Lo Stato confiscato e la riconquista della sovranità

Il paradosso del Robin Hood trasposto e l’egemonia finanziaria

La cosa veramente bizzarra, ma che bizzarra non è solo se ci soffermiamo un secondo, é quella di chiederci come mai i paladini dell’austerità e del rigore, i seguaci fedeli dello spread, gli ossessionati del debito pubblico e dall’inflazione, quelli del contenimento e della parsimonia, sono gli stessi che vivono in una condizione non di semplice agio, ma in uno sfarzo sfrenato senza pudore, senza uguali in nessuna corte d’altri secoli.
Ci viene detto che manca il lavoro, anzi no, é che manca il denaro e quindi di conseguenza il lavoro.
E sì, perché il lavoro a guardarci intorno ce ne sarebbe d’ogni tipo e in gran misura. Pubblico o privato, hai voglia a faticare, ma come dice una pubblicità di prestiti “senza lillari non si lallera” e noi siamo in deflazione.
Mentre non si ha più rispetto per il lavoro e per chi lavora, diritti deregolamentati e salario di sussistenza, al denaro oramai ci approcciamo in modo dogmatico e riverente, quasi fosse una manna dal cielo che cade a volte sì e a volte no, per ragioni che a noi comuni mortali non è dato sapere. Il suo comparire è come se dipendesse solo dal potere di un dio onnipotente e capriccioso che ne sfarina una manciata a suo gradimento.
Ma il denaro un tempo non era un elemento neutro, senza alcun valore naturale? Una misura equivalente al valore di un bene? La sua esistenza e dignità non dipendeva forse dal nostro saperlo riconoscere e accettarlo come tale misura? Ed ancora, la sua massa non era la rappresentazione fenomenica solo del nostro creare che si ottiene con il lavoro?
Immaginiamo un naufrago, il buon Crusoe su di un isola deserta, che abbia con sé tutte le sue carte di credito e un baule di banconote. Come potrà usarle al fine della sua sopravvivenza? Nella migliore delle ipotesi, le carte di credito potrebbero essere utili per raschiare pelli da concia e le banconote per avviare il fuoco.
Il denaro è solo una convenzione accettata che trasporta in sé un valore convenzionale e nient’altro, questo dovremmo tenerlo sempre bene a mente.
Con queste riflessioni, Ezra Pound ebbe a dire che la mancanza di denaro è una follia perché è come dire che non si possono costruire le strade perché mancano i chilometri.
L’economia, quella fondata sul lavoro, che ebbe già antichi nemici e approfittatori nei seguaci della crematistica, é stata ora completamente disumanizzata avendo rimosso per intero l’uomo e le sue attività. La disciplina economica della finanza ha preso il suo posto, ed il monetarismo espressione del tutto e del niente, novello apeiron, governa. Il denaro, cartaceo o anche di più il virtuale, esiste prima di tutto, a prescindere, addirittura senza lavoro. Non serve più il controvalore aureo, neanche più la carta per la sua stampa. La massa monetaria nella sua totalità non ha limiti ma neanche più pudori.
La ricchezza non ha più il senso della misura, ma di rimando neanche la povertà; come scrive il professor Fusaro, il nostro è un tempo in cui abbiamo perso il “metro”.
La distribuzione della ricchezza mai come in questi ultimi anni ha visto una polarizzazione così sfrenata, mai come in questi tempi l’indice di Gini tende in modo crescente verso l’unità. Alla concentrazione della ricchezza segue la concentrazione del potere nelle stesse poche mani. Malgrado tutto, alla violenza economica viene risparmiata ogni critica, perché ci viene detto che il problema non è in questo sistema imposto e fallimentare, ma in noi che lo subiamo. Una crisi dettata da quel famoso debito pubblico che grava come un senso di colpa già dalla nascita, una colpa da espiare ed espiabile solo tendenzialmente, perché il debito oltre ad appartenere a tutti come l’aria che respiriamo, si é eternizzato con gli interessi, pertanto ripianarlo è impossibile. Abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità e la stretta é una condizione dovuta, necessaria e riparatoria. Se prima lavorando onestamente potevamo vivere permettendoci di acquistare una casa e far studiare i figli, ora lavorando di più, magari in due, non basta, dobbiamo avere meno per restituire di più, riconsegnare il maltolto ai legittimi proprietari, fosse anche solo per gli interessi. Dobbiamo imparare a vivere facendo sacrifici perché il denaro è poco e il rimedio al problema é proprio permanere nella sua rarità; questo è ciò a cui l’establishment ci ha educato, insieme alla funzione pedagogica del mercato.
Certamente una disaffezione dal denaro è un nobile principio quando è un’aspirazione morale ed etica, e fintantoché le condizioni di contorno sono tali da limitarne il bisogno.
Ma qui si apre una voragine pericolosissima perché ciò che un tempo era garantito da uno Stato Sociale, oggi con la spending review e il pareggio di bilancio, viene messo tutto in discussione, quando non soppresso, quindi ci troviamo nella contraddizione fatale di non aver più disponibilità economica da un lato, mentre dall’altro siamo costretti a pagare servizi o diritti.
Questa doppia tenaglia, scarsità di reddito da una parte e rimozione di una rete pubblica di protezione dall’altra, produce un processo di polarizzazione agli estremi. Ulteriore aggravio é il fatto che l’ascensore sociale è bloccato, il sistema é rigido e monolitico, castale e fortemente impersonale, non facilmente identificabile ma blindato.
Mentre il mantra ossessivamente ci ricorda che i debiti vanno onorati, chi ha meno deve far sacrifici per chi ha di più.
Anche lo Stato non deve fare eccezioni.
L’abominio più grande é il declassamento dello Stato. Il confronto e il contrasto tra pubblico e privato non viene risolto in modo armonico: quando i ruoli non sono deliberatamente invertiti – il privato che si appropria di ciò che é pubblico, mentre al pubblico viene lasciata la sola intimità morbosa del privato – l’aporia viene rimossa con la soppressione del primo termine. Ciò coincide con il derubricare lo Stato a soggetto privato, svuotandolo del suo aspetto costitutivo, quello pubblico. Lo Stato confiscato, trattato come un qualunque privato, deve rimettere i suoi debiti senza eccezioni, pena il fallimento, piani di risanamento e il commissariamento più forte di ogni democrazia.
Cosi come Marx nella critica agli economisti classici, Smith e Ricardo, intravvede come questi, nel riconoscere nel capitale circolante il giusto recupero del capitale anticipato, nascondano invece come il valore, cioé il plusvalore, nasca dal lavoro non retribuito, dallo sfruttamento, allo stesso modo possiamo ritenere come oggi le Banche Centrali, il FMI, le agenzie di rating, nella loro narrazione di rigore monetario, indicando nel debito il giusto dovuto, nascondano l’espropriazione ai danni degli Stati e dei popoli di ogni libertà politica e civile.
Anche se la conseguenza antropologica della finanziarizzazione dell’economia é stata quella del funambolo, l’uomo sospeso che ha perso ogni sua certezza se non la sua condizione precaria, avanza gradatamente la percezione dell’inganno paradossale e il desiderio per l’uomo di riconquistare la sua centralità e sovranità, così come per lo Stato la sua Res-Pubblica, ma questa è già storia dei nostri giorni.
Lorenzo Chialastri

Aggiornato il 14/12/2018

La cartina di tornasole, i conti non tornano ancora

Nulla ci vieta di fare alcune osservazioni critiche al governo in carica anche se consapevoli del fatto che l’unica alternativa sarebbe il Partito Democratico e/o Forza Italia, entrambi nemici di classe e del popolo sovrano.

Non sappiamo se la manovra economica del governo del cambiamento sarà veramente efficace, non abbiamo la certezza se questo governo sia veramente del cambiamento o avrà il tempo per tentar di cambiar le cose. Non sappiamo se riuscirà a risolvere il problema della povertà e rialzare il PIL. Non sappiamo neanche se basterà l’ottimismo o il deficit fissato al 2,4% per ridurre il coefficiente di Gini, quello che misura le disuguaglianze della ricchezza. Non sappiamo neppure se riuscirà a liberare la vita reale dallo spettro dello spread. Non sappiamo se avrà la forza morale per bandire quei tassi d’interesse da usurai che spezzano il popolo. L’economia, ed ancor meno la finanza, non sono una scienza esatta, anzi non sono neanche una scienza, anche se a questo mirano per sedersi poi sul trono dell’indiscutibilità divina.
Certo il governo definito populista e sovranista qualche grattacapo all’Europa delle banche lo ha creato, producendo un pericoloso precedente.
E’ bastato solo che qualcuno dal fondo degli ultimi banchi della classe reclamasse, anche se con aria un po’ sommessa a volte timida, che i compiti dati dai maestri erano insostenibili, e questi subito sono andati su tutte le furie, una lesa maestà, una bestemmia impensabile, ed allora giù con anatemi, richiami e strali avvelenati.
Certamente la sovranità di un nazione si raggiunge attraverso un percorso di grande difficoltà, ma con un po’ di coraggio bisognerà pur partire da qualche parte. Tutto sta però nello stabilire quale è il paradigma di riferimento e cosa noi consideriamo per sovranità. Negli ultimi decenni si è assunto come naturale un assurdo disumano che di naturale non ha nulla, un’insana perversione che ha scandito il tempo della nostra esistenza, capace di orientare ogni cosa che facciamo al fine di non irritare ed innervosire i mercati, mentre questi, i mercati, hanno potuto tranquillamente a loro piacimento, per vendetta o per capriccio, portare sul baratro una nazione sana, indipendentemente dalla sua operosità. Guardando le cose alla radice possiamo affermare sicuramente che la sovranità vera non può prescindere da quella monetaria. Il potere della moneta per l’esistenza di un nazione è così forte ed indispensabile che viene riconosciuto da chiunque sia in buona fede, indipendentemente dal suo orientamento politico o economico.
“Datemi il controllo della moneta e non mi importa chi farà le sue leggi”, scriveva Rothschild, così come il problema fu sentito nella stessa misura da Lenin, per non parlare di Ezra Pound.
Lasciamo stare questo gravoso problema della sovranità monetaria che, nel solo chiederci a chi spetta la proprietà dell’euro, produrrebbe una crisi d’astinenza ai poveri euroinomani, altro che piano B. Non chiediamoci allora a quale entità antidemocratica sono state affidate le chiavi di casa, della zecca in questo caso. Cosa rimane quindi come misura della nostra presunta sovranità se non la nostra visione in termini di geopolitica? Attraverso questa abbiamo l’opportunità, anzi l’obbligo di dichiarare al mondo chi siamo e cosa vogliamo. La politica estera è la cartina di tornasole per chi si batte per la propria e l’altrui sovranità. Chi crede in questa forma d’autogoverno, non può in questo ambito che affermare la propria multipolarità da contrapporre a chi della unipolarità ha fatto una ragione storica, il suo destino manifesto, e che dopo la caduta del muro di Berlino ha colto un segno della provvidenza per la sua realizzazione.
Dal suo insediamento con toni chiari il governo giallo-verde ha tenuto a sottolineare la sua vicinanza geostrategica agli USA, troncando ogni speranza a chi avrebbe voluto un disimpegno magari graduale dalla NATO, non solo per risparmiare quei 70 milioni di euro al giorno di spese militari, ma proprio per liberarsi da un alleato troppo ingombrante e premuroso.
E’ anche vero che si é parlato di revocare le sanzioni alla Russia, novità sul nostro piano politico, ma in questi giorni mentre gli USA hanno deciso di riprendere unilateralmente le sanzioni contro l’Iran (colpevole di esistere come la Siria o la Palestina) e tutti i suoi alleati saranno allora costretti a non acquistare più petrolio iraniano per non incorrere nelle medesimi sanzioni, nessuna flebile voce s’è levata contro un’altra guerra commerciale alla quale ossequiosamente ci accoderemo ancora una volta.
Si ha l’impressione che se riusciamo a parole (finalmente) ad alzar la voce contro la Troika, il senso di riconoscimento nei confronti degli Americani a stelle e strisce é ancora così grande che non ci permette neanche di dubitare mai del loro altruismo e della loro bontà. Riusciamo solo ad annuire, o quando pronunciamo parola é solo per promettere fedeltà eterna, foss’anche quella del premier Conte a Trump per sfavorire la Russia a vantaggio del gasdotto TAP.
Per non parlare di Bolsonaro, dove si chiude il cerchio in cui “di notte tutte le vacche sono nere” e sovraniste. Certamente gli entusiasmi e le congratulazioni sono state fatte a titolo privato da uno dei due vice premier. Comunque si è dimostrato soltanto o la propria malafede sovranista o peggio ancora di non rendersi conto della storia dei fatti per ignoranza o superficialità. Quale è la presunta sovranità che spinge a stare con chi ha nostalgia della più classica delle dittature sudamericane? Pur ammettendo che anche le dittature possono essere sovraniste, pensiamo a Cuba, è da sottolineare che molto peggio sono quelle che lavorano per la spoliazione del Paese per conto terzi. A quel tipo di dittatura, sempre incoraggiata sul piano militare e logistico dagli USA, è sempre seguito il più sfacciato programma di privatizzazioni sul modello dettato dai Chicago boys. Chi svende la propria Patria non sarà mai libero ne starà mai dalla parte del popolo, non basta vincere le elezioni.
I sovranisti in Sud America hanno avuto la tempra di una Evita Duarte Peron, di un Hugo Chavez, di un Ernesto Guevara, di un Salvador Allende, hanno nazionalizzato nell’interesse della propria terra per difendersi dal quel maledetto vicino. Bolsonaro è evidentemente dall’altra parte, vicino a Pinochet, a Faccia d’Ananas Noriega ed a Milton Friedman, questo un vicepremier sovranista lo dovrebbe sapere perché altrimenti i conti, non quelli della manovra ma quelli che valgono veramente per il bene del popolo, perché autentici valori, non tornano.
Lorenzo Chialastri

Il fascismo inesistente vi seppellirà

Partiamo dal convincimento che la verità sia nel tutto, come Hegel insegna, quindi anche nelle sue necessarie interne contraddizioni.
L’antifascismo, cosi come il neofascismo, prescinde da questo tutto, trasformando il fascismo in un archetipo che è quello che gli altri hanno deciso per lui. Una valutazione unica è doverosa non certo per una volontà riabilitativa, ma soltanto per avere un’arma in più per una corretta interpretazione, non del passato, ma del presente che, stando così le cose, pesa molto di più perché drogato.
Per questo è particolarmente illuminante il significato del termine fascismo così come evocato dagli antifascisti.
Il suo uso prescinde da una valutazione storica, così come da una politica o filosofica, il suo uso non è neanche quello di un semplice aggettivo denigratorio, ma è un investimento per garantirsi sempre il diritto all’ esistenza e alla ragione. Prescinde persino dallo spazio temporale, persino da una prospettiva manichea, come se il fascismo, in quanto Male Assoluto, fosse sempre esistito. Una cloaca comunque da contrapporre alla propria autoreferenzialità. Al suo cospetto, tutto sembra svanire, dal colonialismo, alla tratta degli schiavi, allo sterminio degli Indiani d’America, al genocidio degli abitanti della Tasmania, persino lo sfruttamento sembra così sopportabile dinanzi al fascismo, la “legge bronzea dei salari” di Ricardo finisce per coincidere con una piattaforma per il rinnovo contrattuale.
L’antifascismo diventa l’abito buono che da i super poteri, un mezzo per diventare dei fuoriclasse. Già dei fuori classe, l’antifascismo è così potente da far scomparire non solo Giovanni Gentile, ma anche Karl Marx e Antonio Gramsci.
La gravità di una tale liturgica investitura risiede tutta nell’inautenticità dell’antifascismo.
Ad un primo approccio un sistema del genere, così condiviso da non essere mai messo in discussione più da nessuno, sembrerebbe spianare la via ai suoi utilizzatori, un a priori che equivale a mettersi dalla parte dei buoni, mentre i cattivi, gli altri, dall’altra. Un’illusione di farsi giudice delle regole della vita per “vincere facile”, ma a lungo andare le astrazioni che durano troppo hanno sempre il merito di chiedere il conto ai suoi ciechi sostenitori.
Vediamo qualche particolare.
Fino al 1936, malgrado tutto, al PCI il fascismo, almeno non tutto, non doveva apparire così orrido, visto “L’appello ai fratelli in camicia nera” firmato da sessanta dirigenti del Partito, compreso Togliatti. Nello stesso anno iniziano le purghe staliniane ed i processi ai trotskisti.
Con la guerra di Spagna s’assiste forse al primo tentativo di usare l’antifascismo come fosse un’arma, e questa volta l’uso che se ne fa è senz’altro politico. I compagni anarchici e trotskisti del POUM vengono massacrati perché inspiegabilmente s’erano messi al soldo del fascismo secondo l’accusa. Il format calunnioso, di una sola maschera da mettere in faccia a tutti i nemici, viene sperimentato anche altrove, sempre con buoni risultati. Si trovano infuocate pagine su l’Unità, siamo nel gennaio del 1944, che invitano a schiacciare tutti gli infiltrati, sempre trotskisti, fattisi oramai la V colonna del nazifascismo. Il messaggio probabilmente era rivolto anche al più grande gruppo partigiano di Roma, il Movimento Comunità d’Italia riunito sotto il quotidiano Bandiera Rossa che, cosa da non crederci, era più diffuso de l’Unità. Il gruppo Bandiera Rossa era distante anni luce dal CLN, cosi come dal PCI, in quanto antimonarchico, antibadogliano, ma soprattutto avrebbe voluto non consegnare Roma agli Alleati, ma bensì proclamare “La Repubblica Romana dei Lavoratori”. Stranamente questi compagni, malgrado il loro grandissimo contributo alla resistenza, non appariranno negli annali della epopea dell’ANPI, mentre molti di loro moriranno sotto le provvidenziali raffiche naziste delle Fosse Ardeatine.
Fondamentale è il documento di chiusura della III Internazionale comunista, maggio 1943, in esso scompare esplicitamente il concetto di rivoluzione socialista lasciando il posto alla necessità d’aderire al “blocco antifascista”.
Bordiga, altro fondatore del PCI, ebbe modo d’affermare che la cosa peggiore che aveva prodotto il fascismo era proprio l’antifascismo, il tronfio antifascismo che abbracciava anche l’odiato nemico borghese.
Alla affermazione di Bordiga, gli farà eco più di mezzo secolo dopo, confermando il mortale abbraccio con il nemico di classe, quella di Costanzo Preve quando disse che peggio del fascismo c’era solo l’antifascismo. Tra i due comunisti, solo qualche bagliore di lucidità, primo fra tutti quello di Pier Paolo Pasolini.
L’inautenticità dell’antifascismo risiede nel suo essere antistorico e non contestuale, quindi non un momento antitetico da opporre alla sua affermazione, ma un opporsi che diventa evanescente perché il farlo non contempla il momento della tesi reale e di conseguenza quello del divenire nella sintesi. La sua pretesa di autenticità necessaria passerà allora esclusivamente nel vedere nel qualunque altro, quello fuori da sé, un fascista.
Non si tratta più di un solo uso mistificante del termine, ma questo diventa una piattaforma psudoideologica onnivora, capace per questo di procedere ad un processo di metamorfosi genetica.
La rimozione della missione storica del corpo sociale, sedato dall’antifascismo nel tempo, è stata lenta ma costante, fino ad essere completa. Dallo scambiare il socialismo per un riformismo che nel suo procedere non aveva neanche più il coraggio di nominarlo, fino al rendere inutile tutta la critica marxiana al capitalismo.
Mentre l’orchestrina intonava “Bella Ciao”, si scoprivano nuove icone sovrastrutturali, da Kennedy ad Obama, da Blair a Clinton, da Paolo di Tarso a Papa Francesco, da Macron ad Juncker, dalla troika alla NATO, da Chicco Testa a Vladimir Luxuria.
La globalizzazione diventa l’internazionalismo realizzato, il meticciato è la società senza classi, il consumismo la distribuzione della ricchezza, il precariato altro non è che un’opportunità.
Ed allora, in fase oramai matura, al dogma dell’antifascismo, si può affiancare con orgoglio il dogma del neoliberismo, la tanto agognata lotta per la libertà e la giustizia sociale possono finalmente rispecchiarsi realizzate nelle libertà dei diritti umani e nelle pari opportunità che il mercato a tutti offre.
In conclusione, l’oscenità dell’antifascismo risiede tutta nell’aver abbandonato il Socialismo, foss’anche come sogno raggiungibile del non ancora, appiattendosi invece acriticamente su quest’attimo presuntuoso ritenuto eterno a cui non manca niente. Questo è stato il vero profondo potere di questo antifascismo inautentico, ma anche la sua più grande e indelebile colpa.
Lorenzo Chialastri

[Modificato in data 8/5/2019]