L’”Apocalypse Now” di Hollywood

I ricchi e famosi stanno fuggendo a frotte poiché i politici liberali ed il coronavirus trasformano la Città dei Sogni in un letamaio invaso da tossicodipendenti e violenti criminali

Di Caroline Graham per The Mail On Sunday, 15 agosto 2020

La palestra “Gold’s Gym” è diventata sinonimo del Sogno di Hollywood.
Situata a pochi metri dall’oceano nella soleggiata Venice Beach, Los Angeles, la palestra Gold’s Gym faceva da sfondo per Pumping Iron, il documentario del 1977 che seguiva un giovane sconosciuto culturista austriaco chiamato Arnold Schwarzenegger durante la sua preparazione alla gara di Mister Universo.
Il film lo proiettò a un successo immediato. Sarebbe poi diventato una superstar globale, sposato una donna del clan Kennedy, ed eletto governatore della California.
Ma oggi la palestra “Gold’s Gym” è nel mezzo di scene post apocalittiche che si sono consumate per lo più a Los Angeles, trasformando la Città dei Sogni in un incubo urbano dal quale la gente sta fuggendo a frotte.
Una città di tende improvvisate fatte di teloni sventolanti e scatoloni di cartone circonda la palestra da tutti i lati.
Tossicodipendenti e senzatetto, molti dei quali chiaramente malati mentali camminano come zombie lungo le strade fiancheggiate da palme – il tutto a pochi isolati dalle case multimilionarie con vista sul Pacifico.
Biciclette rubate sono ammucchiate a pile sui marciapiedi disseminati di siringhe rotte.
I telegiornali sono pieni di storie dell’orrore da tutta la città, di donne che sono attaccate mentre la mattina fanno jogging o di residenti che ritornando a casa si ritrovano degli estranei che defecano nel loro giardino.
Oggi, Los Angeles è una città sull’orlo del precipizio. Cartelli con scritto “In vendita” sono a quanto pare disseminati su ogni strada periferica poiché le classi medie, in particolare quelle con famiglia, fuggono verso sobborghi più sicuri, con molte che scelgono di lasciare del tutto Los Angeles. Continua a leggere

Dall’assassinio di “Afrika” alle atrocità di Attica

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Il razzismo dei poliziotti copre la repressione sistemica di 38 milioni di Afroamericani.
Regime del terrore nelle Guantanamo nazionali. Su 7 milioni di detenuti e in libertà condizionata più della metà sono neri, mentre costituiscono il 12,5% della popolazione.

Continua a correre sangue afroamericano sulle strade degli Stati Uniti: cinque assassinii ad opera delle “forze dell’ordine” in poco più di due mesi. Dopo Ferguson nel Missouri, Staten Island nello Stato di New York ed altrove è stato il turno di Los Angeles dove sei poliziotti, dopo averlo immobilizzato, hanno ucciso con cinque colpi di pistola un giovane nero affetto da disturbi mentali noto con il nomignolo di “Afrika”. Se l’omicidio non fosse stato filmato da un passante, il caso sarebbe stato archiviato con la formula tradizionale della legittima difesa degli agenti minacciati dall’ucciso. Lo stesso giorno, lunedì 2 marzo, il Presidente Barack Obama ha chiesto che indagini indipendenti vengano condotte sugli omicidi di Ferguson e di Staten Island per “ripristinare la fiducia dell’opinione pubblica nelle forze dell’ordine”. Nell’assassinio di Los Angeles, come in quelli che lo hanno preceduto, è stato denunciato dai benpensanti il razzismo degli assassini: una denunzia motivata dal fatto che le vittime sono quasi sempre nere e le Beretta 9 sono sempre impugnate da agenti bianchi. Un più vasto giro di orizzonti sulla storia degli Stati Uniti degli ultimi quarant’anni, pur non ignorando la causale razzista, evidenzia in questi assassinii e nel trattamento spietato dei detenuti neri nei penitenziari USA una persecuzione sistemica ed una repressione violenta e generalizzata dei 38 milioni di afroamericani – il 12,5% della popolazione – nella land of the free and the home of the brave.
Le motivazioni sottaciute ma palesi in una lettura sia pur benevola della storia della “terra dei liberi e della casa dei coraggiosi” sono chiare e si riassumono nel potenziale eversivo, ribellistico se non rivoluzionario della gente di colore – il bianco apparentemente non è un colore. Tralasciamo gli antefatti di Nat Turner o di Abrahm Lincoln, il grande emancipatore che nella sua preveggenza aveva consigliato agli ex-schiavi di emigrare nell’isola di Barbados e torniamo ai nostri tempi. Tutti coloro che ricordano solo “I have a dream” di Martin Luther King preferiscono ignorare la radicalizzazione dell’Apostolo della Pace che aveva visto quel sogno infranto e sepolto dagli eventi seguiti alla marcia di Washington: malgrado i progressi sulla carta dell’integrazione razziale, le ulteriori perdite di diritti civili da parte della sua gente, la disgregazione e la non osservanza delle “quote” nell’assunzione di manodopera, la guerra nel Vietnam, l’aumento esponenziale dei detenuti neri. Il rev. King era diventato un rivoluzionario, molto vicino a Malcom X e alle Black Panthers che rivendicavano il diritto all’autodifesa armata contro la violenza sanguinaria della polizia: questa si affrettò a trucidarne dirigenti e militanti. L’assassinio di King nel 1968 e l’arresto del suo esecutore, ma non dei mandanti, suggellarono quel capitolo e ne promossero un altro già aperto anni prima e poi esteso con metodi illegali, anti-costituzionali e segreti a tutti gli esponenti del dissenso, neri o bianchi che fossero: prese il nome di “Cointelpro (Counter Intelligence Program), Richard Nixon lo portò ad estremi mai prima toccati grazie anche allo zelo dello FBI. Il Federal Investigation Bureau persegue, è vero, i linciaggi magari con ritardi di venti anni, ma le vittime del Ku Klux Klan sono diventate oggi quelle delle “forze dell’ordine”. Un’esagerazione? Sembra proprio di no, a giudicare da quanto è accaduto il 9 agosto 2011 nel carcere di massima sicurezza di Attica e dal procedimento giudiziario aperto il 2 marzo scorso nel piccolo centro di Varsavia, stato di New York.
Non credo che i corrispondenti italiani negli Stati Uniti abbiano mai visitato Attica come facemmo noi nel settembre 1971, quando i detenuti in gran parte afroamericani si ribellarono, presero 9 ostaggi e occuparono la grande struttura carceraria. Quattro giorni dopo, quando le trattative con gli insorti erano giunte a buon punto il governatore dello stato, Nelson Rockefeller scatenò la guardia nazionale, la polizia statale e le guardie carcerarie contro gli insorti e pose fine all’occupazione con 43 morti, compresi i nove ostaggi uccisi dalle mitragliatrici degli attaccanti. Le punizioni e le torture di centinaia di detenuti, primo tra tutti John Smith, detto “Big Black” – divenuto poi nostro grande amico – furono estreme e vennero solo alla luce durante una causa protrattasi per 19 anni intentata dall’avvocato dei diritti civili Elizabeth Fink e conclusasi con un risarcimento di 12 milioni di dollari ai parenti delle vittime.
Il regime del terrore instaurato dalle guardie è continuato e ha assunto un profilo istituzionale di inusitata ferocia. Lo ha documentato l’inchiesta di Tom Robbins, difensore dei diritti civili dei detenuti, pubblicata dal New York Times il 28 febbraio u.s.. L’incidente del 9 agosto 2011 viene descritto in ogni minimo particolare: durante la distribuzione della posta sui corridoi del Blocco C, i detenuti avevano reagito verbalmente all’insulto di una guardia carceraria, avevano cioè violato la regola del silenzio. Era stato ordinato il “lock in”, il ritorno dei detenuti nelle celle, poi tre guardie carcerarie avevano sottoposto ad un bestiale pestaggio durato sei minuti uno dei detenuti, il ventinovenne afroamericano George Williams, ricoverato poi in infermeria con fuoriuscita di un globo oculare, tre costole e una caviglia spezzate, ematomi cranici e perdita della conoscenza. Se non fosse stato per l’assistente sanitaria di nuova nomina Katherine Tara che dopo aver constatato l’eccezionalità del caso “al di là di un normale uso della forza” aveva ottenuto il ricovero d’urgenza del Williams in un ospedale esterno, il caso non sarebbe mai venuto alla luce e il processo a carico delle tre guardie carcerarie non avrebbe mai avuto luogo anche se l’esito di un’assoluzione degli indiziati è più che probabile, accompagnato forse da un risarcimento di qualche migliaio di dollari alla vittima.
Dal 1971 al 1992 come corrispondente di un quotidiano romano e poi del TG3 abbiamo visitato altri penitenziari di massima sicurezza e non solo quelli dov’era rinchiusa Silvia Baraldini (anche se bianca e cittadina italiana venne sottoposta a prolungati isolamenti in cella, deprivazione sensoria, sonno interrotto ogni venti minuti per mesi e mesi ed altre amenità del genere).
Se Guantanamo verrà mai chiusa, non verranno certo chiuse le numerose Guantanamo della Repubblica Stellata: il primato di Attica nella repressione e deumanizzazione dei detenuti afroamericani viene eguagliato e spesso superato dalle “correctional facilities” di Marion nell’Illinois, di Pelican Bay in California, di Florence in Colorado, di Reiford in Florida, di Angola in Louisiana, di Atmore Holman in Alabama e di un’altra dozzina di penitenziari. I tagliagole dell’ISIS propagandano a fini terroristici le loro atrocità, il regime del terrore istituzionalizzato nelle carceri USA viene tenuto nascosto tranne le poche rare eccezioni quando viene alla luce per interventi esterni di enti umanitari non controllati dal “Department of Justice” o da omicidi, come quello di Los Angeles, perpetrati nelle strade delle città e filmate da cineamatori.
Un’ultima statistica: sono 7 milioni i detenuti, quelli in libertà condizionata e sottoposti a sorveglianza giudiziaria mediante bracciali elettronici. Più della metà sono afroamericani, mentre, ripetiamo, rappresentano solo il 12,5% della popolazione statunitense che nel 2012 aveva raggiunto e superato i 316 milioni. E questa guerra non dichiarata contro i neri d’America continua a imperversare nel Grande Impero d’Occidente.
Lucio Manisco