Klarenberg come Assange

La polizia antiterrorismo britannica ha arrestato il giornalista Kit Klarenberg al suo arrivo all’aeroporto londinese di Luton e lo ha sottoposto a un lungo interrogatorio sulle sue opinioni politiche e sui reportage per The Grayzone.
Non appena il giornalista Kit Klarenberg, che vive in Serbia, è atterrato nel suo Paese d’origine, la Gran Bretagna, il 17 maggio 2023, sei anonimi agenti dell’antiterrorismo in borghese lo hanno arrestato. Lo hanno rapidamente scortato in una stanza sul retro, dove lo hanno interrogato per oltre cinque ore sui suoi rapporti con la testata. Hanno anche chiesto la sua opinione personale su tutto, dall’attuale leadership politica britannica all’invasione russa dell’Ucraina.
Ad un certo punto, gli interrogatori di Klarenberg hanno chiesto di sapere se The Grayzone avesse un accordo speciale con l’Ufficio federale di sicurezza russo (FSB) per pubblicare materiale hackerato.
Durante la detenzione di Klarenberg, la polizia ha sequestrato i dispositivi elettronici e le schede SD del giornalista, gli ha preso le impronte digitali, ha preso i tamponi del DNA e lo ha fotografato intensamente. Hanno minacciato di arrestarlo se non si fosse conformato.
L’interrogatorio di Klarenberg sembra essere il modo di rappresaglia di Londra per i reportage di successo del giornalista che denunciano i principali intrighi dell’intelligence britannica e statunitense. Solo nell’ultimo anno, Klarenberg ha rivelato come una cabala di intransigenti Tory abbia violato l’Official Secrets Act per sfruttare la Brexit e insediare Boris Johnson come Primo Ministro. Nell’ottobre 2022, ha guadagnato titoli internazionali con la sua denuncia dei piani britannici di bombardare il ponte di Kerch che collega la Crimea alla Federazione Russa. Poi è arrivato il suo rapporto sul reclutamento da parte della CIA di due dei dirottatori dell’11 settembre.
Tra le rivelazioni più importanti di Klarenberg c’era il suo rapporto del giugno 2022 che smascherava il giornalista britannico Paul Mason come un collaboratore dell’apparato di sicurezza del Regno Unito determinato a distruggere The Grayzone, altri media e accademici e attivisti critici del ruolo della NATO in Ucraina.
Le autorità britanniche non hanno arrestato Klarenberg per alcuna violazione legale, ma perché ha riportato storie fattuali che hanno esposto le violazioni del diritto interno e internazionale da parte dello Stato di sicurezza nazionale, nonché le trame maligne dei suoi lacchè dei media. Una settimana dopo aver rilasciato Klarenberg dalla detenzione, la polizia ha restituito il suo tablet con nastro adesivo sulle telecamere, insieme a due schede di memoria. La polizia ha conservato una vecchia scheda SD, contenente principalmente musica, perché potrebbe essere “rilevante per procedimenti penali”.
Laura Ruggeri

Il processo a Julian Assange

Uno stupratore, un terrorista e una spia che ha sulle mani il sangue di innocenti. Con queste pesantissime accuse Julian Assange – giornalista che con la sua organizzazione WikiLeaks ha rivelato al mondo le prove di crimini di guerra, torture e altri sporchi segreti dei potenti – da oltre un decennio è al centro di una feroce e sistematica persecuzione politica: indagato in Svezia per stupro e negli Stati Uniti per spionaggio, rifugiato per sette anni nell’ambasciata ecuadoriana a Londra, dal 2019 Assange è rinchiuso nel famigerato carcere di massima sicurezza di Belmarsh, la Guantánamo britannica, in attesa della decisione sull’estradizione richiesta dagli Stati Uniti, dove l’attivista australiano rischia fino a 175 anni di carcere.
In questo libro appassionante e inquietante Nils Melzer, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, presenta i risultati della sua rigorosa indagine sul caso Assange, documentando nei dettagli come i governi di Stati Uniti, Regno Unito, Svezia ed Ecuador abbiano messo illegalmente a tacere il fondatore di WikiLeaks. Le sue rivelazioni sono esplosive: Assange ha dovuto affrontare gravi violazioni del diritto a un giusto processo, prove manipolate, tortura psicologica, sorveglianza costante, diffamazioni e intimidazioni. Un vero e proprio calvario che Daniel Ellsberg, whistleblower dei Pentagon Papers, ha definito “lo scandalo giudiziario del secolo”.

«La persecuzione spietata a cui è stato sottoposto Julian Assange e il tradimento vergognoso della giustizia e dei diritti umani dimostrato da tutti i governi coinvolti sono più che indecenti: minano a fondo la credibilità, l’integrità e la sostenibilità della democrazia occidentale e dello Stato di diritto. La persecuzione di Assange stabilisce un precedente che non solo consentirà ai potenti di tenere segreti i loro crimini, ma renderà persino perseguibile per legge la rivelazione di quei crimini. Nel momento in cui dire la verità sarà diventato un crimine, vivremo tutti nella tirannia».

Perché Substack?

Il messaggio per voi, lettori, su di me e su “Substack”
Di Seymour M. Hersh, autore della recentissima inchiesta su quanto successo ai gasdotti North Stream 1 e 2

Sono stato un freelance per gran parte della mia carriera. Nel 1969 raccontai la storia di un’unità di soldati americani in Vietnam che aveva commesso un orribile crimine di guerra. Avevano ricevuto l’ordine di attaccare un normale villaggio di contadini dove, come sapevano alcuni ufficiali, non avrebbero trovato alcuna opposizione, e gli fu detto di uccidere a vista. I ragazzi uccisero, violentarono e mutilarono per ore, senza trovare alcun nemico. Il crimine fu insabbiato ai vertici della catena di comando militare per diciotto mesi, finché non lo scoprii.
Per quel lavoro vinsi un premio Pulitzer per il giornalismo internazionale, ma farlo conoscere al pubblico americano non fu un compito facile. Non ero un giornalista di lunga data che lavorava per un gruppo mediatico affermato. La mia prima storia, pubblicata da un’agenzia di stampa a malapena esistente gestita da un mio amico, fu inizialmente rifiutata dai direttori delle riviste Life e Look. Quando finalmente il Washington Post la pubblicò, la disseminò di smentite del Pentagono e dello scetticismo sconsiderato dell’addetto alla revisione.
Per quanto possa ricordare mi è stato detto che le mie storie erano sbagliate, inventate, oltraggiose, ma non mi sono mai fermato. Nel 2004, dopo aver pubblicato le prime storie sulla tortura dei prigionieri iracheni ad Abu Ghraib, un portavoce del Pentagono rispose definendo il mio giornalismo “un insieme di sciocchezze”. (Disse anche che ero uno che “tira fuori strambe teorie” e che “si aspetta che qualcuno rimuova ciò che è reale”. Per quel lavoro vinsi il mio quinto premio “George Polk”.)
Ho fatto il mio dovere presso le maggiori testate, ma lì non mi sono mai trovato a mio agio. In tempi più recenti, non sarei stato comunque il benvenuto. Il denaro, come sempre, era parte del problema. Il Washington Post e il mio vecchio giornale, il New York Times (per citarne solo alcuni), si sono ritrovati in un ciclo di diminuzione delle consegne a domicilio, delle vendite in edicola e di visualizzazioni pubblicitarie. La CNN e i suoi derivati, come MSNBC e Fox News, si battono per i titoli sensazionalistici piuttosto che per il giornalismo d’inchiesta. Ci sono ancora molti giornalisti brillanti al lavoro, ma gran parte del giornalismo deve rientrare in linee guida e in vincoli che non esistevano negli anni in cui scrivevo storie quotidiane per il Times.
È qui che entra in gioco Substack. Qui ho il tipo di libertà per cui ho sempre lottato. Su questa piattaforma ho visto come tanti scrittori si sono liberati dagli interessi economici dei loro editori, hanno approfondito le storie senza temere il numero di parole o i millimetri della colonna e, cosa più importante, hanno parlato direttamente ai loro lettori. E quest’ultimo punto, per me, è il fattore decisivo. Non sono mai stato interessato a socializzare con i politici o ingraziarmi i tipi danarosi ai boriosi cocktail – le fottute feste delle star, come mi è sempre piaciuto chiamarle. Do il meglio di me quando sorseggio bourbon a buon mercato con i militari, lavoro con i novellini degli studi legali per ottenere informazioni o scambio storie con il neoministro di un Paese che la maggior parte delle persone non sa nominare. Questo è sempre stato il mio stile. E a quanto pare, è anche l’ethos di questa comunità telematica.
Quello che troverete qui è, spero, un riflesso di questa libertà. La storia che leggerete oggi è la verità per trovare la quale ho lavorato tre mesi, senza alcuna pressione da parte di editori, direttori o colleghi per renderla conforme a certe linee di pensiero o ridimensionarla per alleviare le loro paure. Substack significa semplicemente che l’inchiesta giornalistica è tornata… senza filtri e programmi – proprio come piace a me.

[Fonte – i collegamenti inseriti sono a cura della redazione]


Questa canzone è dedicata a tutte le persone amanti della pace che stanno assumendo una coraggiosa posizione contro l’imperialismo USA e l’espansione della NATO, alleanza militare aggressiva e bellicista.

La visita notturna a Giorgio Bianchi

Perché è grave, questa strana visita notturna al giornalista Giorgio Bianchi, una delle personalità che con più impegno e argomenti vuole sottrarci alla narrazione bellicista dominante?
I fatti. Le forze dell’ordine (quale ordine?) la notte del 15 ottobre si sentono in dovere di interrompere addirittura il suo sonno alle tre di notte in un albergo di Gioia Tauro.
Cos’è tutta questa fretta? E’ per salvare vite urgentemente? Per cogliere un flagrante reato onirico? No, gli rompono le scatole per chiedergli genericamente delle “informazioni”. Non possono attendere, che so, le sette del mattino? A Gioia Tauro non è la prima volta che il comportamento di certi funzionari si fa strano, come quando avevano visitato la sede di Visione TV per rivolgere a Francesco Toscano domande per le quali bastava consultare i database Cerved. Era una specie di “territorial pissing”: stai invadendo il nostro campo e vogliamo farti sentire il nostro odore atlantico.
Questi metodi sono ormai un volo d’avvoltoi che si stringe concentricamente. Sono metodi che rivelano un’infezione che sta diffondendosi nello spazio pubblico europeo. Nel 2016 un dirigente di un partito polacco che contestava un imminente vertice NATO, Mateusz Piskorski, venne arrestato e tenuto in prigione fino al 2019 senza un processo, a lungo senza poter leggere una carta, accusato di chissà che accordi con potenze straniere, e rilasciato su cauzione. Prima ancora, nel dicembre 2014, il giornalista Giulietto Chiesa venne fermato in Estonia giusto il tempo di impedirgli di tenere una conferenza sgradita al governo di Tallinn.
In mezzo, e da anni, si moltiplicano le liste di proscrizione: in Polonia, nei paesi baltici e in Ucraina queste liste si sono via via trasformate in persecuzioni. Alla latitudine di Kiev in esecuzioni sommarie di voci sgradite, nel silenzio dei nostri media.
L’infezione non si è fermata a Est. Nel cuore nero del nuovo atlantismo intollerante è avvenuta una mutazione profonda che ha infettato anche il resto dell’atlantismo. Non è stata europeizzata l’Ucraina. E’ stata ucrainizzata l’Europa, dove le libertà cedono il passo ad azioni e concetti prima quasi impensabili. Un Gramellini che esalta un nazista dell’Azov può così dominare indisturbato i salotti televisivi tutti appaltati al circo dei guerrafondai. Un Bianchi che milita per aggiungere facce nascoste al prisma della verità viene invece trattato con le carinerie poliziottesche riservate a un attivista dell’Alabama nel 1960.
Capite che tutto questo è grave? Che tutto questo è inaccettabile? Che tutto avviene in un’epoca in cui la politica occidentale non batte ciglio di fronte alla vicenda che più di tutte riassume la corsa a estinguere le libertà, ossia la prigionia e la tortura di Julian Assange?
Massima solidarietà a Giorgio Bianchi. Massimo sostegno alla sua più piena libertà di espressione.
Pino Cabras

Sono uno stregone putinista


Il vuoto della ragione genera spettri

No: non mi degno di pugnar teco” (Mozart, Don Giovanni, Atto primo)
Dal tempo dei philosophes in poi la massima “Il sonno della Ragione genera mostri” è diventato il motto di tutti i razionalisti: lo amava molto anche Goya, ossessionato dalla tarda inquisizione spagnola. Ma oggi, in tempo di Dilettanti Inquisitori allo Sbaraglio che imperversano impuniti sui media e a quanto pare perfino in parlamento, bravissimi nel condannare e nell’additare al pubblico ludibrio senza però curarsi di argomentare la ragione dei loro autos de fe e che quindi – a dirla ancora secondo il linguaggio inquisitoriale – sono abituati a promuovere la combustione, ma molto meno a sostenere la confutazione che dovrebbe precederla, bisogna avere il coraggio di obiettare, parafrasando la celebre apocope, che “Il vuoto della Ragione genera spettri”. E se c’è uno spettro che si aggira per l’Europa, a somiglianza di quello che oltre un secolo e mezzo fa veniva denunziato da Marx e da Engels, esso è il “putinismo”: parola terribile ma contenuto labile, evanescente. Come un sudario svolazzante in sogno, appunto. D’altronde, appunto per queste caratteristiche, buono per tutte le stagioni.
Bene. Sono uno stregone putinista, un eretico russofilo, un necromante antidemocratico ed eurasiatista. Mi hanno perfino denunziato in parlamento. E sai la novità. Era già successo nell’81, quando insieme con una banda di ragazzacci che stampavano pagando di tasca loro “La Voce della Fogna”, giornaletto ciclostilato, fui additato da un gruppo di sussiegosi seguaci di Norberto Bobbio come un pericolo per la democrazia; e poi nel 2001-2003, allorché con un gruppo di scellerati guidati da Giulietto Chiesa affermai anch’io che sull’11 settembre non ce la contavano giusta e che l’aggressione all’Iraq (già: l’aggressione a uno stato sovrano, la coda della quale oggi tutti si riempiono la bocca) era una gran porcata e un maledetto imbroglio. E i parlamenti di quaranta o di venti anni fa, con tutto che non erano un granché, erano certo più decorosi dell’attuale.
Sarei quindi un “putinista”, quindi un “filorusso”, cioè in prospettiva un “traditore della patria” dal momento che lorsignori hanno deciso che siamo in guerra per quanto non osino ammetterlo, da quei pacifisti-guerrafondai che sono. Hanno scomodato i parlamentari per presentare un dossier nel quale non c’è un filo di prova, non c’è una briciola di ragionamento. Solo un collage di delazioni, d’illazioni, d’insinuazioni. Dovrei dire roba da inquisitori, roba da nazisti. Ma non lo dico. Ho troppa stima degli inquisitori e perfino dei nazisti per affermare una cosa del genere. Quest’ultimo atto di disinformazione, di teppismo politico e mediatico, di violazione del sacrosanto principio del rispetto tra membri di una stessa società civile, è un atto di vigliaccheria e infamia che non merita nemmeno commenti. Come dice fra Cristoforo a don Rodrigo: “Hai passato la misura; e non ti temo più”.
Putinista, io? Andatevi a rileggere quel che scrivevo del boia Putin al tempo della Cecenia e del massacro di Grozny. Non è colpa mia se quel gelido sanguinario poliziotto con gli anni è riuscito a diventare un prudente ed equilibrato statista, un gigante se paragonato ai nani e alla ballerine che oggi popolano poltrone, poltroncine e sgabelli a Washington, all’ONU, alla NATO, a Strasburgo, a Bruxelles oltre che naturalmente anche a Roma. Lo hanno spinto nella “trappola di Tucidide”, lo hanno fatto scivolare: ma da trent’anni provocavano il suo Paese dopo averlo illuso e ingannato, e già nel febbraio 2014 avevano compiuto in Ucraina il passo decisivo con il colpo di mano travestito da rivoluzione democratica che aveva rovesciato il legittimo presidente ucraino Viktor Janukovyč sostituendogli Petro Oleksijovyč Porošenko incaricato di spostare il suo Paese dal rapporto amichevole con la Russia – che per quest’ultima era una questione di stabilità e di sicurezza – all’ingresso nell’Unione Europea e quindi ai prodromi dell’alleanza con la NATO. La guerra era cominciata da allora ed era stata seguita da atti atroci, come il massacro di Odessa nel palazzo dei sindacati attribuito ad agenti russi e poi risultato frutto di una combine fra i nazionalisti ucraini e un pugno di terroristi georgiani specializzati in provocazioni e massacri. Se Putin ha davvero commesso uno sbaglio, è quello di aver aspettato otto anni prima di rispondere. Dal momento che l’azione in Crimea, evidentemente necessaria per tutelare Russi e filorussi dalle violenze nazionaliste, si era resa necessaria e inevitabile ma con ogni evidenza non sufficiente. Così è, se Vi pare, Domini Inquisitores. Perché non ne avete fatto parola nel vostro tanto rigoroso quanto laconico Atto d’Accusa? Pessima Taciturnitas, avrebbero commentato i vostri predecessori di qualche secolo fa, ben più attenti ed accorti.
Da alcune settimane dico e scrivo, diciamo e scriviamo queste cose: e le diremmo anche in TV, se solo ci lasciassero il tempo di parlare le rare volte in cui hanno la longanimità di “invitarci”. Diciamo e scriviamo non già che Putin ha ragione, ma che lui e il suo Paese hanno delle ragioni e che bisogna ascoltarli, tenerne conto; che se ha sbagliato il fatto è che ce lo hanno tirato per i capelli; e che chi lo ha spinto a tanto è ben riconoscibile e denunziabile, e noi nel libro Ucraina 2022 (edizioni La Vela, uscito già un mese fa, inviato gratis a decine di quotidiani ed emittenti televisive: solo “Avvenire” e “il manifesto” hanno risposto accusando ricezione) lo abbiamo denunziato. Ucraina 2022 è misteriosamente introvabile nelle librerie: eppure alcuni dei suoi coautori vengono ufficialmente accusati di “putinismo”, senza tuttavia che si citi quello che scrivono. A giusto titolo, peraltro: quegli scritti potrebbero influenzare qualcuno. Non si sa mai.
Ma torniamo a quanto mi riguarda. Russofilo, io? Certo che sì: mi piacciono la storia russa, la cultura russa, la musica russa, lo spirito profondo del popolo russo del quale hanno parlato Propp e Afanasiev e Florenskij. Sono istituzionalmente un cittadino italiano, ho inappuntabilmente lavorato quasi mezzo secolo (dal 1966 al 2012) nel pubblico impiego, faccio sostegno al volontariato, ho la fedina pulita e pago le tasse fino all’ultimo centesimo (vorrei sapere quanti fanno altrettanto); ma spiritualmente sono cittadino del mondo, amo la Russia come amo la Francia, la Spagna, la Germania, l’Inghilterra, l’Irlanda, la Scozia, la Cina, il mondo arabo, l’Iran, il Giappone e perfino (tanto!) l’America, dove ho lavorato e perfino lasciato un pezzo del mio cuore. Se adesso ho preso le posizioni che hanno spinto il parlamento a occuparsi del mio nome da mettere in lista (ma non di me, né di quello che penso), tanto meglio: o tanto peggio.
Perché insomma, diciamolo, questa è una “prova d’orchestra” annunziatrice di un conato d’instaurazione di regime. I mezzi, se li usano tecnicamente bene, ce li hanno; l’opinione pubblica è in parte già appecorata, quindi il momento è propizio. Ci provino. On line è già comparso un imbecille che ha invocato contro i “putinisti” revoca di stipendio e confino di polizia: sono tutti così i paladini della Libertà che starnazzano contro il despota Putin? Quanto a me, qualche amico parlamentare (ho anch’io la mia “Quinta Colonna”) mi suggerisce denunzie, querele e ricorsi. Non ci penso nemmeno: non ho né tempo né soldi da buttare. Facciano e dicano Lorsignori quello che vogliono: dal canto mio, respingo le provocazioni. Io incrocio la mia spada solo con i miei pari: come avrebbe detto don Juan Tenorio, el Burlador de Sevilla.
Franco Cardini

[Fonte]

La libertà di parola europea: blogger filorusso arrestato in Lettonia


Nei Paesi dell’Unione Europea, dichiarano sempre apertamente che essi si oppongono alla violazione dei diritti umani e delle libertà che avvengono in qualsiasi altro Paese. Gli Europei sono orgogliosi di vivere in Paesi dove ognuno può apertamente esprimere la propria opinione.
Tuttavia, c’era un piccolo Paese nell’Unione Europea le cui autorità gridano al mondo intero della libera Europa, ma in realtà violano gravemente i diritti e le libertà dei loro cittadini. Questo Paese è la Lettonia. Le leggi lettoni e la sua Costituzione onorano totalmente il diritto alla libertà di parola e l’indipendenza dei mass media, ma ciononostante questi principi costituzionali fondamentali non sono rispettati dalle autorità lettoni.
Ecco qui uno dei vergognosi esempi di violazioni dei diritti umani e delle libertà.
Il 17 marzo 2022, il blogger Kirill Fedorov è stato arrestato nel suo appartamento a Riga. Egli aveva espresso apertamente la sua posizione politica che era contraria alla posizione delle autorità lettoni. Soldati delle forze speciali sono arrivati per catturarlo. Durante l’arresto Fedorov non oppose alcuna resistenza, comunque, dall’appartamento si sentiva un rumore simile a pestaggi e torture. Secondo i vicini del blogger, un’ambulanza arrivò a casa sua subito dopo. Nessuno ebbe alcun dubbio sul fatto che sia stata usata forza fisica contro il blogger.
Kirill Fedorov fu interrogato nella stazione di polizia. L’interrogatorio fu condotto usando metodi proibiti dalla “Convenzione ONU contro la Tortura e Altro Trattamento o Punizione Inumano e Degradante”. Un ufficiale della polizia ne ha parlato a condizione di anonimato. Inoltre, ha fatto notare che non tutti i suoi colleghi sono d’accordo nel prendere tali misure ma tutti sono intimiditi e costretti a rimanere in silenzio.
L’interrogatorio di Fedorov durò più di un giorno, dopo il quale fu accusato di sette differenti reati. Il tribunale lo mandò alla prigione centrale di Riga. Federov fu messo nella stessa cella con l’assassino che aveva precedentemente picchiato a morte il suo compagno di cella. Dopo fu aggredito lo stesso Fedorov che miracolosamente è sopravvissuto.
Mentre Kirill Fedorov è agli arresti, il suo canale YouTube, che ha svariate centinaia di migliaia di sottoscrittori, è stato bloccato. Successivamente, è stato hackerato il telefono di Kirill e come conseguenza il suo canale Telegram “Guerra, storia, armi” è stato rubato. Sui suoi canali, Fedorov esprimeva apertamente il suo disaccordo con le azioni delle autorità lettoni, non condannava e sosteneva la Russia per l’operazione speciale in corso in Ucraina.
Ora è possibile mettersi in contatto con il blogger tramite le sue lettere nelle quali si definisce un blogger prigioniero politico
Da una lettera di Kirill Fedorov dell’8 giugno 2022: “…durante questo periodo ho avuto modo di sopravvivere alla tortura, alle minacce, all’impatto fisico e psicologico delle stesse, all’inganno ed a un sacco di cose che sono semplicemente impossibili in Europa. Sfortunatamente, la stampa è rimasta in silenzio, e i mass media lavorano per lo Stato. Ancora non so, dopo ben tre mesi, dove, quando e cosa esattamente ho fatto e ho detto…. non sento i mass media condannare che sono stato sottoposto persino alla terapia dell’elettroshock. Sebbene ciò non possa avvenire in Europa nel 21esimo secolo, oppure può avvenire? ….. Ci sono intorno soltanto criminali, bugiardi e canaglie. Sto resistendo. Voglio vivere e vivrò…”
Guardando a cosa sta accadendo, si ha l’impressione che l’obiettivo principale delle autorità lettoni è di mettere a tacere Kirill Fedorov, perché l’informazione veritiera e imparziale che ha condiviso con i suoi spettatori e lettori semplicemente non coincide con la posizione delle autorità.

[Fonte – traduzione a cura della redazione]

Il potere segreto

Nella cella di una delle più famigerate prigio­ni di massima sicurezza del Regno Unito, un uomo lotta contro alcune delle più potenti istituzioni della Terra che da oltre un decen­nio lo vogliono distruggere. Non è un crimi­nale, è un giornalista. Si chiama Julian Assange e ha fondato WikiLeaks, un’organizzazione che ha profondamente cambiato il modo di fare informazione nel XXI secolo, sfruttan­do le risorse della rete e violando in maniera sistematica il segreto di Stato quando questo viene usato non per proteggere la sicurezza e l’incolumità dei cittadini ma per nascondere crimini e garantire l’impunità ai potenti. Non poteva farla franca, doveva essere punito e so­prattutto andava fermato. Infatti da oltre dieci anni vive prigioniero, prima ai domiciliari, poi nella stanza di un’ambasciata, infine in galera. È possibile che a un certo punto venga libera­to, oppure rimarrà in prigione in attesa di una sentenza di estradizione negli Stati Uniti e poi finirà sepolto per sempre in un carcere ameri­cano. Con lui rischiano tutti i giornalisti della sua organizzazione. L’obiettivo è distruggerli e farlo in modo plateale.
Stefania Maurizi è l’unica giornalista che ha lavorato fin dall’inizio, per il suo giornale, su tutti i documenti segreti di WikiLeaks, a stret­to contatto con Julian Assange, incontrandolo molte volte. Ha contribuito in maniera deci­siva alla ricerca della verità, citando in giudi­zio quattro governi – gli Stati Uniti, l’Inghil­terra, la Svezia e l’Australia – per accedere ai documenti del caso. Gli abusi e le irregolarità emersi da questo lavoro d’inchiesta sono en­trati nella battaglia legale tuttora in corso per la liberazione del fondatore di WikiLeaks.
In queste pagine ripercorre tutta la vicenda, con documenti inediti, una narrazione incal­zante e sempre puntuale. La storia di una ven­detta silenziosa ma feroce. Un libro cruciale su un caso decisivo del nostro tempo.

Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks,

di Stefania Maurizi, Chiarelettere, 2021

Niente è come sembra

Questo libro propone una diversa versione della storia recente, la stessa che Julian Assange voleva che fosse esposta e per la quale sta pagando un caro prezzo.
Leggendolo, scoprirete che “niente è come sembra”. Che il “cattivo” non è tanto cattivo. Che il “buono” non è poi tanto buono. E che la storia non può essere raccontata in bianco e nero. Perché raccontata così, è soltanto una bugia.
Ma soprattutto scoprirete che la manipolazione dell’informazione è capillare al punto da farvi digerire la legittimità di una repressione diretta non più verso colui che commette un crimine, ma verso colui che lo denuncia.
La lotta di Assange non è solo una lotta per contrapporre la verità alla bugia e la trasparenza alla segretezza. E nemmeno solo una battaglia per la libertà di stampa e di espressione. La sua è una lotta per la sopravvivenza della stessa democrazia. È quindi una lotta per tutti noi.

Quel 29 agosto a Berlino

La manifestazione che secondo alcuni non si è mai svolta (ved. video allegato), nelle immagini del regista Daniel von Wentzky.
Purtroppo wordpress non accetta condivisioni dalla piattaforma sulla quale gli attivisti tedeschi hanno caricato il film, ragione per la quale vi invitiamo a cliccare sul collegamento soprastante.

Nuovo attacco a Byoblu ed alla libertà di informazione

Per la terza volta consecutiva nell’ultimo mese un video di Byoblu viene oscurato, senza avere apparentemente violato alcuna norma. Questo avviene per fantomatiche “segnalazioni”. Da dove arrivano queste segnalazioni? Non esiste democrazia senza la possibilità di confrontare idee e opinioni diverse. Noi andiamo avanti, come dev’essere e come sempre sarà. Ma chiediamo con forza che il Governo relazioni sull’attività della cosiddetta Task Force contro le Fake News: cosa stanno facendo? Esiste un report delle loro attività? Sono loro che segnalano a Youtube i contenuti da rimuovere? Come cittadini di una democrazia nella quale esiste un Governo che dispone della libera circolazione delle opinioni, crediamo di avere il diritto (visto che i processi equi non vanno più di moda) di sapere se c’è qualcuno che emette sentenze di condanna e poi ne dispone l’esecuzione.
Claudio Messora

Dalle mascherine si passa alle museruole

“Esci di casa e, se hai ancora gli occhi collegati al cervello, ti è tutto chiaro. All’angolo, la coda per entrare al supermercato, gente rassegnata, silenziosa e distanziata; un incaricato della catena di distribuzione fa il caporale di giornata, allontana chi si approssima e impedisce, inflessibile, l’accesso. Si gode il suo grottesco potere, come in un vecchio film di Totò, Siamo uomini o caporali. Caporali, principe De Curtis, non dubiti. Tra la gente, prevalgono i volti coperti da mascherine; più in là, una signora di cui si distinguono solo i capelli, tra maschera e occhialoni, porta in giro il cane con guinzaglio e museruola. Mascherine e museruole, ecco l’immagine, unita a quella degli sgherri felici di poter, finalmente, mettere in fila i loro simili. Fai qualche altro metro, e una pattuglia di vigili urbani chiede con fiero cipiglio a un vecchio dove stia andando. Ha due sacchetti dell’immondizia, scuote la testa e con ammirevole presenza di spirito propone ai cantonieri di gettare essi stessi la spazzatura nei vicini cassonetti, badando a separare i rifiuti misti da quelli di carta e cartone.
A questo è ridotto l’orgoglioso homo sapiens, con tutta la sua scienza, la supponenza e l’immensa superiorità che ostentava sino un mese e mezzo fa. Accetta di non vivere – qui e adesso – per non morire (forse). Tutta colpa di un virus, certo, ma le cose sono un po’ più complicate. Maschere che diventano museruole, caporali che impartiscono ordini, città spettrali, la paura, uomini e topi, e il sorriso amaro di chi, invecchiato, canticchia come all’asilo: casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra. Non mettiamo in dubbio la necessità dell’attuale serrata generale: da che mondo è mondo, davanti alle malattie contagiose, i sani si rinserrano, rinchiudono i contagiati, costruiscono muri. Un amico ci ha mostrato un avviso relativo alla tragica “grippe” del 1918, che sterminò più europei della guerra in corso. Le stesse prescrizioni, i medesimi consigli con un secolo di anticipo, meno la chiusura del mondo.
Sarebbe uno spettacolo istruttivo, se non ci fossero i lutti e le sofferenze al tempo del moto perpetuo, dei ponti da costruire e dei muri da abbattere, della retorica cosmopolita e della libera circolazione obbligatoria, metafora della felice condizione del migliore dei mondi possibili. Puff, tutto svanito, una gigantesca bolla di sapone, il virus corre a 5G e non esiste comando della Matrix globale in grado di bloccarlo. Si aspetta il miracolo: habemus vaccinum, presto qualcuno, un nome a caso, Bill Gates, darà l’annuncio. Chissà quali sostanze, quali intrugli con effetti a lungo termine sui popoli aggiungeranno alla prodigiosa pozione. Ma che importa, tutti in fila a braccio scoperto in attesa della siringa liberatrice, meglio se accompagnata da qualche chip a radiofrequenza, così, tanto per monitorare, verbo passepartout, parolina magica che apre ogni porta e cela indicibili verità.”

Mascherine, museruole e post verità di Roberto Pecchioli continua qui.

Libertà di stampa o libertà di menzogna?

Il Coronavirus sta ottundendo le facoltà cerebrali, prima ancora che attaccare i polmoni. Navighiamo in un oceano di follia. Ho scritto più volte che la prima “emergenza” in Italia è la cosiddetta informazione, che è controllata in gran parte da due gruppi finanziari, ed è assolutamente omologata culturalmente, oltre che politicamente a senso unico, e povera, spesso poverissima sul piano della mera capacità giornalistica, non di rado anche nella padronanza della lingua italiana.
Ho raccontato qualche giorno fa la vicenda del vergognoso articolo di tale Jacopo Jacoboni su uno dei più “allineati” quotidiani italiani, “La Stampa”. L’articolo sulla base di fonti non specificate di autorità militare e politiche italiane insinuava che gli aiuti russi all’Italia in difficoltà non fossero che un escamotage per mettere una zampa nel Paese, allontanandolo dagli “alleati storici” (ossia lo Zio Sam, nostro padrone assoluto dal 1947) e che oltre tutto quegli aiuti erano “per oltre l’80%” assolutamente inutili.
L’articolo, un esempio di che cosa non debba essere il giornalismo (sarebbe da far studiare nelle sedicenti scuole che scuciono denaro a giovani illudendoli di avviarli alla professione), era stato ridicolizzato, con la verve che gli è propria, da Marco Travaglio, sul “Fatto Quotidiano”. Travaglio, è noto, è non solo una penna caustica, ma un signor giornalista, uno che evita le supposizioni, e prova a raccontare i fatti sulla base di una documentazione accertata. Del resto il signor Jacoboni gli aveva fornito ampia messe di scempiaggini, al limite del caricaturale, per cui era facile affondare il suo pseudo-argomentare. E ricordo che Travaglio è dichiaratamente uomo che politicamente si schiera a destra, ma, a differenza di Jacoboni, è un vero giornalista, uno di quelli che dà quotidiane lezioni di informazione. (Il che non toglie che valga anche per lui, come per me!, il detto latino: “quandoquidem dormitat Homerus”! Insomma tutti possiamo sbagliare, ma importante è procedere in modo rigoroso, controllando le fonti, lasciando da parte insinuazioni prive di fondamento, e soprattutto non facendoci “dettare” i nostri articoli da qualche padrone o suo emissario).
Avevo ripreso la questione, denunciando quell’esempio di sciacallaggio, in un momento in cui l’Italia vive una situazione terribile e, ignorata dagli “alleati storici” e abbandonata e persino derisa dai partner europei, riceve aiuti da Paesi esterni, tutti, guarda un po’, appartenenti all’area che era stata del socialismo, o lo era ancora: Repubblica Popolare Cinese, Cuba, Venezuela, Federazione Russa. In particolare da questo grande Paese erano appena giunti aerei cargo che avevano trasportato camion attrezzati con un centinaio di addetti, tutto personale medico e paramedico altamente qualificato, con attrezzature non solo mediche, ma igieniche e sanitarie. Un esempio di organizzazione perfetta oltre che di eccezionale generosità.
Ebbene, “La Stampa” (ma anche altri giornali a cominciare dal sodale “la Repubblica”, ormai appartenente allo stesso gruppo finanziario del quotidiano torinese), sputava su quegli aiuti, aggiungendo elementi di tensione politica, insufflando dubbi e sospetti in una opinione pubblica smarrita e sull’orlo costante di crisi di ansia e di panico.
L’articolo ha generato, come era del tutto ovvio (e personalmente lo avevo previsto) le reazioni irritate del Governo russo, che si è espresso per bocca del suo Ambasciatore a Roma, prima e poi del portavoce del Ministero della Difesa (responsabile della spedizione, trattandosi di mezzi e personale inquadrati nelle Forze Armate della Federazione). Giustamente non solo i comunicati russi facevano osservare la gratuità dell’aiuto russo, e denunciavano come del tutto infondate e perniciose le insinuazioni del sedicente giornalista, ma parlavano di “russofobia” (tema su cui mi sono soffermato più volte negli ultimi tempi, molto prima dell’emergenza Covid 19).
Ebbene, che cosa sarebbe dovuto accadere, quale risposta ci sarebbe dovuta esser da parte della “”? Una sola possibile: un messaggio di scuse.
Invece no, con sufficienza e una notevole dose di superflua arroganza, prima il Direttore Molinari, poi il Comitato di Redazione, subito supportato da quello del gemello “La Repubblica”, hanno risposto lamentando la carente libertà di stampa in Russia, e vantando quella italiana! Secondo un consolidato modello argomentativo, quando si è in difficoltà davanti a precise contestazioni, invece di entrare nel merito, si rovescia l’accusa. Si può fare, ma solo dopo! E nel momento in cui addirittura si creano a livello addirittura governativo, delle “task forces” contro la “fake news”, si può far passare come libertà di stampa la libertà di menzogna?! Siamo davvero a un passo dalla follia.
Lo sconcerto cresce se andiamo a vedere le reazioni politiche: i primi a insorgere, non contro Jacoboni, bensì a suo favore, e dunque contro il Governo russo, sono stati rappresentanti dei Radicali (così ogni tanto scopriamo che esistono ancora, o meglio credono di esistere), del PD, il solito Renzi, che deve non farsi scavalcare, in fatto di tutela della libertà di menzogna, dai suoi ex soci di via del Nazareno, tutti appassionatamente insieme a Forza Italia. Ringalluzzito da tale parterre, il simpatico Jacoboni prima sollecita un pronunciamento ufficiale del nostro Governo (“In Italia non ci facciamo intimidire, qui esiste la libertà di critica. Noi non siamo la Cecenia. Ringrazio i tanti che mi hanno espresso la loro solidarietà, anche se mi sarei aspettato immediatamente una reazione da parte del presidente del Consiglio”). E quando arriva un comunicato congiunto dei Ministeri degli Esteri e della Difesa (“La libertà di espressione e il diritto di critica sono valori fondamentali del nostro Paese, così come il diritto di replica”), Jacoboni, ormai convinto di essere un paladino della libertà di stampa, uno dei nuovi “eroi” sorti nella battaglia contro il Covid 19, non si accontenta. E sentenzia: “Ognuno legga e si faccia un’idea. La nota, dettaglio importante, è firmata dai ministeri della Difesa e degli Esteri italiani. Non è una nota di Palazzo Chigi”.
Ossia, il nuovo Tocqueville, grande teorico della libera stampa, nell’Ottocento, dico Jacoboni, sembra infastidito dal fatto che la Nota inizi con un riconoscimento alla Russia (“L’Italia è grata alla Russia per gli aiuti…”), e soprattutto a lui non bastano due ministri scesi per difendere la sua “professionalità” (!?), pretende che scenda in campo addirittura il Presidente del Consiglio. Il quale evidentemente non ha di meglio da fare, in queste giornate di delirio, di sofferenza nazionale, di confusione, incertezza, paura, che difendere l’onore professionale di Jacopo Jacoboni.
Personalmente, nella mia modesta veste di commentatore, raccogliendo l’invito implicito di Jacoboni (in fondo è il solito “armiamoci e partite!”), proporrei una bella dichiarazione di guerra. Al virus l’abbiamo già fatta, con modesti risultati finora. E sull’onda del patriottico orgoglio di cui sono traboccanti le reti sociali e i balconi d’Italia, avvierei una nuova “campagna di Russia”. Ci andò male, com’è noto, in passato, quando Mussolini mandò a combattere gli Alpini con le scarpe di cartone. D’altronde oggi buttiamo nelle corsie di ospedali giovani e vecchi medici e paramedici senza esperienza e senza mezzi di protezione nell’altra “guerra”. Magari stavolta nelle steppe siberiane ci andrà meglio. Dunque, Mosca sei avvertita!
Angelo D’Orsi

(Fonte)

Per Julian Assange (II)

A Cagliari, Piazza Yenne (per dettagli, cliccare sull’immagine seguente)

 

[Per Julian Assange]

“Liberate Assange, ha detto solo la verità”

E’ fissata a febbraio la prossima udienza per la richiesta di estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti: se venisse accettata il fondatore di Wikileaks potrà essere trasferito in un carcere americano, dove lo aspettano un procedimento con 18 capi di imputazione e una condanna a 175 anni. Nel caso che il 48enne giornalista australiano venisse estradato non avrà più la possibilità di tornare indietro e probabilmente morirà in carcere.
Il suo legale ha presentato, nel corso dell’udienza preliminare a Londra, lunedì scorso, una richiesta di poter ottenere più tempo per esaminare la posizione difensiva. Lo stesso Assange ha preso parte all’incontro, senza fare alcuna affermazione pubblica. Tuttavia è bastata questa breve apparizione per riaprire il dibattito sulla sua detenzione, che ha suscitato recenti appelli internazionali di medici, giornalisti e personaggi del mondo della cultura.
Anche in Italia i sostenitore del fondatore di Wikileaks tornano a farsi sentire. “La vicenda di Assange, le accuse più disparate, il trattamento iniquo e le violazioni dei diritti umani che ha dovuto subire dimostrano come le cosiddette ‘grandi democrazie’ occidentali -in particolare, Stati Uniti e Gran Bretagna- non hanno rispetto delle persone e nemmeno delle loro stesse leggi”, sostiene il generale Fabio Mini con l’Adnkronos. Presidente dell’associazione Peace Generation, Mini è stato capo di Stato maggiore del Comando NATO per il Sud Europa, ha guidato il Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani e le operazioni di pace condotte dalla NATO nella guerra in Kosovo.
“Non occorre essere complottisti -prosegue il generale- per riconoscere che l’accanimento contro Assange è dovuto a un solo, grave, delitto: aver detto la verità. E, ancor peggio, non aver aggiunto nulla di suo a quanto Americani e Inglesi affermavano e facevano in spregio a qualsiasi ‘umanità’ e logica, in guerra e in pace, con i nemici e gli alleati. Ma se la persecuzione di questi ‘paladini della libertà e della democrazia’ non stupisce, è invece assordante il silenzio che tutti gli altri Stati mantengono da anni, invece di insorgere non soltanto per ciò che sta accadendo ad Assange, ma per ciò che si è limitato a rivelare”.
La comunità internazionale, i servizi d’intelligence, gli eserciti e i politici del mondo “gli sono debitori di molte rivelazioni che nemmeno immaginavano o che si rifiutavano d’immaginare -osserva Mini- Piuttosto che ammetterle, fingono di non averle mai sentite o dicono che si tratta di nefandezze giustificate in quanto parte della guerra e della politica. Il silenzio degli ‘altri’, però, autorizza i ‘paladini’ a insistere con le menzogne, mentre Assange dev’essere lasciato libero -fisicamente e psicologicamente- anche di difendersi o di accusare. In entrambi i casi abbiamo tutto da guadagnare”.
Ad appoggiare le ragioni del fondatore di Wikileaks, che sta “pagando con la vita, a vantaggio di noi tutti, la difesa della libertà” c’è anche il diplomatico Alberto Bradanini, ex ambasciatore italiano in Iran e in Cina, che qualche mese fa ha lanciato una petizione per la sua liberazione. “La sua prigionia ingiustificata testimonia la pretesa di dominio imperiale dell’élite americana, che teme la verità ed è in preda al panico per il fatto che comuni cittadini possano conoscere trame oscure, corruttele e manipolazioni politiche e mediatiche messe in opera da quella che si autoproclama la ‘più grande democrazia del mondo’”.
Attraverso la pubblicazione di migliaia di documenti degli apparati americani, “ricevuti senza violare alcuna norma, ma solo svolgendo la professione di giornalista -prosegue il diplomatico italiano- Assange ha mostrato come operino strutture USA occulte o semiocculte. Queste dispongono di ingenti risorse finanziarie e tecnologiche, con cui raccolgono dati su nemici e amici, finanziano tensioni, aggressioni politiche ed economiche, ‘rivoluzioni’ e conflitti contro nazioni, organizzazioni, imprese o individui che non si sottomettono al loro potere. Tutto ciò a beneficio di una minoranza, la plutocrazia dell’1% contro il 99% di una popolazione precarizzata ed eticamente manipolata, che alimenta il mito della ‘nazione indispensabile’, voluta da Dio per governare un mondo recalcitrante”.
Con questa richiesta di estradizione gli Stati Uniti si pongono, a detta di Bradanini, “al di sopra del diritto (nazionale e internazionale), della libertà di stampa, cruciale in un sistema democratico, e del rispetto dei diritti umani, come è evidente anche dalla decisione di tenere aperta la prigione di Guantanamo, dove si può essere rinchiusi senza limiti di tempo e torturati senza aver subito alcuna condanna penale”.
“Gli abusi subiti da Assange, con la complicità del governo britannico -conclude l’ex ambasciatore- possono giustificarsi solo nella presunzione che i cittadini debbano restare all’oscuro di quel che fanno apparati paralleli e servizi di intelligence. Il fondatore di Wikileaks appare come uno dei grandi della scena politica contemporanea, a favore del quale dovrebbero mobilitarsi le nazioni europee. L’Italia democratica e costituzionale -guidata da due partiti che per storie diverse si attribuiscono grande sensibilità ai temi etici- potrebbe offrire asilo politico a Julian Assange. Ma si troverà il coraggio per un passo del genere?”.
Rossella Guadagnini

Fonte

“Assange sta morendo, ma invece di notizie su di lui siamo bombardati con informazione spazzatura”
Emir Kusturica

Tutto questo deve cambiare

“Una società è libera nella misura in cui lo è il suo dissidente politico più problematico, il che oggi significa che siamo liberi quanto Julian Assange. Finché viviamo in una società che può dare origine a una campagna multi-governativa coordinata per rinchiudere un giornalista per il resto della sua vita sulla base di accuse fasulle perché ha denunciato crimini di guerra statunitensi, non siamo liberi e non si deve fingere di esserlo.
Il vecchio detto “le azioni parlano più delle parole” ha assonanza con ciò che accade perché mentre i commentatori dei media miliardari ci assicurano continuamente con le loro parole che viviamo in una società libera, le azioni delle persone che esercitano su di noi un potere ufficiale e non ufficiale ci dicono che in realtà viviamo in una società che tortura e imprigiona i giornalisti dissidenti per aver raccontato verità scomode.
La persecuzione contro Julian Assange ci dice molto di più sulla nostra società rispetto ai racconti autorizzati che ci vengono venduti e ci racconta la vera funzione dei mass media.
(…) La persecuzione di Julian Assange ci parla del tipo di società in cui viviamo realmente. Siamo inondati sin dalla prima infanzia con slogan rassicuranti sulla libertà e la democrazia, che, ci viene detto, devono essere diffusi a tutti sulla terra con tutta la forza necessaria a qualunque costo. In realtà viviamo in una società fatta di menzogne e guidata da bugiardi, che perseguitano violentemente chiunque esponga la verità. Queste persone sono i nostri oppressori. Queste persone sono i guardiani della prigione. I loro volti ghignanti ti dicono che siamo liberi da dietro le sbarre di una gabbia e peggio per noi se non siamo d’accordo.
Tutto questo deve cambiare.”

Da Una società è libera nella misura in cui lo è il suo dissidente politico più problematico, di Caitlin Johnstone.

La camicia di forza della UE sulla Rete

L’establishment globalista è in serie difficoltà. Il voto popolare, quindi il normale processo democratico, sta mettendo in ginocchio il progetto neoliberale di superamento degli Stati nazionali. Per questo i “globalisti” corrono ai ripari. Un tempo, quando era la politica ad avere un ruolo di supremazia sull’economia, i partiti cercavano di farsi carico delle istanze popolari espresse nelle urne. Oggi la sovranità popolare ha lasciato il posto alla dittatura della finanza e i gruppi di potere sovranazionali sono invece propensi a soffocare il dissenso.
Per questo il Comitato Affari Legali del Parlamento europeo, cioè la commissione giustizia dell’Europarlamento (JURI), ha approvato il testo di una Direttiva che prevede la tutela del diritto d’autore. Dietro la maschera della salvaguardia del copyright si cela in realtà un atto sconcertante, un passaggio fondamentale per la distruzione della democrazia in Europa.
In particolare vi sono due articoli molto controversi. L’articolo 11 che introduce una tassa sui link, con l’obbligo per tutte le piattaforme on-line (Facebook, Google, Twitter etc. ) di acquistare licenze da società di media prima di poter postare link con qualsiasi tipo di contenuto, e l’articolo 13 sul cosiddetto “filtro di caricamento“, cioè un controllo sull’eventuale violazione del copyright su tutto quanto venga caricato sul web all’interno della UE.
Insomma una camicia di forza per la rete. Nessuno potrà più condividere direttamente post, video e articoli sui social. Le grandi piattaforme – come ad esempio Facebook e Twitter – dovranno prima verificare il rispetto del copyright. Una follia che impedirà alle informazioni di circolare liberamente. E nulla c’entra la pur condivisibile tutela del diritto d’autore, infatti chi oggi scrive sui giornali o pubblica libri vede il suo diritto tutelato dalla vigente normativa, che lascia all’editore la facoltà di pretenderne il rispetto da parte dell’autore (e di chi diffonde l’opera), o viceversa.
Non tutto è ancora perduto. E bene ha fatto Claudio Messora, il primo in Italia ad aver richiamato l’attenzione sulla gravità di questa direttiva [ved. video allegato – n.d.c], a iniziare una raccolta di firme per constrastarla. Il testo della direttiva dovrà essere approvato dal Parlamento europeo, cioè dall’Aula, dove all’interno dei due partiti di maggioranza (PPE e PSE) vi sono parecchi mugugni. L’appuntamento è per il 4 luglio, ma non è escluso un rinvio a fine anno.
Poi c’è un altro aspetto. La nuova normativa sarà adottata tramite una Direttiva, cioè un atto giuridico della UE che, per poter produrre i suoi effetti, necessita di un atto di recepimento da parte degli Stati membri. In Italia attraverso una legge ordinaria. Fino a quando ci sarà questa maggioranza giallo-verde possiamo almeno ragionevolmente pensare che una tale direttiva non verrà mai recepita.
Ma il nostro dissenso deve farsi sentire anche in Europa.
Paolo Becchi e Giuseppe Palma

Fonte

Il falso allarme delle notizie false

Dalla Brexit all’elezione di Donald Trump per finire con il referendum sulla Costituzione italiana del 4 dicembre 2016, l’informazione indipendente ha battuto quella ufficiale ottenendo la fiducia e quindi il consenso degli elettori sulle proprie posizioni.
La reazione non poteva tardare e così, con il pretesto della lotta alle notizie false – le cosiddette “fake news” – è scattata un’articolata e imponente operazione di silenziamento e di vera e propria censura dell’informazione indipendente.
L’illuminante contributo di Enzo Pennetta.

Alla scoperta dell’acqua bagnata…

Di Michel Raimbaud*

Oh stupore, oh meraviglia della libertà d’informazione, i media delle “grandi democrazie” occidentali hanno appena scoperto un argomento suscettibile di destare la compassione dei nostri focolai, dei nostri salotti e ambienti dove si pensa “bene”: dopo un’indagine dobbiamo credere molto difficile e una caccia spossante dato che avrebbe richiesto quasi sette anni, alcuni giornalisti d’inchiesta di canali TV “internazionali”, insieme a “grandi ONG” non meno “internazionali”, hanno stanato mercati degli schiavi, in pieno ventunesimo secolo…
È vero che gli schiavisti, venditori e compratori, non sono di casa nostra, e che schiavi in vendita per pochi centinaia di dollari al pezzo provengono da Niger, Nigeria, Mali, Costa d’Avorio e Africa sub-sahariana (come si dice). Pare non ci sia nessun Francese, né tra le vittime, né tra i colpevoli. È anche vero che la storia sta accadendo in Libia, dove ci eravamo abituati alle “maniere” di Gheddafi e alle stranezze della sua Jamahiriyya, che avrebbe potuto spiegare già tutto…
Il guaio – i nostri personaggi televisivi, tra microfoni e riviste patinate forse non lo sanno o l’hanno dimenticato – è che non è rimasto nessuno Stato libico e che i nostri Paesi sono direttamente responsabili della sua scomparsa e del “caos costruttore” che lo ha distrutto, per non parlare dell’assassinio del Colonnello ribelle che sfidava l’Occidente: è tutto così lontano nel tempo, sono già sette anni e fuori dalle nostre acque territoriali. I capi dell’Asse del Bene, tuttavia, si erano fatti in quattro per il popolo libico e per i suoi rivoluzionari improvvisati, a colpi di bombardamenti umanitari, di distruzione delle installazioni militari e civili, afferrando di passaggio “i miliardi di Gheddafi” per impedirgli di massacrare la sua gente. Che dolore per i nostri intellettuali o leader che hanno detto di essere “orgogliosi del bilancio della Francia in Libia…”.
“Confondete tutto”, e “Non capisco” mi diranno i nostri propagandisti e incondizionati dell’ideologia della stampa. Hanno ragione: la vendita di schiavi, non è la stessa cosa. E poi al limite i nostri media finiranno per dire che ogni persona normale e mediamente intelligente poteva saperlo. Bastava leggere o ascoltare: ascoltare dei “complottisti”? Non ci pensate, si scuseranno molti di loro per continuare ad essere ammessi al club dei falsari. Noi, quelli veri, abbiamo fiducia nella stampa del nostro Paese…
Non esigiamo troppo, nonostante la nostra indignazione di fronte all’ipocrisia, al cinismo e alla vigliaccheria. Rallegriamoci per questo risveglio quasi postumo. La massiva mobilitazione dei network dell’informazione si concentrerà presto sulla vendita degli schiavi di Raqqa in Siria, sotto l’egida del DAESH, protetto dai nostri amici Americani, e islamisti turchi e arabi ? Verrà denunciata l’esfiltrazione di terroristi dall’”Organizzazione dello Stato Islamico” alla luce e alla consapevolezza della “Coalizione internazionale” e dei suoi protetti? O le mortali distruzioni causate dai bombardamenti della stessa “coalizione” su Raqqa e Mosul in Iraq? Sarebbe finalmente ora di sollevare il muro d’omertà sul martirio del popolo dello Yemen dove tutto è andato distrutto e dove i Sauditi e i loro alleati si accaniscono su tutto ciò che si muove, gli Yemeniti essendo esposti a bombe, alla fame e al colera, in un silenzio siderale della “Comunità internazionale”.
Allora forza voi, uomini e donne dell’informazione, della politica e del pensiero, aprite gli occhi, aprite le orecchie, spremetevi le meningi, per dire finalmente la verità su queste azioni di morte prima che conducano a un esito che non avevate forse previsto. Nel disastro mediatico, intellettuale e politico, salvate almeno le apparenze e ciò che rimane dell’onore dei nostri Paesi. O presto non potrete proprio più guardarvi neppure allo specchio…

*Già ambasciatore di Francia in diversi Paesi, dopo il ritiro professionale si dedica alla scrittura.
L’ultima sua opera pubblicata è Tempête sur le Grand Moyen-Orient, Editions Ellipses, Parigi, 2017, seconda edizione arricchita e aggiornata.

Fonte – traduzione di C. Palmacci

Giornalisti sotto attacco, gli ipocriti media dell’Occidente restano in silenzio

Eric Draitser per rt.com

La morte sospetta della giornalista nata negli Stati Uniti Serena Shim, e il silenzio assordante sulla storia negli Stati Uniti, è solo l’ultimo plateale esempio di doppio standard utilizzato dai media occidentali.
Shim, una 29enne giornalista americana di origine libanese, si stava occupando della guerra in essere in Siria, in particolare della battaglia in corso tra militanti ISIS e le forze curde nei pressi della città siriana di Kobani, dal confine turco-siriano. Shim stava viaggiando in un’auto a noleggio di ritorno al suo hotel dopo aver riferito dalla città turca di Suruc, vicino al confine con la Siria, quando l’auto sarebbe stata colpita da un veicolo pesante, uccidendo Shim.
Mentre le autorità turche hanno subito sostenuto che la sua morte è stata un incidente, molti in tutto il mondo, tra cui dirigenti e collaboratori anziani di Press TV – l’agenzia di stampa iraniana per la quale Shim stava lavorando – hanno espresso dubbi sulle circostanze della sua morte, descrivendole come “sospette”. Tali sospetti sono chiaramente fondati sul fatto che il presunto incidente è avvenuto solo un giorno dopo che Shim aveva espresso timori per la propria sicurezza, dopo aver ricevuto minacce di morte dai servizi segreti turchi (MIT). Continua a leggere

Quello che sta avvenendo in Turchia

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Prima, durante e dopo le proteste di Piazza Taksim e l’occupazione del Parco Gezi.

“Quello che sta avvenendo in Turchia può essere paragonato alla militarizzazione degli Stati Uniti da parte di George W. Bush Jr. dopo l’episodio dell’ 11 Settembre 2011. Analogo è il discorso nazionale e il ritratto del mondo in termini straussiani: bianco e nero. Siccome la Turchia cerca di assicurarsi un posto nel sistema capitalista mondiale, all’interno la democrazia si indebolisce sempre più. In Turchia sono all’ordine del giorno gli arresti e le detenzioni arbitrari, la censura, i tribunali militari, le vessazioni governative, le minacce provenienti dalle autorità. La frequenza delle brutalità poliziesche e i casi di eccessivo uso della forza con risultati mortali sono in aumento. L’AKP ha imposto limiti crescenti sull’opposizione. Un gran numero di attivisti turchi è stato arrestato e tenuto in carcere in tutto il Paese.
L’opposizione interna alla politica estera dell’AKP sta polarizzando la società turca. L’impegno dell’AKP nel finanziare, addestrare ed armare le milizie che tentano di abbattere il governo siriano ha diviso il Paese ed ha alienato ampi settori della popolazione turca. L’ospitalità data allo scudo spaziale della NATO e ai missili Patriot ha reso anch’essa peggiore la situazione, dividendo la società turca ed alienando le simpatie dei vicini meridionali ed orientali. I partiti d’opposizione ed ampi settori della popolazione si oppongono decisamente all’interferenza turca negli affari interni siriani. Una parte significativa della Grande Assemblea Nazionale della Turchia ha condannato l’AKP per aver portato fuori strada il popolo turco, per avere sospinto il Paese verso il disastro e per aver distrutto i rapporti coi più importanti Paesi vicini. In Turchia il piccolo capitale è stato soggetto ad una crescente frustrazione, perché la posizione turca sulla Siria e il suo coinvolgimento negli scontri ha danneggiato anche il commercio regionale turco.
Anche se nell’America settentrionale e nell’Unione Europea si presta una scarsa attenzione alle restrizioni cui sono sottoposti i mezzi di comunicazione in Turchia, nel 2012 l’organismo Giornalisti Senza Frontiere hanno definito la Turchia come “la più grande prigione del mondo per giornalisti”. Benché sia evidente che i Giornalisti Senza Frontiere non sono obiettivi, tuttavia vale la pena di citare questo organismo, che nell’Indice della Libertà di Stampa del 2013 ha messo la Turchia al 154° posto in una lista di 179 Paesi;
(…)
Il governo turco ha usato sempre più spesso azioni legali strategiche finalizzate a censurare, intimidire e ridurre al silenzio i suoi critici all’interno del Paese, gravandoli del costo di una difesa legale fino a quando non rinuncino alla loro azione di critica pubblica. Per l’AKP la soluzione in parte si è collegata a una crescente tendenza al monopolio dei mezzi di comunicazione, che ha aiutato la società filogovernativa Turkuvaz Medya ad esercitare il predominio nell’ambito mediatico. L’AKP ha controllato attentamente la formazione del monopolio nel settore dei mezzi di comunicazione, che ha garantito all’AKP stesso la massima influenza mediatica. In un atto di disperazione, l’AKP ha anche dichiarato che si è “o con noi o contro di noi”. Chiunque si schieri contro la politica dell’AKP, viene bollato come traditore, spia, criminale o terrorista.”

Da Neottomanismo e teoria del sistema mondiale, di Mahdi Darius Nazemroaya, in “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, n. XXX, 2-2013, pp. 57-58.

Pan per focaccia

“Fautore della “libertà di parola”, “libertà di stampa” e della “libertà di internet”, il governo USA controlla e limita senza scrupoli i diritti dei cittadini alla libertà, se si tratta dei propri interessi e bisogni.
(…)
Dopo l’attacco dell’11 Settembre il governo degli Stati Uniti, nel nome dell’antiterrorismo, ha autorizzato le autorità di intelligence ad introdursi nelle comunicazioni postali dei propri cittadini, e di controllare e cancellare, su internet mediante mezzi tecnici, qualsiasi informazione possa minacciare gli interessi nazionali USA.
Il Patriot Act ha consentito alla polizia federale (LEA) di controllare le telefonate, le comunicazioni via email, le documentazioni mediche, finanziarie e altre documentazioni, e ha ampliato la discrezionalità delle forze dell’ordine e delle autorità sull’immigrazione in materia di detenzione e deportazione degli stranieri sospettati di atti correlati al terrorismo. Il Patriot Act ha ampliato la definizione di terrorismo, allargando così il numero di attività alle quali possono essere applicati i poteri delle forze dell’ordine.
Il 9 Luglio 2008 il Senato USA ha approvato la modifica del 2008 all’Atto sulla Sorveglianza e l’Intelligence Straniera (Foreign Intelligence Surveillance Act), garantendo l’immunità legale alle compagnie di telecomunicazioni che prendono parte ai programmi di intercettazione e autorizzando il governo ad intercettare le comunicazioni internazionali tra gli Stati Uniti e le persone oltreoceano per scopi antiterroristici senza approvazione del tribunale (The New York Times, 10 Luglio, 2008). Le statistiche hanno dimostrato che dal 2002 al 2006 l’FBI ha schedato migliaia di registrazioni telefoniche dei cittadini statunitensi attraverso corrispondenza, annotazioni e telefonate.
Nel Settembre 2009 il paese ha approntato un corpo di supervisione per la sicurezza in internet, preoccupando ulteriormente i cittadini statunitensi sulla possibilità che il governo USA utilizzi la sicurezza in internet come scusa per monitorare ed interferire con i sistemi personali. Un funzionario governativo ha riferito, in un’intervista al New York Times dell’Aprile 2009, che negli ultimi mesi la NSA ha intercettato email e telefonate private di Americani su una scala che andava oltre gli ampi limiti stabiliti dal Congresso USA dell’anno precedente. Inoltre, la NSA intercettava telefonate di esponenti politici stranieri, funzionari di organizzazioni internazionali e giornalisti rinomati (The New York Times, 15 Aprile 2009).
Anche le forze armate USA hanno partecipato ai programmi di intercettazione. Secondo un rapporto della CNN, un’organizzazione militare USA per la valutazione del rischio in internet, con base in Virginia, era incaricata di controllare i blog privati ufficiali e non ufficiali, i documenti ufficiali, le informazioni personali di contatto, le foto di armi, gli accessi agli accampamenti militari, oltre ad altri siti web che “potrebbero minacciare la sicurezza nazionale”.”

Un breve ma significativo estrattto dalla Relazione sui Diritti Umani negli Stati Uniti nel 2009, pubblicata lo scorso 12 marzo dall’Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato della Cina.
La versione integrale del rapporto è qui.

Dietro Reporters Sans Frontières

Reporters Senza Frontiere è un’organizzazione non governativa (ONG) internazionale. Secondo il suo sito web ha il suo quartier generale a Parigi, Francia. Parigi è una sede curiosa per un’organizzazione che, come risulta, è finanziata dal Congresso USA e da agenzie legate al governo USA.
Se andiamo nel sito web di RSF per scoprire chi c’è dietro questi giudici autoconsacrati della libertà di stampa mondiale, non troviamo nulla. Neppure il suo consiglio di amministrazione viene nominato e tanto meno i suoi sostenitori finanziari. Il suo conto economico pubblicato annuale non offre nessun indizio su chi vi sia dietro finanziariamente.
Milioni di dollari del suo reddito annuale vengono divulgati come derivanti dalla “vendita di pubblicazioni”. Non nomina le pubblicazioni o a chi siano state vendute. Come ha osservato un ricercatore, “Anche considerando che i libri vengano pubblicati gratuitamente, avrebbe dovuto vendere 170.200 libri nel 2004 e 188.400 libri nel 2005 per guadagnare gli oltre $2 milioni che l’organizzazione asserisce di guadagnare ogni anno – 516 libri al giorno nel 2005. Il denaro chiaramente doveva provenire da altre fonti, come risulta sia avvenuto”. Un tentativo di andare nel sito web di RSF per ordinare qualunque sua pubblicazione non ha trovato nessun collegamento ad alcuna informazione per l’acquisto né a nessun listino prezzi o sommario di libri. Davvero molto curioso.
Nelle sue dichiarazioni finanziarie e nei suoi conti economici pubblicati nel settembre 2009, afferma: “Le finanze dell’organizzazione nel 2008 sono state contrassegnate dalla fine della campagna (iniziata nel 2001) per il Giochi Olimpici di Beijing che hanno influenzato significativamente le entrate e le uscite”. Ciò significa che RSF ha passato otto anni e non svelate somme di denaro per fare campagna contro il governo della Cina nel periodo che ha preceduto le Olimpiadi di Beijing del 2008. A quale scopo? Particolarmente, RSF nomina il presidente cinese Hu Jintao come ‘predatore’ di quest’anno per le sue azioni nel reprimere le agitazioni in Tibet nel marzo 2008 e nello Xinjiang nel luglio 2009, entrambe le quali sono state l’opera clandestina di una ONG finanziata dagli USA chiamata National Endowment for Democracy (NED). Hmmm.
Dopo anni che cerca di nasconderlo, Robert Menard, segretario generale con sede a Parigi di Reporters Sans Frontières o RSF, ha confessato che il bilancio di RSF è stato finanziato principalmente da “Organizzazioni USA strettamente collegate alla politica estera degli USA”. Queste organizzazioni basate negli USA che sostengono RSF comprendono la Agency for International Development (USAID) ed il National Endowment for Democracy (NED) del Congresso. Includono pure il Center for Free Cuba, il cui amministratore fiduciario, Otto Reich, è stato costretto a dimettersi dall’amministrazione di George W. Bush dopo la denunzia del suo ruolo in un tentativo di colpo di stato appoggiato dalla CIA contro il presidente democraticamente eletto del Venezuela Hugo Chavez.
Come un ricercatore ha scoperto dopo mesi che cercava di ottenere una risposta dal NED sul suo finanziamento a Reporters Senza Frontiere, che ha compreso il netto rifiuto da parte del direttore esecutivo di RSF Lucie Morillon, il NED ha rivelato che Reporters Senza Frontiere ha ricevuto assegnazioni in almeno tre anni dall’International Republican Institute. L’IRI è una delle quattro affiliate del NED.
Il NED, come ho esposto dettagliatamente nel mio libro “Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order”, è stato creato dal Congresso USA durante l’amministrazione Reagan su iniziativa dell’allora direttore della CIA Bill Casey per rimpiazzare i programmi di azione clandestina nella società civile della CIA, che erano stati rivelati dalla commissione Church a metà degli anni ’70. Come ha ammesso anni dopo Allen Weinstein, colui che che ha redatto la legislazione che creò il NED, “Molto di ciò che oggi facciamo veniva fatto clandestinamente dalla CIA 25 anni fa”.
Forse un’organizzazione che si erge a giudice della libertà di stampa mondiale dovrebbe praticare essa stessa un poco più di sincerità e di trasparenza su da dove abbia origine il proprio sostegno. Altrimenti dovremmo pensare che abbia qualcosa da nascondere.

Da La lista dei cattivi? Giornalismo libero al servizio della politica estera USA, di F. William Engdahl.
[grassetto nostro]

Libera stampa in Afghanistan

Bruxelles, 26 agosto – Un vero e proprio ‘esame’ per verificare l’atteggiamento dei cronisti verso i militari USA, pena l’esclusione. E’ quanto stanno effettuando, stando a una dura denuncia della Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj), i militari a stelle e strisce impegnati in Afghanistan.
Secondo l’Ifj, il Pentagono ha addirittura ingaggiato una società di pubbliche relazioni, ‘The Rendon Group’, con l’incarico di esaminare i giornalisti che chiedono la protezione delle forze armate statunitensi e verificare se i loro servizi dipingano o meno i militari USA in modo positivo.
(Adnkronos/Aki)