L’importanza delle Forze Militari in Africa
Il 4 ottobre 2017, forze nigerine e Berretti Verdi americani sono stati attaccati da militanti islamici durante una missione di raccolta di intelligence lungo il confine con il Mali. Cinquanta combattenti di una affiliata africana dello Stato Islamico hanno attaccato con armi di piccolo calibro, armi montate su veicoli, granate lanciate con razzi e mortai. Dopo circa un’ora nello scontro a fuoco, le forze americane hanno fatto richiesta di assistenza. I jet Mirage francesi hanno fornito uno stretto supporto aereo e i militanti si sono disimpegnati. Gli elicotteri sono arrivati per riportare indietro le vittime per l’assistenza medica.
Quando la battaglia finì quattro Berretti Verdi sono risultati uccisi nei combattimenti e altri due furono feriti. I sergenti maggiori Bryan Black, Jeremiah Johnson, Dustin Wright e il più pubblicizzato di tutte le vittime il sergente La David Johnson sono stati uccisi in missione. Il presidente Trump si è impegnato in uno scontro politicizzato con la vedova di Johnson e la deputata della Florida Federica Wilson in merito alle parole da lui usate in una telefonata consolante.
La battaglia politica sui commenti del Presidente Trump ha avuto l’effetto non intenzionale di spostare l’attenzione della nazione sulle attività americane in Africa. In precedenza il pubblico americano, e buona parte dell’establishment politico, mostrava scarso interesse o conoscenza delle missioni condotte dai dipartimenti di Stato e della Difesa all’interno delle nazioni africane in via di sviluppo. Il 5 maggio, un Navy SEAL era stato ucciso vicino a Mogadiscio mentre assisteva le forze somale nel combattere al-Shabaab. Questa morte è arrivata un mese dopo che l’amministrazione Trump aveva revocato le restrizioni sulle operazioni di antiterrorismo nelle regioni della Somalia.
Certamente l’evento non ha registrato la stessa attenzione del mainstream come la polemica circa il sergente Johnson; tuttavia, tutto rivela come l’Africa stia lentamente diventando un’area di interesse nazionale cruciale per gli Stati Uniti. Le questioni concernenti le nazioni africane riguardanti le minacce terroristiche sia esterne sia interne, così come i loro problemi economici, servono a garantire che i responsabili politici degli Stati Uniti si concentrino sul continente. Iniziative globali come la Combined Joint Task Force for Operation Inherent Resolve coinvolgono diverse nazioni africane fondamentali per combattere l’ascesa dell’estremismo islamico radicale. L’ascesa di gruppi estremisti coesi insieme all’espansione degli investimenti economici nell’Africa post-coloniale ha comportato un aumento dei dispiegamenti militari stranieri e americani nella regione. Continua a leggere →
Lettera aperta ai Senatori e Deputati per la convocazione di un dibattito parlamentare per verificare le responsabilità di Napolitano e Berlusconi
Ci sono, e vanno indagate e dibattute, le grandi cause e responsabilità internazionali e storiche dell’immigrazione di massa e di una presente (e futura) invasione del nostro territorio nazionale che il governo non riesce né a pensare, né tanto meno a controllare.
Ma per avere il diritto di indagare e dibattere le grandi cause e responsabilità storiche, bisogna meritarselo, e prima indagare e dibattere le cause e responsabilità italiane di questa sciagura che ricade sul capo nostro, dei nostri figli e degli immigrati. Farlo è facile, perché la responsabilità politica e giuridica diretta dell’invasione è ascrivibile a due colpevoli italiani, entrambi viventi e operanti sulla scena politica, che hanno nome, cognome e indirizzo.
I due colpevoli italiani dell’invasione sono:
1) Giorgio Napolitano, nato a Napoli il 29 giugno 1925, Senatore di diritto e a vita quale Presidente Emerito della Repubblica.
2) Silvio Berlusconi, nato a Milano il 29 settembre 1936, Presidente di Forza Italia.
Nel 2011 Giorgio Napolitano era Presidente della Repubblica, Silvio Berlusconi Presidente del Consiglio del Ministri. Tre anni prima, entrambi avevano firmato il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista, stipulato a Bengasi il 30 agosto 2008, che contiene il solenne divieto di compiere atti ostili in partenza dai rispettivi territori, e in cui ciascuna parte si impegna a non compiere atti ostili nei confronti dell’altra e a non consentire l’uso del proprio territorio da parte di altri (Stati o attori non statali) per la commissione di tali atti.
Nel 2011, Francia e Gran Bretagna aggrediscono la Libia, ne rovesciano il governo, e bande criminali da esse sostenute e finanziate massacrano il Capo dello Stato Muhammar Gheddafi.
Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi non soltanto non muovono un dito per opporsi con tutti i mezzi disponibili a questa aggressione, ma consentono agli aggressori l’utilizzo dello spazio aereo e delle infrastrutture militari italiane, e addirittura si accodano all’aggressione, partecipandovi tardivamente, in ruolo subalterno.
Così facendo, Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi si rendono colpevoli di quanto segue:
– Violazione patente e ingiustificata del Trattato di amicizia tra Italia e Libia, con grave offesa all’onore della Repubblica Italiana e alla sua reputazione internazionale.
– Grave danno a un interesse nazionale vitale: perché tale era, per l’Italia, la stabilità del governo libico. Come largamente prevedibile e previsto, infatti, la destabilizzazione del governo libico e l’anarchia sanguinosa che ha provocato è la causa prossima immediata dell’invasione incontrollata di immigrati sul territorio nazionale italiano.
Chiediamo dunque che si tenga al più presto un dibattito parlamentare avente per tema: “Responsabilità politiche italiane dell’invasione incontrollata di immigrati sul suolo nazionale”, nel quale si discutano le responsabilità politiche e giuridiche di Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi. In questo dibattito parlamentare si valuterà:
a) se deferire Silvio Berlusconi al Tribunale dei Ministri per la violazione del Trattato di amicizia tra Italia e Libia (v. la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, 1969, in specie artt. 26 e 31. Dal preambolo: “I principi del libero consenso e della buona fede e la norma pacta sunt servanda sono universalmente riconosciuti”. Dall’allegato: “Ogni trattato in vigore vincola le parti e deve essere eseguito da esse in buona fede”);
b) se deferire Giorgio Napolitano alla Corte Costituzionale per il reato di alto tradimento, in quanto colpevole di comportamento doloso che, offendendo la personalità interna ed internazionale dello Stato, ha costituito una violazione del dovere di fedeltà alla Repubblica.
Che cosa potevano fare Silvio Berlusconi e Giorgio Napolitano nel 2011?
Appena saputo che Francia e Gran Bretagna intendevano aggredire la Libia, Paese amico e garante di un interesse nazionale vitale, Silvio Berlusconi e Giorgio Napolitano potevano e dovevano, subito:
a) denunciare pubblicamente e in tutte le sedi diplomatiche opportune – anzitutto UE, NATO e ONU – l’iniziativa illegale delle due potenze (alleate NATO), e manifestare inequivocabilmente che l’Italia aveva l’obbligo, l’interesse e la volontà di opporvisi con tutti i mezzi a sua disposizione;
b) offrire collaborazione militare al legittimo governo libico, e, se accettata, schierare truppe italiane sul suolo libico a protezione del Capo dello Stato e delle infrastrutture più rilevanti, inviando in appoggio alle truppe di terra le navi della Marina militare italiana.
Questo si poteva e si doveva fare, e Silvio Berlusconi e Giorgio Napolitano non lo hanno fatto, pur conoscendo molto bene le gravi conseguenze, per l’Italia e la Libia, della loro inazione.
La distruzione dello Stato libico ha aperto le porte all’immigrazione di massa e a chi ci lucra sopra: mercanti di carne umana e jihadisti.
La controprova è la Spagna che, sebbene molto più vicina al continente africano delle coste italiane, non è investita da un’immigrazione paragonabile a quella che interessa noi: perché di fronte alla Spagna c’è il Marocco, che può controllare il proprio territorio.
La soluzione della crisi migratoria passa per il recupero della dignità e della volontà dell’Italia di ammettere i propri errori, a partire dalla nostra complicità nella destituzione violenta di Gheddafi. Forte della ritrovata legittimità, l’Italia potrà decidere i provvedimenti necessari a fronteggiare l’emergenza e prospettare nelle sedi internazionali una soluzione che tenga conto di tutte le cause del fenomeno. Quanto all’Unione Europea, appare sempre più chiaro, anche in questo frangente, che o l’Unione cambia, o si deve uscire dall’Unione.
Firme: Ugo Boghetta Roberto Buffagni Tito Casali Pier Paolo Dal Monte Andrea Magoni
Per aderire come firmatari si prega di inviare un’email ai seguenti indirizzi: indipendenzaecostituzione@yandex.com costituzionelasoluzione@gmail.com
L’informazione può sembrare tratta da un film di fantascienza, tanto è impensabile vedere una monarchia, il cui solo nome evoca l’estremismo e il terrorismo, mettere fuori legge un Paese, l’Algeria, che ne è stato la prima vittima e il cui tributo pagato per combattere le orde organizzate dagli sponsor wahabiti è stato molto pesante. Dunque, l’informazione è ufficiale. Il Ministero degli Esteri saudita ha appena incaricato le autorità competenti del Paese (i ministeri dell’Industria e del Commercio e il Consiglio della valuta saudita), chiedendo loro di dar prova di «maggior vigilanza» nelle transazioni finanziarie con undici Paesi, fra cui l’Algeria, al fine di «contrastare i rischi di coinvolgimento in casi di riciclaggio di denaro o di finanziamento del terrorismo». L’informazione è riportata dal giornale saudita Mekka, nella sua edizione di domenica 17 maggio. Il governo saudita accusa questi paesi (Algeria, Ecuador, Etiopia, Indonesia, Myanmar, Pakistan, Siria, Turchia e Yemen) di «non rispettare gli impegni assunti nel quadro del Gruppo di azione finanziaria contro il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo (Gafi). Il rapporto cita anche l’Iran e la Corea del Nord nella sua lista di Paesi «che rifiutano ogni forma di cooperazione» nella lotta contro questi due flagelli. Nella sua direttiva alle istituzioni interessate, il Ministero degli Affari Esteri saudita elenca otto misure da «applicare rigorosamente» nelle loro relazioni finanziarie con gli undici Paesi citati. Prima di queste misure, «l’applicazione di condizioni più rigorose nell’identificazione dei clienti, al fine di conoscere l’identità del vero beneficiario prima di qualsiasi transazione con le persone fisiche o giuridiche nei Paesi che presentano una debolezza nei loro dispositivi o che non applicano le raccomandazioni del Gafi contro il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo». A questo proposito, il ministero raccomanda anche di «rispettare scrupolosamente le note di avvertimento stabilite dal Gafi e le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza o della commissione incaricata dell’applicazione del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite in materia». Altra misura notificata dalle autorità saudite, «fornire un aggiornamento istantaneo delle condizioni enunciate nel quadro della lotta contro il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo, e prendere le misure preventive necessarie per una migliore sicurezza di tutte le transazioni effettuate con le parti attinenti ai Paesi in questione». La nota chiede anche di «assicurarsi che tutte le transazioni commerciali stabilite con le parti relative ai Paesi oggetto dei bollettini di avvertimento siano a fini economici e chiaramente legali» e di «identificare i veri beneficiari». Ultime misure, infine, «consultare i siti web delle organizzazioni individuate in maniera regolare e periodica, cercare altre fonti d’informazione affidabili e prendere le misure adeguate a seguito di quanto vi è diffuso». Il rapporto indica, inoltre, che questo nuovo dispositivo sarà trasmesso al segretariato del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG). L’Arabia Saudita aveva impedito a un aereo di Air Algérie di atterrare a Sana’a per il rimpatrio di cittadini algerini e nordafricani dallo Yemen. Un’informazione confermata dal pilota della compagnia aerea nazionale, ma smentita dal nostro Ministero degli Affari Esteri. Questo nuovo episodio – che i nostri leader si affretteranno probabilmente a smentire ancora una volta – è una chiara indicazione che i Paesi del Golfo classificano l’Algeria come un Paese «recalcitrante» da «sorvegliare attentamente», per aver rifiutato di partecipare all’operazione militare contro gli Houthi. Prova ne è che Stati arabi come il Marocco e la Giordania non sono interessati dalla lista nera di Riyadh che ha come chiari obiettivi regimi non monarchici. Ma su questo ci torneremo. R. Mahmoudi
I cartelli internazionali della droga hanno beneficiato delle sanzioni degli Stati Uniti volte a isolare la Russia, il capo dell’anti-droga Viktor Ivanov ha detto a Russia Today. Egli ha anche respinto le accuse portate contro di lui durante le udienze del caso Litvinenko a Londra come “una farsa”.
RT:Un anno fa, il 20 marzo 2014, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama – abbastanza sorprendentemente per chiunque, e probabilmente anche per lei – ha emesso un Ordine Esecutivo che l’ha inclusa nella lista nera delle persone soggette alle sanzioni statunitensi contro la Russia.Per quale motivo lei pensa che lo abbia fatto? Viktor Ivanov: In effetti, è stata davvero una sorpresa, non solo per me, ma anche per i miei colleghi americani, funzionari dell’amministrazione presidenziale e della Drug Enforcement Administration (DEA). In realtà essi mi hanno detto che questa decisione era venuta direttamente dal vertice. Vorrei far notare che mettere il capo dell’agenzia russa di controllo della droga su una lista nera non ha comportato nulla di buono né per gli Stati Uniti né per la Russia. Gli unici a beneficiare di questo sono stati i trafficanti internazionali di droga, e credo che i signori della droga abbiano ballato di gioia nel vedere la fine di una così forte collaborazione anti-droga. Continua a leggere →
Con due diversi comunicati, l’ultimo delle 21.17 del 26 Ottobre, l’Ansa fornirà la notizia che il Qatar (!) si appresta a sostituire la NATO al fine missione di Unified Protector previsto per il 31 Ottobre, in attesa di un nuovo vertice dei Ministri degli Esteri e della Difesa dell’Alleanza Atlantica per stabilire un piano di gestione condivisa della “nuova“ Libia, dichiarata “liberata“ dalla feccia tribale che si riconosce nel ex ministro della giustizia della Jamahiriya Adbel Jalil. Dichiarazione arrivata Domenica 23 durante una manifestazione pubblica a Bengasi. Il perché lo si sia fatto nella città della Cirenaica invece che a Tripoli la dice lunga sulle condizioni dell’ordine pubblico attualmente esistenti nei quartieri della capitale e sul “consenso“ espresso da 2 milioni di residenti (1/3 dell’intera popolazione dell’ex colonia italiana) alle formazioni armate dei mercenari-tagliagole comandati da Abdelhakim Belhadj, che pattugliano le strade e le vie della capitale ricorrendo a una sistematica brutalità contro le famiglie dei “lealisti“ e alla caccia ai militanti dei Comitati Popolari che si conclude sempre più spesso in scontri a fuoco o in esecuzioni sommarie. Nel frattempo, cresce la scollatura tra gli stessi clan che assediano una città ormai ridotta alla fame, sempre più carente di assistenza sanitaria, di scorte di benzina e gasolio e di servizi pubblici. Da segnalare la mancanza di qualsiasi contatto tra la popolazione locale e gli “stranieri“ calati come un orda selvaggia su Tripoli, preceduta dai bombardamenti aerei della NATO che hanno portato morte e distruzione, messo in ginocchio le infrastrutture della capitale e sconvolto alla radice la qualità della vita e l’abituale serenità della gente.
Un già visto a Baghdad con i miliziani curdi di Erbil e Kirkuk di Jalal Talabani, attuale presidente dell’Iraq e a Kabul con i tagiki-uzbechi dell’Alleanza del Nord di Ahmad Massud, i cui successori sono stabilmente rappresentati nel governo Karzai sostenuto da USA e NATO. Continua a leggere →
Per capire che cosa sta accadendo a Tripoli bisogna considerare innanzitutto il quadro strategico. Non siamo di fronte a rivolte spontanee, ma indotte che mirano a replicare nel nord Africa quanto avvenuto alla fine degli anni Ottanta nell’ex Unione Sovietica. Anche allora la rivolta partì da un piccolo Paese, la Lituania, e all’inizio nessuno immaginava che l’incendio potesse propagarsi ai Paesi vicini e non era nemmeno ipotizzabile che l’URSS potesse implodere. Il Maghreb non è l’Unione Sovietica e non esistono sovrastrutture da far saltare, ma per il resto le analogie sono evidenti. La Tunisia è il più piccolo dei Paesi della regione ed è servito da detonatore per la altre volte. A ruota è caduto il regime di Mubarak, la Libia è in subbuglio, domani forse Teheran e, magari sull’onda, Algeria, Marocco, Siria. Che cos’avevano in comune i regimi tunisini, egiziano e libico? Il fatto di essere retti da leader autoritari, ormai vecchi, screditati, che pensavano di passare il potere a figli o fedelissimi inetti.
Non è un mistero: le rivolte sono state ampiamente incoraggiate – e per molti versi preparate – dal governo americano, come dimostrato qui e qui. Da qualche tempo Washington riteneva inevitabile l’esplosione del malcontento popolare e temendo che a guidare la rivolta potessero essere estremisti islamici o gruppi oltranzisti, ha proceduto a quella che appare come un’esplosione controllata, perlomeno in Egitto e in Tunisia. Perché controllata? Perché prima di mettere in difficoltà Ben Ali e Mubarak, l’Amministrazione Obama ha cementato il già solidissimo rapporto con gli eserciti, i quali infatti non hanno mai perso il controllo della situazione e sono stati gli artefici della rivoluzione. Non scordiamocelo: oggi al Cairo e a Tunisi comandano i generali, che anche in futuro eserciteranno un’influenza decisiva. Washington ha vinto due volte: si è assicurata per molti anni a venire la fedeltà di questi due Paesi e ha messo a segno una straordinaria operazione di immagine, dimostrando al mondo intero che l’America è dalla parte del popolo e della democrazia anche in regimi fino a ieri amici.
(…)
E Fidel prevede che…:
L’Avana, 22 febbraio – “Quello che è assolutamente evidente è che il governo degli Stati Uniti non si interessa minimamente della pace in Libia, e non esiterà ad ordinare alla NATO di invadere questo Paese ricco”. Così Fidel Castro fa sentire la sua opinione su quanto sta succedendo in Libia, affermando che una mossa in questo senso potrebbe essere “un questione di ore o di pochi giorni”.
“Una persona onesta sarà sempre contro qualsiasi ingiustizia che si commetta in qualsiasi Paese del mondo”, ha scritto l’ex lider maximo cubano in una delle sua famose “Reflexiones” denunciando “il crimine che la NATO si prepara a commettere contro il popolo libico”.
(Adnkronos/Dpa)
Meglio prevenire che curare.
“Un’ampia gamma di opzioni”
New York, 23 febbraio – La repressione in Libia ‘viola le leggi internazionali’ ed è contraria ai diritti umani, che non sono negoziabili, e i responsabili dovranno risponderne. Lo ha detto il presidente USA chiedendo di porre fine al mostruoso ed inaccettabile bagno di sangue. Obama ha poi annunciato che gli Stati Uniti stanno esaminando ‘un’ampia gamma di opzioni’ per azioni contro il Paese nordafricano e che il suo governo ha predisposto piani di evacuazione per gli americani.
(ANSA)
C’è qualcosa che non torna
C’è qualcosa che non torna nel racconto delle vicende libiche: le stragi, gli aerei, i cecchini, i mercenari, le notizie che si susseguono ci dicono che la crisi del regime è profonda quanto mai era stata in quarantuno anni di potere di Gheddafi. Ma quel che non si capisce è quale sia la percentuale di informazione “drogata” che punti a favorire una soluzione vincente della crisi secondo le aspettative dei ribelli e dei loro potenti sostenitori esterni. C’è infatti uno scarto non indifferente fra le unità di notizia e i video da una parte, e le cifre sparate con titoli cubitali dalla stampa e dai telegiornali di mezzo mondo. Tutti i video mostrano in genere non più di alcune decine di persone nelle strade: perché non c’è nemmeno una foto di cellulare con almeno una ventina-trentina cadaveri a terra, delle centinaia di ammazzati dal regime? Testimoni riferiscono, scrive la BBC, di aerei che bombardano i civili, e di mercenari che fanno strage di manifestanti: sono uomini di Gheddafi o sono terzi soggetti che alimentano la guerra civile secondo il modello delle proteste elettorali in Iran di due estati fa?
E poi ancora: alcune finestre in fiamme, senza che si veda l’edificio nella sua interezza non si sa dove e quando sono state riprese. Il filmato con alcuni orribili cadaveri carbonizzati è curioso, di nuovo un capannello di persone e poi i resti delle vittime come trasportati ed esposti su teloni militari. Su Al Jazira, un altro post che sembra un filmato, ma in realtà è una foto con nel sottofondo un anonimo libico di Tripoli che dice che Gheddafi e i suoi sono “mostri”. Ancora, foto di feriti in ospedale ma non si sa quale ospedale e feriti quando. E video di mercenari africani che non dicono nulla, pochi fotogrammi forse girati addirittura su un aereo.
Leggete poi i giornali: i titoli sparano bombardoni, gli articoli parlano in genere di “testimoni” (che) “riferiscono”, e sono infiorati da condizionali e da forse: vedi la fuga di Gheddafi in Venezuela. Vedi i prima due poi quattro piloti disertori e atterrati a Malta,che nessuno ha ancora intervistato; vedi i tre ministri che si sarebbero dimessi. La cautela dunque sembrerebbe d’obbligo, come del resto si deduce dall’intervista dell’ambasciatore libico all’ONU di Ginevra che, abbandonato il regime di Gheddafi, ha dichiarato a Rai News ieri mattina che “la situazione è estremamente critica”, che si è di fronte all’ “estrema crisi del regime”, che “Gheddafi non ha più nulla in mano”, senza fornire però una sola cifra delle vittime vere o presunte. Un lavoro “sporco” da affidare all’anonimato mediatico in rete, nelle tv e sulla stampa, non da compiersi da parte di un alto diplomatico con aspirazioni probabili a diventare ministro nell’era post-gheddafiana.
Si è di fronte dunque ad uno scarto notevole fra i dati di fatto certi e quella che potrebbe essere chiamata una sovraesposizione mediatica, onde per cui ponderare la profondità della crisi del regime libico è molto difficile. Attenzione però, è la stessa enfatizzazione mediatica a far crescere le difficoltà di Gheddafi: è un lavorio intelligente, che va a combinarsi con il pressing antiGheddafi dell’Europa e soprattutto – a fronte di un Obama silenzioso negli ultimi giorni – di Hillary Clinton, ministro degli esteri di quella stessa potenza che per iniziativa di Obama ha avallato o contribuito alla defenestrazione del presidente-dittatore del vicino Egitto. Ecco dunque i segnali concreti di sgretolamento del regime ai suoi vertici, i tre ministri e il diplomatico di cui sopra e probabilmente alcuni ufficiali e soldati dell’esercito. La partita è ancora aperta fra voci di diserzioni o di ammutinamenti diffuse in Occidente senza veri riscontri fattuali, e la possibilità che tutto precipiti con un colpo di mano o un attentato mirato. L’incognita non è solo l’esercito, ma gli equilibri fra i diversi apparati politico-militari, ad esempio i Comitati rivoluzionari costruiti nella fase più radicale della “rivoluzione” gheddafista.
(…)
Do you remember Kosovo 1999?
Bruxelles, 24 febbraio – Tra le opzioni che l’Unione Europea sta considerando nella preparazione dei piani sulla Libia c’è anche l’ipotesi di un intervento militare a carattere umanitario. Lo hanno rivelato fonti UE, secondo cui “questa è una possibilità su cui stiamo lavorando”. Si tratta di “una questione difficile e complessa”, hanno sottolineato le fonti, ricordando che “qualsiasi tipo di intervento militare richiede ovviamente una cornice legale”.
(Adnkronos)
“Al momento non ne abbiamo mai parlato”
Roma, 24 febbraio – “Al momento non ne abbiamo mai parlato. Finora nessuno ha mai preso in considerazione l’ipotesi di una missione internazionale in Libia come quella che c’è in Kosovo”. Lo afferma il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, rispondendo ai giornalisti che a Montecitorio gli chiedono se si può ipotizzare l’avvio di una missione internazionale in Libia.
(AGI)
Casini, bordelli e Tonini: “l’opposizione” non delude mai
Roma, 24 febbraio – “Il signor Gheddafi è un criminale che va processato alla Corte penale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità, perchè quello che sta capitando in queste ore, con bombardieri mandati contro i cittadini libici, con motovedette a cui viene chiesto di bombardare dal mare Tripoli e Bengasi, tutte queste testimonianze sono più che sufficienti per dire che chi guida la Libia è un criminale”. Lo dice Pier Ferdinando Casini, ospite di ’28 minuti’, trasmissione di Barbara Palombelli su Radio Due.
(Adnkronos)
Roma, 24 febbraio – ”Mi auguro che il presidente Dini sia in grado di smentire le affermazioni contenute nell’intervista pubblicata sulla Repubblica di oggi. Si tratta infatti – secondo il capogruppo del PD in Commissione Esteri a palazzo Madama Giorgio Tonini – di affermazioni sconcertanti e gravissime”.
”Stando a quanto affermato dal presidente della Commissione Esteri del Senato – prosegue Tonini – l’Italia non auspica la fine di Gheddafi, perchè è un leader che oggi intrattiene buoni rapporti con la comunità internazionale. C’è da chiedersi cosa intenda il presidente Dini per ‘comunità internazionale’: non solo l’Europa e gli Stati Uniti, ma anche il segretario generale e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e perfino la Lega Araba hanno condannato con fermezza il regime libico, che con la feroce repressione che ha messo in atto contro le proteste del suo stesso popolo, si è posto da solo fuori e contro la comunità internazionale”.
”Nelle parole che il ministro Frattini ha pronunciato ieri alla Camera e al Senato – osserva ancora Tonini – abbiamo registrato con sollievo una significativa correzione di rotta del Governo, che evidentemente si è reso conto che con la linea del sostegno acritico a Gheddafi stava portando l’Italia, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, sulla soglia dell’isolamento internazionale. E stava perfino compromettendo il futuro delle relazioni con il popolo libico, che è preciso interesse nazionale dell’Italia che restino amichevoli. Forse il presidente Dini non è stato tempestivamente informato”.
(ASCA)
Piazze silenziose
Roma, 24 febbraio – ”In Libia è in corso una autentica carneficina. Migliaia di morti, bombardamenti su minareti, uccisioni di massa e cadaveri esposti nelle strade, stupri casa per casa, fosse comuni. Se si fa eccezione per le dichiarazioni di Obama e di qualche leader europeo, per il resto è silenzio. Fino alle misere contorsioni del governo Berlusconi. E ci dobbiamo dire anche che sono silenziose le piazze. Le stesse che si riempirono con milioni di persone contro la guerra in Iraq oggi tacciono di fronte al martirio di un popolo che aspira a libertà e diritti”. Lo scrive Walter Veltroni su Facebook.
(ASCA)
Tutti sono d’accordo
Washington, 25 febbraio – Il mondo si interroga su come fermare le stragi in Libia. Il presidente americano ha analizzato le possibili misure contro il regime in una serie di colloqui telefonici con Berlusconi, Cameron e Sarkozy.
Si stanno analizzando una serie di opzioni, prima tra tutti una no-fly zone sulla Libia, ma anche il divieto di volo e il congelamento dei beni per la famiglia Gheddafi. Tutti sono d’accordo sulla necessità di fermare la repressione brutale e sanguinosa, sulla necessità di mandare segnali chiari alla leadesrhip libica e sulla necessità di coordinare le eventuali misure multilaterali. Tra le azioni, un’iniziativa anche nel Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu. E oggi si riunirà di nuovo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
(AGI)
Il “coordinatore”
Godollo (Ungheria), 25 febbraio – Il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen ha chiesto una riunione urgente dei Paesi membri dell’Alleanza Atlantica per affrontare la convulsa situazione in Libia; e ha aggiunto di essere pronto a fare da “coordinatore” qualora gli alleati decidessero un’azione.
Rasmussen ha mandato un messaggio su Twitter, mentre si apre a a Godollo, vicino Budapest, la riunione informale dei ministri della Difesa dell’Unione Europea che affronta la situazione libica e la possibile evacuazione dei migliaia di cittadini [stranieri – ndr] che ancora rimangono nel Paese arabo.
(AGI)
Non vedono l’ora di mettere le loro sporche mani sulle ingenti risorse di petrolio, gas e le immense riserve di acqua potabile recentemente scoperte in Libia…
(Im)prevedibile propaganda
Washington, 25 febbraio – Nella “situazione di caos” in Libia gli Stati Uniti sono preoccupati per l’arsenale chimico del Paese, e soprattutto temono la possibilità che Moammar Gheddafi possa usare armi chimiche contro il proprio popolo. Lo riporta la CNN, citando un funzionario americano che ricorda come, per quanto finora non vi siano segnali della possibilità che il leader libico abbia dato un ordine di questo tipo, Gheddafi sia imprevedibile.
(Adnkronos)
“Stiamo finalmente riscoprendo l’intelligenza superiore di Bush”
Roma, 25 febbraio – ”E’ la classica situazione nella quale bisognerebbe richiedere l’intervento della NATO. Forse anche quello della Nazioni Unite. Quello che sta accadendo in Libia è una tragedia umana. E non possiamo restare troppo a lungo a guardare”. Lo dice l’ex ministro della Difesa, Antonio Martino, in un’intervista a ‘il Tempo’, in cui spiega che l’Alleanza Atlantica dovrebbe intervenire ”sulle stesse identiche basi sulle quali intervenne in Kosovo nel 1999.
Era in corso – ricorda l’esponente del PdL – un’operazione militare dell’allora governo contro i kossovari. Si venne a creare una pericolosa situazione di emergenza, con un esodo di massa’. ”La NATO – rimarca Martino – intervenne bombardando la zona per fermare quello che stava assumendo le dimensioni del genocidio. Il centrodestra allora fu a favore dell’intervento deciso dal governo D’Alema”. Oggi in Libia, sottolinea l’ex titolare della Difesa, ”ci sono migliaia di morti ogni giorno, le fosse comuni. E’ terribile. Bisogna fermare subito quello che sta accadendo. Subito. Se fossi ministro avrei già chiamato Rasmussen, il segretario della NATO”. ”Qui non c’è tempo da perdere – ribadisce – Gheddafi sta facendo bombardare il suo popolo, ha assoldato mercenari che vanno a sparare ai civili nelle case”.
Quanto al ruolo degli USA nella vicenda della crisi libica, per Martino la posizione americana ”è imbarazzante. Mi sembra che in politica estera l’attuale amministrazione sia inadeguata. Stiamo finalmente riscoprendo l’intelligenza superiore di Bush”.
(Adnkronos)
Standing ovation.
Processi di demonizzazione: Gheddafi come Milosevic, la Libia come la Serbia
Roma, 25 febbraio – “Quello che sta accadendo in Libia configura un vero e proprio genocidio e per le sue responsabilità Gheddafi può essere paragonato a Slobodan Milosevic. La nostra posizione deve essere di massima vicinanza al popolo libico nel momento in cui, pur tra lutti e sofferenze, sta trovando la strada verso la democrazia”. Lo dice il senatore del PdL, Giuseppe Esposito, vicepresidente Copasir e membro della Commissione Difesa del Senato della Repubblica.
“La natura laica della rivolta lascia presupporre sviluppi di tolleranza e apertura democratica, così come sembra accadere in Egitto – prosegue Esposito – Dal punto di vista politico è necessario sostenere la proposta di sanzioni da parte dei Paesi dell’UE insieme con quella dell’apertura di un’inchiesta da parte del Tribunale Internazionale per crimini contro l’umanità, continuando a sostenere la transizione senza abbassare la guardia sui rischi, che pure esistono, di derive integraliste. Al contempo ci si deve preparare, in maniera unitaria e secondo principi umanitari, ad accogliere la possibile ondata di arrivi”.
(DIRE)
“Il risultato poi non è stato quello che speravamo”: parola di finanziere…
Milano, 25 febbraio – “Il vento della libertà è sempre positivo, basta che non diventi un disastro caotico e disorganizzato. Tutti eravamo per la rivoluzione iraniana quando fu cacciato lo Scià. Il risultato poi non è stato quello che speravamo. L’Europa deve aiutare, altrimenti non ce la facciamo da soli”.
Così il finanziere franco-tunisino Tarak Ben Ammar commenta le rivolte in Libia, che seguono quelle in Tunisia e in Egitto.
(Adnkronos)
”Non si può assicurare la pace mondiale infliggendo sanzioni”
Istanbul, 26 febbraio – La Turchia condanna la repressione del regime libico nei confronti dei manifestanti, accusa la comunità internazionale, con particolare riguardo per i Paesi occidentali, per aver concentrato l’attenzione sui problemi legati al procacciamento delle risorse energetiche piuttosto che sul dramma umanitario e dice no alle sanzioni dell’ONU.
Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, in un discorso televisivo, si è appellato alla ”comunità internazionale” perché si occupi della Libia ”non preoccupandosi del petrolio” ma ”con coscienza”, guardando ”ai valori umani e di giustizia”. Erdogan, parlando delle sanzioni ONU, ha poi detto che ”ogni intervento renderà il processo più difficoltoso” e ”colpirà non l’amministrazione ma il popolo libico” perché ”non si può assicurare la pace mondiale infliggendo sanzioni per ogni incidente”. Il primo ministro turco ha chiesto alla comunità internazionale ”di fermare i calcoli” sugli interessi economici che riguardano la Libia e di ”lavorare per un rimedio per fermare la sofferenza del popolo libico”.
(ASCA-AFP)
“Pronti ad aiutare”…
New York, 27 febbraio – Gli USA sono ‘pronti ad aiutare’ gli oppositori del colonnello Muammar Gheddafi in Libia: lo ha indicato il segretario di Stato USA Hillary Clinton.
Parlando in viaggio alla volta di Ginevra, la Clinton ha detto: ‘Siamo pronti ad offrire qualsiasi forma di aiuto’ auspicata da parte degli Stati Uniti. Il segretario di Stato, che domani parteciperà ad una ministeriale ONU sui Diritti Umani, ha ribadito che Gheddafi deve andarsene: ‘Dobbiamo innanzi tutto vedere la fine del suo regime’.
(ANSA)
… con la no fly zone…
Roma, 28 febbraio – L’utilità di una ‘no fly zone’ in Libia è “indubbia” ma “bisogna essere consapevoli che è una misura che poi va fatta rispettare”: ad affermarlo è stato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, in un’intervista al Messaggero. Una misura di questo genere, ha precisato il titolare della Farnesina, esige una “riflessione approfondita”, anche perché “servono caccia da guerra ed elicotteri che la facciano rispettare, occorrono precise regole d’ingaggio” .
(AGI)
… ed il “coinvolgimento della NATO”.
Parigi, 28 febbraio – Proibire il sorvolo del territorio libico per impedire il massacro di civili da parte del Colonnello Gheddafi implica una ”riflessione” e un ”coinvolgimento della NATO”.
Così, il primo ministro francese Francois Fillon ai microfoni di RTL, precisando che occorre studiare ”tutte le soluzioni” per indurre Muammar Gheddafi a lasciare il Paese. Intanto non è stata ancora presa alcuna decisione sulla possibilità di imporre una no-fly zone sulla Libia per evitare ulteriori massacri di civili da parte di Muammar Gheddafi.
(ASCA-AFP)
Parole dure e chiare
Ginevra, 28 febbraio – Sostenere le transizioni politiche nel mondo arabo non è una questione di ideali ma un imperativo strategico. Lo ha dichiarato il segretario di Stato USA Hillary Clinton al termine del Consiglio ONU per i diritti umani a Ginevra.
(ASCA-AFP)
Brava Hillary, facciamola finita con l’ipocrisia…
Stanno progettando… Kosovo 2°
Londra, 1 marzo – La Gran Bretagna e gli alleati della NATO stanno progettando di inviare aerei da guerra in Libia e armi ai ribelli per abbattere il regime del Colonnello Muammar Gheddafi. E’ quanto rivela il britannico The Times. Il governo di David Cameron è in prima fila per estromettere il leader libico ed impedire un disastro umanitario.
(AGI)
La fortuna di Berlusconi
Gianni De Michelis, il dioscuro rampante che con Martelli, negli anni della rifondazione socialista del Garofano si assunse il compito di svellere le radici del socialismo e farne un moderna arma per una politica corsara al servizio di Ghino di Tacco in guerra continua con l’alleato dc ed il nemico pci, ieri parlava della fortuna che sarebbe toccata a Berlusconi che, come a suo tempo D’Alema, si trova nella condizione di arrecare servizi preziosi agli USA. D’Alema ebbe la opportunità di offrire basi militari ed aerei per bombardare Belgrado e quindi essere iscritto nell’albo degli amici della Casa Bianca. Berlusconi ha le stesse opportunità riferite alla Libia, nel caso che Gheddafi non accettasse l’esilio impostogli da Obama e decidesse di resistere e magari di farsi uccidere nella difesa della Libia.
(…)
Il pavido governo italiano è costretto a fare finta di niente. La sua meschina opposizione lo incalza per la cancellazione del trattato italo-libico. Berlusconi dovrà stare in riga e fornire il supporto militare se si deciderà di bombardare Tripoli al fine di spaccare in due od in tre la Libia oppure di mettere al potere la tribù fedele all’Occidente dell’ex re Idriss. Il benessere della Libia sarà un ricordo del passato come quello dell’Iraq di Sadam Hussein che era diventato lo Stato più moderno industrializzato e colto tra i paesi arabi. Gli USA non sopportano la crescita di civiltà diverse da quella del suo capitalismo. Anche l’Iran dovrà essere schiacciata e riportata all’età della pietra. Tutta la polemica contro l’Islam ed il fondamentalismo islamico, contro il terrorismo, non è altro che il manifesto ideologico di un Impero che non accetta di convivere con entità autonome e culture diverse dalla sua. In lista di attesa per essere omologata con le buone o le cattive sta la Russia. Farebbe bene Berlusconi, prima che Obama decida di tirargli il collo e di ordinare ai suoi “fedeli” in Italia di rivedere tutto, a rivedere, se può, le sue posizioni verso Putin.
Intanto dalla Libia giunge un pesante silenzio.
(…)
Che cosa sta accadendo?
Sta accadendo che le orde monarchiche manovrate da Obama e dalla Clinton hanno avuto l’ordine di congelare la “rivoluzione” in attesa dei negoziati con Gheddafi e la sua famiglia. Se questi accetterà di andarsene dal paese dove è nato e dove ha governato per quaranta anni non ci sarà bisogno dell’assalto finale al Palazzo d’Inverno. Se Gheddafi resisterà la Libia farà la fine dell’Irak e dell’Afghanistan: sarà invasa da truppe che qualcuno nella sinistra fariseica italiana chiama “umanitarie”. Vedremo in diretta lo spettacolo pirotecnico delle bombe al fosforo che illuminano il cielo di Tripoli. Lo stesso spettacolo che abbiamo visto sul cielo di Bagdad.
2 Marzo Il generale James Mattis, responsabile del Comando Centrale USA (CENTCOM), parlando davanti al Senato statunitense circa un’eventuale no-fly zone sulla Libia, ha detto che da un punto di vista militare “sarebbe difficile”. “Si dovrebbe eliminare la capacità libica di difesa aerea, per stabilire una no-fly zone. Non facciamoci illusioni. Sarebbe un’operazione militare, non basterebbe dire ai libici che non possono volare”. Mentre al ministro Maroni che si interroga su quale “autorità” sia in grado di revocare il Trattato di Amicizia fra Italia e Libia, fate leggere questo.
“Chiediamo attacchi mirati”
Bengasi, 2 marzo – Il Consiglio nazionale libico costituito dai ribelli nella Libia orientale ha chiesto attacchi aerei delle Nazioni Unite contro i mercenari stranieri impiegati dal leader Muammar Gheddafi per reprimere la rivolta. Lo ha annunciato oggi un portavoce del Consiglio.
Nel corso di una conferenza stampa Hafiz Ghoga, portavoce dell’organismo che ha sede a Bengasi, ha detto che Bengasi [lapsus freudiano… – ndr] sta usando “mercenari africani in città libiche”, il che rappresenta un’invasione del paese nordafricano produttore di petrolio.
“Chiediamo attacchi mirati sulle roccaforti di questi mercenari”, ha detto Ghoga, aggiungendo però che: “Ci si oppone con forza alla presenza di eventuali forze straniere sul suolo libico. C’è una grande differenza tra questo e attacchi aerei strategici”.
Il portavoce ha aggiunto che l’esercito a est è pronto a muoversi verso ovest se Gheddafi rifiuta di farsi da parte.
(Reuters)
La Russa non dice “né di sì né di no”
Roma, 2 marzo – Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, condivide la posizione USA, espressa da Robert Gates, su una possibile ‘no fly zone’ sui cieli della Libia che, da parte statunitense, si reputa poco praticabile perché presupporrebbe un’azione militare contro il regime di Gheddafi.
”Fare una ‘no fly zone’ – ha detto La Russa ai giornalisti che gli chiedevano un commento alle parole di Gates – significa impedire agli aerei libici di volare e, se lo fanno, prevedere un intervento. Ma – si é chiesto – se contro i nostri aerei che intervengono risponde la loro contraerea cosa fai? Devi ovviamente bombardare”. Da qui, ha spiegato La Russa, la posizione italiana che definisce l’ipotesi della ‘no fly zone’ una questione ”molto fluida e ipotetica. Non dico né di sì né di no ma certo Gates ha ragione perché creare una ‘no fly zone’ è, di fatto, un’operazione militare e, quindi, se occorre coercitiva altrimenti si chiamerebbe embargo o sanzione”.
”Per questo – ha concluso il ministro La Russa – abbiamo gettato acqua sul fuoco ma siamo assolutamente pronti a rispettare qualsiasi decisione assunta in sede internazionale”.
(ASCA)
Ogni promessa è debito
Roma, 3 marzo – ”Abbiamo deciso due importanti missioni umanitarie. La prima, su richiesta dell’Egitto e della Tunisia, prevede l’aiuto a circa 60mila egiziani che lavoravano in Libia ed ora sono fuggiti in Tunisia. Ci è stato chiesto di assisterli e di fare in modo che possano rientrare in patria sani e salvi. La seconda missione umanitaria si dirigerà in Cirenaica portando cibo e medicinali a una popolazione stremata”. E’ quanto spiega il ministro degli Esteri, Franco Frattini in una intervista ad Avvenire tratteggiando il quadro dell’impegno del governo italiano nella crisi della Libia.
Respingendo ogni ipotesi di ‘imbarazzo’ da parte dell’esecutivo guidato da Berlusconi nel condannare oggi Gheddafi dopo averlo considerato un partner privilegiato (”E’ lo stesso imbarazzo che dovrebbero provare tanti leader del mondo. Dai britannici che hanno riconsegnato a Tripoli il terrorista della strage di Lockerbie, al presidente francese che ha ospitato Gheddafi per cinque giorni a Parigi, a tutti coloro che avevano votato a favore della Libia come membro della Commissione Onu per i diritti umani”), sulle ipotesi di un’eventuale intervento militare dall’esterno precisa: ”E’ un’ipotesi che ha già sollevato le perplessità della Lega Araba. Escludo categoricamente che l’Italia possa partecipare ad un’azione militare in Libia, per ovvi motivi legati al nostro passato coloniale. Al massimo, potremmo dare la disponibilità logistica delle nostre basi, ma anche in questo caso occorre un chiaro mandato internazionale dell’ONU. E, comunque, qualsiasi tipo d’azione deve tener presente il delicato contesto politico e culturale del mondo arabo”.
(ASCA)
La NATO “ha preso nota” e “prudentemente” (?!?) si prepara
Bruxelles, 3 marzo – La NATO non ha in programma un intervento in Libia ma si tiene pronta per ogni eventualità. Il segretario generale dell’Alleanza, Anders Fogh Rasmussen, ha dichiarato di aver “preso nota” della dichiarazione con cui il Consiglio nazionale di Bengasi ha chiesto “attacchi strategici contro i mercenari”. “Vorrei sottolineare”, ha affermato Rasmussen, “che la NATO non ha alcuna intenzione di intervenire, ma, prudentemente, ci prepariamo a tutte le eventualità”.
(AGI)
“Abbiamo fatto bene nel Kosovo”
Roma, 4 marzo – ”Occorrono atti da parte dei governi e dell’Unione Europea. Di fronte alla persistente azione repressiva che sta reiteratamente producendo Gheddafi occorre un’azione di ingerenza umanitaria, bisogna mettere mano ad un’azione militare con un fine positivo assolutamente urgente, quello di fermare il massacro”.
Lo ha detto a Radio Radicale il vicepresidente del Parlamento Europeo, Gianni Pittella (PD). ”Gheddafi è un pazzo scatenato che sta uccidendo migliaia di persone – ha detto Pittella – non possiamo assistere inermi a questo massacro. Abbiamo fatto bene in Libano, abbiamo fatto bene nel Kosovo. Ed è gravissimo che prevalga una logica di convenienza rispetto al massacro delle vite umane, non ci dovrebbe essere proprio il dubbio su cosa fare. Ora in Libia stanno morendo delle persone, e io rispetto a questo dico che chiunque faccia calcoli di convenienza è un cinico che non merita di governare il Paese”.
(ASCA)
Cinico a chi?!?
Il modello delle monarchie del Golfo…
Londra, 4 marzo – Un’eventuale caduta del regime del colonnello Muammar Gheddafi avrebbe effetti positivi sull’economia della Libia, trasformando il Paese in un hub finanziario sul modello delle monarchie del Golfo. Ne è convinto il leader della comunità ebraica di Londra, il libico Raphael Luzon, che in un’intervista con AKI-ADNKRONOS INTERNATIONAL, disegna gli scenari futuri per lo Stato nordafricano. “Qualsiasi cambiamento dalla dittatura alla democrazia è di per sè positivo”, afferma Luzon.
(Adnkronos/Aki)
“Sosterremo qualunque sforzo” dice il megafono della NATO in Italia
Ginevra, 4 marzo – C’è ‘un atteggiamento di aperta sfida del colonnello Gheddafi alla comunità internazionale, una provocazione nei confronti dei protagonisti della vita internazionale che hanno detto basta con i bombardamenti, basta con la repressione’. Lo ha detto il presidente Giorgio Napolitano a Ginevra dopo l’intervento al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite.
‘Gheddafi deve fermare ogni azione militare diretta contro il suo popolo’ perchè ‘la violenza contro i libici è inaccettabile’, ha affermato il Capo dello Stato, aggiungendo: ‘Sosterremo qualunque sforzo’ perchè la Libia rispetti i diritti umani’.
(ANSA)
“La nostra lealtà euro-atlantica”
Roma, 7 marzo – “E’ assai difficile pensare ad aerei militari italiani coinvolti sul terreno libico, ma evidentemente la nostra lealtà euro-atlantica ci fa dire che le nostre basi militari e il supporto logistico non potremmo negarli”. E’ quanto ha detto il ministro degli Esteri, Franco Frattini, rispondendo, intervistato a Uno Mattina, ad una domanda relativa all’ipotesi dell’istituzione di una no fly zone sulla Libia, dicendosi d’accordo con quanto dichiarato dal ministro francese Alan Juppè.
(Adnkronos)
Milano, 7 marzo – Un intervento militare in Libia ”sarebbe un errore molto grave”. Questa l’opinione del ministro dell’Interno, Roberto Maroni, che, entrando nella sede della Lega Nord di via Bellerio per partecipare al consiglio federale del Carroccio, ha sottolineato: ”Prima di decidere di bombardare, prima che i guerrafondai prendano il sopravvento, occorre sviluppare una politica di aiuti”. Per Maroni, ciò significa mettere a punto ”il piano Marshall prima di andare a bombardare e rischiare di trasformare la Libia in un nuovo Afghanistan”.
(ASCA)
Perle ai porci
Roma, 8 marzo – ”E’ un dovere dell’Unione Europea farsi carico nel suo complesso del problema libico. Infatti, quella frontiera sul Mediterraneo non rappresenta solo il confine con l’Italia, ma con tutto il mondo occidentale. Bisogna aiutare i profughi e i disperati e fermare e punire il despota, quel personaggio che, pur di rimanere al potere, sta attuando un vero e proprio genocidio”. E’ quanto afferma il presidente dell’IdV, Antonio Di Pietro, a margine del convegno ‘L’autotrasporto in Italia tra assistenzialismo e prospettive di sviluppo’, organizzato da Folder, centrostudi per l’economia del partito
(ASCA)
Proviamo ad immaginare questa semplice ipotesi:
Immaginiamo, per assurdo, che una qualunque barca a remi della flotta militare libica – in concomitanza con le infuriate e distruttive rivolte delle diseredate popolazioni afro-americane delle città di Atlanta, Denver, Las Vegas, Los Angeles, San Francisco, New York, etc., negli anni ‘60, ’70, ’80 o ‘90, in ogni occasione, largamente represse nel sangue dalla Polizia, dalla Guardia Nazionale e dall’Esercito degli Stati Uniti – avesse deciso, magari soltanto per curiosare o proporsi di distribuire qualche pacco dono ai necessitanti, di tentare di avvicinarsi alle coste del Massachusetts, della Pensilvania, della Florida o della Luisiana, come avrebbe reagito il Governo di Washington? E come avrebbero reagito, dal canto loro, i Governi di Londra e di Parigi, se la medesima barca a remi di cui sopra – in simultaneità e tempismo con le violente e pericolose sommosse, negli anni ’80, delle popolazioni di colore di alcune “outskirts” (periferie) delle città britanniche o con quelle molto più rabbiose e radicali delle “banlieues” francesi degli anni ‘90 e 2000 – avesse deciso di avvicinarsi alle coste dei suddetti Paesi?
Tutti scandalizzati ed oltraggiati, invece, in Occidente, dalle aggressive dichiarazioni del Leader libico (…“se mi attaccate, ci sarà un bagno di sangue”!), quando – a seguito dei disordini e degli scontri fratricidi che si stanno svolgendo in Libia dal 17 Febbraio scorso – la portaerei statunitense Uss Enterprise, la portaelicotteri Uss Kearsarge (con a bordo all’incirca 800 marines), la Uss Ponce (strapiena di munizioni e di mezzi da sbarco) e la Uss Andrid (con nella stiva numerosi blindati), la portaelicotteri francese Mistral e le fregate britanniche HMS Westminster (imbarcante alcuni elicotteri MK 8 Lynx e diversi lancia-missili) e HMS York (idem come sopra), decidono arbitrariamente di posizionarsi di fronte alle coste libiche, eventualmente… per imporre manu militari un’eventuale “no fly-zone” (divieto di decollo e/o di sorvolo) su territorio di quello Stato e/o per portare soccorso “umanitario” o, al limite, manforte militare agli insorti anti-Gheddafi.
Qualcuno potrebbe ribattermi: cosa ci sarebbe di anormale, nel comportamento dei suddetti Paesi occidentali? E soprattutto degli Stati Uniti d’America che, come tutti sanno – da provetti, ultra-sperimentati e permanenti “liberatori” del mondo – non potrebbero fare altro, per ragioni “umanitarie” (sic!), che intromettersi negli affari interni della Libia che, come sappiamo, non solo non rispetta né ha mai rispettato i “Diritti dell’Uomo” ma, si permette addirittura il lusso di far sparare addosso ai suoi propri cittadini in rivolta!
Questo genere di argomenti – anche se il lettore, molto probabilmente, lo avrà senz’altro dimenticato o, verosimilmente, non lo avrà nemmeno mai saputo – est simplement du déjà vu…
Io personalmente, ad esempio (per ricordare solamente le ingerenze militari USA più flagranti e conosciute, negli ultimi 30 anni), li ho già visti utilizzare dai “buoni” di Washington, in innumerevoli e differenziate occasioni. In modo particolare: a Grenada, il 25 Ottobre 1983, contro l’allora Governo legittimo di quell’Isola caraibica; in Nicaragua, tra il 1984 ed il 1990 – via la CIA ed i Contras o Milicias Populares Anti-Sandinistas (MIPLAS) o Fuerza Democrática Nicaragüense (FDN) – contro l’allora regolarmente eletto Governo sandinista del Paese; a Panama, il 23 Dicembre 1989, contro il loro ex-agente segreto Manuel Noriega, il suo governo ed il suo esercito; in Iraq, tra il 2 Agosto 1990 (l’invasione irachena del Kuwait) e l’Operazione Tempesta nel deserto (17 Gennaio – 28 Febbraio 1991) contro l’allora regime di Saddam Hussein; in Somalia, nel 1992, con la Missione USA/NATO, “restore hope”; in Serbia, nel 1999 – via l’aviazione US-Air-Force e NATO (quella italiana compresa) ed i separatisti albanesi dell’UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës) e dell’ “Esercito di liberazione del Kosovo” (KLA) – contro l’allora Governo del Presidente Milosevic/Milošević; in Afghanistan – a partire dall’11 Settembre 2001 (il “provvidenziale”?… e, fino ad oggi, mai chiarito attacco aereo al Pentagono ed alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York) – contro il Governo dei Talebani, alleato di al-Qaeda; situazione che, a sua volta, provocò, il 7 Ottobre 2001, l’invasione USA e NATO di quel Paese, che ancora perdura…; in Iraq, di nuovo, a partire dal 20 Marzo 2003, con l’invasione e l’occupazione militare USA/Britannica & C. di quel Paese, che è tuttora sempre in corso.
Insomma, come in un ripetitivo, monotono e soporifero copione teatrale – ed anche se nessuno sembra stranamente accorgersene o notarlo – i Paesi occidentali, come al solito, sono sempre i “buoni”, ed i “cattivi”, sempre e comunque gli “altri”!
In 42 per l’opzione diplomatica
Roma, 9 marzo – ”Quanto accade in questi giorni in Libia appare connotato da non facile decifrabilità. Nonostante la confusione, il Governo italiano ha mostrato, finora da solo nel quadro europeo, concretezza nell’intervento umanitario, sia sul territorio nazionale, sia al confine con la Tunisia sia, ancora a Bengasi: con questo si è preso carico, nei fatti e non a parole, della dignità di tanti esseri umani. L’oggettiva complessità della situazione è acuita dalle notizie – che fanno alternare conferme e smentite – di trattative in corso fra le parti in conflitto. Alla vigilia di importanti appuntamenti europei e internazionali, siamo convinti che tutto ciò che realisticamente rafforza l’opzione diplomatica è da sostenere con decisione, anche nell’interesse dell’Italia. Sostenere con decisione significa battere il più possibile la strada della soluzione ragionevole, invece che quella militare”.
E’ quanto sottoscrivono 42 parlamentari del PdL. Di seguito i loro nomi: On. Alfredo Mantovano, On. Edmondo Cirielli, On. Barbara Saltamartini, Sen. Francesco Paolo Bevilacqua, On. Francesco Biava, On. Mario Landolfi, On. Andrea Augello, Sen. Bruno Alicata, Sen. Laura Allegrini, Sen. Franco Asciutti, Sen. Paolo Barelli, Sen. Antonio Battaglia, Sen. Domenico Benedetti Valentini, On. Isabella Bertolini, Sen. Laura Bianconi, On. Maurizio Bianconi, On. Marco Botta, Sen. Battista Caligiuri, Sen. Valerio Carrara, On. Carla Castellani, Sen. Maurizio Castro, Sen. Gennaro Coronella, Sen. Cristiano De Eccher, Sen. Mariano Delogu, On. Marcello Di Caterina, On. Giovanni Dima, Sen. Raffaele Fantetti, sen. Vincenzo Fasano, On. Paola Frassinetti, Sen. Giuseppe Menardi, On. Bruno Murgia, Sen. Pasquale Nessa, On. Alessandro Pagano, Sen. Antonio Paravia, On. Vincenzo Piso, Sen. Filippo Saltamartini, On. Souad Sbai, Sen. Cosimo Sibilia, On. Gabriele Toccafondi, Sen. Oreste Tofani, On. Raffaello Vignali, Sen. Tomaso Zanoletti.
(ASCA)
Grazie a Dio, non tutti hanno smarrito l’intelligenza.
Se lo dice lui…
Washington, 12 marzo – Il ministro della Difesa USA, Robert Gates, è il più strenuo oppositore dell’adozione di una ‘no-fly zone’ sulla Libia. Per il capo del Pentagono è qualcosa che gli USA e i loro alleati possono fare se vogliono ma non è certo che si tratti di una mossa “saggia” .
(AGI)
Vergognose esitazioni
Tripoli, 16 marzo – ”Credo che sia una vergogna la posizione da codardi assunta dal mondo occidentale, soprattutto gli Stati Uniti, che si propongono come difensori della democrazia e dei diritti umani”. E’ il duro commento di Ali Tarhouni, esponente degli insorti libici e membro della commissione Economia e petrolio del Consiglio provinciale costituito nell’est della Libia.
Affermando che il popolo libico si ricorderà di chi si è dimostrato amico, in un’intervista a ‘Voice of America’ Tarhouni ha precisato: ”Non chiediamo molto, solo la creazione di una no-fly zone”. L’atteggiamento del presidente USA Barack Obama, a suo giudizio, è in ”netto contrasto” con quanto affermò nel 2009, in uno storico discorso ai musulmani pronunciato al Cairo. ”Obama fece un appello per la democrazia e la libertà e ora il minimo che possa fare è appoggiare la no-fly zone – ha detto – Il sangue del popolo libico non è a poco prezzo, a noi costa caro versarlo”.
(Adnkronos/Aki)
Quando incontrai la signora Khadija Anna L. Pighizzini, tre anni fa, e mi raccontò la sua storia inaudita, mi si spezzò il cuore. Viveva una vita serena e tranquilla fino a quando, nel novembre 2001, fu improvvisamente assalita da ondate di giornalisti che, dopo aver diffuso ripetute menzogne, con lo scopo di associare suo marito al terrorismo, pretendevano sue dichiarazioni. Avevano ripreso quelle menzogne provenienti da servizi segreti, da un articolo di Guido Olimpio, giornalista al Corriere della Sera.
Fu l’inizio di un calvario tutt’ora in atto.
Era il periodo in cui ordinari cittadini che frequentavano la moschea, venivano sospettati, calunniati da giornalisti legati a servizi segreti, la cui missione era di diffondere notizie false nel quadro della guerra di propaganda contro l’Islam. Si trattava di preparare l’opinione pubblica a percepire come utile la guerra contro l’Islam.
Da allora, Khadija, una signora dolce e discreta, cresciuta in una stimata famiglia italiana di Bergamo, è stata costretta a lottare per difendere l’onore della sua famiglia e far conoscere la spaventosa sorte di suo marito Abou Elkassim Britel, una persona rispettabile ingiustamente associata al terrorismo, e mantenuto in prigione senza nessuna colpa.
Rapito nel 2002 da agenti della CIA, Abou ElKassim Britel, ha subito la sorte terrificante di migliaia di musulmani nell’ambito di quelle attività segrete e illegali chiamate “extraordinary rendition”, denunciate sin dal 2004 dal senatore svizzero Dick Marty.
Imprigionato e torturato in un luogo segreto in Pakistan, Abou ElKassim Britel è stato in seguito trasportato da agenti della CIA in Marocco, consegnato ai servizi segreti marocchini per essere di nuovo torturato e mantenuto in segreto nella sede dei servizi di intelligence a Témara. Sottoposto a trattamenti violenti e umilianti per oltre 8 anni, Abou Elkassim Britel ha intrapreso lunghi e rischiosi scioperi della fame per rivendicare la sua innocenza e il diritto di essere trattato umanamente.
Sua moglie, vive con sempre maggiori difficoltà la realtà crudele che colpisce il suo sposo incarcerato in Marocco, un paese assai attraente per i turisti che ignorano tutte le violazioni commesse dal Regno. Di ritorno dalla sua ultima visita al marito in prigione racconta:
“(…)
Mio marito è cittadino italiano, ma non ha mai avuto alcun sostegno decisivo dal nostro governo. Io sono qui in Italia, devo lavorare per mantenere lui e me e per andarlo a trovare ogni tre mesi. Sono preoccupata, nulla è certo in Marocco.
Il Console d’Italia, che aveva incontrato mio marito dopo il trasferimento e aveva visto com’era ridotto, mi ha accompagnato alla prima visita ed è riuscito a strappare un permesso di visita giornaliero, spero che continuerà ad aiutarci. Ora si è reso conto della gravità della situazione, che non sfugge nemmeno ai responsabili delle carceri. Gli scioperi della fame di coloro che sono incarcerati con mio marito – i cosiddetti “islamisti”, musulmani radicali – continuano; come pure le proteste dei loro familiari.
Oltre un centinaio di prigionieri “islamisti”, fra i quali mio marito, sono stati deportati da sei diverse prigioni e rinchiusi in questo nuovo reparto, costruito proprio per loro. Sembra che lo stato marocchino pretenda delle ammissioni di responsabilità prima di liberarli, o voglia provocare reazioni forti per poi tenerli ancora in carcere.
Molti di loro, arrestati nel 2003, sono quasi al termine della pena. Queste persone, trattenute arbitrariamente sono per la maggior parte assolutamente innocenti. È un’ingiustizia. I processi sono stati iniqui, come denunciano i militanti che si battono da allora per la loro liberazione. Lo dicono e lo ripetono le organizzazioni nazionali e internazionali, ci sono molte prove.
È una denuncia impressionante che descrive gli stessi metodi brutali e fuori dalla legge toccati a mio marito e a tanti altri.
Sono otto anni di torture per i prigionieri e le loro famiglie. Il Marocco ha rifiutato ogni richiesta di dialogo e di revisione; anzi da anni prima delle occasioni di grazia reale compare la solita notizia “smantellata cellula terroristica”, spesso poi non se ne sa più nulla. Non so cosa aspettarmi.
Mio marito è uno delle decine di migliaia di persone rapite da agenti della Central Intelligence Agency (CIA) dopo l’11 Settembre cui è toccata questa dura sorte. Alcuni sono spariti per sempre; altri sono rientrati a casa distrutti, dopo anni rinchiusi a Guantanamo. A noi manca il sostegno italiano, mai nessun governo ha chiesto con forza la liberazione di questo cittadino incensurato che è mio marito. Avrebbero dovuto farlo; la loro indifferenza mi ha fatto capire l’utilizzo che si fa dell’attività di servizi segreti che hanno inventato menzogne, che hanno mentito per fare di mio marito un criminale. La sorte di cittadini italiani di religione musulmana non ha nessun valore per loro.
Temo per la vita di mio marito e mi sento impotente. Ogni giorno mi chiedo se e come tornerà a casa.
Nonostante tutto insisto. In rete comunico le informazioni che i giornali non danno, contatto le ONG. Ma mi sento molto sola e non vedo una soluzione. Quello che manca è la presa di posizione esplicita di qualche personalità conosciuta; penso a esperti nel capo del diritto e dei diritti umani in particolare, qualcuno che possa aiutarmi a comunicare con lo Stato italiano.
È assurdo che di fronte al pericolo di vita che mio marito corre ogni giorno, all’ingiustizia che lo tiene detenuto da quasi nove anni, l’azione della diplomazia italiana si limiti a un colloquio con il direttore del carcere.
Questa esperienza ci ha molto provato. Mio marito è completamente innocente. Si è trovato coinvolto, senza ragione, solo perché di religione musulmana, quando gli Stati Uniti volevano accreditare l’idea di una minaccia terroristica. Il Pentagono doveva fornire un certo numero di persone da definire “terroristi”. È così che vennero incriminati uomini innocenti come lui.”
Questa vicenda terrificante, che ha distrutto la vita di queste brave persone, ha fatto emergere il ruolo inquietante di giornalisti “esperti in terrorismo”, “esperti in servizi segreti” che, a volte all’insaputa dei giornali che pubblicano i loro articoli, sono in realtà agenti la cui principale attività à di diffondere notizie false, far regnare la paura fondata sulla falsa minaccia dell’Islam, in modo da far accettare come necessarie per la “sicurezza” le guerre più crudeli e sanguinose contro i musulmani.
Gli Stati in guerra si sono sempre serviti di giornalisti come copertura per i loro agenti segreti. Ma da quando alcuni giornalisti sono stati identificati e denunciati dalle vittime delle loro menzogne, è nostro dovere portare alla luce fatti così gravi e dolorosi.
Lo scorso dicembre, una commissione d’inchiesta nominata dal Parlamento lituano ha riconosciuto che nel Paese baltico sono state create almeno due carceri segrete per la “guerra al terrore” condotta dalla CIA.
L’inchiesta sulle attività dell’agenzia di spionaggio USA in Lituania aveva preso avvio da notizie apparse sulla stampa statunitense nell’agosto 2009. Ora è emerso che le prigioni CIA erano almeno due, una delle quali operativa già nel 2002 e l’altra a partire dal 2004. Esse erano organizzate e gestite dalla centrale CIA di Francoforte in Germania, che aveva anche la responsabilità per centri detentivi simili in Romania, Polonia, Marocco e forse Ucraina.
Infatti, come dichiarato dall’ex capo dell’agenzia nella città tedesca Kyle D. Foggo, “sarebbe stato troppo rischioso gestirle dal quartier generale” della CIA. Il nome in codice dell’operazione, condotta insieme al Dipartimento della Sicurezza Nazionale lituano, era Amber Rebuff. La prima delle due prigioni era situata a Rudnikai, camuffata come centro speciale di addestramento del Servizio di Pubblica Sicurezza del ministero degli Interni lituano; la seconda, la più utilizzata, era invece ad Antaviliai, a soli venti chilometri dalla capitale Vilnius, in una località abitata da influenti uomini politici e d’affari. Precedentemente, il sito di Antaviliai era adibito a centro equestre, i cui proprietari erano stati spinti dalle forti pressioni delle autorità locali a venderlo alla Elite LLC, una società di comodo creata dalla CIA con l’aiuto di due sue referenti con sede a Panama, Start Finance Group e INK Holding.
Pare comunque che la CIA abbia avuto non poche difficoltà con Amber Rebuff. L’allora presidente lituano, Rolandas Paksas, si oppose infatti al progetto ma a meno di un anno di distanza dalla sua elezione venne incriminato a causa di una presunta corruzione da parte di affaristi russi e di altre voci incontrollate. Più o meno nello stesso periodo di tempo, tre diplomatici russi furono accusati di spionaggio ed allontanati dal Paese, probabilmente un’iniziativa statunitense per evitare sguardi indiscreti sull’operazione in corso.
Venne quindi eletto come Presidente l’anziano Valdas Adamkus, un grande ammiratore di George Bush dotato anche di cittadinanza USA, voglioso di sdebitarsi con i suoi padrini a stelle e strisce per il sostegno da loro accordato alla richiesta lituana di entrare nella NATO.
Interessante il fatto che negli anni fra il 2003 ed il 2006 l’ambasciatore statunitense in Lituania fosse Stephen Donald Mull, un agente della CIA operativo in Polonia ai tempi di Solidarnosc. All’epoca, Mull era in servizio presso l’ambasciata di Varsavia quale Consigliere Politico e veniva considerato dagli organi di intelligence locali un mestatore a causa della sua attiva frequentazione con la dissidenza.
Mull ha avuto l’intera responsabilità operativa di Amber Rebuff e sicuramente è a conoscenza di dove siano finiti i 5 milioni di dollari di “aiuti” stanziati a favore della Lituania all’inizio di tutta la storia.
Da parte lituana i responsabili erano Arvydas Pocius e Mecys Laurinkas, che in periodi diversi prestarono servizio come capi del Dipartimento della Sicurezza Nazionale, e il vice direttore dello stesso Dainius Dabasinskas. Nell’operazione furono impiegati sono gli agenti lituani più fidati, alcuni dei quali collaborarono con i colleghi americani durante gli “interrogatori”.
La pubblicità che ormai circonda Amber Rebuff ha fatto visibilmente innervosire le autorità della Lituania.
La Presidente Dalia Grybauskaite va ripetendo che non ha nulla a che fare con le prigioni CIA, malgrado abbia “sospetti indiretti” a riguardo della questione. Ella ha peraltro espresso la significativa opinione secondo cui un’indagine completa potrebbe rendere la Lituania un bersaglio del terrorismo internazionale. La stessa ipotesi, guarda caso, diffusa da un portavoce della CIA per il quale commentare le informazioni sulle carceri segreti rappresenterebbe una minaccia a milioni di persone e sarebbe perciò un atto irresponsabile.
Il numero esatto di persone “ospitate” presso tali prigioni è sconosciuto, ma è assodato che in Lituania giungevano con una certa regolarità voli speciali dall’Afghanistan. Quando l’inchiesta parlamentare era in corso, il capo del Comitato Nazionale per la Sicurezza e la Difesa Arvydas Anusauskas affermò che alcuni particolari dell’operazione non potevano essere resi pubblici per motivi di sicurezza interna e per gli obblighi contratti con gli “alleati” statunitensi.
Dal canto loro, il Primo ministro Andrius Kubilius e gli ex Presidenti Algirdas Brazauskas e Valdas Adamkus si stanno adoperando per convincere l’opinione pubblica che le rivelazioni sulle prigioni segrete della CIA in Lituania sono tutte “miti e fantasie”.
Bisognerebbe tenere bene a mente che alla fine del 2005, su richiesta dell’ex ambasciatore Mull, il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale distrusse frettolosamente tutti i documenti e le evidenze, anche materiali, che potevano ricondurre alle prigioni segrete. Pezzi delle apparecchiature furono gettati in piena notte nel fiume Nemunas. Successivamente, nel 2007 il sito di Antaviliai fu ceduto dalla CIA ai colleghi lituani in segno di riconoscenza per la loro cooperazione a difesa della libertà e della democrazia.
La commissione d’indagine del Parlamento Europeo sui voli segreti della CIA ha ascoltato, il 14 settembre 2006, i legali di tre cittadini europei sequestrati clandestinamente negli anni scorsi.
Uno dei tre è un cittadino italiano di origine marocchina, Britel Abu Al Kassim, sequestrato in Pakistan nel 2002 e poi trasferito segretamente in Marocco.
Nell’inchiesta sono state raccolte le testimonianze del suo avvocato e della moglie Khadja Anna Lucia Pighizzini.