihadismo all’ISIS: incontro-dibattito a Bologna

Il problema della questione jihadista nel mondo contemporaneo è connesso alle sfide più cruciali della nostra epoca. Interessa i conflitti fra grandi potenze non meno dei rapporti di queste con le specificità della civiltà islamica, si muove lungo il fiume in piena delle immigrazioni di massa che coinvolgono il continente eurasiatico e vampirizza le esistenze di quelle “vite di scarto” che l’Occidente ingoia e moltiplica nel suo vortice di disintegrazione dei tessuti sociali.
Il jihadismo in qualche modo precede questi fenomeni, ma si palesa con pienezza in sincronia con gli eventi degli ultimi anni. Sarebbe assai difficile comprendere questo senza riflettere sulla storia musulmana, su come i popoli del Vicino Oriente abbiano subito un’aggressione coloniale (e culturale) incessante da ben due secoli da parte dell’imperialismo occidentale. Fondamentalismo, reazione al colonialismo, lotte fratricide, settarismi socioculturali: l’eterodirezione della lotta armata è alla base di quello che oggi chiamiamo “il fenomeno jihadista”, che con la guerra in Siria e l’avvento dell’ISIS compie un “barbarico” salto in avanti.

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La più grande balla del Solstizio

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Francia, gennaio 2015…

La più grande stronzata del 21 dicembre, solstizio d’inverno (ci torno dopo), la spara la TV a mezzogiorno.
Livorno, pausa pranzo in trattoria. Operai e camionisti. Silenzio e TV in attesa del pasto.
Faccia da giornalista RAI, la tettona deturpata dai lifting marci spara dal TG
SCOPERTA L’IDENTITA’ DELL’ATTENTATORE DI BERLINO: TROVATI I SUOI DOCUMENTI SOTTO IL SEDILE DEL CAMION NERO!
Notare NERO, così già ci subliminano ISIS. Bravi.
Silenzio in sala, e quindi sbotto con gran voce e risata: ma che cazzo, prima corrono dietro al musulmano sbagliato e poi, DOPO DUE GIORNI che hanno in mano il camion della strage finalmente la GRANDE POLIZIA TEDESCA guarda sotto al sedile e risolve il gran mistero?
Ci si guarda e i volti cambiano espressione, si comincia a parlarsi e qualcuno ridacchia pure. Ma che cazzo…
Vedo gente andar via discutendo.
Al mio tavolo rincaro con l’LSD: se l’inghippo è vero, e la logica dice che è vero, o la Merkel sapeva oppure ha subito. E se è vero, come la logica dice, che il tutto è servito per coprire l’omicidio di Ankara, vuol dire che la Germania è dentro la faccenda fino al collo, sia a Berlino che ad Ankara. E vuol dire che pure la Germania, come già gli USA dal Tonkino all’11/9, e l’Italia delle stragi ecc. ecc., non ha alcun riguardo a far fuori propri cittadini ignari per Ragioni di Stato.
Un mio collega si alza, vado fuori a fumare dice. Torna un po’ pallido, e mi fa: ma che cazzo… E’ uno che parla solo di calcio e di lavoro. Si è presa la legnata, e l’ha sentita bene. E approfitto per aggiornare il tavolo sulle ultime faccende internazionali…
Lavoro di base.
Ovvio che ragionare su questo, degli storici legami turco germanici, della sempiterna ricerca tedesca del petrolio che non ha mai raggiunto nè via Stalingrado nè prima via Bassora, della sua odierna possibilità di affrancarsi militarmente dagli USA in crisi e ridiventare il pivot for Asia in Europa, e di affrontare un nuovo confronto-conflitto in Medio Oriente e Caspio con la Russia, a me fa turbinare le sinapsi e tremare il resto. Scaviamo in Germania oltre la Merkel, e troviamo Bayer-Monsanto e la siderurgia, la cantieristica e il marittimo, e parecchio altro.
Andiamo sul leggero ora, così vi faccio gli auguri per il solstizio d’inverno, il senso cui diamo nella mia piccola famiglia di mangiapreti alle feste di dicembre, da santalucia del tramonto più anticipato del 13 dicembre, alla risalita del sole all’alba della Befana, il 6 gennaio. Giusto a metà ci sta il 25 dicembre, guarda caso usurpato dalla Croce e dalla Coca Cola a propri fini entrambi socio-commerciali. L’astronomia è una scienza esatta, pone dati e chiodi inconfutabili, un problema per chi pone l’uomo e le sue elucubrazioni , in epoca storica, per dolo o colpa, a guida e motivo dell’esistenza dell’universo, i cazzaroli del principio antropico. L’astronomia, e il cosmo suo oggetto di studio, è suo malgrado immutabile, in rapporto ai tempi della civiltà umanoide, e proprio per questo degna di antico rispetto. Perchè supera l’uomo in costanza e determinazione. Questo gli antichi rispettavano, rispettando prima la natura e poi, per discendenza, l’umanità. L’uomo sa, l’albero sa di più, la pietra sa quasi tutto: è stata fusa dal sole. Buon solstizio a tutti, specie alla Siria e al suo popolo, e altrettanto alla Russia e al popolo russo che oggi è sotto attacco e con forza e orgoglio, giustamente, si difende.
Un abbraccio a tutti voi, simpatici o antipatici. Ma compagni.
Jure Ellero

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Sotto l’albero spento

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Le istituzioni bolognesi celebrano l’aggressione alla Siria

Vedere anche se non si vuol credere.
Sabato scorso il primo cittadino Merola, il vescovo Zuppi e il rampollo emiliano stile Fratelli Musulmani Lafram tutti insieme sotto l’albero di Piazza Maggiore.
L’albero, come per magia lacrimatoria mediaticamente orientata, viene al click appositamente spento, mentre i tre oscuri alfieri petroniani vanno a reggere il vessillo dell’aggressione occidentale alla Siria.
Immortalati non a caso dietro la stessa bandiera imposta al Paese durante il “protettorato” coloniale francese, lorda di sangue dei bambini siriani da ben prima che qualche scellerato sinistrato cominciasse ad esporre cartelli post orwelliani con la scritta Save Aleppo.
La cornice è quella di Bologna, città la cui amministrazione propone come fiore all’occhiello per il triennio prossimo il progetto della Disneyland del cibo fra i compagni di merende renziani e il prode dei magnamagna italidiotati, Oscar Farinetti.
Qualche decina di persone a prendersi un gran freddo che parte dalla mente, ma è il dato di pura propaganda che conta di più.
Al confronto, le armi di stordimento e di fabbricazione degli eventi-notizia sperimentate in Jugoslavia impallidiscono: Aleppo è ben peggio dell’invenzione del massacro di Srebrenica, e lo storytelling dura in questo caso da almeno quattro anni. Merola e Zuppi non possono non saper mentre recitano sotto stretto controllo dei rispettivi spin doctors (peraltro affiliati, come si è saputo, alla stessa casa-madre).
Nell’occasione, la variabile depistante ma non troppo è l’italiota islamista Yassine Lafram, giovane aspirante “uomo delle istituzioni” che puzza di settarismo trasformista da un miglio di distanza, con l’eloquenza torbida infarcita di espressioni da gnomo generazione Erasmus e predicatore in pectore di Al Jazeera.
Ora, che costui non sia in grado di rappresentare alcunché di solido e di popolare dentro la cosiddetta “comunità islamica” bolognese lo dicono a mezza voce i suoi stessi correligionari, ma questa palese mancanza di investitura dal basso pare invece costituire il pivot decisivo per accreditarsi presso le autorità cittadine così riunite.
Nulla importa, invero, all’establishment bolognese se questi personaggi da anni, mantenuti da reti di fondi che provengono dai petrodollari sauditi o qatarioti, rimestano il brodo di coltura degli sfigati inviati ad ingrossare le bande mercenarie a cui i servizi occidentali affibbiano di tanto in tanto nomi differenti (da Al Qaeda all’ISIS). Va bene così: perché anche loro, come si vede mirabilmente nel quadretto sotto l’albero di Piazza Maggiore, sono (o stanno diventando) establishment.
Figuriamoci poi se un qualsiasi intimo dubbio o rimorso può venire a gente come Merola e Zuppi, ferventi servitori autoproiettati e convinti nel ruolo di fiancheggiatori di un’aggressione che rientra nei piani ormai storici per il Nuovo Medio Oriente: loro eseguono solo gli ordini e glorificano lo script occidentale a dominanza statunitense.
Ma quello che han fatto sotto l’albero spento “per Aleppo” è il loro minimo sindacale: il resto dell’aggressione, la parte di gran lunga preponderante e “scientifica”, la fanno quotidianamente ai danni dei loro concittadini e del loro stesso Paese.
Sonia Ardizzoni

Ai tre sotto l’albero spento

Usi coprir menzogna con menzogna
come tempo non avete a comprender nel labirinto
che il vento può mutare o è già mutato
così niun dei vostri fedeli d’oggi si garberà al dunque
di farvi intonar l’appello ai vostri padroni

so’ fratell’ a noi
ce vengono a liberà

nel labirinto che s’apre
grande e complicato
non mancheranno i cessi
attesa è la vostra mano d’opera
onde nettarli

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Le prime luci dell’alba?

aa_mainstream-media-lies-23-things-that-are-not-what-they-seem-to-be-on-television“Come dicevo all’inizio, osservando il decorso dell’anno sembrerebbe innegabile che questo 2016 sia stato per l’umanità un anno davvero infernale, un annus horribilis.
Eppure…
Eppure ci sono dei segnali decisamente emblematici che forse ci permetteranno di riconsiderare questa conclusione.
In primo luogo prendiamo in esame i media; questo è stato l’anno in cui il potere manipolatore dei media ha mostrato per la prima volta i suoi limiti.
Brexit era stata considerata non realistica e tutta la stampa aveva suonato all’unisono la grancassa della permanenza del Regno Unito in Europa; per meglio ‘convincere’ l’opinione pubblica si era addirittura ricorsi all’omicidio politico della parlamentare laburista Jo Cox, esponente del fronte Remain.
Stesso discorso per le elezioni USA, nel corso delle quali i mezzi d’informazione, i politici e Hollywood avevano ripetuto ossessivamente il mantra della ormai certa elezione della Clinton.
La cosa si è ripetuta, in piccolo, a casa nostra, dove la vittoria del Sì al referendum era data per scontata sulla base di poco affidabili indagini di mercato.
Dunque i media, il principale strumento della manipolazione dei popoli inizia a perdere la sua presa sul mondo reale e questo è un elemento che non può non preoccupare le élite che governano il mondo. Tanto da costringerle a spingere sul pedale dell’acceleratore in modo piuttosto pesante per spostare la direzione dei pensieri e delle emozioni della gente nelle direzioni volute.
Ecco allora l’intensificazione dei tentativi di denigrare, irridere o addirittura proibire pensieri che non siano politically correct, tendendo a realizzare sulla Terra un global thinking, un pensiero unico, il vero obiettivo della globalizzazione mondiale.
Se tali interventi tendono a paralizzare il pensare, l bombardamento di immagini di eventi sanguinosi e catastrofici sono intesi a depotenziare il sentire ed il volere delle masse, paralizzandole con progressive ondate di ansia, angoscia e paura ed inibendone le possibili reazioni.
Così determinate forze – chiamatele fratellanze oscure o élite mondialiste o piramidi di potere neo-oligarchiche, come preferite – lavorano per paralizzare pensare, sentire e volere in modo da creare l’uomo nuovo, totalmente asservito alla realtà virtuale, sul sentiero dell’uomo-macchina che, grazie alla totale immersione nel mondo irreale delle immagini virtuali, dei chip impiantati sottopelle, dell’incremento esponenziale delle ludopatie e dell’addiction ai dispositivi digitali può facilmente venir manipolato socialmente da chi esercita la governance mondiale.
Questo progetto globale – ormai da anni evidente a chi osservi la realtà dei fatti in modo disincantato – potrebbe, tuttavia, aver mostrato per la prima volta, quest’anno, una vulnerabilità rilevante.
Forse, allora, il 2016 potrebbe rappresentare, sì, un annus horribilis, ma non per l’umanità nel suo complesso, bensì per quell’establishment che ormai, in maniera sempre più scoperta, più parossistica, sta cercando di mettere a segno dei successi, costi quel che costi.
Il crescendo di ferocia e di efferatezza degli eventi di questi ultimi mesi indica – se ce ne fosse ancora bisogno – insomma, la debolezza e la rabbia impotente delle oligarchie dominanti, che vedono allontanarsi il loro obiettivo, pazientemente perseguito in questi ultimi decenni.
Ciò è particolarmente evidente osservando da una parte la sempre maggiore approssimazione e spudoratezza di certi attentati e dall’altra la studiata ricerca del massimo effetto possibile sull’opinione pubblica grazie a una spettacolarizzazione della morte e della paura in diretta grazie a sapienti messinscena e a media compiacenti.
Se coloro che lavorano nella e per la verità – ciascuno nella sua realtà interiore e nel suo ambito sociale – sapranno cogliere questa opportunità, la notte oscura di questo mondo crepuscolare e disumano verrà presto rischiarata dalle prime luci dell’alba.”

Da 2016, annus horribilis? O no?, di Piero Cammerinesi.

Gli interventi del professor Paolo Becchi e di Paolo Borgognone, alla conferenza “Come i media e la cultura dominante alterano le coscienze, nascondendo il rischio di guerra nucleare”, svoltasi a Genova lo scorso 17 dicembre.

Medio Oriente, Siria, ISIS: la verità mistificata

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Molto, molto pericoloso

moscow-weather“L’intervento della Russia nel conflitto siriano, a partire da settembre 2015 (esattamente un anno dopo che gli Stati Uniti avevano iniziato a bombardare obiettivi ISIL nel paese), destinato a puntellare lo Stato siriano contro un’opposizione intessuta di ciò che gli Stati Uniti ritengono la “opposizione moderata”, è stato un cambio di gioco. L’entrata in campo, su richiesta del governo siriano (che, bisogna ripeterlo, è il governo di una repubblica laica, costituzionale riconosciuta diplomaticamente dalle Nazioni Unite e ha rapporti cordiali con la Russia, l’Iran, la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica, le Filippine, Argentina, Tanzania, Cuba, Egitto, Iraq, Algeria, Oman e molti altri Paesi, nonostante gli sforzi di Washington per isolarla e rovesciarla), questo intervento è legale, mentre quello degli Stati Uniti non lo è.
La stampa statunitense ha praticamente ignorato i successi russi nel favorire l’esercito siriano distruggendo i convogli di petrolio che si dirigevano dal territorio controllato dai terroristi in Turchia per la vendita illegale e per aver sottratto Palmira alla crudeltà dell’ISIL che aveva distrutto il Tempio di Bel. Invece, facendo eco al Dipartimento di Stato, semplicemente si accusava Mosca di sostenere il governo riconosciuto a livello internazionale contro i ribelli che gli Stati Uniti vogliono far vincere.
Le azioni russe, rafforzando ulteriormente la posizione del regime e indebolendo quelli ufficialmente considerati da Washington e Mosca come terroristi, costrinsero gli Stati Uniti a rispondere positivamente agli appelli russi per un’azione comune contro questi ultimi. Il 9 settembre Kerry e Lavrov concordarono un piano per un cessate il fuoco di una settimana (che il governo siriano ha accettato) tra le forze di Stato e l’opposizione “legittima” (appoggiata dagli Stati Uniti). Durante questo periodo, questi ultimi si sarebbero separati da al-Nusra per evitare di essere essi stessi bombardati.
Queste misure dovevano essere seguite da azioni russo-americane coordinate contro i terroristi, mentre i colloqui di pace riprendevano a Ginevra. Purtroppo gli Stati Uniti sono stati incapaci o riluttanti a convincere i suoi numerosi protetti nel conflitto a separarsi da al-Nusra. (Questo è ciò che veramente ha condannato la trattativa, l’incapacità degli Stati Uniti di riconoscere la propria fine.) Alcuni clienti con rabbia rifiutarono e si rivolsero ai loro consulenti statunitensi. Il 16 settembre (presumibilmente per errore) gli Stati Uniti e parecchi suoi alleati hanno bombardato una base dell’esercito siriano uccidendo 62 soldati impegnati in combattimenti con l’ISIL. Infuriata, la Siria ha ripreso il bombardamento di Aleppo est, che è controllata da al-Nusra (Fatah al-Sham). Gli americani hanno accusato la Siria o la Russia per il bombardamento, ancora inspiegabile, di un convoglio di aiuti delle Nazioni Unite, facendo 20 morti tre giorni dopo, e ha sospeso i negoziati con la Russia.
In altre parole, avendo temporaneamente ammesso la necessità di cooperare con la Russia alleata della Siria per risolvere un conflitto che gli Stati Uniti avevano deliberatamente aggravato, con risultati terribili, gli Stati Uniti hanno sabotato i colloqui. E dopo averlo fatto, improvvisamente sono scivolati in una condotta al vetriolo senza precedenti; osservate le prestazioni dell’ambasciatrice alle Nazioni Unite Samantha Power il 18 settembre, dove lei con rabbia ha respinto la morte dei soldati siriani come un dettaglio minore in una guerra, e rimproverò l’ambasciatore russo per aver chiamato una riunione del Consiglio di Sicurezza per discutere sulla Siria una “bravata”. ( Lei, ovviamente, era stanca dell’ostinato rifiuto della Russia di concedere alla “nazione eccezionale” il futuro del suo alleato.)
Intanto Hillary Clinton di recente, il 9 ottobre, ha ribadito nel “dibattito” con Trump che (ancora) sostiene una no-fly zone. Anche se i suoi pezzi grossi le hanno detto che questo significherebbe lo spiegamento di decine di migliaia di soldati degli Stati Uniti in una guerra con la Siria e la Russia. Lei è tenuta a galla da quel molto insolito promemoria di dissenso firmato lo scorso giugno da 51 attuali funzionari del Dipartimento di Stato che non considerano l’ISIL l’epicentro ed esigono un cambio immediato di regime in Siria. Lei sa che il Dipartimento di Stato è più aggressivo rispetto al Pentagono, ma che il Pentagono è anche sospettoso di ogni cooperazione con la Russia, dovunque, come ad esempio Lavrov ha più volte proposto. Lei sa che i mezzi di informazione in questo Paese hanno fatto credere che la Russia, attraverso il suo sostegno a un brutale dittatore, è responsabile per il genocidio in Aleppo est, mentre gli Stati Uniti si siedono in disparte e non fanno nulla!
Lei è ansiosa di nominare Michèle Flournoy (precedentemente il civile situato al terzo livello del Pentagono sotto Obama) come suo Segretario della Difesa. Flournoy ha anche chiesto una “no-fly zone” sulla Siria e “una coercizione militare limitata” per rimuovere Assad dal potere. Lei ha effettivamente proposto il dispiegamento di truppe di terra statunitensi contro l’esercito arabo siriano.
L’8 ottobre la Francia ha proposto una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che vieta il bombardamento siriano o russo di Aleppo est controllato da al-Nusra, mentre tace sul bombardamento illegale della Siria condotto dagli USA e dai suoi alleati. Una barzelletta assurda, contrastata da Cina e Russia, che hanno posto subito il veto. Lo scopo era diffamare ulteriormente il governo siriano e la Russia.
Non è ovvio? L’opinione pubblica si sta preparando per un’altra guerra per il cambio di un regime. La più alta posta in gioco questa fino ad oggi, perché potrebbe portare alla terza guerra mondiale.
Ed è appena anche un argomento di conversazione in questa elezione truccata, che sembra progettato per non solo presentare un guerrafondaio, ma per sfruttare al massimo la rozza russofobia in corso. Il punto per Hillary non è solo salire al potere, a qualunque costo, ma preparare il popolo per altri Afghanistan, Iraq e Libia. Il punto è quello di cullare il popolo nell’amnesia storica, impedirgli di vedere il primato di Hillary nel militarismo spericolato alla maniera di Goldwater, sfruttare la mentalità da Guerra Fredda persistente tra i più arretrati e ignoranti, e assicurare che l’elettorato il quale, mentre in genere deplora il risultato delle elezioni truccate nel mese di novembre, si radunerà ben presto dietro la corrotta Hillary non appena lei troverà un pretesto per fare la guerra.
Molto, molto pericoloso.”

Da Un’informazione urgente sulla Siria, di Gary Leupp (docente di Storia presso la Tufts University).

Civiltà contro barbarie

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“Ci sarà un crescendo di bugie ed accuse. E’ inevitabile, perché l’Esercito Arabo Siriano sta per liberare gli ultimi quartieri di Aleppo in mano ai tagliagole. E i tagliagole sono disperati e i loro sponsor sono furenti. Qualcuno ha fatto notare che se si contano tutti gli ospedali che l’aviazione siriana avrebbe distrutto, ne salta fuori il Paese col più alto numero in assoluto di nosocomi del mondo. E’ vero che la sanità pubblica è un diritto nella Siria laica e multiconfessionale, ma qui si esagera. Eppure vedrete se non ne verrà bombardato qualcun altro. Ne potete star certi.
Ma le denunce disperate, le richieste di aiuto dei medici, degli infermieri, dei civili, dei leader religiosi dell’Aleppo martoriata da anni dai tagliagole e difesa strenuamente dall’Esercito Arabo Siriano, no, quelle non contano. Sono anni che due milioni di persone gridano letteralmente nel deserto. Nelle menti desertificate dei nostri governanti, dei nostri media e della nostra sinistra.
Eppure, non so se avete notato, in mezzo all’infuriare di accuse e contro accuse, nonostante le ingiurie e le patenti bugie che i nostri media e i nostri governi vomitano sulla Russia, Lavrov e Kerry continuano a sentirsi e a incontrarsi. Perché? Ve lo siete mai chiesti?
Ho cercato di impostare una risposta qui.
Ogni crisi sistemica crea un caos sistemico. E il caos sistemico penetra anche nelle nazioni che lo generano, anche in quella più forte e potente. E il caos sta imperando a Washington.
Può quindi essere difficile da capire per chi pensa in bianco e nero, ma Lavrov continua a incontrare Kerry non perché spera ancora in una tregua. Entrambi hanno detto che non ci credono più. Si incontrano perché Putin cerca disperatamente di mantenere in sella Obama, l’Obama azzoppato, l’Obama a cui forse ubbidiscono solo i figli, non certo il Pentagono e non certo la CIA, che conducono le loro specifiche guerre, che hanno le loro peculiari strategie, una elaborata sulla riva destra del Potomac e un’altra a Langley, tutte contro il Foggy Bottom dove Kerry prende decisioni che vengono immediatamente, anzi preventivamente, boicottate su indicazione delle tre arpie statunitensi assetate di sangue: Hillary Clinton, Samantha Power e Susan Rice alle quali possiamo aggiungere una degnissima quarta arpia, Victoria Nuland (le donne al potere sono meglio degli uomini? Ne riparleremo).
Putin ha fatto abbondantemente capire che preferisce una cattiva pace a una buona guerra. Per quello cerca di aiutare Obama, passando sopra a insulti ormai fuori misura e a provocazioni, anch’esse fuori misura. I Russi conoscono perfettamente la debolezza interna di Obama e non ne gongolano, ma la temono. Dopo il bombardamento di Der Ezzor che ha rotto la tregua non hanno puntato il dito su Obama, ma da un’altra parte. Di Obama e Kerry hanno detto una cosa molto precisa: Non hanno la capacità di onorare gli impegni presi. Non hanno affermato che li hanno traditi, ma che è al di fuori delle loro possibilità farli onorare.
Paradossale eh? Putin sta cercando di difendere Obama da uno strisciante pronunciamento militar-securitario contro di lui.
I Russi hanno diviso gli States in una parte sana (anche se non santa) e in una parte malata (e satanica) e, in vista anche delle prossime elezioni, stanno dando tutto l’aiuto che è loro possibile alla parte sana, seppur non santa, con cui potrebbero negoziare l’adattamento al nuovo mondo multipolare (che sia questa alla fin fine l’interferenza di cui parlano i collaboratori della Clinton?).
Non sarebbe la prima volta che la Madre Russia salva un Occidente sull’orlo del suicidio.”

Da Perché Putin vuole salvare il cane che affoga (cioè Obama), di Piero Pagliani.

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L’assassinio dello scrittore Nahed Attar: terroristi islamici, i loro padrini e la battaglia di Aleppo

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Partiamo da una notizia che non ha suscitato grande eco sulla stampa internazionale.
Qualche giorno fa lo scrittore giordano Nahed Attar è stato assassinato sulla porta del tribunale di Amman da un terrorista islamico. La sua colpa era quella di essere un laico, ateo, e sostenitore del governo siriano guidato dal Presidente Bashar al-Assad nella sua lotta contro le bande degli integralisti islamici finanziate ed armate dagli USA e da altri Paesi della NATO, e dai loro alleati mediorientali (Arabia Saudita, Qatar, Turchia).
Attar aveva condiviso su Facebook una vignetta in cui veniva presa in giro la pretesa dei terroristi dell’ISIS (o Daesh in arabo) di andare in paradiso come martiri della fede. Il primo ministro della Giordania (un Paese vassallo degli USA, UK ed Arabia Saudita), Hani Mulki, simpatizzante della Fratellanza Musulmana, invece di proteggerlo, lo aveva fatto arrestare e processare per “oltraggio alla religione, settarismo e razzismo”, additandolo in pratica alla vendetta dei terroristi.
Tutto questo non è casuale: il “civile” e “liberale” Occidente, ed i loro alleati mediorientali, si servono normalmente dei terroristi fanatici islamici per colpire chi si oppone al loro sogno di dominio mondiale.
Negli anni ’70 il governo laico comunista dell’Afghanistan fu messo in ginocchio dai mercenari islamici fanatici, accorsi da decine di Paesi, armati e protetti dagli USA e dall’Arabia Saudita, guidati da gente come Bin Laden, creatore di Al Qaeda con la complicità dei servizi segreti americani, sauditi e pakistani.
Negli anni ’90, mentre gli USA davano il primo colpo (Prima Guerra del Golfo) all’Iraq laico guidato dal partito socialista Baath, i nuovi eroi dell’Occidente erano una banda di integralisti islamici che voleva istituire un regime islamico in Bosnia, con il solito codazzo di jihadisti di Al Qaeda affluiti da tutto il mondo islamico. Naturalmente i musulmani furono fatti passare per povere vittime dei cattivissimi Serbi-Jugoslavi scatenando la solita alluvione di false notizie, come il presunto massacro di Srebrenica (un episodio ancora tutto da chiarire, come emerge da vari accurati lavori (1)). Il cosiddetto “assedio di Sarajevo” (in realtà la città era divisa tra i quartieri centrali a maggioranza musulmana ed i quartieri periferici serbi, da cui i miliziani si sparavano addosso a vicenda) divenne il simbolo gettonatissimo della cattiveria dei Serbi. Oggi un interessante libro di Toschi Marazzani (ed. Zambon(2)) denuncia la crescita dell’integralismo in Bosnia, da cui partono legioni di jihadisti verso la Siria e l’Iraq per ingrossare le fila di Daesh.
Poi è stata la volta della Seconda Guerra del Golfo del 2003, che ha fatto a pezzi l’Iraq, anche per mezzo della mobilitazione di gruppi dirigenti tribali della comunità curda, con la prospettiva di uno staterello fantoccio protetto da USA, Turchia ed Israele. Poi è stata la volta della Libia laica di Gheddafi dove i bombardamenti della NATO hanno aperto la strada agli integralisti di Alba Libica ed alle feroci milizie di Misurata, organizzate dai Fratelli Musulmani, fino allo sfacelo attuale. Infine è stata aggredita la Siria, dove combattono una serie impressionante di gruppi jihadisti terroristi (Daesh, Fateh al-Sham ex al-Nusra, Jaish al-Islam, Ahrar al-Sham, ecc.).
Gli USA, come in Iraq, usano spregiudicatamente anche i contrasti etnici in un Paese come la Siria, dove tutte le religioni, il libero pensiero laico ed ateo, le varie etnie, hanno avuto sempre pari diritti.
E’ in corso nella sinistra italiana un dibattito sul ruolo dei Curdi (dei cui diritti chi scrive è stato in passato un aperto sostenitore) ma che ora sembra abbiano anteposto (forse con molte illusioni) i loro interessi etnici a quelli della generale battaglia antimperialista, alleandosi con gli USA: essi hanno illegalmente concesso basi militari agli USA in territorio siriano, di cui l’esercito americano si serve per minacciare ed attaccare l’esercito nazionale siriano che difende l’indipendenza e la sovranità del Paese.
Infatti la distruzione della Siria – il Paese più laico e secolare del Medio Oriente, dove le donne godono di tutti i diritti e possono passeggiare sole con le gonne sopra il ginocchio per le vie di Damasco senza essere disturbate (sono di ciò testimone oculare), dove esiste un servizio sanitario nazionale ed un sistema di istruzione laico pubblico e gratuito fino all’università – rimane lo scopo principale dell’imperialismo USA, dei suoi alleati, e di Israele. Il piano, già illustrato da molti anni nei documenti dei “neocons”, consiste nella “distruzione creativa” di tutti gli Stati sovrani che si pongono di traverso sul cammino imperiale. Ma da oltre cinque anni l’esercito ed il popolo siriano, guidati dal Presidente Assad, resistono, ed ora sono passati alla controffensiva con l’aiuto dell’aviazione russa e delle eroiche milizie libanesi di Hezbollah, che già sconfissero l’esercito israeliano nel 2006.
Ecco allora che i soliti scribacchini alla Bernard Levy, e tutti gli imitatori italiani ed occidentali, comprese le Botteri e le Goracci, lanciano la nuova campagna mediatica. Una volta c’erano i cattivi Serbi che assediavano Sarajevo. Oggi sono i Russi e i Siriani fedeli al proprio governo che “assediano” e bombardano Aleppo, la più importante città della Siria insieme a Damasco. Non viene detto che in realtà sono stati i terroristi che hanno assediato Aleppo per quattro anni, bombardandola, tagliandole l’acqua e l’elettricità ed occupando solo alcuni quartieri, dove si sono fatti scudo dei civili, cui non viene permesso di mettersi in salvo attraverso i quattro corridoi umanitari predisposti dal governo.
Ma nonostante tutto la Siria è ancora in piedi, con l’aiuto di Russia, Iran, Cina, Hezbollah, e tutti i democratici laici arabi. Cresce l’isteria di USA, UE, Arabia Saudita (che a sua volta bombarda e distrugge lo Yemen), ma i combattenti patriottici siriani non si lasciano impressionare.
Vincenzo Brandi

(1) Vedi ad es. Menzogne di Guerra del giornalista tedesco J. Elsasser, ed i due ottimi dossier della “Città del Sole” su Srebrenica
(2) Jean Toschi Marazzani Visconti, La Porta d’Ingresso dell’Islam, ed. Zambon

ISIS

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Terrorismo e ISIS: da tempo sui mezzi d’informazione non si parla d’altro, anche in seguito agli ultimi attentati in alcune capitali europee. Concetti declinati in tutte le maniere possibili e immaginabili, soprattutto riferendosi alle guerre combattute nel Vicino e Medio Oriente.
Ma conosciamo tutta la verità? Abbiamo davvero tutte le informazioni per esprimere un giudizio preciso? Quelle che leggiamo sui giornali o ascoltiamo in tv corrispondono alla realtà dei fatti oppure sono menzogne? È possibile che gli uomini di governo dell’Occidente stiano sfruttando il terrorismo, che non cessano di calunniare come se fosse l’origine di tutti i mali, per ottenere un potere straordinario nei confronti della società?
Che cos’è dunque il cosiddetto terrorismo internazionale (Al-Qa’ida, ISIS, Jabhat al-Nusra, Boko Haram, al-Shabaab, etc.)?
Ma, soprattutto, chi ne trae beneficio?
Sono queste le domande fondamentali a cui il libro di Paolo Sensini, dopo aver vagliato un’imponente mole di materiali e documenti originali, risponde per la prima volta in maniera esaustiva e completa.
E lo fa mettendo finalmente in luce la totalità degli aspetti che riguardano i mandanti, i registi, gli attori e le pratiche di quella che definisce come strategia del caos.
In questo scenario anche l’Islam e le sue centrali ideologiche, su cui si sono versati fiumi di parole senza mai toccare il cuore del problema, assumono un significato e dei contorni molto più chiari e definiti. Ne emerge così un quadro sconvolgente, ma allo stesso tempo necessario, per capire e orientarsi nel mare tempestoso in cui ci troviamo a vivere.

Isis. Mandanti, registi e attori del “terrorismo” internazionale,
di Paolo Sensini
Arianna Editrice, 2016, € 14,50

Paolo Sensini, storico ed esperto di geopolitica, è autore di numerosi libri tra cui Il «dissenso» nella sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977 (Rubbettino, Soveria Mannelli 2010), Libia 2011 (Jaca Book, Milano 2011), Divide et Impera, Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente (Mimesis, Milano 2013) e Sowing Chaos. Libya in the Wake of Humanitarian Intervention (Clarity Press, Atlanta 2016). Suoi scritti sono apparsi su varie riviste italiane ed estere.

Venti di guerra in Siria e Libia: l’imperialismo non demorde

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L’intervento russo iniziato nel settembre 2015 aveva segnato un punto di svolta nella drammatica guerra in Siria. Finalmente si era vista una luce in fondo al tunnel in cui il Paese era stato spinto dalle spietate sanzioni, dal blocco economico-finanziario imposto dalle potenze della NATO, e dalla guerra indiretta scatenata, con l’uso strumentale di bande mercenarie, sia dai paesi occidentali che dalle potenze reazionarie locali (come la Turchia, l’Arabia Saudita ed il Qatar) tesa a rovesciare il governo legittimo del Presidente Assad.
A partire dal 2011-2012 nell’Est del paese hanno agito le bande jihadiste, poi raggruppatesi sotto la sigla dello Stato Islamico (o DAESH), sostenuto sotto banco da Arabia Saudita, Turchia, Qatar e all’inizio falsamente combattuto dagli USA, che anzi ne avevano favorito la nascita in funzione anti-Assad. Le bande dell’ISIS hanno in gran parte occupato le province di Raqqa e Deir-Es-Zor.
La provincia di Idlib nel Nord-Ovest è stata invece invasa da una coalizione di Al-Nusra (ramo siriano di Al-Queda), con Ahrar Al-Sham e altri gruppi minori, che si è data il nome di Esercito della Conquista (Jaish Al-Fatah), apertamente sostenuta dalla Turchia che faceva passare attraverso il confine rifornimenti e combattenti mercenari e fanatici provenienti da 90 paesi. La città di Aleppo, la più grande e ricca della Siria, era stata assediata dal 2012 e i jihadisti erano riusciti a penetrare in alcuni quartieri del centro.
La stessa capitale Damasco era bombardata con mortai dalle bande del Jaish Al-Islam, fedeli al Wahabismo saudita, la corrente più reazionaria dell’Islam, che erano riusciti ad infiltrarsi in alcuni sobborghi (Goutha occidentale ed orientale). Nel sud altre bande, in gran parte facenti capo ad Al-Nusra e ISIS, sostenute dalla Giordania ed Israele, agivano nelle province meridionali di Deraa, Quneitra e Sweda.
La controffensiva dell’esercito nazionale siriano, sostenuta dall’aviazione russa, aveva ottenuto importanti successi, come la riconquista della città storica di Palmyra (Tadmoor in arabo) e la liberazione di gran parte della zona intorno ad Aleppo, dove le bande che si erano infiltrate in alcuni quartieri della città, da cui bombardavano i quartieri “lealisti”, erano rimaste completamente circondate.
Ma invece di addivenire ad un accordo per un cessate il fuoco, che sembrava possibile, le varie potenze che hanno giurato di distruggere la Siria hanno rilanciato gli attacchi. Migliaia di mercenari potentemente armati sono affluiti dalla Turchia, attraverso la provincia di Idlib, unendosi ad Al-Nusra (che intanto ha cambiato nome in Failaq Al-Sham nel tentativo di far dimenticare di essere ufficialmente nell’elenco delle organizzazioni terroriste) ed attaccando Aleppo. Questa città martire, ormai priva di cibo, acqua, energia elettrica, è divenuta ancora una volta campo di battaglia, mentre la vergognosa propaganda di guerra dei mass media occidentali sfruttava la falsa immagine del bambino Omran per gettare al solito la colpa di tutti i presenti orrori sull’esercito di Assad e sui Russi.
Nel Nord le milizie curde, ormai divenute le truppe di terra di una coalizione diretta dagli USA, con la scusa di combattere l’ISIS, hanno “liberato” la città completamente araba di Manbij. Ma contemporaneamente i Curdi, scoprendo apertamente il loro doppio gioco, hanno attaccato la guarnigione dell’esercito siriano nell’importante città araba di Hassakeh. Gli aerei siriani non sono potuti intervenire perché esplicitamente minacciati di intervento dall’aviazione USA, cui i Curdi hanno concesso arbitrariamente l’uso di una base aerea su suolo siriano. E’ stata è così creata di fatto una “No Fly Zone” nel Nord della Siria.
Chi scrive ha appoggiato in passato le giuste rivendicazioni del popolo curdo recandosi anche nel Kurdistan varie volte, ma queste rivendicazioni non possono giustificare il fatto di mettersi al servizio – come mercenari – di potenze imperialiste che intendono distruggere i Paesi indipendenti del Vicino Oriente. L’avanzata curda ha provocato un nuovo disastro, quando le truppe turche, con l’aiuto di bande di mercenari turkmeni e jihadisti, con la scusa di combattere DAESH e contemporaneamente di frenare l’avanzata USA-curda, hanno invaso la Siria occupando la città di frontiera di Jarabulus. Si sta quindi realizzando il vecchio sogno di Erdogan di creare una fascia cuscinetto nella Siria del Nord occupata dall’esercito turco. E’ auspicabile che i Russi, cui Erdogan ha cercato di riavvicinarsi dopo lo strano tentativo di “colpo di Stato” subito fallito in Turchia, non si facciano turlupinare come fece l’ex-Presidente Medvedev nel 2011 nel caso dell’attacco della NATO alla Libia.
In quest’ultimo Paese – sempre con la scusa di combattere l’ISIS – proseguono le illegali operazioni militari, più o meno nascoste, di USA e Paesi UE (tra cui anche l’Italia), in realtà condotte allo scopo di rafforzare l’alleato “governo” Serraj di Tripoli, legato alla Fratellanza Musulmana, ed indebolire il governo laico di Tobruk, sostenuto dall’Egitto, che continua a non riconoscere Serraj e condanna tutti gli interventi militari stranieri.
D’altra parte proseguono su scala mondiale le grandi manovre contro chiunque cerchi di opporsi al predominio dell’imperialismo USA, del sub-imperialismo subordinato della UE, e dei loro alleati locali come l’orribile monarchia wahabita-saudita, che – da parte sua – continua a massacrare l’eroico popolo dello Yemen, che continua bravamente a resistere.
Si moltiplicano le provocazioni alle frontiere europee della Russia, nei Paesi baltici come in Crimea. Nell’ambito della strategia “Pivot to Asia”, gli USA rafforzano le loro guarnigioni e flotte nel Pacifico che circondano la Cina; cercano di tirare dalla loro parte, con pressioni di vario genere, anche Paesi come il Vietnam (quanto mutato dai tempi eroici della resistenza!) ed il Myanmar (ex-Birmania), quest’ultimo tradizionalmente in buoni rapporti con la Cina. I Cinesi non si lasciano intimorire e stringono un accordo militare con il governo Assad, carico di promesse.
Ma che succederà quando a novembre dovesse diventare prima Presidente USA donna la guerrafondaia Hillary Clinton (quella che chiedeva l’attacco militare alla Siria, appoggiava il colpo di Stato di Piazza Maidan in Ucraina, e metaforicamente ballava sul cadavere di Gheddafi schignazzando con le sprezzanti parole:”I came, I saw, He died”)? Ancora oggi in settori della pseudo-sinistra italiana c’è chi tifa per la “Killary”, perchè ha orrore del folkloristico Trump, accusato tra l’altro di voler dialogare con Putin e di aver sostenuto l’ultimo governo legale dell’Ucraina spazzato dal colpo di Stato. Per fortuna Siriani, Iracheni, Libici, Yemeniti, Libanesi continuano a resistere e Russia, Cina, Iran vigilano. La partita è aperta.
Vincenzo Brandi