Com’è spudorato che gli Stati Uniti con basi militari in tutto il mondo si sentano “preoccupati” per la presenza di altri nel Pacifico

A cura di Global Times

Gli USA, la cui bandiera sventola su 750 basi militari in più di 80 Paesi e regioni, sembrano stare sulle spine dopo aver visto la Cina firmare UN solo accordo quadro di cooperazione in materia di sicurezza con le isole Salomone. Martedì [31 maggio u.s. – n.d.c.], ora locale, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden incontrò alla Casa Bianca il primo ministro neozelandese Jacinda Ardern. La loro “preoccupazione condivisa” per l’accordo di sicurezza cinese e le “ambizioni della Cina nel Pacifico” sono state presto messe sotto i riflettori dei media occidentali.
Una frase nella loro dichiarazione congiunta, emessa dalla Casa Bianca, è stata diffusa al massimo nelle rassegne statunitensi: “La creazione di una presenza militare persistente nel Pacifico da parte di uno Stato che non condivide i nostri valori o interessi di sicurezza altererebbe fondamentalmente l’equilibrio strategico della regione e pone problemi di sicurezza nazionale a entrambe i nostri Paesi”.
Questa è logica da gangster. Implica che i Paesi sovrani nell’Oceano Pacifico meridionale non hanno il diritto di firmare accordi con altri Paesi. Altrimenti, la versione statunitense dell’”equilibrio strategico” verrà infranta.
“Non esiste il cosiddetto equilibrio strategico nell’Oceano Pacifico meridionale, ma solo l’egemonia e il dominio a lungo termine degli Stati Uniti e dell’Australia negli affari regionali. Considerano la regione del Pacifico meridionale come una propria intoccabile sfera di influenza e sono fortemente contrari ai programmi avviati dalla Cina”, ha detto al Global Times Xu Shanpin, ricercatore aggiunto presso l’Università cinese in Scienze Minerarie e Tecnologiche.
La regione del Pacifico meridionale era solita essere di importanza militare per Washington. Durante la seconda guerra mondiale, il personale militare americano occupò basi in tutta la regione sul fronte marittimo, effettuò numerosi test di bombe nucleari nella regione e vi seppellì scorie radioattive. “Dopo la fine della Guerra Fredda, l’importanza della regione nella strategia globale degli Stati Uniti crollò e Washington ritirò un gran numero di ambasciate, personale e aiuti economici”, ha detto Xu Shanpin.
Gli Stati Uniti hanno guardato con freddezza ai reali bisogni della regione del Pacifico negli ultimi tre decenni, ma improvvisamente si sentono scioccati quando vedono crescere la cooperazione dei Paesi della regione con la Cina in settori in espansione. Così è stata lanciata una tipica risposta degli Stati Uniti: fomentare i problemi, mettere zizzania diffamando le intenzioni della Cina e inscenare una cosiddetta minaccia alla sicurezza da parte della Cina.
Questa volta, la Nuova Zelanda è stata coinvolta dagli Stati Uniti. La visita di Ardern è stata vista da Washington come un’opportunità per trarre vantaggio dalla Nuova Zelanda e farle svolgere un ruolo più attivo nella strategia indo-pacifica degli Stati Uniti. Ardern ha la sua agenda per il viaggio: pubblicizzare i prodotti della Nuova Zelanda, attirare turisti americani e cercare più sostegno dagli Stati Uniti su questioni come la lotta al Covid e ai cambiamenti climatici. E’ come se si trovasse a fare una transazione quando ella ha ripetuto a pappagallo le “preoccupazioni per la sicurezza” degli Stati Uniti nella regione del Pacifico, come un modo per scambiare interessi economici con tali echi politici, ha detto al Global Times Chen Hong, direttore del New Zealand Studies Center e direttore esecutivo dell’Asia Pacific Studies Center della East China Normal University.
Dato che la Nuova Zelanda si è sforzata di mantenere la sua indipendenza politica con il proprio interesse nazionale come linea guida per le sue politiche diplomatiche e di sicurezza, Washington sembra aver trovato un buon tempismo per avvicinare Wellington alla sua orbita strategica proprio quando la Nuova Zelanda sta provando a districarsi dalla crisi economica, secondo Chen.
Comunque, l’Australia dovrebbe servire da vivido esempio per la Nuova Zelanda. Canberra ha incasinato i rapporti con Pechino. E il mercato cinese che ha perso è stato quasi in pochissimo tempo colto dagli Stati Uniti. Se rinuncia alla sua precedente saggezza politica, alla fine la Nuova Zelanda potrebbe perdere da entrambe le parti. Ci sono stati vari esempi di come gli Stati Uniti hanno ingannato e deluso i loro alleati.
Martedì [31 maggio u.s. – n.d.c.], Reuters riferì che un alto funzionario statunitense, che parlava a condizione di anonimato, aveva affermato che Biden e Ardern avevano discusso della necessità di aiutare i Paesi delle isole del Pacifico ad affrontare questioni come la pandemia da COVID-19 e il cambiamento climatico.
Con quale scusa gli Stati Uniti si sentono in diritto di accusare la Cina quando quest’ultima ha già iniziato la sua cooperazione con i Paesi insulari del Pacifico per aiutarli a far fronte a queste sfide, sviluppare l’economia locale e migliorare i mezzi di sussistenza della gente locale dopo che gli Stati Uniti hanno chiuso un occhio sulla regione per così tanto tempo? In ogni caso cosa possono offrire gli Stati Uniti, quando Washington sta affrontando un’economia disastrosa e una situazione caotica nella politica interna?
Ovunque gli Stati Uniti fissano la loro impronta, ci saranno disordini o addirittura guerre. Se gli Stati Uniti si preoccupano davvero della regione del Pacifico meridionale, le espressioni verbali di preoccupazione sono inutili. La regione necessita di un aiuto concreto e sincero.
La cooperazione tra Cina e Nuova Zelanda è produttiva e reciprocamente vantaggiosa. La cooperazione tra le due parti non prevede alcun prerequisito politico collegato. Lo stesso vale per la cooperazione della Cina con altri Paesi, in netto contrasto con gli Stati Uniti, che hanno sviluppato legami con altri Paesi sulla base del calcolo per i propri interessi politici.
Rispetto agli Stati Uniti, che hanno basi militari e hanno lanciato innumerevoli guerre in tutto il mondo, la Cina difficilmente può essere definita un Paese con “ambizioni”. D’altro canto, vale la pena notare che quando gli Stati Uniti tirano i loro alleati dalla propria parte frequentemente per esprimere “preoccupazioni”, significa che l’egemone sta diventando incapace nel farcela da solo.

(Traduzione a cura della redazione)

L’Australia nella NATO asiatica

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Il 2 marzo scorso, il Dipartimento della Difesa australiano ha reso noto un rapporto di centoquaranta pagine intitolato Difendendo l’Australia nel secolo dell’Asia Pacifico: la forza 2030, che prevede nuove spese militari per 72 miliardi di dollari.
Nell’ambito di questa cifra, è compreso l’acquisto di 100 esemplari del F-35 Lightning II, che nella versione australiana sarà dotato del Joint Strike Missile, un nuovo armamento per l’attacco a terra e la distruzione delle difese antiaeree nemiche sviluppato congiuntamente con la Norvegia.
Secondo il Financial Times del 4 maggio scorso, il ministro della Difesa australiano Joel Fitzgibbon avrebbe affermato che il rapporto di cui sopra, il primo elaborato nell’ultimo decennio, riconosce la supremazia a livello regionale degli Stati Uniti. Fitzgibbon mette, inoltre, in guardia rispetto alle “tensioni strategiche” causate dalle nuove potenze, specialmente la Cina ma anche l’India, nonché dal “ritorno della Russia”.
In un articolo apparso su un quotidiano australiano nel febbraio 2007, intitolato “Una nuova base spionistica segreta USA ha avuto la luce verde”, si sosteneva che la stretta alleanza militare australiana con gli Stati Uniti sarebbe stata rafforzata con la costruzione di una base di telecomunicazioni ad alta tecnologia nell’ovest dell’Australia. Si tratterà di una struttura cruciale per la nuova rete di satelliti militari a sostegno delle capacità belliche americane nel Medio Oriente ed in Asia. Questa base sarà la prima grande installazione militare USA ad essere costruita in Australia negli ultimi decenni, dopo le controversie avutesi su altri grandi insediamenti quali quelli di Pine Gap e North West Cape.
L’Australia è il Paese non membro della NATO con il maggior numero di truppe in Afghanistan, più di mille, mentre il Primo Ministro Kevin Rudd ha annunciato ad aprile scorso l’invio di altri 400 soldati, incluse alcune unità destinate ad operazioni speciali di combattimento.
Nel giugno 2008, il capo delle forze armate australiane Maresciallo dell’Aria Angus Houston, a proposito dell’impegno di Stati Uniti e NATO sul terreno afghano, ebbe a dire che esso sarebbe durato almeno altri dieci anni. Senza che l’Australia abbia intenzione di tirarsene fuori.
Le truppe del Paese dei canguri sono, fra l’altro, state fra le prime ad entrare in Iraq dopo l’invasione del 2003 e sono fra i pochi contingenti nazionali che ancora vi permangono. Alla fine del 2008, il parlamento irakeno – non senza dissensi – ha approvato una risoluzione che autorizza accordi bilaterali in merito ai soli contingenti non statunitensi ivi presenti: quelli di Gran Bretagna, Estonia, Romania, NATO ed appunto Australia. Negli stessi giorni, il Primo Ministro Rudd era in visita negli Emirati Arabi Uniti dove l’Australia sta riunendo le sue forze aeree ed il proprio quartier generale in Medio Oriente in una sola base, segreta. La presenza di soldati australiani nella regione è di circa 1.000 unità, che si vanno quindi ad aggiungere agli altri 1.000 in Afghanistan, 750 a Timor Est e 140 nelle Isole Salomone.
Qualcuno avanza, in questi ultimi tempi, l’ipotesi di una sorta di NATO asiatica volta ad integrare le nazioni asiatiche direttamente con la NATO e con i suoi singoli membri, gli Stati Uniti prima di tutto, quasi a realizzare un’estensione geografica dell’Alleanza Atlantica verso oriente. Ciò sarebbe l’esito di diverse misure, dagli accordi bilaterali di cooperazione all’insediamento di basi militari, dallo svolgimento di regolari esercitazioni multinazionali al dispiegamento di truppe nei teatri caldi. Lo scorso marzo, è giunta la notizia che l’Australia sta concludendo un accordo con la NATO per l’interscambio di informazioni militari riservate al fine di realizzare un più approfondito “dialogo strategico” ed una maggiore collaborazione sui “comuni interessi di lungo periodo”.
Insieme al Giappone, l’Australia – oltre ad ospitare sul proprio territorio basi militari statunitensi e dispiegare truppe nei teatri afghano ed irakeno – ha messo i piedi su un terreno ancora più pericoloso, unendosi al sistema antimissilistico globale progettato dagli Stati Uniti. Essa verrebbe così a costituire la controparte orientale di uno scudo che vede analoghe infrastrutture impiantate, per quanto riguarda l’emisfero occidentale, in Polonia e Repubblica Ceca.
Questi sviluppi, comunque, non allarmano soltanto la Russia e non coinvolgono unicamente Australia e Giappone. Lo scorso dicembre, infatti, i ministri della Difesa russo e cinese Anatoly Serdyukov e Liang Guanglie si sono incontrati a Pechino per discutere il progetto regionale di difesa antimissile portato avanti, oltre che da USA, Australia e Giappone, anche da Corea del Sud e Taiwan. Inutile sottolineare il disappunto della Cina.
Lo scopo della cosiddetta NATO dell’Asia sarebbe, allora, quello di stabilire una superiorità – se non egemonia – militare americana e più in generale occidentale attraverso tutto il continente asiatico, per quanto riguarda l’intero spettro sia delle forze che dei sistemi d’arma terrestri, aerei, navali e spaziali. Le notizie di stampa degli ultimi mesi confermano l’ampliarsi ed il rafforzarsi di questa tendenza. Come esempio paradigmatico, possiamo riportare l’esercitazione militare congiunta denominata Balikatan 2009, svoltasi dal 16 al 30 aprile u.s. nelle Filippine, sui terreni della base aerea di Clark, che l’aviazione USA – caso più unico che raro – aveva abbandonato volontariamente nel 1991. Sul sito della base sono tornati non solo i marines ma anche gli F-16 Fighting Falcon, i primi cacciabombardieri statunitensi operativi nelle Filippine dopo sedici anni.

Intervistato lo scorso novembre a proposito dell’”invasione russa della Georgia”, così ebbe a dire il magnate dei media austrialiano Rupert Murdoch: “E’ necessario che l’Australia sia parte di una riforma delle istituzioni maggiormente responsabili per il mantenimento della pace e della stabilità. Sto pensando specialmente alla NATO… L’unico percorso per riformare la NATO è di espanderla al fine di includervi nazioni come l’Australia. In tal maniera, essa diverrebbe una comunità basata meno sulla geografia e più sulla comunanza dei valori. Questo è l’unico modo per rendere la NATO efficace. E la leadership australiana è determinante per questo scopo”.