Il gruppo di intelligence militare da “film di spionaggio” al centro dell’offensiva per il passaporto vaccinale in USA

Di Jeremy Loffredo e Max Blumenthal per The Grayzone, 26 Ottobre 2021

Descritta come “l’organizzazione più importante di cui non avete mai sentito parlare”, MITRE fa soldi a palate con enormi contratti statali per la fornitura di servizi per la sicurezza facendo da pioniere nella tecnologia di spionaggio invasiva. Ora è alla base di una campagna per implementare i passaporti vaccinali digitali.

Mentre i passaporti vaccinali sono stati commercializzati come una manna per la salute pubblica, promettendo sicurezza, riservatezza e convenienza per coloro che sono stati vaccinati contro il Covid-19, il ruolo cruciale che sta svolgendo un’ambigua organizzazione di intelligence militare nella spinta all’implementazione del sistema in forma digitale ha sollevato serie preoccupazioni per le libertà civili.

Conosciuta come MITRE, l’organizzazione è una società senza scopo di lucro guidata quasi interamente da professionisti dell’intelligence militare e sostenuta da ragguardevoli contratti con il Dipartimento della Difesa, l’FBI e il settore della sicurezza nazionale.

Lo sforzo “per espandere i passaporti vaccinali con codice QR al di là di Stati come la California e New York” ruota ora attorno a una partnership pubblico-privata nota come Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini (Vaccine Credential Initiative, VCI). E il VCI ha riservato a MITRE un ruolo determinante nella sua coalizione

Descritto da Forbes come un “laboratorio misterioso [di ricerca e sviluppo]” che è “l’organizzazione più importante di cui non avete mai sentito parlare”, MITRE ha sviluppato alcune delle tecnologie di sorveglianza più invasive usate ad oggi dalle agenzie di spionaggio statunitensi. Fra i suoi prodotti più innovativi c’è un sistema creato per l’FBI che cattura le impronte digitali delle persone dalle immagini inserite sulle piattaforme delle reti sociali.

La coalizione paravento per il COVID-19, di cui fa parte la stessa Mitre, include In-Q-Tel, il ramo finanziario della CIA, e Palantir, un’azienda di spionaggio privata macchiata da scandali.

Elizabeth Renieris, il direttore fondatore dei laboratori di etica per la tecnologia di Notre Dame e della IBM, ha avvertito che “sebbene le società tecnologiche e di sorveglianza che dominano i mercati” come MITRE “perseguano nuovi flussi di ricavi nei servizi sanitari e finanziari… essendo di proprietà privata e avendo operato sui sistemi di identificazione digitale con modelli di business tesi alla massimizzazione dei profitti minacciano la riservatezza, la sicurezza e altri diritti fondamentali degli individui e delle comunità”.

Infatti, il coinvolgimento dell’apparato di intelligence militare nello sviluppo di un sistema di passaporto vaccinale digitale è l’ennesima indicazione del fatto che dietro la parvenza delle preoccupazioni per la salute pubblica, lo Stato di sorveglianza degli Stati Uniti potrebbe avere in programma di aumentare il suo controllo su una popolazione sempre più recalcitrante.

L’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini, un veicolo neoliberista consigliato da professionisti dell’intelligence militare

Come dettagliato nella prima puntata di questa serie, gli  oligarchi dell’alta tecnologia come Bill Gates e centri nevralgici per la politica capitalista a livello globale come il World Economic Forum hanno mandato avanti sistemi  di identificazione digitale  e di  valuta elettronica in tutto il Sud del mondo per raccogliere dati e profitti da popolazioni che in precedenza erano fuori portata.

L’avvento dei passaporti vaccinali che forniscono accesso all’occupazione lavorativa e alla vita pubblica è diventato il vettore chiave per accelerare la loro agenda in Occidente. Come la  società di consulenza finanziaria, Aite-Novarica, dichiarò questo settembre, i passaporti  vaccinali digitali per il COVID-19 “espandono  gli argomenti a favore del sistema di identificazione digitale  oltre la sola vaccinazione COVID-19 e potenzialmente servono sia come sistema di identificazione  digitale che come fonte più completa e universale di informazioni sull’identità…”.

Sebbene i passaporti vaccinali escludano milioni in tutto l’Occidente, suscitando proteste furiose e scioperi selvaggi, il World Economic Forum sta lavorando con i suoi partner per implementarli in forma digitale.

Guidato dall’economista tedesco Klaus Schwab, che dice di essere propugnatore di una “Quarta rivoluzione industriale” che sta cambiando il modo in cui le persone “vivono, lavorano e si relazionano gli uni agli altri”, il World Economic Forum (Forum Economico Mondiale) è una rete internazionale di alcuni dei più ricchi e politicamente potenti individui del pianeta. Con sede a Davos, in Svizzera, il World Economic Forum si posiziona come punto di riferimento del capitalismo globale.

A Gennaio del 2021, diversi partner del World Economic Forum,  compresi Microsoft, Oracle, Salesforce e altre multinazionali, annunciarono una coalizione per lanciare l’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini (Vaccine Credential Initiative, VCI), che mira a istituire passaporti vaccinali basati su codice QR negli Stati Uniti.

L’obiettivo dichiarato dell’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini è quello di implementare un’unica “tessera sanitaria SMART” che possa essere riconosciuta “oltre i confini organizzativi e giurisdizionali”.

Negli USA, alcuni Stati stanno già distribuendo tessere digitali sanitarie SMART sviluppate dall’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini. Queste tessere sanitarie SMART hanno posto le basi per uno standard nazionale di fatto riguardante le credenziali sui vaccini.

Un’organizzazione no-profit istituita dalla Rockfeller Foundation e denominata The Commons Project sta guidando la campagna di lobbying per le smart card digitali attraverso l’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini che ha co-fondato. E si dà il caso che il direttore generale di Commons Project, Paul Meyer, sia stato allevato nell’ambito del World Economic Forum come un “giovane leader”.

In qualità di volto pubblico dell’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini, Meyer propugna l’agenda della campagna di lobbying nel linguaggio dell’inclusione progressista, martellando costantemente su temi come la “responsabilizzazione” nelle comunicazioni pubbliche.

“L’obiettivo dell’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini è facilitare alle persone   l’accesso digitale ai registri sul loro status vaccinale in modo che possano usare strumenti come Common Pass per tornare in sicurezza a viaggiare, lavorare, ad andare a scuola e alla loro vita, proteggendo al contempo la riservatezza dei loro dati”, sosteneva Meyer.

In un comunicato stampa che annunciava la creazione dell’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini, MITRE faceva eco al linguaggio preoccupato di Meyer, dichiarando di aver aderito alla partnership “per garantire che le popolazioni svantaggiate abbiano accesso a questo tipo di verifica sul vaccino digitale.”

Ma cos’è MITRE, e perché un’organizzazione nota per la sorveglianza di massa e la tecnologia militare potrebbe essere al centro di un’iniziativa che offre la possibilità di un monitoraggio senza precedenti della popolazione globale? L’organizzazione non ha risposto alle domande inviate via e-mail da The Grayzone sulla sua partecipazione all’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini, comunque, la sua storia documentata genera inquietanti pensieri.

Collaborazione nelle guerre al Vietnam e alla marijuana, sviluppo di tecnologia di spionaggio “straordinariamente agghiacciante”

Con sede nel nord della Virginia, MITRE è un think tank di esperti di intelligence militare finanziato per 2 miliardi di dollari l’anno da agenzie governative USA, compreso il Dipartimento della Difesa. È guidato quasi interamente da ex funzionari del Pentagono ed ex agenti dei servizi segreti.

MITRE fu fondato nel 1958 come progetto congiunto della US Air Force (Aeronautica militare statunitense) e del Massachusetts Institute of Technology (MIT) per sviluppare sistemi di “comando e controllo” per la guerra nucleare e convenzionale, come la rivista Science and Revolution metteva in evidenza.

Nel 1963, MITRE selezionò un giovane brillante linguista del MIT chiamato Noam Chomsky, per assistere allo “sviluppo di un programma per formare un linguaggio naturale che avesse funzione di linguaggio operativo per il comando e il controllo”. Dopo alcuni anni di lavoro su progetti come questi, Chomsky disse: “Non potevo più guardarmi allo specchio” e si lanciò nell’attivismo contro la guerra.

Alla fine degli anni ‘60, MITRE disse che “stava impegnando quasi un quarto delle sue risorse totali per i sistemi di comando, controllo e comunicazione necessari alla condotta del conflitto in Vietnam.”

La società finanziata da fonti militari venne presa di mira dagli attivisti contro la guerra quando sviluppò una “recinzione elettronica” composta principalmente di acustica e sensori progettati per localizzare i movimenti dei Vietcong e delle truppe nordvietnamite in modo tale che i militari statunitensi potessero prenderli di mira per distruggerli.

Inoltre alla fine degli anni ‘60, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America stipulò un contratto con MITRE per condurre una campagna di sradicamento aereo della cannabis in Messico. MITRE consigliò agli agenti statunitensi di spruzzare ampi tratti della campagna messicana con un erbicida tossico chiamato paraquat, che veniva descritto come sicuro sulla base di una discutibile interpretazione dei test sugli animali. Quando il Dipartimento di Stato perseguì la strategia consigliata da MITRE, le coltivazioni alimentari divennero contaminate e la salute delle comunità contadine locali fu messa in pericolo.

Nel frattempo, la marijuana cominciò ad arrivare nelle strade americane inzuppata di paraquat, innescando una causa legale contro il Dipartimento di Stato da parte della Organizzazione Nazionale per la Riforma delle Leggi sulla Marijuana la quale sosteneva che l’erbicida avesse causato malattie respiratorie fra i fumatori di marijuana. Quando il Dipartimento di Stato perse la causa, accordò a MITRE un contratto di 255.211 dollari per produrre uno studio d’impatto sull’irrorazione di paraquat che in conclusione consigliava i fumatori di marijuana di mitigare gli effetti dell’erbicida consumandola con pipe ad acqua o sotto forma di dolcetti.

In anni recenti, MITRE ha progettato tecnologia di sorveglianza per l’FBI che raccoglie impronte umane dalle piattaforme delle reti sociali come Facebook, Instagram, e Twitter. Ha anche fornito assistenza all’FBI per istituire un sistema di Identificazione di Prossima Generazione, a quanto si dice il più grande database di informazioni biometriche del mondo, nonché il Database per l’Intelligence Modernizzato dell’agenzia federale.

Secondo l’ex vicedirettore dell’FBI William Bayse, il Database di Intelligence Modernizzato dell’FBI consentiva ai programmatori della polizia di collegare gli attivisti alle loro cause politiche, ai loro colleghi, datori di lavoro, alle loro fedine penali, foto segnaletiche e impronte, alle loro abitudini d’acquisto e persino ai loro dati fiscali.

Mediante centinaia di richieste basate sul Freedom of Information Act (FOIA) e interviste con attuali e precedenti funzionari di MITRE, Forbes è venuta a sapere che MITRE ha progettato “uno strumento prototipo che può violare smartwatch, fitness tracker e termometri da parete per scopi di sicurezza nazionale interna… e uno studio per determinare se la puzza di sudore di qualcuno possa rivelare che sta mentendo.”

MITRE è anche sede dello “ATT&CKProgram”, un modulo di sicurezza informatica che la società descrive come “una base di conoscenza accessibile globalmente di tattiche avversarie e tecniche di intelligence basate su osservazioni dal mondo reale”. Adam Pennington, capo del progetto ATT&CK di MITRE, “ha speso più di dieci anni con MITRE a studiare e predicare l’uso dell’inganno per la raccolta di informazioni”.

Il procuratore legale di ACLU (The American Civil Liberties Union), Nate Wessler, ha definito i progetti di sorveglianza di MITRE “straordinariamente agghiaccianti”, lanciando l’avvertimento che essi “sollevano seri problemi di riservatezza.”

Da parte sua, il materiale promozionale dell’appaltatore militare sembra vantarsi del suo lascito di innovazione nel settore della sorveglianza: “Potreste non saperlo ma MITRE entra nelle vostre vite ogni giorno.”

Mesi dopo che la pandemia per il nuovo coronavirus fu dichiarata nel marzo 2020, MITRE fece leva sulla sua competenza nel monitorare le popolazioni per produrre il sistema di tracciamento dei contatti Sara Alert. Un video pubblicitario di MITRE spiega come il sistema permetta alle autorità sanitarie pubbliche di tracciare gli utenti: “Le persone che sono contagiate dalla malattia saranno messe in isolamento a casa… Per le persone che sono esposte alla malattia ma non mostrano sintomi, Sara Alert li segue mentre sono in quarantena per 14 giorni”.

Il Sara Alert di MITRE entrò in uso in una manciata di Stati, con iscrizioni limitate. Se fosse stato implementato a livello nazionale, avrebbe potuto costringere una sostanziale parte di popolazione statunitense ad andare in autoquarantena su basi continue, persino se le persone non avessero presentato sintomi.

Come il Brookings Institute faceva notare in un articolo accademico mettendo in discussione l’utilità di app come Sara Alert, “Una persona lo può sopportare per una volta o due, ma dopo alcuni falsi allarmi e l’eccessivo inconveniente di autoisolamento protratto, prevediamo che molti ignoreranno gli avvertimenti”.

MITRE ha anche lavorato per sopprimere le narrative che potessero minare l’agenda delle agenzie governative che lo finanziano. L’applicazione del plugin per il browser detta SQUINT dell’appaltatore, per esempio “consente una rapida consapevolezza situazionale della disinformazione sulle reti sociali relativa al COVID-19 per i funzionari della sanità pubblica mediante una copertura basata su fonti collettive”, secondo il relativo materiale promozionale.

MITRE sta ora lavorando per implementare i passaporti vaccinali digitali negli Stati Uniti D’America, e non solo.

Società private di spionaggio e un’azienda della CIA fra le società facenti parte della coalizione di MITRE per il COVID-19

Come membro del gruppo direttivo al governo dell’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini (VCI), MITRE gestisce la sua propria “Coalizione Sanitaria per il COVID-19” mentre si descrive come “un partner affidabile di lunga data per le comunità di intelligence e di difesa”.

Fra i membri della coalizione per il COVID-19 della stessa MITRE c’è Palantir, un’azienda privata di intelligence fondata nel 2003 da Peter Thiel, cofondatore di Paypal. Palantir si è consolidata come una società leader nei programmi di sorveglianza predittiva e faceva soldi a palate in lucrosi contratti con la CIA. L’azienda una volta partecipò in una campagna diffamatoria proposta contro attivisti contrari allo strapotere delle multinazionali e contro critici giornalistici, compreso Glenn Greenwald.

Avril Haines, l’attuale Direttore dell’Intelligence Nazionale e precedente Vicedirettore della CIA fu pagata 180.000 dollari come consulente per Palantir – un lavoretto cancellato dalla sua biografia.

Haines fu anche fra i principali partecipanti alla simulazione pandemica denominata “Event 201” avvenuta nell’Ottobre 2019 e sponsorizzata dalla Gates Foundation, dal World Economic Forum, e dal John Hopkins Center for Health and Security. Durante tale esercitazione, funzionari della salute pubblica e dell’intelligence nonché uomini d’affari simularono una ipotetica epidemia di coronavirus che avrebbe ucciso 65 milioni di persone nel mondo.

Haines enfatizzò ai colleghi relatori il bisogno di controbattere alle critiche rivolte alla gestione ufficiale della pandemia tramite “l’inondazione dello spazio informativo con fonti fidate” dei media e degli opinionisti “al fine di cercare di amplificare il messaggio che si vuole trasmettere”.

Palantir ha anche fornito la tecnologia per il tracciamento dei dati sul Covid al Ministero della Sanità del Regno Unito, insieme a Microsoft, Google e Amazon. Lo stratega politico britannico conservatore, Dominic Cummings, che gode di collegamenti con Palantir e fornì all’azienda un accesso speciale al gabinetto del Primo Ministro, ha consigliato Boris Johnson e il Gruppo Consultivo Scientifico per le Emergenze sulle politiche da attuare per la gestione del Covid.

Tornando a parlare degli Stati Uniti, Palantir è stato il fornitore per il Dipartimento della Sicurezza Nazionale e il Centro per il Controllo delle Malattie di varie tecnologie correlate al Covid.

L’azienda finanziaria della CIA, In-Q-Tel, è anche nella lista delle società facenti parte della Coalizione Sanitaria per il Covid-19 di MITRE.

Lo scorso settembre, il Vicepresidente del personale tecnico di In-Q-Tel, Dan Hanfling, fu citato dal Washington Post per aver sostenuto che alle persone non vaccinate dovrebbe essere negata l’assistenza sanitaria retrocedendole nel sistema di priorità al pronto soccorso: “Quel gruppo di persone che volontariamente hanno scelto di non vaccinarsi, per ragioni illegittime, sarebbe corretto metterli in fondo alla linea d’attesa”, ha asserito Hanfling….

Il Washington Post non fece notare l’affiliazione di Hanfling con la CIA; invece lo descrisse semplicemente come un “medico di pronto soccorso”.

In-Q-Tel non è affatto l’unica società collegata ai servizi di intelligence fra quelle che fanno parte dell’Iniziativa per le Credenziali sui Vaccini. C’è anche Oracle, membro fondatore della stessa iniziativa, che nacque come un progetto della CIA.

Uno sguardo al gruppo dirigente di MITRE mostra come l’organizzazione sia strettamente connessa con il più ampio settore dell’intelligence militare.

Falchi”, spie e fantasmi guidano MITRE

Il Presidente del consiglio di amministrazione di MITRE, Donald Kerr, è l’ex Vicedirettore principale dell’intelligence nazionale. Prima di questo ruolo, Kerr era stato Vicedirettore per la scienza e tecnologia presso la CIA, dove ricevette l’Illustre Medaglia CIA per alti servizi resi all’intelligence statunitense.

Il Vicepresidente del consiglio di amministrazione di MITRE, Mike Rogers, è l’ex Presidente repubblicano del comitato permanente di selezione sull’intelligence della Camera degli Stati Uniti. Prima di servire al Congresso, il signor Rogers era un ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti e un agente speciale dell’FBI.

Essendosi distinto al Congresso come uno dei più schietti oppositori della riservatezza digitale, accusando le comunicazioni crittografate di gravi attacchi terroristici, Rogers fu il conduttore e produttore esecutivo di una serie televisiva in sei parti intitolata “Desegretato: storie inedite di spie americane per la CNN”. Il programma era una pubblicità virtuale per l’apparato di intelligence degli Stati Uniti, “accurata descrizione di casi importanti, missioni e operazioni degli agenti dell’intelligence americana”, secondo la CNN.

Rogers è anche un illustre membro dell’Hudson Institute, un think tank neoconservatore con sede a Washington DC finanziato da Northrop Grumman, Lockheed Martin, gruppi farmaceutici impegnati in attività di lobbying e società tecnologiche supportate dalla CIA come Oracle.

Nei ruoli direttivi in MITRE ci sono ex funzionari di alto livello dell’intelligence e del Pentagono come Robert Work, che servì come Vice Segretario alla Difesa sotto tre diversi Segretari prima di passare attraverso la porta girevole al consiglio di amministrazione di Raytheon che è un gigante dell’industria degli armamenti.

Il membro del consiglio di amministrazione di MITRE Paul Kaminski è il Direttore Generale di Technovation, Inc., un’azienda di consulenza che “promuove l’innovazione, lo sviluppo del business e le strategie di investimento relative alla tecnologia della difesa”. Kaminski fu Sottosegretario alla Difesa per l’acquisizione e la tecnologia dal 1994 al 1997 e fu due volte Presidente del comitato del Consiglio Scientifico della Difesa che collabora col Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.

A Kaminski di Mitre è stato assegnato il “Premio di Direttore dell’Intelligence Centrale” che è dato a coloro che “incoraggiano l’obiettivo di un’eccezionale raccolta di intelligence umana e la segnalazione di informazioni di valore significativo per la comunità di intelligence degli Stati Uniti.”

L’amministratore delegato di MITRE è Jason Providakes. Secondo la sua biografia ufficiale fornita da MITRE, la carriera di Providakes “ha origine nella ricerca scientifica a sostegno della sicurezza nazionale”. Prima di diventare amministratore delegato, Providakes era stato Direttore Esecutivo per la “Divisione Tecnologica e Sistemi di Armamento” di MITRE, dove svolse un ruolo fondamentale per la trasformazione dell’esercito nel “digitalizzare il campo di battaglia”.

Gli intimi legami fra MITRE e l’apparato di intelligence militare degli Stati Uniti si estendono al lavoro della società sul COVID-19.

Il “borsista tecnico” di MITRE, Jay Crossler, è una guida dei dati esecutivi per la Coalizione Sanitaria sul COVID-19, definita quale “risposta collaborativa dell’industria privata” al Covid. Secondo MITRE, Crossler fra l’altro “progettò, costruì, schierò e mise in funzione il portale che il generale Stanley McChrystal aveva usato per gestire l’invasione dell’Afghanistan”.

Peraltro il Direttore Sanitario di MITRE, Jay Schnitzer, era stato in precedenza il direttore di Scienze della Difesa presso DARPA, l’unità di ricerca notoriamente segreta del Dipartimento della Difesa.

Dal discreditato e distruttivo modello di letalità per il COVID-19 all’offensiva per il passaporto digitale

Il 17 marzo 2020, praticamente poche ore dopo la dichiarazione di una pandemia globale da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la divisione per il contrasto alle armi di distruzione di massa del Dipartimento della Sicurezza Nazionale stipulò un contratto con MITRE per “coinvolgere, informare e guidare” sindaci, governatori e funzionari impiegati nelle emergenze sulla risposta al COVID-19. Secondo Forbes, il Centro per il Controllo delle Malattie firmò pure un contratto da 16,3 milioni di dollari per stabilire “una durevole capacità nazionale di contenere il Covid-19”.

Un giorno dopo aver firmato il contratto con la divisione per il contrasto alle armi di distruzione di massa del Dipartimento della Sicurezza Nazionale, MITRE sfornò un “libro bianco” che delineava l’impatto previsto del COVID-19 sulla popolazione degli Stati Uniti e forniva raccomandazioni per i funzionari locali e federali su una risposta alle emergenze.

Il documento di MITRE affermava in modo sicuro che il COVID-19 rappresentava “un’epidemia pericolosa all’incirca quanto l’influenza spagnola che infettò 500 milioni di persone e ne uccise 50 milioni in tutto il mondo”. Durante l’epidemia del 1918, quando la popolazione degli Stati Uniti era inferiore a 1/3 di quella che è oggi, morirono circa 675.000 americani. MITRE quindi sopravvalutò il bilancio delle vittime del 2020 di sei volte tanto.

Con il suo modello ormai screditato come giustificazione, MITRE chiese alle autorità di ridurre del 90% i contatti sociali tra i membri della popolazione statunitense, di imporre rigidi confinamenti, di chiudere praticamente tutte le attività commerciali, di sigillare i confini e “di mettere in quarantena negli hotel o in altre strutture, uno per stanza, con personale ridotto all’osso, i cittadini di ritorno” dall’estero.

Molti Stati degli USA seguirono una qualche versione di questo modello estremo, innescando una catastrofe sociale ed economica dalla quale la popolazione potrebbe non riprendersi mai del tutto.

Ora che i confinamenti sembrano essere finiti, MITRE è al centro dell’offensiva per i passaporti vaccinali digitali per mezzo dell’Iniziativa per le Credenziali sul Vaccino. Tuttavia l’influente organizzazione di intelligence militare rimane dietro le quinte, per lo più sconosciuta a un pubblico statunitense le cui vite potrebbero essere radicalmente alterate da uno dei suoi più importanti progetti.

Per leggere la prima puntata di questa serie sui passaporti vaccinali digitali a cura di Jeremy Loffredo and Max Blumenthal, cliccare qui.

(Traduzione a cura della redazione)

Lo spettro di una guerra nucleare

“Quando circa sei anni fa titolammo sul Manifesto (9 giugno 2015) «Ritornano i missili a Comiso?», la nostra ipotesi che gli USA volessero riportare i loro missili nucleari in Europa fu ignorata dall’intero arco politico-mediatico. Gli avvenimenti successivi hanno dimostrato che l’allarme, purtroppo, era fondato. Ora, per la prima volta, abbiamo la conferma ufficiale. L’ha data pochi giorni fa, l’11 marzo, una delle massime autorità militari USA, il generale James C. McConville, capo di stato maggiore dell’Esercito degli Stati Uniti. Non in un’intervista alla CNN, ma in un intervento – di cui abbiamo la trascrizione ufficiale – a un meeting di esperti alla George Washington School of Media and Public Affairs. Il generale McConville non solo comunica che lo US Army si sta preparando a installare nuovi missili in Europa, evidentemente diretti contro la Russia, ma rivela che saranno missili ipersonici, un nuovo sistema d’arma di estrema pericolosità. Ciò crea una situazione ad altissimo rischio, analoga o peggiore di quella in cui si trovava l’Europa durante la Guerra Fredda, quale prima linea del confronto nucleare tra USA e URSS.

I missili ipersonici – con velocità superiore a 5 volte quella del suono (Mach 5), ossia più di 6.000 km/h – costituiscono un nuovo sistema d’arma con capacità di attacco nucleare superiore a quella dei missili balistici. Mentre questi seguono una traiettoria ad arco per la maggior parte al di sopra dell’atmosfera, i missili ipersonici seguono invece una traiettoria a bassa altitudine nell’atmosfera direttamente verso l’obiettivo, che raggiungono in minor tempo penetrando le difese nemiche.

Nel suo intervento alla George Washington School of Media and Public Affairs, il generale McConville rivela che lo US Army sta preparando una «task force» dotata di «capacità di fuoco di precisione a lungo raggio che può arrivare ovunque, composta da missili ipersonici, missili a medio raggio, missili per attacchi di precisione» e che «questi sistemi sono in grado di penetrare lo spazio dello sbarramento anti-aereo». Il generale precisa che «prevediamo di schierare una di queste task force in Europa e probabilmente due nel Pacifico» (evidentemente dirette contro la Cina). Sottolinea quindi che «le stiamo costruendo in questo momento, mentre stiamo parlando».

Ciò viene confermato dalla Darpa (Agenzia per i progetti di ricerca avanzata della Difesa). In un comunicato ufficiale informa di aver incaricato la Lockheed Martin di fabbricare «un sistema missilistico ipersonico a raggio intermedio con lancio da terra», ossia missili con gittata tra 500 e 5500 km della categoria che era stata proibita dal Trattato sulle forze nucleari intermedie firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan, stracciato dal presidente Trump nel 2019. Secondo le specifiche tecniche fornite dalla Darpa, «il nuovo sistema permette ad armi ipersoniche glide con propulsione a razzo di colpire con rapidità e precisione bersagli di importanza critica e prioritaria, penetrando moderne difese aeree nemiche. L’avanzata propulsione a razzo può trasportare vari carichi bellici a più distanze ed è compatibile con piattaforme terrestri di lancio mobili, che possono essere dispiegate rapidamente».

Il capo di stato maggiore dell’Esercito e l’Agenzia di ricerca del Pentagono informano dunque che tra non molto gli Stati Uniti schiereranno in Europa (si parla di una probabile prima base in Polonia o Romania) missili ipersonici armati di  «vari carichi bellici», ossia di testate nucleari e convenzionali. I missili ipersonici nucleari a raggio intermedio installati su «piattaforme terrestri mobili», ossia su speciali veicoli, potranno essere rapidamente dispiegati nei paesi NATO più vicini alla Russia (ad esempio le repubbliche baltiche). Avendo già oggi la capacità di volare a circa 10.000 km/h, i missili ipersonici saranno in grado di raggiungere Mosca in circa 5 minuti.

Anche la Russia sta realizzando missili ipersonici a raggio intermedio ma, lanciandoli dal proprio territorio, non può colpire Washington. I missili ipersonici russi potranno però raggiungere in pochi minuti le basi USA, anzitutto quelle nucleari come le basi di Ghedi e Aviano, e altri obiettivi in Europa. La Russia, come gli Stati Uniti e altri, sta schierando nuovi missili intercontinentali: l’Avangard è un veicolo ipersonico con raggio di 11.000 km e armato di più testate nucleari che, dopo una traiettoria balistica, plana per oltre 6.000 km alla velocità di quasi 25.000 km/h. Missili ipersonici li sta realizzando anche la Cina. Poiché i missili ipersonici sono guidati dai sistemi satellitari, il confronto si svolge sempre più nello spazio: a tale scopo è stata creata nel 2019 dall’amministrazione Trump la Forza Spaziale USA.   

Le armi ipersoniche, di cui vengono dotate anche le forze aeree e navali che hanno maggiore mobilità, aprono una nuova fase della corsa agli armamenti nucleari, rendendo in gran parte superato il trattato New Start appena rinnovato da USA e Russia. La corsa passa sempre più dal piano quantitativo (numero e potenza delle testate nucleari) a quello qualitativo (velocità, capacità penetrante e dislocazione geografica dei vettori nucleari).

La risposta, in caso di attacco o presunto tale, viene sempre più affidata all’intelligenza artificiale, che deve decidere il lancio dei missili nucleari in pochi secondi o frazioni di secondo. Aumenta in modo esponenziale la possibilità di una guerra nucleare per errore, rischiata più volte durante la Guerra Fredda. Il «Dottor Stranamore» non sarà un generale pazzo, ma un supercomputer impazzito. Mancando l’intelligenza umana per fermare questa folle corsa alla catastrofe, dovrebbe almeno scattare l’istinto di sopravvivenza, risvegliatosi finora solo per il Covid-19.”

Da Missili ipersonici USA In Europa a 5 minuti da Mosca, di Manlio Dinucci.

A Ghedi si prepara la nuova base per gli F-35 nucleari

Nell’aeroporto militare di Ghedi (Brescia) stanno iniziando i lavori per realizzare la principale base operativa dei caccia F-35A dell’Aeronautica italiana armati di bombe nucleari. La Matarrese s.p.a. di Bari, che si è aggiudicata l’appalto con un’offerta di 91 milioni di euro, costruirà un grande hangar per la manutenzione dei caccia (oltre 6000 m2) e una palazzina che ospiterà il comando e i simulatori di volo, dotata di un perfetto isolamento termoacustico «al fine di evitare rivelazioni di conversazioni». Verranno realizzate due linee di volo, ciascuna con 15 hangaretti al cui interno vi saranno i caccia pronti al decollo.
Ciò conferma quanto pubblicammo tre anni fa (il manifesto, 28 novembre 2017), ossia che il progetto (varato dall’allora ministra della Difesa Pinotti) prevedeva lo schieramento di almeno 30 caccia F-35A. L’area in cui verranno dislocati gli F-35, recintata e sorvegliata, sarà separata dal resto dell’aeroporto e top secret. Il perché è chiaro: accanto ai nuovi caccia saranno dislocate a Ghedi, in un deposito segreto che non compare nell’appalto, le nuove bombe nucleari statunitensi B61-12. Come le attuali B-61 di cui sono armati i Tornado PA-200 del 6° Stormo, le B61-12 saranno controllate dalla speciale unità statunitense (704th Munitions Support Squadron della U.S. Air Force), «responsabile del ricevimento, stoccaggio e mantenimento delle armi della riserva bellica USA destinate al 6° Stormo NATO dell’Aeronautica italiana».
La stessa unità dell’Aeronautica USA ha il compito di «sostenere direttamente la missione di attacco» del 6° Stormo. Piloti italiani vengono già addestrati, nelle basi aeree di Luke in Arizona e Eglin in Florida, all’uso degli F-35A anche per missioni di attacco nucleare sotto comando USA. Caccia dello stesso tipo, armati o comunque armabili con le B61-12, sono dislocati nella base di Amendola (Foggia), dove hanno già superato le 5000 ore di volo. Vi saranno, oltre a questi, gli F-35 della U.S. Air Force schierati ad Aviano con le B61-12. Il nuovo caccia F-35A e la nuova bomba nucleare B61-12 costituiscono un sistema d’arma integrato: l’uso dell’aereo comporta l’uso della bomba. Il ministro della Difesa Guerini (PD) ha confermato che l’Italia mantiene l’impegno ad acquistare 90 caccia F-35, di cui 60 di modello A a capacità nucleare. La partecipazione al programma dell’F-35, quale partner di secondo livello, rafforza l’ancoraggio dell’Italia agli Stati uniti.
L’industria bellica italiana, capeggiata dalla Leonardo che gestisce l’impianto degli F-35 a Cameri (Novara), viene ancor più integrata nel gigantesco complesso militare-industriale USA capeggiato dalla Lockheed Martin, la maggiore industria bellica del mondo, costruttrice dell’F-35.
Allo stesso tempo l’Italia – Stato non-nucleare aderente al Trattato di non-proliferazione che gli vieta di avere armi nucleari sul proprio territorio – svolge la sempre più pericolosa funzione di base avanzata della strategia nucleare USA/NATO contro la Russia e altri Paesi. Dato che ciascun aereo può trasportare nella stiva interna 2 B61-12, solo i 30 F-35A di Ghedi avranno una capacità di almeno 60 bombe nucleari. Secondo la Federazione degli scienziati americani, la nuova bomba «tattica» B61-12 per gli F-35, che gli USA schiereranno in Italia e altri Paesi europei dal 2022, essendo più precisa e in posizione ravvicinata agli obiettivi, «avrà la stessa capacità militare delle bombe strategiche dislocate negli Stati Uniti». Vi è infine la questione, ancora indefinita, dei costi.
Il Servizio di ricerca del Congresso degli Stati Uniti, nel maggio 2020, stima il prezzo medio di un F-35 in 108 milioni di dollari, precisando però che è «il prezzo dell’aereo senza motore», il cui costo è di circa 22 milioni. Una volta acquistato un F-35, anche a prezzo minore come promette per il futuro la Lockheed Martin, inizia la spesa per il suo continuo ammodernamento, per la formazione degli equipaggi e per il suo uso. Un’ora di volo di un F-35A – documenta la US Air Force – costa oltre 42000 dollari. Ciò significa che solo le 5000 ore di volo effettuate dagli F-35 di Amendola sono costate, alle nostre casse pubbliche 180 milioni di euro.
Manlio Dinucci

(Fonte)

Jamal Khashoggi, “un terribile errore”

“Ah sì, eravamo rimasti al 21 Ottobre con l’intervista a Fox News nella quale il ministro degli esteri saudita Adel al-Jubeir affermava che “i Sauditi non sapessero come Khashoggi fosse stato ucciso né tantomeno dove si trovi il corpo” aggiungendo che il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman (MBS) non era al corrente dell’uccisione del giornalista, assassino che che definisce “un terribile errore”.
Dal 21 Ottobre molta acqua è passata sotto i ponti di questa storia che trovo particolarmente significativa – nella sua raccapricciante turpitudine – non solo in quanto mette allo scoperto nefandezze che normalmente vengono accuratamente nascoste dagli Stati ma sopratutto perché indica con chiarezza come gli stessi Stati ormai non si sforzano neppure più di camuffare le proprie scelte spietate e perverse mostrando così il vero volto del potere.
(…) ci sono ancora dei punti da chiarire in questa vicenda.
Prima di tutto il reale motivo di questo assassinio.
In altri termini, come mai un Paese si è assunto il rischio di organizzare un sanguinoso crimine in un proprio consolato in un altro Stato per un semplice giornalista se pur critico del regime?
Ebbene Jamal Khashoggi, secondo fonti a lui vicine, stava indagando sull’uso di armi chimiche da parte dell’Arabia Saudita in Yemen.
Ahi ahi, questa è una tessera fondamentale del nostro puzzle.
Citando un suo amico, il tabloid britannico Sunday Express ha rivelato che Khashoggi stava per ottenere “prove documentali” per dimostrare l’uso di armi chimiche in Yemen.
Ma come, gli USA hanno annientato l’Iraq per il sospetto – rivelatosi poi una montatura – di armi chimiche, hanno sparato varie decine di missili Cruise contro la Siria per lo stesso sospetto – rivelatosi poi una montatura – e ora, se il loro alleato saudita le usa si girano dall’altra parte?
Una lectio magistralis di double standard, o doppia morale.
“L’ho incontrato una settimana prima della sua morte. Era infelice e preoccupato”, ha detto un accademico mediorientale che non desidera essere nominato. “Quando gli ho chiesto perché era preoccupato, non voleva rispondere, ma alla fine mi ha detto che stava ottenendo la prova che l’Arabia Saudita aveva usato armi chimiche”.
Fuocherello, ora iniziamo ad avvicinarci alla verità…
A questo punto c’è un’altra domanda che dobbiamo farci.
Come è possibile che gli USA che spiano ogni sospiro e ogni battito di ciglia di tutti gli abitanti del globo non sapessero nulla del progetto di neutralizzare questo scomodo ficcanaso?
Ma siamo proprio sicuri che non ne sapessero nulla?
Io non ne sarei così certo…
Guarda caso, cercando cercando scopriamo che il 16 Novembre nell’articolo sopra citato del Washington Post emerge che Langley [CIA] era a conoscenza del complotto dell’assassinio ma l’intelligence degli Stati Uniti non ha mosso un dito: “Gli Stati Uniti avevano anche ottenuto l’intelligence prima della morte di Khashoggi che indicava che poteva essere in pericolo. Ma è stato solo dopo la sua scomparsa, il 2 Ottobre, che le agenzie di intelligence degli Stati Uniti hanno iniziato a cercare archivi di comunicazioni intercettate e scoperto materiale che indicava che la famiglia reale saudita stava cercando di attirare Khashoggi a Riyadh.”
Bizzarro no?
Hai visto mai che facesse comodo anche alla CIA fare spezzatino dello sventurato Khashoggi?
Ma c’è ancora dell’altro.
Come ho avuto modo di accennare nel mio precedente articolo, Jamal Khashoggi non era uno stinco di santo ed aveva forti legami con la CIA e con il Deep State; considerando le sue connessioni passate e presenti con la CIA e i legami della sua famiglia con Lockheed Martin e con l’establishment politico statunitense, non è del tutto peregrina l’ipotesi che la scomparsa di Khashoggi sia stata sfruttata dall’alleato a stelle e strisce per fare pressione sul governo saudita in seguito alla decisione di Riyadh di rinunciare al piano di acquisto del sistema THAAD di Lockheed.
Insomma è lecito supporre che l’omicidio di Khashoggi sia stato utilizzato dagli Stati Uniti per ragioni che hanno più a che fare con il complesso militar-industriale statunitense e con ragioni economiche, piuttosto che con la situazione dei diritti umani del Regno.
Sappiamo che c’era una scadenza del 30 Settembre per l’Arabia Saudita che si era impegnata ad acquistare 15 miliardi di dollari di prodotti da Lockheed Martin, principalmente il sistema di difesa aerea THAAD, che faceva parte di un più ampio accordo sulle armi che il presidente Trump ha promosso per oltre un anno – un affare da 110 miliardi di dollari di armi. È noto che Trump ha fatto della vendita di armi la pietra miliare della sua politica estera.
Ma ad un certo punto viene fuori che l’accordo non è ancora stato siglato. Ci sono delle lettere di intenti, certo, lettere di interesse che i Sauditi hanno inviato agli Stati Uniti e ai fabbricanti di armi statunitensi per quanto riguarda gli armamenti che avrebbero pianificato di acquistare in futuro. Tuttavia i Sauditi non hanno realmente ancora dato seguito alle loro precedenti lettere di intenti, in particolare nel caso di questo acquisto previsto di 15 miliardi, anzi, avevano accennato al fatto che avevano in programma di acquistare il sistema S-400 dalla Russia.
Apriti cielo!
Guarda caso tutti i Paesi che hanno in animo di acquistare il sistema antimissile russo più efficace ed economico di quello statunitense sono ora sotto schiaffo da parte dell’amministrazione USA: Turchia, India, Qatar, Cina e, appunto, Arabia Saudita.
Quella scadenza abbiamo visto essere il 30 Settembre, e cioè due giorni prima che Jamal Khashoggi entrasse nel consolato per non uscirne vivo.
Dei tempi piuttosto sospetti, non trovate?
Sarà pure che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca…”

Da Maschera e volto del potere, di Piero Cammerinesi.

A Ghedi 30 caccia F-35 con 60 bombe nucleari

L’aeroporto militare di Ghedi (Brescia) si prepara a divenire una delle principali basi operative dei caccia F-35.

Il ministero della Difesa ha pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il bando di progettazione (importo 2,5 milioni di euro) e costruzione (importo 60,7 milioni di euro) delle nuove infrastrutture per gli F-35: l’edificio a tre piani del comando con le sale operative e i simulatori di volo; l’hangar per la manutenzione dei caccia, 3460 metri quadri con un carroponte da 5 tonnellate, più altre strutture da 2800 m2; un magazzino da 1100 m2, con annesse una palazzina di due piani per uffici e la centrale tecnologica con cabina elettrica e vasche antincendio; 15 hangaretti da 440 m2 in cui saranno dislocati i caccia pronti al decollo.
Poiché ciascun hangaretto ne potrà ospitare due, la capienza complessiva sarà di 30 F-35.
Tutti gli edifici saranno concentrati in un’unica area recintata e videosorvegliata, separata dal resto dell’aeroporto: una base all’interno della base, il cui accesso sarà vietato allo stesso personale militare dell’aeroporto salvo che agli addetti ai nuovi caccia.
Il perché è chiaro: accanto agli F-35A a decollo e atterraggio convenzionali – di cui l’Italia acquista 60 esemplari insieme a 30 F-35B a decollo corto e atterraggio verticale – saranno dislocate a Ghedi le nuove bombe nucleari statunitensi B61-12.
Come le attuali B-61, possono essere anch’esse sganciate dai Tornado PA-200 del 6° Stormo ma, per guidarle con precisione sull’obiettivo e sfruttarne le capacità anti-bunker, occorrono i caccia F-35A dotati di speciali sistemi digitali.
Poiché ciascun caccia può trasportare nella stiva interna 2 bombe nucleari, possono essere dislocate a Ghedi 60 B61-12, il triplo delle attuali B-61.
Come le precedenti, le B61-12 saranno controllate dalla speciale unità statunitense (704th Munitions Support Squadron della U.S. Air Force), «responsabile del ricevimento, stoccaggio e mantenimento delle armi della riserva bellica USA destinate al 6° Stormo NATO dell’Aeronautica italiana».
La stessa unità dell’Aeronautica USA ha il compito di «sostenere direttamente la missione di attacco» del 6° Stormo. Piloti italiani vengono già addestrati, nelle basi aeree di Eglin in Florida e Luke in Arizona, all’uso degli F-35 anche per missioni di attacco nucleare.
Caccia dello stesso tipo, armati o comunque armabili con le B61-12, saranno schierati nella base di Amendola (Foggia), dove un anno fa è arrivato il primo F-35, e in altre basi. Vi saranno, oltre a questi, gli F-35 della U.S. Air Force schierati ad Aviano con le B61-12.
Su questo sfondo richiedere, come ha fatto alla Camera il Movimento 5 Stelle, che l’Italia dichiari la sua «indisponibilità ad acquisire le componenti necessarie per rendere gli F-35 idonei al trasporto di armi nucleari», equivale a richiedere che l’esercito sia dotato di carrarmati senza cannone.
Il nuovo caccia F-35 e la nuova bomba nucleare B61-12 costituiscono un sistema d’arma integrato.
La partecipazione al programma dell’F-35 rafforza l’ancoraggio dell’Italia agli Stati Uniti. L’industria bellica italiana, capeggiata dalla Leonardo che gestisce l’impianto di assemblaggio degli F-35 a Cameri (Novara), viene ancor più integrata nel gigantesco complesso militare-industriale USA capeggiato dalla Lockheed Martin, la maggiore industria bellica del mondo (con 16.000 fornitori negli USA e 1.500 in 65 altri Paesi), costruttrice dell’F-35.
Lo schieramento sul nostro territorio di F-35 armati di bombe nucleari B61-12 subordina ancor più l’Italia alla catena di comando del Pentagono, privando il Parlamento di qualsiasi reale potere decisionale.
Manlio Dinucci

Fonte

Relazione speciale sulla partecipazione italiana al Programma Joint Strike Fighter F-35 Lightning II

Dedicata a chi, nell’ormai lontano 2008, prometteva ritorni occupazionali nell’ordine di 10.000 posti di lavoro…

“L’Italia ha partecipato al programma fin dalle origini, nel perseguimento di obiettivi strategici (rimpiazzo di parte della propria flotta; mantenimento della sovranità nazionale) e economici (previsione di ritorni industriali, occupazionali e tecnologici).
Quanto agli obiettivi strategici, la Corte non entra nel merito della scelta dell’acquisizione, che ha natura politica, ed è quindi sottratta alle valutazioni dell’organo di controllo. Neppure ritiene possibile accertare, ora per allora, se l’ingresso nel programma come Partner di 2° livello fosse opportuno, all’epoca in cui la decisione fu presa. Si propone invece di fornire elementi di analisi alla riflessione, in corso al momento attuale, circa la prosecuzione o l’ulteriore ridimensionamento della partecipazione italiana al programma, opzione, quest’ultima, che rimetterebbe ad altre soluzioni il soddisfacimento dei requisiti operativi delle forze armate. Le considerazioni che seguono sono svolte pertanto con riferimento all’attualità, tenuto conto della circostanza che il programma è giunto a uno stadio ormai avanzato di svolgimento e che non sono prevedibili nel medio-lungo termine alternative comparabili.
La costruzione di un sistema d’arma aeronautico di ultima generazione è certamente una sfida impegnativa in termini di costi e di tempo. Il velivolo si vuole dotato delle più avanzate tecnologie, tanto estreme quanto immature.
Di fatto, le molteplici problematiche tecniche riscontrate negli anni (e ancora non tutte risolte) hanno portato con sé ritardi nella consegna delle capacità operative di cui era previsto il rilascio al termine della fase di sviluppo, e notevoli aumenti del costo finale di acquisizione a carico dei Partner. La mancanza di una configurazione stabile e la sovrapposizione di fasi (con la produzione iniziata prima che fossero completati i test dello sviluppo) sono fra i principali fattori responsabili dell’incremento dei costi e del mancato rispetto della tabella temporale.
Il programma è oggi in ritardo di almeno cinque anni rispetto al requisito iniziale. Se è vero che lo sviluppo si avvicina al completamento, il passaggio ai lotti di produzione piena è stato rinviato più volte (i lotti di produzione ridotta, inizialmente previsti in numero di 12, sono ormai 14 e si protrarranno fino al 2021), e per riconoscere la piena capacità di combattimento sarà necessario attendere il termine della fase detta di “ammodernamento successivo”, previsto per il 2021.
I costi unitari sono praticamente raddoppiati, e solo negli ultimi anni si sono manifestati segnali di miglioramento, in termini di maggiore efficienza produttiva e della catena di approvvigionamento da parte dei sub-fornitori. Nel frattempo, gli stessi Stati Uniti e alcuni dei Paesi partner sono stati indotti a ripensare la propria partecipazione al programma nel senso di una riduzione o di un rallentamento del profilo di acquisizione.
Per l’Italia, sono intervenute due decisioni: la prima (nel 2012) ha ridotto da 131 a 90 il numero di velivoli da acquisire; la seconda (nel 2016) ha impegnato il governo, per aderire alle indicazioni parlamentari, a dimezzare il budget dell’F-35, originariamente previsto in 18,3 miliardi di dollari (a condizioni economiche 2008).
La prima decisione ha avuto un costo per la base industriale: la perdita, in quota percentuale, delle opportunità di costruire i cassoni alari a Cameri, che presupponeva il mantenimento del volume di acquisti oltre il numero di 100 velivoli.
La seconda ha per ora prodotto solo un rallentamento del profilo di acquisizione fino al 2021, con un risparmio temporaneo pari a 1,2 miliardi di euro nel quinquennio 2015-2019, ma senza effetti di risparmio nel lungo periodo. Il rallentamento generale subito dal programma ha evitato che questa decisione, presa sul piano nazionale, assumesse un carattere traumatico. Occorrerà tuttavia chiarirne la compatibilità non solo formale con le indicazioni parlamentari, in funzione delle effettive esigenze operative della difesa e al di là dell’arco temporale in cui l’amministrazione ha pianificato l’attuale intervento riduttivo.
Il programma JSF-35 è stato ritenuto cruciale anche per le possibilità di partecipazione aperte alla base industriale nazionale, che detiene una capacità competitiva a livello mondiale nel settore aerospaziale, nonché per il mantenimento e lo sviluppo delle conoscenze tecniche e del livello di esperienza delle maestranze in un settore altamente “knowledge-intensive”.
Dal punto di vista occupazionale, si è ritenuto che il programma avrebbe consentito al comparto dell’industria aeronautica nazionale di continuare ad operare senza soluzione di continuità, una volta venute meno le esigenze di supporto delle attuali flotte aero-tattiche (Tornado, AMX e AV-8B) e i volumi produttivi dell’EF-2000, i cui pacchetti di lavoro industriale sono ormai in declino.
Anche per effetto del rallentamento generale del programma (che ha raggiunto per ora solo il 10% della produzione totale), quanto fin qui conseguito sul piano economico è solo in parte coerente con le aspettative e gli obiettivi enunciati dal Ministero della Difesa in termini di coinvolgimento dell’industria aeronautica nazionale al momento dell’approvazione parlamentare del 2009.
Sul piano industriale, pur segnalandosi positivi risultati, la dimensione quantitativa (opportunità effettivamente contrattualizzate) e qualitativa (contenuti tecnologici e capacitivi) del contributo fornito dalla base industriale nazionale non ha per ora raggiunto le dimensioni attese. La partecipazione dell’industria nazionale, soddisfacente nel settore velivolistico, è meno estesa, invece, nell’ambito del motore e nell’area “nobile” dell’avionica.
La maggiore distanza rispetto alle attese riguarda però le prospettive occupazionali, che non si sono ancora concretizzate nella misura (forse troppo ottimistica) sperata: si parla per il momento di circa 1.600 unità effettivamente impiegate, a fronte di una “forchetta previsionale” annunciata tra 3.586 e 6.395 unità.
Anche il ruolo della base di Cameri è lontano dalle attese iniziali. La capacità FACO risulta per il momento sovradimensionata, esercitandosi soltanto sui velivoli italiani e, a partire dal 2018, su quelli olandesi (entrambi numericamente ridotti rispetto alle originarie previsioni), mentre nessun altro Partner ha mostrato interesse a utilizzare la base come sito di assemblaggio per i propri velivoli.”

Dalla deliberazione n. 15 del 3 agosto 2017 della Corte dei conti – Sezione di controllo per gli Affari comunitari e internazionali, composta dai magistrati dott. Ermanno Granelli, dott. Giovanni Coppola, dott.ssa Maria Annunziata Rucireta, dott. Giacinto Dammicco e dott. Carlo Mancinelli (il grassetto è nostro).

F-35: è il momento di uscirne

FELLINI AIR FORCE“Se l’F-35 diverrà davvero operativo e manterrà le promesse circa caratteristiche e prestazioni, le capacità di cui tanto si parla saranno quelle di mettere le nostre forze armate per i prossini 50 anni in condizione di totale sudditanza e dipendenza dagli Stati Uniti. Una superpotenza che mai come oggi opera su scala globale contro gli interessi dell’Italia e dell’Europa come è apparso chiaro negli ultimi anni a chiunque non sia cieco o in mala fede guardando al ruolo di Washington dalla Libia alla Siria, dall’Ucraina all’Iraq.
Se all’acquisizione degli F-35 aggiungiamo poi la volontà della Marina di equipaggiare i nuovi “pattugliatori d’altura” (ma non sarebbe meglio chiamarli con il più realistico anche se meno “dual use” termine di cacciatorpediniere?) con il sistema antimissile americano Aegis (radar SPY-1 e missili Standard) il tentativo di far diventare le nostre forze armate una succursale di quelle statunitensi è evidente. Ovviamente i costi li paghiamo noi mentre gli americani incasseranno le commesse di prodotti “made in USA” e risparmieranno in termini di dispiegamento di forze oltremare. Come abbiamo più volte ribadito gli interessi italiani, strategici e industriali, si tutelano completando la commessa degli Eurofighter Typhoon che sono perfettamente in grado di compiere operazioni di attacco come ben sanno tutte le aeronautiche che lo impiegano tranne la nostra, che finge di non saperlo e dice di considerarlo solo un caccia ma poi gli imbarcherà sopra il missile da crociera Storm Shadow, arma strategica per l’attacco a lungo raggio contro obiettivi terrestri che non entra nella stiva dell’F-35 progettata (ma guarda un po’) per imbarcare solo armi americane.
(…)
Restando in Italia basta invece dare un’occhiata al bilancio della Difesa dei prossimi anni per rendersi conto che l’F-35 non possiamo permettercelo.
A Roma si riempiono la bocca con le “Linee guida” del Libro Bianco ma è tutto fumo perché non ci sono e non ci saranno risorse per mantenere l’attuale struttura militare già alla paralisi, figuriamoci se potremmo permetterci qualcosa di meglio o forze aeree basate su due macchine da combattimento costose come il Typhoon e l’F-35. Basta leggere la tabella riportata nel Documento Programmatico Pluriennale del Ministero della Difesa (che sarà oggetto di un prossimo approfondimento) per rendersi conto che nei prossimi anni i fondi per la Funzione Difesa scenderanno sotto i 14 miliardi annui.
La percentuale del PIL dedicata alla Difesa calerà dall’attuale 0,87 allo 0,80 nel 2016 e ben difficilmente il governo Renzi dedicherà la necessaria attenzione alle forze armate, forse considerate utili per i buonismi da Mare Nostrum ma non percepite come strumento per la tutela degli interessi nazionali dall’approccio da boy-scout che caratterizza l’attuale esecutivo.
Ricordate le tante belle chiacchiere sulla riforma Di Paola e i “miracoli” derivanti dalla riduzione del personale da 183 mila a 150 mila effettivi? Un’iniziativa definita necessaria a liberare risorse per Esercizio e Investimenti migliorando l’efficienza delle forze armate.
Ebbene, le spese per il Personale aumenteranno da 9,55 miliardi di quest’anno a 9,78 negli anni 2015 e 2016 raggiungendo il 70 per cento dello stanziamento per la Funzione Difesa. Se poi si tiene conto che l’aumento di questa voce di spesa risulta contenuto dal pagamento con ritardi biblici di ogni forma di straodinario e indennità d’impiego e soprattutto dal blocco degli stipendi dei militari e di quasi tutti i pubblici dipendenti in atto ormai da quattro anni appare chiaro come ogni ipotesi di riformare lo strumento militare con le risorse oggi disponibili risulti del tutto inattendibile.
Dovremmo rassegnarci all’idea che la Difesa si inginocchi agli ordini del Pentagono, compri 90 (o 65) F-35 ma continui a non adeguare gli stipendi dei militari e a ritardare all’infinito il pagamento di indennità e straordinari?
(…)
Forze armate che hanno budget tripli ai nostri, come quelle di Germania e Francia, configurano le flotte di aerei da combattimento su un solo velivolo (Typhoon e Rafale) e noi italiani vogliamo averne due? Come Analisi Difesa ha più volte ribadito se anche riuscissimo a comprare un numero deguato di F-35 non avremo i soldi per fare il pieno di carburante e per la manutenzione che sarà molto più costosa di quanto previsto inizialmente. Il governo spagnolo ha appena respinto con realismo l’ipotesi di acquistare una ventina di F-35B per rimpiazzare gli Harrier imbarcati che verranno aggiornati per prolungarne la vita utile. Una strada che dovrebbe forse percorrere anche la nostra Marina per gestire meglio le magre risorse e perché l’AV-8B ammodernato sarà ancora a lungo sufficiente a colpire con efficacia ogni nostro potenziale nemico.
Il Programma F-35 non è quindi un buon affare per noi sotto nessun punto di vista: azzera la sovranità nazionale, pone la nostra industria alle dipendenze di Lockheed Martin e azzoppa definitivamente le forze aeree con un velivolo che non riusciremo a gestire. Sul piano dei ritorni industriali la situazione non è migliore: produrremo poche ali (l’unico contratto firmato finora da Alenia Aermacchi riguarda una ventina di ali per 140 milioni di dollari contro le 1.200 ali promesse) e qualche “bullone” realizzato da una quarantina di piccole e medie imprese. Nulla di sofisticato e non avremo ritorni nel campo del know-how dal momento che le tecnologie avanzate del velivolo verranno trattare solo da personale statunitense in aree “US Only” (ma pagate dai contribuenti italiani) dello stabilimento di Cameri. Persino il numero di aerei che verranno assemblati alla FACO è talmente ridotto da rendere lo stabilimento improduttivo: l’Italia scenderà da 131 esemplari a 90 o ancor meno e l’Olanda è già scesa da 85 a 37 la cui manutenzione verrà forse effettuata in Gran Bretagna.
(…)
Rivendiamo agli Stati Uniti o ad altri Paesi gli aerei già acquisiti, trattiamo con Lockheed Martin la vendita o l’affitto della FACO per la manutenzione dei jet delle forze americane in Europa o di altri Paesi alleati. Anche indennizzando le piccole e medie imprese italiane già coinvolte nel programma e completando la commessa del Typhoon ad Alenia Aermacchi otterremmo un forte risparmio, guadagneremmo in autonomia strategica e industriale e potremmo rilanciare quella cooperazione europea di cui da anni tutti i politici vanno blaterando. E poi, quale migliore occasione del semestre di presidenza dell’Unione Europea per annunciare l’uscita dell’Italia dal programma americano più costoso e (per ora) fallimentare della storia?”

Da Limitiamo i danni e rinunciamo ora all’F-35, di Gianandrea Gaiani.

Il Movimento 5 Stelle contro l’F-35

“Il 30 Maggio 2013 abbiamo presentato una mozione che impegni il governo a non acquistare i 90 cacciabombardieri che costerebbero ai cittadini italiani 12,9 miliardi di euro (costo destinato a salire). La suddetta mozione è stata sottoscritta dai 109 deputati del M5S, da SEL e da soli 13 parlamentari del pdmenoelle. Inizialmente gli “onorevoli” del pdmenoelle erano favorevoli alla mozione ma una volta firmato l’inciucio con il pdl molti hanno cambiato idea, alcuni hanno addirittura ritirato la firma già depositata e nessuno di loro si è presentato in conferenza stampa.”

Guardare al futuro con ottimismo

f-35 per la pace

“Nel quadro del rilancio dell’economia attraverso l’attività dell’industria nazionale della Difesa si inseriscono i programmi di sviluppo e acquisizione dei nuovi sistemi come il velivolo multiruolo F-35. Gli accordi recentemente siglati per assicurare all’industria nazionale il giusto ritorno a fronte degli investimenti sostenuti e l’avvio della più consistente fase di produzione, a conclusione di quella di sviluppo, consentiranno ad importanti aziende nazionali come Alenia Aermacchi – che gestisce lo stabilimento di assemblaggio finale e collaudo (FACO) situato a Cameri – e alle decine di aziende e PMI coinvolte, di guardare al futuro con ottimismo e di massimizzare il ritorno degli investimenti già effettuati. Di rilievo, a questo riguardo, il contratto appena siglato tra Alenia Aermacchi e Lockheed Martin, del valore di 141 milioni di dollari, per la produzione della prima ala completa e per alcune componenti dell’F-35.”

Fonte
[Il conato è libero]

Tutte le limitazioni dell’F-35

no-f-35
“Oltre a quella fra sviluppo e produzione in serie, che ne ha complicato oltremodo lo svolgimento, il programma F-35 comincia a soffrire anche di una “concurrency” tra sviluppo e addestramento. Si tratta della sovrapposizione temporale fra la fase di sperimentazione e verifica del nuovo velivolo da combattimento e delle sue reali capacità, irta di ostacoli e comunque ancora lontana dalla conclusione, e quella della formazione di piloti e specialisti, partita a gennaio dopo un laborioso “rodaggio” di oltre due anni sulla Eglin Air Force Base, dove l’Integrated Training Center (ITC) prevede di brevettarne rispettivamente 72 e 711 entro dicembre. A confermare il problema è un nuovo rapporto inviato il 15 febbraio al Congresso e alle forze armate da Michael Gilmore, responsabile dell’Operational Test and Evaluation del Pentagono, lo stesso che all’inizio dell’anno aveva denunciato una serie di preoccupanti malfunzionamenti del nuovo aereo d’attacco di Lockheed Martin. Esaminata la valutazione del “sistema” velivolo/apparato logistico fatta in autunno dall’Air Force in preparazione all’addestramento, l’OTE è giunto alla conclusione che a causa della generale immaturità di quel sistema, “le restrizioni nelle operazioni di volo a questo stadio dello sviluppo, limitano in maniera sostanziale l’utilità dell’addestramento”.
(…)
Dal canto suo il direttore dell’OTE nel rapporto ha dettagliato tutte le limitazioni cui gli allievi piloti di F-35 (per ora tutti provenienti dalle linee operative, prima che nel 2014 l’ITC possa iniziare l’addestramento di piloti “inexperienced”) dovranno sottostare nell’effettuare il passaggio sul nuovo caccia. L’elenco, abbastanza impressionante, dà una prima conferma del fatto che a causa di questa “doppia concurrency”, anche la fase di training del programma Joint Strike Fighter sarà particolarmente travagliata, quantomeno nei tempi e nelle modalità.
Ma ecco tutte le “proibizioni” alle quali sono sottoposte le operazioni di volo a Eglin:
1) Effettuare sotto i 20.000 piedi (6.000 metri) discese a ratei maggiori di 6.000 piedi al minuto (30,48 metri a secondo), in attesa che venga riprogettato il sistema di gestione dei gas residui nei serbatoi.
2) Volare a più di Mach 0.9 (l’F-35 può arrivare a 1.6).
3) Assumere angoli d’attacco non superiori a -5/+18 gradi (il limite massimo è +50, valore al quale peraltro la perdita di energia dell’F-35 è recuperabile solo in tempi lunghi).
4) Manovrare a non più di -1/+5 g (il limite di progetto è 9 g).
5) Decollare e atterrare in formazione.
6) Volare di notte o con cattivo tempo.
7) Impiegare armamento reale o simulato.
8) Imprimere impulsi rapidi alla cloche e alla pedaliera;
9) Manovrare per l’ingaggio di bersagli sia nell’aria-aria che nell’aria-suolo.
10) Rifornirsi in volo.
11) Volare entro 25 miglia nautiche di distanza dai fulmini.
12) Usare le contromisure elettroniche.
13) Aprire i portelloni dei vani bombe in volo.
14) Usare sistemi di anti-jamming, secure communications o data-link.
15) Usare l’apparato di puntamento elettro-ottico.
16) Usare il sistema di scoperta dei bersagli EO-DAS.
17) Usare il sistema IFF (identificazione amico-nemico).
18) Usare l’Helmet Mounted Display come sistema primario di condotta del velivolo.
19) Usare i “mode” aria-aria e aria-suolo del radar per l’attacco elettronico, la ricerca di bersagli in mare, di bersagli mobili sul terreno e il combattimento aria-aria ravvicinato.
(…)”

Da F-35: per il Pentagono è inutile addestrare oggi i piloti, di Silvio Lora Lamia.

[Dello stesso autore: I conti “impazziti” del Joint Strike Fighter]

La guerra ambientale è in atto

Dalle mistificazioni scientifiche del Global Warming alle manipolazioni globali della Geoingegneria.
Gli interventi del convegno svoltosi a Firenze lo scorso 27 Ottobre 2012.
Fonte

Enzo Pennetta
Controllo demografico e riscaldamento globale: interessi e obiettivi di una teoria controversa

Antonio Mazzeo
Governare le guerre climatiche e nucleari attraverso comandi satellitari e telematici del MUOS

Fabio Mini
I futuri multipli: quale guerra prepariamo? Guerre ambientali e nuovi scenari geopolitici

L’ipocrisia della “guerra umanitaria”

Altamente raccomandabile.

F-35, una faccenda davvero spinosa

“La storia dei costi sta diventando scabrosa anche per altre ragioni: le cifre ballerine e rassicuranti fornite dalle fonti ufficiali sembrano strumentali all’idea che l’Italia debba partecipare ad ogni costo al progetto.
(…)
Tutti i dati ufficiali forniti finora sembrano elaborati a spanne, ma con un sistema di calcolo legato con un filo rosso: la volontà di sottostimare il peso finanziario dell’operazione.
(…)
Sulla base dei dati di provenienza internazionale i comitati no F35 hanno calcolato un costo vivo e medio per velivolo di 115 milioni di euro, senza contare le spese di manutenzione e la spesa per ogni ora di volo, aumentata del 250 per cento in un decennio. Calcolando anche queste voci il Parliamentary Bugdet Officer del Canada ha stimato che ogni F35 possa costare in media circa 350 milioni di euro dal momento dell’acquisto fino alla rottamazione.”

Da “Quegli aerei costano il doppio”. I comitati “No F-35” alla Camera, di Daniele Martini.

Guerre USA 2013

E l’Italia segue al traino…

“Sacrifici e tagli per tutti ma non per i mercanti di morte. L’amministrazione Obama ha presentato al Congresso la proposta di bilancio 2013 per il comparto “difesa”: 613 miliardi di dollari, 525 per pagare stipendi e acquistare cacciabombardieri, missili, carri armati e bombe nucleari e 88 per le missioni di guerra d’oltremare. Meno di quanto chiedevano generali e ammiragli ma alla fine tutti sono rimasti contenti: la Marina confermerà i suoi undici gruppi navali guidati da portaerei a propulsione atomica, l’Aeronautica e i Marines avranno i nuovi caccia ed elicotteri multi-missione, l’Esercito si diletterà con superblindati, tank, radar e intercettori terra-aria. Grazie agli ordini Pentagono potranno brindare le borse e le aziende leader del complesso militare industriale Usa, le inossidabili Boeing, General Dynamics, Lockheed Martin, Northrop Grumman, Raytheon, ecc..
Quasi un terzo delle spese andranno per l’acquisto e la modernizzazione dei sistemi di guerra più sofisticati, aerei con e senza pilota, navi e sottomarini d’attacco, missili a medio e lungo raggio, satelliti. Esattamente 179 milioni di dollari, il 7% in meno del bilancio di previsione 2012, ma con quasi 70 milioni da destinare alla ricerca e allo sviluppo di nuovi strumenti di morte. A fare la parte del leone saranno i famigerati cacciabombardieri F-35 “Joint Strike Fighters” di Lockheed Martin che piacciono tanto pure ai ministri-ammiragli di casa nostra. Il prossimo anno, il Dipartimento della difesa vorrebbe acquistarne 29, 19 da destinare a US Air Force e 10 a US Navy, per un valore complessivo di 9,2 miliardi di dollari. Il programma degli F-35 sarà comunque ridimensionato per poter risparmiare nei prossimi cinque anni almeno 15 miliardi.”

Barack Obama al supermarket delle armi 2013, di Antonio Mazzeo continua qui.

25 Febbraio: cento piazze d’Italia contro i caccia F-35

Il progetto parte nel 2007. A firmare l’accordo per la partecipazione alla seconda fase del programma dei Joint Strike Fighter F-35, l’allora sottosegretario Forcieri.
Come recentemente è stato dimostrato, nessuna penale da pagare prima della firma di un nuovo contratto: qualcosa che non è mai avvenuto e che ci permetterebbe ancora un dietro-front.
In un momento di grave crisi per tutto il Paese troviamo fuori luogo che il Ministro-Ammiraglio Di Paola nei suoi monologhi televisivi continui imperterrito a difendere l’F-35, promettendo al massimo qualche sforbiciata.
Nel frattempo taglia 3.000 posti di lavoro di personale civile nel suo dicastero.
Parlare di un programma di elevato valore operativo, tecnologico e industriale vuol dire non tenere in considerazione i rilievi negativi dello stesso Pentagono ed i ripensamenti di molti Paesi partner nel progetto.
Sono diverse le denunce per il continuo lievitare dei costi a causa dei tempi di sviluppo e produzione che si allungano per mettere mano ai forti deficit qualitativi dell’aereo.
Chi oggi dovesse firmare il contratto per l’acquisto dell’F-35 si assume la responsabilità di gettare al vento ingenti somme di denaro pubblico.
Sono previste giornate mobilitazione a sostegno della campagna che culmineranno il 25 febbraio, scelta come giornata delle “100 piazze d’Italia contro i caccia F-35”.
Il primo obiettivo di questa nuova mobilitazione è spingere il Parlamento e ogni singolo parlamentare a discutere in modo aperto e trasparente sugli F-35.
Il Parlamento deve impedire innanzitutto che si crei il fatto compiuto.
L’Italia non può permettersi oggi di impegnare ulteriori 15 miliardi di euro, oltre ai quasi 3 già spesi, per l’acquisto e il mantenimento di questi bombardieri, senza che ci sia un chiaro e onesto dibattito pubblico sulle esigenze e le priorità a cui dobbiamo rispondere.
USB lancia la campagna di adesione con momenti di informazione e raccolta firme, cercando anche di coinvolgere gli Enti Locali in una mozione di sostegno alla mobilitazione.

Fonte: difesa.usb.it
[link nostri]

Carceri-fabbriche negli USA

I prigionieri delle carceri federali che guadagnano ventitre centesimi di dollaro l’ora stanno producendo componenti high-tech per missili Patriot a lunga gittata, rampe di lancio per i missili anti-carro TOW (Tube-launched, Optically tracked, Wire-guided) e altri sistemi missilistici. Un articolo, pubblicato lo scorso marzo dal giornalista e ricercatore finanziario Justin Rohrlich di World in Reviews, merita una lettura attenta per capire tutte le implicazioni di questo inquietante sviluppo (minyanville.com)
La diffusione dell’utilizzo di carceri-fabbriche, che pagano salari da schiavi, per incrementare i profitti dei giganti corporativi militari, è un attacco frontale ai diritti di tutti i lavoratori.
Il lavoro carcerario, senza garanzie sindacali, straordinari, vacanze, pensioni, benefit, garanzie sulla salute e sicurezza o la Social Security, fabbrica anche componenti per i caccia bombardieri F-15 della McDonnell Douglas/Boeing, per gli F-16 della General Dynamics/Lockheed Martin e per gli elicotteri Cobra della Bell/Textron. Il lavoro carcerario produce occhiali per la vista notturna, giubbotti antiproiettile, mimetiche, strumenti radio e di comunicazione, sistemi d’illuminazione, componenti per i cannoni antiaerei da 30 mm a 300 mm insieme a spazza-mine e materiale elettro-ottico per tracciatori laser della BAE Systems Bradley Fighting Vehicle. I prigionieri riciclano il materiale elettronico tossico e revisionano i mezzi militari.
Il lavoro nelle prigioni federali è appaltato alla UNICOR, già conosciuta in precedenza come Federal Prison Industries, una corporazione in parte pubblica e a fine di lucro diretta dal Bureau of Prisons. In quattordici fabbriche carcerarie, più di tremila prigionieri producono materiale elettronico per la comunicazione terrestre, marina e aerea. L’UNICOR ora è il trentanovesimo assegnatario più grande del governo, con 110 fabbriche in 79 istituti penitenziari.
(…)
Le maggiori compagnie che traggono profitto dal lavoro carcerario comprendono Motorola, Compaq, Honeywell, Microsoft, Boeing, Revlon, Chevron, TWA, Victoria’s Secret ed Eddie Bauer.
IBM, Texas Instruments e Dell si fanno costruire i pannelli elettrici dai prigionieri del Texas. I reclusi del Tennessee hanno cucito jeans per Ksmart e JCPenney. Decine di migliaia di giovani che distribuiscono hamburger per un salario minimo da McDonald’s vestono uniformi cucite da lavoratori carcerati, che sono costretti a lavorare per molto meno.
In California, come in molti Stati, i prigionieri che si rifiutano di lavorare vengono spostati negli istituti disciplinari, perdono il diritto alla mensa e i crediti per rientrare nel programma di benefici per buona condotta, il “Good Time”, che allevia le loro sentenze.
Gli abusi sistematici, i pestaggi, l’isolamento prolungato e la deprivazione sensoriale, la mancanza di cure mediche rendono quelle americane tra le peggiori prigioni al mondo. Ironicamente, lavorare a condizioni estenuanti per qualche centesimo l’ora è considerato come una sorta di “premio” per buona condotta.
(…)
Nella spietata ricerca di massimizzare i profitti e di accaparrarsi ogni possibile fonte di guadagno, quasi ogni agenzia pubblica e di servizio sociale è stata esternalizzata a contractors privati in cerca di profitti.
(…)
La creazione di centinaia di carceri a scopo di lucro è tra le più raccapriccianti privatizzazioni.
La popolazione internata in queste prigioni private a scopo di lucro è triplicata nel periodo compreso tra il 1987 e il 2007. Nel 2007 c’erano 264 prigioni di questo tipo che avevano in custodia circa 99.000 prigionieri adulti (house.leg.state.mn.us, 24 febbraio 2009). Tra le aziende che operano in questi luoghi ci sono la Corrections Corporation of America, il GEO Group Inc. e il Community Education Centers.
I titoli obbligazionari delle prigioni garantiscono un profitto per gli investitori capitalisti come Merrill-Lynch, Shearson Lehman, American Express e Allstate. I prigionieri vengono barattati e spostati da uno Stato all’altro a seconda della convenienza degli accordi commerciali.
(…)

Da Il Pentagono e il lavoro schiavistico nelle carceri USA, di Sara Flounders.

Nel mirino di Washington

Di Maurice Lemoine, da Le Monde Diplomatique Brasil, anno 3 numero 31 Febbraio 2010, pp. 6-7.

Tendenza del dopo-Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono passati da una strategia di contenimento del rivale sovietico alla ricerca dell’egemonia planetaria. Le nuove tecnologie militari non esigono più basi gigantesche, ma una densa rete di punti di appoggio previamente posizionati. Ed è qui che entrano in gioco i colombiani

“I problemi della Colombia si estendono ben oltre le sue frontiere e hanno implicazioni per la sicurezza e la stabilità regionali”, dichiarò, nell’Agosto 1999, l’allora Segretario di Stato USA Madeleine Albright. Il 13 Luglio dell’anno seguente, il presidente Bill Clinton ed il suo collega colombiano Andrés Pastrana si accordarono per firmare il Piano Colombia, destinato a farla finita con il narcotraffico e le guerriglie. Senza molta partecipazione, il Congresso Nazionale di Bogotà ebbe diritto soltanto a consultarne un testo parziale ed in inglese!
Un decennio più tardi, la Colombia ha già ricevuto più di 5 miliardi di dollari di aiuto statunitense, essenzialmente di carattere militare. E, dall’arrivo al potere di Alvaro Uribe, nel 2002, già molto sangue è scorso sotto i ponti. Il presidente promise una “vittoria rapida” sui ribelli dell’Esercito di Liberazione Nazionale
(ELN) e principalmente sulle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC). Ed a credere ai bilanci divulgati dall’Esercito Colombiano, il presidente ha vinto ampiamente. A titolo di esempio, nel 2007 egli affermava di aver catturato più di 6.500 guerriglieri e di averne uccisi più di tremila ? cifre che, anno dopo anno, continuano similmente. Oltre a ciò, diceva che il programma di smobilitazione, tra il 2002 e Maggio 2008, abbia colpito circa 15mila persone, tra cui 9mila membri delle FARC. Dunque: sapendo che le FARC sono state sempre stimate in 15mila combattenti, secondo la contabilità di Uribe, esse avrebbero dovuto necessariamente sparire dalla circolazione! O no? Continua a leggere

Finmeccanica, un’industria in ostaggio

Prima che Bush uscisse di scena, nel Novembre del 2009 durante un ricevimento alla Casa Bianca, Berlusconi apprestandosi a leggere il discorso in cui avrebbe rinnovato la fedeltà, la stima e la profonda amicizia che lo legava al Presidente, alla sua famiglia ed agli Stati Uniti, avvicinandosi al leggìo preparato per gli ospiti incespicò nel filo del microfono, trascinandosi dietro mobile ed appunti. Il patatrac sollevò tra i tavoli dei presenti un lungo “uuhhh” di stupore.
L’imbarazzo che colpì il Presidente del Consiglio mentre riacquistava l’equilibrio sulle gambe e tentava di dare ordine ai fogli volati via, raccogliendoli da terra, non poteva non dare un tocco di comicità al ruzzolone. Ma il peggio arrivò nei secondi successivi.
Berlusconi, per rimediare alla gaffe, non trovò di meglio che sfoderare un sorriso a 36 denti rivolgendo ai commensali la seguente battuta: “Vedete – disse – queste sono cose che succedono per il troppo amore che mi lega a voi e alla vostra grande Nazione”. Ciò che uscì in quel frangente dalla bocca di Berlusconi fu un mix di manifesta condivisione del “way of life” USA e di stomachevole, interessata ruffianeria. La frase, accompagnata da un largo gesto benedicente delle braccia, venne accolta da un battimani molto composto, quasi di semplice cortesia, dall’establishment di Washington mentre Bush continuava a ridersela sotto i baffi.
Appena trenta giorni prima, l’Amministrazione USA gli aveva fatto sapere che la commessa AW-101 di Agusta Westland, consociata controllata al 100% da Finmeccanica, era stata semplicemente tagliata fuori dalle forniture del Pentagono. La firma definitiva sulla cancellazione la metterà il Presidente Obama.
Era andata in fumo per l’Italia la vendita oltreoceano di 23 elicotteri da trasporto del valore, nel 2005, di 6.5 miliardi di dollari.
La disdetta (ufficiosa) era stata anticipata a Palazzo Chigi con un fax partito da Via Vittorio Veneto, con la motivazione che il costo finale stimato (!) della commessa avrebbe superato i 13 miliardi di dollari e… in previsione di una riduzione di spese… bla bla bla.
Il “regalino” portava la firma dell’ambasciatore statunitense in Italia Ronald Spogli, prima che gli subentrasse David Thorne.
Non si scomodarono per dargliene notizia né il Segretario di Stato C. Rice, né quello alla Difesa R. Gates. Il disappunto del Presidente del Consiglio, se c’era stato, svanì alla svelta. Continua a leggere

L’F-35 va alla deriva

Ad Aprile 2009, titolando “L’F-35 è “invisibile”? No, è un bel bidone!“, demmo un conto, molto sommario, delle motivazioni tecniche che avrebbero impedito al cacciabombardiere Joint Strike Fighter Lightning II della Lockheed Martin, propagandato come “stealth“, di diventare un vettore con una penetrazione di mercato in linea con quella ottenuta dal suo diretto predecessore: l’F-16 Fighting Falcon della General Dynamics. Entrato in servizio nell’Agosto del 1978 con l’US Air Force e successivamente adottato da 26 Paesi con un numero di esemplari prodotto in numero superiore a 4.500 unità in dieci versioni successive, si distinguerà per longevità operativa, flessibilità di impiego ed efficienza bellica.
L’ultimo lotto di cento F-16I è stato consegnato ad “Israele“ che riceve a titolo gratuito, come si sa, annualmente 2.850 milioni di dollari di materiale militare USA.
Con “residuati accantonati“ Washington sta inoltre cedendo al Pakistan con eguali modalità 18 F-16 C/D per tentare di alleggerire l’appoggio della potente Inter Services Intelligence (ISI) alle formazioni pashtun nel conflitto che coinvolge ISAF ed Enduring Freedom nel pantano dell’Afghanistan.
Donazione finalizzata anche a contrastare la crescente influenza politica e militare di Pechino nell’area asiatica e l’opzione per l’acquisto fatta dall’ex Presidente Musharraf di 36 cacciabombardieri J-10 Chengdu (made in China) e la licenza di fabbricazione del caccia JF-17 Thunder. Una verità tenuta rigorosamente nascosta nell’intento di favorire Benazir Bhutto, sponsorizzata da Bush nella scalata alla presidenza del Pakistan, danneggiando l’allora Capo dello Stato, presentato dalla stampa occidentale, al contrario, come un lacchè della Casa Bianca.
Una scelta – quella di acquistare i J-10 Chengdu – che segnala, meglio di qualche resoconto giornalistico che riporta la dizione Af-Pak, il nuovo corso imboccato da Islamabad nei suoi rapporti con la (ex) Potenza Globale.
Le attuali continue violazioni dello spazio aereo del Pakistan con gli UAV Predator, i bombardamenti “mirati“, gli inseguimenti a caldo di pattuglie di rangers e marines nelle Regioni Autonome per catturare od eliminare nuclei appartenenti ad “Al Qaeda“ ed il ripetersi di continui, gravi “incidenti“ di confine, stanno lì a dimostrare il crescente gelo che è calato tra gli Stati Uniti ed il suo ex alleato durante l’occupazione russa del Paese delle Montagne.
Le recentissime rivelazioni di Wikileaks sulle pressioni esercitate dagli Stati Uniti per costringere il Pakistan a rinunciare al suo armamento nucleare od in subordine a chiudere le centrali di produzione del plutonio di cui dispone, per evitare fughe di tecnologia atomica nella Regione, sono il sintomo, se ce ne fosse bisogno, del crescente stato di tensione che si va manifestando tra Washington ed Islamabad.
Nel mese di Ottobre scorso, il Pakistan ha concesso l’uso del suo spazio aereo ad una formazione di Sukhoi-27 e Mig-29 di Pechino per raggiungere la Turchia via Iran, dopo che il governo di Ankara ha annullato la partecipazione USA alle esercitazioni “Aquila dell’Anatolia“.
Per la prima volta, velivoli militari della Repubblica Popolare di Cina hanno raggiunto il Vicino Oriente atterrando nella base di Konyia alla presenza di un rappresentante del governo Erdogan, dopo essersi riforniti in Iran presso la base di Gayem al Mohammad nel Khorassan (posizionata a 55 km di distanza da Herat), accolta dal generale comandante dell’aviazione iraniana Ahmad Mighani.
In quell’occasione, è circolata con insistenza la notizia che durante il trasferimento Cina-Turchia le squadriglie del Dragone abbiano lasciato sull’aeroporto militare dell’Iran due cacciabombardieri J-10 Chengdu, i cui piloti sarebbero stati rimpatriati su un cargo in partenza dal porto di Bandar Abbas con destinazione Shangai, per mandare un chiarissimo segnale politico agli USA sull’intenzione della Cina di mantenere ottimi rapporti politici, economici e militari con Teheran, aprendo contemporaneamente alla Turchia con cui ha stretto un’intesa per raggiungere nel corso di cinque anni un interscambio di 110 miliardi (in dollari, per ora) con pagamenti nelle rispettive valute. Decisione già adottata, tra l’altro, da due colossi dell’America indiolatina (Brasile-Argentina) e dell’Asia (Russia-Cina) per sostituire la moneta americana come unico riferimento di scambio nelle transazioni internazionali.
Accordi che limano un po’ alla volta l’influenza USA a livello planetario e ne aggravano la crisi politica e finanziaria. Persa ogni capacità di ingerenza per Washington anche in Libano, dopo la visita del primo ministro Hariri a Damasco ed a Teheran, viaggio che mette alla berlina il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja e l’Europa a 27.
La visita di Erdogan nelle stesse capitali ha aperto un altro fronte nella politica estera di Washington, dopo le rivelazioni sugli aiuti che l’Amministrazione Bush ha offerto al PKK e che quella di Obama conferma con Biden per la creazione, al momento giudicato idoneo, di una repubblica separata dall’Iraq, allargata a territori attualmente appartenenti a Siria, Iran e Turchia: il “grande Kurdistan”.
D’intesa con il presidente Assad, Ankara ha inoltre sminato i confini di Stato tra Turchia e Siria, rafforzato le relazioni bilaterali a livello politico, commerciale e culturale con Damasco. Il terreno di confine liberato dall’esplosivo è stato assegnato ad una società mista turco-siriana per la piantumazione di ulivi e la produzione e la commercializzazione di prodotti agricoli. Un altro “messaggio“ fatto recapitare questa volta ad “Israele“.
Qualche flash, così a caso, in questo quadrante del mondo, tanto per non farci sommergere da dosi massicce di informazione spazzatura o da secchiate di cloroformio al “delitto di Avetrana“.
E ora l’argomento che ci interessa: l’F-35. Continua a leggere

Obama taglia l’F-35?

Washington, 10 novembre. – La commissione presidenziale suggerirà di tagliare del 15% il budget per le armi del Pentagono per riuscire a tenere in piedi il bilancio federale USA. In particolare l’organismo voluto da Barack Obama proporrrà di rinunciare alla versione per i Marines dell’F35-B, il Joint Strike Fighter (tra l’altro ordinato anche dalla Marina Italiana per sostituire gli Harrier imbarcati e in parte dell’Aeronautica italiana) a decollo corto e atterraggio verticale (Stovl). F35-B affetto da diversi problemi e il cui taglio farà risparmiare 17,6 miliardi nel quadriennio 2010-2015. L’organismo co-presieduto da Erskine Bowles e Alan Simpsony consiglierà al presidente Obama anche di sostituire la metà dei JSF di Lockheed Martin programmati per la US Air Force con F16 e con F18 quelli per la US Navy. In questo modo si risparmierebbero 9,5 miliardi da qui al 2015.
Secondo i piani originali gli USA avrebbero acquistato un totale di 2.443 F35 al costo di 382 miliardi di dollari, la più grossa comessa militare della storia USA. Programma co-sviluppato anche dall’Italia con in prima fila il gruppo italiano Finmeccanica, insieme Gran Bretagna, Olanda, Turchia, Canada, Danimarca e Norvegia.
La commissione ha anche proposto di fermare a quota 228 l’acquisto dei convertiplani Textron/Bell-Boeing V-22 Osprey, quota pari a circa due terzi del contratto originale. I quattordici commissari hanno anche suggerito di cancellare la flotta di 573 navi da sbarco della General Dynamics, risparmiando 15,6 miliardi. Nel complesso il piano ‘lacrime sangue’ consentirà di risparmiare 20 miliardi nel 2015 facendo calare la spesa per l’acquisto di sistemi d’arma a 117,5 miliardi. L’ultima raccomandazione della commissione insediata dal presidente americano riguarderà il taglio di un terzo del personale di stanza in Europa e Asia.
(AGI)

In attesa di conoscere le reazioni delle alte sfere politiche e militari italiane circa queste evidenti intenzioni di disimpegno, seguiremo con molta attenzione e fiducia gli sviluppi della situazione.
Per ora, segnaliamo che la bozza di Finanziaria per il 2011 elaborata dal ministro Tremonti prevede lo stanziamento per le “missioni di pace” di 750 milioni di euro…

Venti F-35 per Israele

Diversamente da quanto ipotizzava l’amico Giancarlo Chetoni, non c’è stata una vera e propria disdetta ma sicuramente un notevole ridimensionamento dell'”affare”.
E’ notizia degli ultimi giorni che il governo israeliano ha approvato in via definitiva l’acquisto di 20 esemplari del cacciabombardiere di quinta generazione F-35 Joint Strike Fighter (JSF), della cui storia ci siamo occupati spesso su questo blog raccogliendo gli articoli al riguardo nell’omonima categoria.
I primi esemplari del velivolo dovrebbero essere consegnati nel periodo 2015-2017, trovando così conferma il fatto che i tempi di produzione siano assai più lenti di quelli inizialmente previsti.
Ma la cosa che desta più attenzione è che i circa 3 miliardi di dollari del contratto (comprensivo di pezzi di ricambio, manutenzione e simulatori) saranno finanziati tramite i programmi di assistenza militare statunitense a favore dell’Entità sionista.
Praticamente, si tratta di aiuti di Stato che l’amministrazione USA elargisce a fondo perduto all’industria costruttrice Lockheed Martin affinché riesca a piazzare un prodotto circa il quale sono state formulate, da più parti, pesanti perplessità.
Il fatto che Israele non abbia rinunciato all’acquisto ma comunque ridotto il numero di esemplari decidendo di acquisirli solo tramite un contributo del governo statunitense, può anche essere letto come una conferma indiretta di tali tesi critiche, oltre che dei sempre più gravi problemi di bilancio che attanagliano i protagonisti di questa telenovela. Italia compresa.

Il super prezzo del “super” caccia

Il costo del cacciabombardiere F-35 Lightning II è lievitato da 50 a 113 milioni di dollari per aereo: ne dà notizia Il Sole 24 Ore (18 marzo). Non è uno scoop: un anno fa avevamo scritto su il manifesto (15 aprile 2009) che «il caccia verrà a costare più del previsto». Lo provava già allora il fatto che, per acquistarne 131, il governo italiano aveva deciso di stanziare 12,9 miliardi di euro.
Ora la Corte dei conti USA conferma che il costo è quasi raddoppiato e, di fronte un ritardo di due anni e mezzo sui tempi previsti, il Pentagono chiede alla Lockheed di modificare il contratto e trasformarlo a prezzo fisso. Il Congresso dovrà riapprovare il programma, il più costoso della storia militare USA (323 miliardi di dollari per 2.457 aerei), «benché nessuno si aspetti un suo ridimensionamento».
Nel Parlamento italiano invece tutto tace, grazie al fatto che la partecipazione al programma dell’F-35 è sostenuta da uno schieramento bipartisan.
(…)
Intanto l’aeronautica italiana continua a ripetere che «vuole il caccia F-35» e lo stesso fa la marina. Intervistato dal Sole 24 Ore (5 febbraio), il gen. Giuseppe Bernardis, nuovo capo di stato maggiore dell’aeronautica, ha detto che «i soldi per l’acquisto di nuovi velivoli sono sufficienti», ma scarseggiano quelli per l’addestramento.
Per far tornare i conti, l’aeronautica vuole limitare l’acquisto del caccia Eurofighter Typhoon (costruito da un consorzio europeo) a 96 aerei anziché 121, e cerca di vendere una ventina di Typhoon di seconda mano alla Romania e altri paesi. Si dà quindi priorità al caccia della Lockheed, superiore (garantisce Il Sole 24 Ore) per la sua «invisibilità e la sua capacità di attacco». Una scelta non solo militare ma politica, che lega l’Italia ancora più strettamente al carro da guerra del Pentagono.

Da F-35, del super caccia per ora decolla solo il costo, di Manlio Dinucci.

Cyberguerre

Preoccupazioni circa il monopolio degli Stati Uniti del sistema DNS (Domain Name Server) sono cresciute tra le altre nazioni parallelamente alla loro dipendenza da Internet per le questioni che vanno dalla politica e l’economia alla difesa e la società in generale. Anni fa è stato proposto che Internet venisse amministrato dalle Nazioni Unite o nell’ambito della cooperazione internazionale. L’Unione Europea ha insistito sul fatto che il World Wide Web fosse una risorsa internazionale da gestire congiuntamente da tutte le nazioni. Alcuni paesi in via di sviluppo hanno sottolineato che nella fase iniziale dell’evoluzione di Internet, i paesi sviluppati avevano accaparrato grandi quantità di nomi di dominio lasciandone pochi a loro, e hanno insistito sulla condivisione con gli Stati Uniti dell’amministrazione di Internet. Il governo statunitense era contrario alla proposta.
Il numero di marzo 2005 dell’US Defense Strategy Review ha affermato che lo spazio Internet dovrebbe avere la stessa priorità delle giurisdizioni continentali, marine e spaziali, in modo che gli Stati Uniti mantenessero il loro vantaggio. Una dichiarazione da Washington il 30 giugno 2005, ha chiarito che il governo degli Stati Uniti avrebbe mantenuto il controllo su DNS per sempre, precisando che il trasferimento della gestione alle Nazioni Unite o l’uso di modelli di cooperazione internazionale avrebbero ostacolato il libero flusso di informazioni e portato a facili manipolazioni di Internet e quindi reso più difficile la sorveglianza globale.
(…)
Il controllo di Internet ha un ruolo strategico per gli Stati Uniti. Usando Internet, gli Stati Uniti possono intercettare informazioni attraverso la rete, esportare le idee e i valori statunitensi, sostenere una “Rivoluzione Colorata”, appoggiare gli oppositori dei governi anti-USA, interferire negli affari interni di altri paesi ed effettuare attacchi proattivi contro le reti di comunicazione e di direzione dei loro nemici. James Adams, un noto esperto militare, ha scritto nel suo libro intitolato “La Prossima Guerra Mondiale” queste parole: “Il computer è l’arma della guerra del futuro e non c’è una linea reale di un fronte, come nella battaglia tradizionale; il byte prenderà il posto del proiettile per ottenere il controllo.”
Le imprese statunitensi si preparano per assicurarsi il futuro controllo delle informazioni a livello mondiale, sotto la direzione del governo degli Stati Uniti. Già nel 2002, un complotto spionistico della CIA attraverso Internet è stato divulgato dai media britannici, sostenendo che la CIA aveva cercato di rubare informazioni da colossi societari, banche, organi governativi e organizzazioni in tutto il mondo. Sotto la copertura di un’impresa privata high-tech, la CIA ha collaborato con una società che sviluppava software nella Silicon Valley per progettare dei “software bug” per sottrarre informazioni via Internet. Il software spia, in grado di legarsi con software normale, si installava automaticamente non appena un utente iniziava a utilizzare il software normale.
In un articolo pubblicato nel dicembre 2005, il New York Times ha rivelato che la CIA aveva collaborato con le imprese di telecomunicazione statunitensi per inventare un programma per computer in grado di intercettare le comunicazioni via Internet. La Columbia Broadcasting System (CBS TV) ha dichiarato l’11 gennaio 2006 che la CIA aveva fondato un istituto speciale per l’intercettazione di informazioni provenienti da altri paesi utilizzando strumenti ad alta tecnologia. Il responsabile di questo istituto ha detto in un’intervista alla CBS che la CIA aveva ottenuto una grande quantità di informazioni di notevole importanza. Nonostante l’Iran avesse cercato di nascondere la sua ricerca nucleare e le attività di sviluppo, la CIA aveva trovato dei modi di ottenere informazioni di prima mano e anche foto della produzione di armi nucleari. L’adozione della tecnologia di intercettazione ha aiutato la CIA a entrare nel circuito della sperimentazione nucleare segreta in Iran dopo l’esecuzione di un informatore della CIA. Egli ha aggiunto che la CIA non aveva mai smesso il suo controllo di vigilanza sull’Iran dopo l’adozione di Internet e che aveva costruito tre archivi di nastri per conservare le informazioni raccolte.
(…)
Secondo un’agenzia di stampa di Hong Kong, la CIA sborsa decine di milioni di dollari ogni anno a “traditori via Internet” che possono infiltrarsi nella rete degli utenti cinesi e diffondere l’ideologia degli Stati Uniti. Questi frequentano i principali forum e portali cinesi. Un sito web chiamato “Wazhe Online” (cinese pinyin) è una missione segreta creata con la collaborazione di istituzioni governative degli Stati Uniti e anche “organizzazioni secessioniste tibetane” all’estero, con il compito di agitare, ingannare, infiltrare e istigare gli utenti di Internet in Cina, diffondendo voci false per promuovere sommosse e raccogliere informazioni via Internet. Un giovane tibetano che in passato ha lavorato con una di queste organizzazioni ha detto che l’organizzazione è un’agenzia online di spionaggio, finanziata dagli Stati Uniti, controllata dagli Stati Uniti e al servizio degli Stati Uniti. In un articolo sul gruppo Ta Kung Pao di Hong Kong, si legge che sono le agenzie di spionaggio statunitensi e giapponesi che assoldano persone estremamente preparate per pubblicare in rete informazioni delicate relative alla politica della Cina.
Il Segretario di Stato degli Stati Uniti Hillary Clinton ha anche dato grande importanza a Internet dopo aver assunto il suo incarico. Clinton ha sostenuto che con i paesi che respingono i media statunitensi la forza di Internet serve, in particolare facendo uso di Facebook, YouTube, Twitter e Flicker per inviare le voci provenienti dagli Stati Uniti.
(…)
Secondo un articolo apparso nel New York Times il 31 maggio 2009, quasi tutte le grandi imprese militari – tra cui Northrop Grumman, General Dynamics, Lockheed Martin, e Raytheon – hanno contratti di rete con le agenzie di intelligence delle forze armate statunitensi. Le prime due imprese sono impegnate in una “guerra cibernetica offensiva”, che comprende il furto di informazioni sensibili da altri paesi o paralizzando le loro reti con lo sviluppo di strumenti software dopo aver individuato le vulnerabilità nei loro sistemi informatici.
Il 23 giugno 2009, il Dipartimento della Difesa ha annunciato un piano per istituire un Commando Cibernetico USA per assicurare il dominio cibernetico degli Stati Uniti e ottenere un vantaggio in questo campo. Whitman, portavoce del Pentagono, ha dichiarato che l’obiettivo è “concentrato sulla protezione”. Solo loro stessi ci credono. E’ chiaro che l’obiettivo del nuovo Commando è quello di integrare unità militari high-tech in diverse parti del paese e rafforzare la difesa. Ancora più importante, esso mira a migliorare la capacità offensiva e di lanciare un attacco preventivo cibernetico contro “paesi nemici”, se necessario. Per lungo tempo nel passato, il Pentagono ha sottolineato che Internet è parte della guerra ed è un “fronte militare”. Prima della prima guerra del Golfo, la CIA aveva piantato un chip “virus” nelle stampanti acquistate da parte dell’Iraq. Hanno attivato il virus utilizzando delle tecnologie di comando a distanza prima di lanciare il loro bombardamento strategico. Il sistema di difesa aerea iracheno fu messo fuori gioco. Secondo la stima dell’esperto militare Joel Harker, che ha studiato il programma hacker dell’esercito degli Stati Uniti per 13 anni, gli Stati Uniti ora impiegano circa 80.000 persone nella guerra cibernetica. In termini di “armi” usate nella guerra informatica, hanno sviluppato più di 2.000 virus che potrebbero essere utilizzati in attacchi informatici come Worm, Trojan, Logic Bombs e virus “backdoor”.

Da Internet – Nuova boccata d’ossigeno per l’egemonia degli Stati Uniti, commento apparso su Chinadaily.com.cn lo scorso 22 gennaio.
[grassetti nostri]

La purezza atlantista di Antonio Martino

L’Airbus e lo spettro di Antelope: “Pressioni e tangenti per l’affare”, di Sergio Rizzo.

Una provvidenziale carenza di tecnologia

Quel che succede oggi alla «superpotenza americana» è ben illustrato dal blocco del costosissimo F-35 Joint Strike Fighter il supercaccia che gli USA, come l’ha descritto una informazione di «France Métallurgie»: [sic]
La fabbricazione degli F-35 ha il suo collo di bottiglia in certe presse, che servono a plasmare certe parti di alluminio della fusoliera. Parti di forma complessa e lunghe anche più di tre metri. La Lockheed, che ha il ruolo di capo-contratto, ha demandato la formazione di questi pezzi alla multinazionale dell’alluminio Alcoa. Il fatto è che la Alcoa ha una sola di queste presse da 25 tonnellate, e ha speso 100 milioni di dollari per rammodernarla; infatti, questa pressa è stata costruita negli anni ‘50, e gli americani la copiarono, con gran fatica date le difficoltà tecniche che presentava, da «un modello tedesco della seconda guerra mondiale». C’è anche un’altra pressa del genere in USA, che non è detto dove sia finita.
Conclusione della rivista metallurgica: «Ciò significa che l’aereo americano più tecnicamente avanzato sarà fatto usando un impianto che è vecchio di oltre cinquant’anni e a suo tempo fu considerato una realizzazione storica dell’ingegneria americana. Ciò dice che USA e altri Paesi (perchè l’F-35 lo vogliono vendere ad altri Paesi, a cui hanno affidato parti della fabbricazione) non potranno accrescere la produzione di tali presse (e dell’aereo) date le limitazioni di capacità industriali cruciali. E’ in qualche modo il testamento dell’ingegneria industriale moderna il fatto che questo impianto esista ancora dopo mezzo secolo e sia il solo disponibile per il programma. E dice che sarà arduo accrescere il ritmo di produzione del Joint Strike Fighter». (La panne de la presse d’ALCOA freine le programme du chasseur F-35 de l’US Air Force)
Già: pensate se l’Occidente dovesse condurre una vera guerra, contro veri nemici come i tedeschi e i giapponesi dell’altro conflitto. Pensate se fosse necessario accelerare la produzione di F-35 a centinaia, a migliaia di esemplari: l’unica superpotenza rimasta dipende da due presse di cinquant’anni fa, copiate dai nazisti, e che apparentemente ha perso la capacità tecnica di costruire. Non a caso gli USA e gli israeliani si scelgono «nemici» che sono sicuri di schiacciare, la fantomatica «Al Qaeda», Hamas, i talebani scalzi armati di RPG.
Ma già coi guerriglieri afghani sono in difficoltà. La civiltà-impostura fatica a mettere in linea 30 mila uomini, e – dopo aver tanto propagandato il pericolo estremo rappresentato dal «terrorismo globale» – non osa chiamare la popolazione, coerentemente, alla mobilitazione totale. Perchè sa che la risposta sarebbe la rivolta e la diserzione di massa: i cittadini-conformisti hanno fatto propria l’impostura ufficiale, credono al «terrorismo islamico»: ma, beninteso, non fino al punto da accettare di veder richiamati i loro figli alla leva di massa. Accettano la menzogna virtualista, ma nel sottofondo delle coscienze la sanno mentitrice. In mancanza di patrioti, si rimettono in auge i mercenari, con cui – come già diceva Machiavelli – le guerre si perdono, perchè lo stipendio non è una motivazione sufficiente per l’estremo sacrificio.
Già questo solo fatto rivela l’orribile arretramento del pensiero (militare in questo caso), analogo all’arretramento tecnologico che non consente di moltiplicare le presse Alcoa. L’arretramento è, radicalmente, degli intelletti e dello spirito.
S’intende che i talebani o gli Hezbollah non saranno mai abbastanza superiori da infliggere al virtualismo americanista una sconfitta storica, sicchè gli occidentali possono occupare l’Afghanistan per altri dieci anni, estendere la loro guerra al Pakistan, bombardare l’Iran e continuare ad imporre la volontà di potenza americanista indefinitamente, almeno fino a quando il numero dei militari suicidi non assottiglierà i corpi in modo intollerabile. Le portaerei e i missili intercontinentali sono ancora lì, abbastanza da compiere aggressioni dal cielo e da dissuadere avversari potenziali più potenti.
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Da La civiltà-impostura, di Maurizio Blondet.

La terra dove il lavoro è una chimera

DANIELA: “se posso…io invece sono favorevole al nuovo insediamento americano…..in una terra come la nostra….dove il lavoro e’ una chimera….se ne arriva e sicuramente ne arrivera’ perche’ dobbiamo rinunciarci?”…

Alla Lockheed il restauro delle basi di Napoli e Sigonella, di Angela Zoppo.

E per approfondire, Antonio Mazzeo.
Il cui articolo si conclude così:
““Ormai non regge neanche più l’alibi che le basi USA ospitate in Italia hanno una ricaduta per l’economia e le imprese nazionali”, dichiarano gli esponenti della Campagna per la smilitarizzazione di Sigonella. “I nuovi programmi militari previsti in Sicilia, i velivoli senza pilota USA, il Sistema di sorveglianza terrestre AGS della NATO e il terminal terrestre del sistema di telecomunicazione satellitare MUOS a Niscemi, sono esclusivamente in mano al complesso industriale bellico statunitense. Northrop Grumman è anche la società che ha progettato e costruito i Global Hawk, mentre la neo-arrivata Lochkeed Martin è la principale produttrice dei satelliti e delle stazioni radar terrestri su cui si basa il MUOS. Senza poi dimenticare che sempre la Lockheed è la capo-commessa dei 131 cacciabombardieri strategici F-35 Lightning II che il governo italiano ha deciso di acquistare per le forze armate”. (…)”

Il bilancio occulto della “difesa” americana

pentagono

A fine giugno, Mother Jones ha pubblicato un’approfondita analisi sul bilancio militare degli Stati Uniti d’America, partendo dalla richiesta del presidente Barack Obama al Congresso di stanziare 534 miliardi di dollari per il Dipartimento della Difesa. Ma l’ammontare reale di ciò che gli USA spendono per la “difesa” è molto maggiore. Per rendere il tutto più facilmente digeribile, ve ne proponiamo una sintesi divisa in quattro parti.
L’Office of Management and Budget ha elaborato un calcolo totale che tiene in considerazione le diverse parti del governo, e comprende i soldi assegnati al Pentagono, le attività relative alle armi nucleari svolte presso il Dipartimento dell’Energia ed alcuni esborsi nel campo della sicurezza effettuati dal Dipartimento di Stato (il ministero degli esteri statunitense) e dall’FBI. Nel bilancio 2010 (che in realtà ha il suo momento iniziale nell’ottobre 2009) la cifra ammonta a 707 miliardi, più della metà della spesa governativa cosiddetta “discrezionale” per l’anno prossimo. La spesa discrezionale è quella per cui gli stanziamenti sono decisi annualmente dal Congresso, a differenza di programmi quali ad esempio quello sanitario denominato Medicare il cui finanziamento è obbligatorio e ricorrente.
Ma la cifra reale è ancora più alta perché, fra le varie cose, l’ufficio governativo del bilancio non tiene conto della spesa aggiuntiva per le guerre in Iraq ed Afghanistan. Riepilogando tutte le diverse fonti di spesa in campo militare per l’anno 2010 che emergono dai documenti contabili, si ha:

  • bilancio del Pentagono: 534 miliardi
  • stanziamenti extra per il personale militare: 4,1 miliardi
  • stanziamenti aggiuntivi Iraq-Afghanistan (anno fiscale 2010): 130 miliardi
  • stanziamenti aggiuntivi Iraq-Afghanistan (anno fiscale 2009, ancora da legiferare): 82,2 miliardi
  • armi nucleari ed altra spesa “atomica” (Dip. dell’Energia): 16,4 miliardi
  • sostegno militare ed economico ad Iraq, Afghanistan e Pakistan (Dip. di Stato): 4,9 miliardi
  • sicurezza, controterrorismo ed aiuto militare a Paesi stranieri, incluso il Medio Oriente ed Israele (Dipartimento di Stato): 8,4 miliardi
  • Guardia costiera (Dipartimento per la Sicurezza Interna): 583 milioni

Spesa totale: 780,4 miliardi di dollari

In questo calcolo sono incluse solo le risorse direttamente collegate ad attività militari, non viene quindi preso in considerazione il Dipartimento dei Veterani la cui spesa di 55,9 miliardi porterebbe il totale a 836,3; e la parte restante del Dipartimento per la Sicurezza Interna (altri 54,5 miliardi), arrivando così alla colossale cifra di 890,8 miliardi di dollari, rispetto ai 534 ufficialmente stanziati.
Si tenga poi presente che i bilanci degli apparati di intelligence (CIA, NSA…) sono segreti e che perciò non possono essere aggiunti a questa contabilità.

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Nel 2008, il Pentagono ha calcolato che gli impegni correnti per i programmi di armamento costeranno al governo, ad ultimazione avvenuta, 1.600 miliardi di dollari. Una parte consistente – 296 miliardi – è rappresentata da costi aggiuntivi. Questi 296 miliardi non sono il risultato di grandi programmi che, in via eccezionale, hanno sfondato il tetto di spesa e sbilanciato i conti, ma rappresentano la norma. Tali incrementi di costo sono spesso significativi: considerando tutti i programmi, la media dell’aumento rispetto alle stime iniziali è pari al 26%. Rappresentano la normalità anche i ritardi nel loro completamento, che riguardano ben il 72% dei programmi.
Incrementi di costo e ritardi hanno subito un peggioramento durante le due amministrazioni Bush terminate nel 2008, ma se si volge lo sguardo ancora più all’indietro si scopre che i costi aggiuntivi sono aumentati ad un ritmo serrato per tutti gli ultimi quindici anni, ad una media del 1,86% annuo per essere precisi. Se la spesa del Pentagono continuerà a crescere al tasso attuale, la media degli incrementi di costo raggiungerà il 46% in dieci anni.
Facendo qualche confronto, lo spreco militare USA è quattro volte tanto l’intera spesa per la difesa della Cina (che oggi rappresenta il secondo bilancio militare nazionale al mondo con 70 miliardi di dollari) ed è anche superiore al bilancio militare di tutti i Paesi dell’Unione Europea messi insieme (pari a 281 miliardi).

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Passiamo ora in rassegna i principali programmi militari statunitensi:

cacciabombardiere F-22 Raptor: progettato per sfidare i velivoli di concezione sovietica, un F-22 costa 351 milioni di dollari, più del doppio delle stime originali.
Fu messo in produzione ancora prima di essere pienamente testato e – non sorprendentemente – è incorso in ogni genere di intoppi; non ha partecipato a nessuna azione di combattimento in Afghanistan né in Iraq. Il titolare del Pentagono Robert Gates ha deciso di acquistarne altri quattro, per un totale di 187 rispetto ai 243 che inizialmente l’USAF voleva.
Addirittura, all’inizio di quest’anno, 194 deputati e 44 senatori statunitensi hanno scritto ad Obama per sollecitarlo ad acquistare più F-22, ed a metà giugno i parlamentari del comitato militare della Camera hanno previsto uno stanziamento per altri 12 caccia. Sollecitazioni che però non sono servite a rianimare la morente linea di produzione del velivolo, almeno per l’uso domestico. Infatti è notizia fresca il via libera da parte del comitato finanziario del Senato statunitense allo sviluppo di una versione del F-22 per l’esportazione, privato degli accorgimenti tecnologici “segreti” presenti nella versione originale. Probabilmente la decisione vuole far fronte alla perdita di migliaia di posti di lavoro causata dallo stop della produzione per l’aviazione USA; fra i probabili acquirenti figurano Giappone, Corea del Sud, Australia ed Israele;
aereo da trasporto C-17 Globemaster III: l’aeronautica USA ne possiede 205 esemplari e non ne chiede di ulteriori, ma il Senato intende introdurre nel bilancio per la difesa del 2010 l’importo di 2,5 miliardi per comprarne altri 10;
Future Combat Systems: si tratta di apparati in cui armi, veicoli e robot coesistono, uniti da un comune sistema di comunicazione, ed è un altro caso in cui le intenzioni di spesa sono state messe in pista prima che la tecnologia in questione sia stata effettivamente testata. Dal 2003, il costo totale è aumentato del 73% fino ad arrivare a 159 miliardi, tanto che Gates nei mesi a venire vuole ripensare l’intero programma;
elicottero presidenziale VH-71: Lockheed Martin ed Agusta Westland (del gruppo Finmeccanica) vinsero nel 2005 la commessa per il sostituto dell’attuale “Marine One”, un Sikorsky VH-60 entrato in servizio nel 1989. La flotta di 28 (!) esemplari doveva costare inizialmente 6 miliardi di dollari, ma poi i correttivi introdotti durante l’amministrazione Bush avevano portato il conto totale quasi a raddoppiare fino ad 11,2 miliardi (400 milioni ad esemplare). Il programma è stato cancellato a maggio, ed una conferma pubblica del suo annullamento è stata data dallo stesso presidente Obama ad agosto in un discorso ai veterani di guerra;
DDG-1000 Destroyer: navi che dovrebbero costare 4 miliardi di dollari ma fonti alternative stimano un costo reale vicino ai 6 miliardi. Mentre la marina statunitense inizialmente desiderava acquistarne fra un minimo di 16 ed un massimo di 24, Gates tenterà di ridurre il programma a soli 3 Destroyers.

E’ comunque inquietante notare come Gates abbia dato il via libera ad un paio di palesi catorci. Del primo abbiamo già parlato su questo blog, si tratta del Littoral Combat Ship (LCS), un altro progetto Lockheed Martin sviluppato prima di completare i test. Nonostante i suoi costi siano quasi raddoppiati rispetto alle prime stime, Gates si è impegnato ad acquistare 55 di queste unità navali.
Ma forse l’indizio più evidente della continuità del bilancio militare USA è la decisione di più che raddoppiare l’ordine di cacciabombardieri F-35 Lightning II Joint Strike Fighter (JSF), facendone il più grande programma di acquisizione del Dipartimento della Difesa (quasi a voler placare l’industria produttrice, l’onnipresente Lockheed Martin, per la cancellazione del F-22). Ciò nonostante l’F-35 sia ben lontano dall’essere pronto, visto che a novembre 2008 era stato implementato solo il 2% dei voli di prova previsti.
Secondo l’attuale calendario, gli Stati Uniti spenderebbero 57 miliardi di dollari per acquistarne 360 unità prima che i test siano completati. Per velocizzare i tempi, la Lockheed ha elaborato un piano per svolgere solo il 17% delle prove richieste mediante test di volo, il restante 83% affidandole ai simulatori. Sfortunatamente, secondo un rapporto della Corte dei Conti americana (GAO) “la capacità di sostituire i voli di prova con laboratori di simulazione non è stata ancora dimostrata”.
Ciò non fa che aumentare i dubbi sulla decisione del Dipartimento della Difesa di acquistarne 2.456 (sì, avete letto bene, duemilaquattrocentocinquantasei!).
Fonti ufficiali hanno stimato un costo per l’intero programma superiore al trilione di dollari (più di mille miliardi) – circa la stessa cifra del deficit nazionale -, sommando ai 300 miliardi per l’acquisizione dei velivoli i 760 miliardi per la loro operatività, manutenzione compresa. Ma poiché il Pentagono ha deciso di comprarne così tanti esemplari prima di verificare l’efficienza della tecnologia, ritardi ed incrementi di costo saranno inevitabili.

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Il Dipartimento della Difesa è presente dal 1995 nell’elenco di apparati governativi ad alto rischio stilato dalla Corte dei Conti statunitense. Per gestire gli acquisti, la contabilità e la logistica, le varie agenzie e servizi del Pentagono mantengono 2.480 diversi sistemi informatici, molti dei quali non sono interconnessi. Di conseguenza, nessuno conosce con sicurezza quanto il Pentagono abbia speso in passato, stia spendendo adesso e spenderà in futuro. Al contrario, esso fonda le sue decisioni di bilancio prevalentemente sulle informazioni delle aziende private vincitrici degli appalti.
Un rapporto del Defense Science Board Task Force on Developmental Test and Evaluation rileva che, fra il 1997 ed il 2006, benché il 67% dei sistemi d’arma non abbia superato i parametri di prova, molti di essi sono stati egualmente messi in produzione. Il concetto che il Pentagono dovrebbe “provare prima di comprare” risale almeno agli anni Settanta, ma i funzionari della difesa ed i parlamentari statunitensi non l’hanno mai veramente messo in pratica. Anzi, i funzionari sono fortemente incentivati a sottoscrivere contratti sottostimati perché se rendono noti i veri costi fin da subito, rischiano di non poter avere i loro “giocattoli”. Ogni tanto il Congresso o la Casa Bianca chiedono di insediare un’agenzia indipendente in grado di produrre stime attendibili dei costi, ma ciò è estremamente difficile a causa dello stretto rapporto tra i funzionari del Pentagono e l’industria bellica.
Nel 2006, 2.435 ex funzionari del Pentagono, generali ed ufficiali lavoravano per aziende private operanti nel settore della difesa, ed almeno 400 di questi erano impiegati nell’ambito di appalti direttamente collegati al loro precedente datore di lavoro governativo. Quando i calendari slittano di anni ed i bilanci sforano di miliardi, le aziende sono già state pagate; inoltre, è prassi fra i parlamentari dare il via libera al proseguimento dei programmi nonostante la legge preveda che essi devono essere informati su quei programmi che sforano il bilancio per più del 30% e che quelli con aumenti superiori al 50% devono essere ricertificati o cancellati.
Quest’anno, la Casa Bianca ha promesso di impiegare altri 20.000 funzionari nel prossimi quinquennio per tenere sotto controllo i contratti militari e la relativa spesa, ma bene che vada ci vorranno diversi anni prima che ciò porti frutti. La legge di riforma circa l’acquisto dei sistemi d’arma patrocinata dal candidato repubblicano alle ultime elezioni presidenziali, John McCain, prevede anche l’istituzione di un ufficio per l’accertamento imparziale dei costi che però non dovrebbe occuparsi di tutti i programmi. Ufficio il cui primo direttore, comunque, è William Lynn, lobbysta precedentemente al servizio proprio di un’azienda privata del complesso militare, la Raytheon.

Martedì 2 giugno a Novara contro gli F-35

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L’iter parlamentare per l’approvazione dell’insediamento, a Cameri (NO), della fabbrica per l’assemblaggio degli F-35 è ormai definito.
A partire dal 2010 inizierà la costruzione del capannone. Tale impresa industriale-militare viene condotta, con ampio dispendio di denaro pubblico, dalla multinazionale statunitense Lockheed Martin in associazione con l’italiana Alenia Aeronautica (del gruppo Finmeccanica) e coinvolgerà una serie numerosa di aziende.
Il riarmo come via d’uscita dalla crisi economica, come con la Grande Crisi degli anni ‘30 e con la Grande Depressione di fine ‘800. Peccato che in entrambi i casi questa strada abbia condotto a guerre mondiali. Di certo, l’impiego dei nuovi bombardieri nelle “missioni di pace” produrrà distruzione, morte e sofferenza…. Gli F-35 sono i perfetti strumenti operativi di una sorta di gendarmeria mondiale in via di perfezionamento: una volta costruiti non faranno certo la ruggine in qualche hangar italiano od olandese.
Gli F-35 costeranno un sacco di soldi: più di 600 milioni di euro per costruire la fabbrica di Cameri, circa 13 miliardi (a rate, fino al 2026) per l’acquisto dei 131 aerei che l’Italia vuole acquisire. Nessuno può ignorare che, con una spesa di questa entità, si potrebbero senza alcun dubbio creare ben più dei miseri seicento posti di lavoro promessi all’interno dello stabilimento di Cameri. Si potrebbe altresì intervenire in vario modo per migliorare le condizioni di vita di tutti, ampliando e migliorando la qualità della spesa sociale, tutelando davvero territori e città, investendo in fonti energetiche rinnovabili e ridistribuendo reddito.
E poi vogliono costruire gli F-35 proprio ai confini del parco naturale del Ticino, che dovrebbe quindi sopportare l’impatto dei collaudi di centinaia e centinaia di aerei rumorosissimi ed inquinanti, con le relative gravi conseguenze per la salute e la qualità della vita degli abitanti della zona.

L’Assemblea Permanente No F-35 dà appuntamento a Novara, il 2 giugno alle ore 15.00, davanti alla stazione ferroviaria di piazza Garibaldi.
Da lì si snoderà un corteo attraverso le strade della città per gridare forte l’opposizione a quest’ennesimo progetto di militarizzazione del territorio.

Conto alla rovescia per l’F-35

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Per capire la sorprendente rapidità del declino economico-militare USA come effetto secondario dell’ingresso di Cina, Russia, India e America Latina sulla scena mondiale, può essere utile mettere sotto la lente di ingrandimento quello che potremmo definire uno dei fallimenti di portata storica per l’aeronautica militare a stelle e strisce: lo “stealth”.
Faccenda che ci riguarda molto da vicino perché l’F-35 della Lockheed Martin è un costosissimo bidone “invisibile” che gli USA si apprestano a rifilare all’Italia con la complicità, dalla XIII alla XVI legislatura, dei “rappresentanti” di Palazzo Madama e Montecitorio, di “maggioranza” e “opposizione”, con esecutivi di “sinistra” e di “destra”, dei CSD, delle Presidenze di Regione, delle banche, delle industrie private e pubbliche e, buon ultimi, i CSM di Aviazione, Esercito e Marina, dal 1995 al 2008. Personaggi “eccellenti” di cui abbiamo fatto, in più occasioni su Rinascita, nome e cognome e seguito in dettaglio gli spostamenti per “affari” a Washington.
Entro il 16 Aprile le Commissioni Difesa di Camera e Senato dovranno esprimersi (risate d’obbligo e vedremo qualche riga più avanti il perché) sull’Atto presentato dal Ministro della Difesa Ignazio La Russa che prevede l’acquisto di 131 cacciabombardieri F-35 Lightning II nell’arco dei prossimi 18 anni (!).
La spesa complessiva per Palazzo Baracchini andrà oltre i 13 miliardi di euro. Un dato elaborato da chissà chi e che a naso appare del tutto inattendibile, per difetto, anche alla luce del “profondo rosso” che investe l’economia planetaria e la volatilità di borse e valute, salvo – ma questo lo diciamo noi – un incremento finale, prevedibile, dei costi di produzione maggiorati nell’ordine di un 40-50 % ad F-35 prodotto nell’arco dei primi 5 anni a partire dal 2012.
La Lockheed Martin ha comunicato che nel mese di Marzo 2009 la produzione è di un F-35 al mese. Dimostrazione di una crescente sofferenza finanziaria, bancaria e industriale del sistema USA e del settore di punta della sua economia.
Si sussurra già da tempo ad Alenia e a Finmeccanica che gli aumenti di costo del progetto JSF saranno finalizzati a coprire la cessione “gratuita” ad Israele dei primi 75 F-35 A e B.
I sei Paesi, tra cui l’Italia, che attualmente partecipano al Consorzio in qualità di Aderenti di II° e III° Livello, riceveranno degli F-35 con capacità “degradate” di navigazione e di acquisizione bersagli.
USA, Inghilterra e Canada disporranno invece di un avionica al top delle specifiche di progetto e di contratto.
Sorvoleremo sui costi di progetto e di fattibilità e sulle tranche già versate per un corrispettivo di oltre 1,8 miliardi di euro come partner di II° livello dal 1995 al 2007, prima, durante e dopo la Presidenza del Consiglio affidata all’ On. D’Alema. Un “impegno” che sarà poi venerato come un totem dagli Esecutivi Prodi e Berlusconi.
Velivoli d’attacco “invisibili”, dunque, gli F-35?
Molto più realisticamente gli esperti indipendenti li definiscono “a scarsa risposta radar”, che è cosa molto, ma molto diversa. Il testo stesso dell’Atto presentato dal Governo alla 4a Commissione di Camera e Senato parla di “bassa visibilità”.
Si gioca sulle parole come Amato e Mammì a Report, si conta sulle sfumature semantiche, sulle accondiscendenze e sulle complicità dei Componenti delle Commissioni Difesa per dare il via libera con Camera e Senato ad “affari” miliardari che vanno contro gli interessi economici, politici e militari, presenti e futuri del nostro Paese, manovrando nelle Coalizioni di Partito le candidature di qualche peones da destinare a Presidente di Commissione.
Cacciabombardieri, gli F-35, che dovrebbero rimanere operativi almeno fino al 2050, quando non ci saranno più gli USA (e ci auguriamo anche l’Unione Europea di Solana, Barroso e Topolanek) almeno per come li conosciamo fino al 3° quadrimestre del 2008.
Rampini e Pirani su Repubblica fanno spesso il quadro di un America che va via via dissolvendosi, con perdite di occupazione stratosferiche in tutti i settori, dall’agricoltura ai servizi, che si attestano tra 700.000 e le 900.000 unità al mese.
Definito aereo di 5a generazione, ad altissimo contenuto tecnologico, in realtà l’F-35 nasce già obsoleto, out.
Lo vedono radar datatissimi e lo “sente” e lo triangola alla perfezione da terra, ad 800 km di distanza, il Kolchuga. Un apparato ESM, di scarsissimo ingombro, ad alta mobilità sul terreno, da 25 milioni di dollari, messo in piedi da ricercatori del bacino del Donetz, in Ucraina, durante la Presidenza Kuchma. Il Kolchuga della Topaz con i suoi algoritmi ha reso estremamente vulnerabile in un solo colpo tutta la forza d’attacco degli USA. Per attivare una ristrutturazione dell’Air Force, gli Stati Uniti sono precipitati in un pozzo senza fondo per centinaia di miliardi di dollari.
Su Pagine di Difesa si definisce l’F-35, per bene che gli vada, uno “scarronzone”, “una truffa”, una “Fiat Panda”, “un tentativo subdolo” di affossare l’EFA 2000. Elemento di per sé significativo.
L’F-35 ha tre predecessori, nel profilo “stealth” enormemente costosi sia nella costruzione che nella manutenzione in ordine di uscita dalle linee di montaggio USA: l’F-117, il B-2 e l’F-22.
L’F-117 si è portato via 135 milioni, il B-2 1.350 milioni, l’F-22 250 milioni di dollari… ad esemplare. Sono stati i jet tossici della US Air Force, la Lehman Brother’s del Pentagono.
Dell’F-117 (Grumman) ne sono stati assemblati 59, 10 sono stati “dismessi” (rottamati) nel dicembre 2006, 27 nei mesi seguenti, 11 gli esemplari perduti durante le prove di certificazione e in volo operativo (si sbriciolavano nei piani di coda) per l’uso nella costruzione di un’alta quantità di pellicole e materiali radar-assorbenti, 3 abbattuti nello spazio aereo della Serbia nel 1999, alla faccia dell’“invisibilità”, da batterie di Sam 3 GOA e contraerea da 35 mm.
Il numero restante (quanti, non si sa, per nascondere forse dati più agghiaccianti) è stato ricollocato sull’aereoporto di Toponah in Nevada per “prove di valutazione sui materiali compositi”. Il che dice tutto.
L’F-117 è lo “stealth” con il più breve servizio attivo nell’US Air Force. L’Italietta vuole ripetere l’esperienza della Us Air Force con l’F-35: un cacciabombardiere con prevalente capacità di attacco al suolo. Insomma, inquadrato nelle Forze NATO servirà per bombardare nuovi e vecchi “nemici” della NATO.
(…)
Il Typhoon 2000, invece, ha prevalenti capacità di “superiorità (di difesa) aerea” ed è un “prodotto” EADS interamente europeo. Basta e avanza perché venga messo da parte per acquistare un… bel bidone di 5a generazione come l’F-35 made in USA.
La Repubblica delle Banane di Napolitano & Soci, fatta di nani, ballerine, ruffiani e maniche di delinquenti, applaude.

Da L’F-35 è “invisibile”? No, è un bel bidone!, di Giancarlo Chetoni.