Il Ponte sullo Stretto come il MUOS di Niscemi e Sigonella

Non prova neanche a mimetizzarlo il suo punto vista, Lucio Caracciolo, sul ponte sullo Stretto. Ne ha parlato in un pezzo scritto per La Stampa il 7 dicembre scorso. Per lui sono secondari gli argomenti, e gli scontri, sugli aspetti ingegneristici, economici, ambientali dell’infrastruttura d’attraversamento. Ciò che conta è la sua valenza strategica, geopolitica, militare. Per questa ragione assimila il ponte sullo Stretto al MUOS di Niscemi, il nuovo sistema di telecomunicazione satellitare della Marina militare USA per governare i conflitti globali del XXI secolo, “senza dimenticare le strutture di Sigonella e Pantelleria”. Perché ciò che conta è il valore strategico della Sicilia, il suo collocarsi in un’area che Limes chiama Caoslandia, nel Mediterraneo “allargato” che è tornato ad essere centrale per i flussi commerciali provenienti da Oriente e per l’intervento politico, militare, economico di Cina, Russia e Turchia.
Limes aveva già insistito in altre occasioni su questo tema. Proprio un anno fa la rivista di geopolitica, i cui redattori, dallo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, sono stabilmente sui canali tv nazionali, aveva pubblicato un numero speciale sulla Sicilia. “L’Italia senza la Sicilia non esiste”, questo era l’argomento. Per questa ragione la Sicilia non può “annegare” nel Mediterraneo. E nel pezzo pubblicato su La Stampa Caracciolo è esplicito fino al didascalico. “Se non lo volete capire la Sicilia è la Frontiera e senza la difesa della Frontiera gli Stati periscono”, sembra dire, perché dallo Stretto di Sicilia (così quelli di Limes chiamano il Canale di Sicilia per sottolineare la esigua distanza che separa l’Isola dall’Africa) passa la principale rotta migratoria, perché da lì passa la via della seta cinese, perché “i turchi e i russi della Wagner si sono acquartierati sul lato africano dello Stretto”, perché quel tratto di mare è attraversato dai cavi sottomarini transcontinentali della Rete.
Caracciolo ci ricorda che la Sicilia fu il luogo dell’invasione alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Quella volta gli invasori erano i “liberatori americani” e ce la cavammo, ma stavolta chi potrebbe essere il nuovo invasore? Per questo l’Italia (ma a questo punto perché non l’Europa o l’Occidente?) senza la Sicilia non esiste. Perché la Sicilia deve essere la piattaforma militare nel Mediterraneo, la difesa dell’Occidente dalle armate dei Bruti o degli Extranei. Noi siamo la Barriera costruita a difesa. Questo è il nostro destino. Lucio Caracciolo si spinge fino a lamentare la scarsa presenza militare nell’area” e ad auspicare una “più incisiva presenza della Marina e delle altre Forze armate nelle acque” di quello che insiste a chiamare il “mare nostro”. L’ennesima ode al militarismo e al riarmo a cui gli analisti mainstream ci hanno abituato nell’ultimo anno di fratricida guerra in Ucraina. Ipocrita narrazione di una “Isola indifesa” quando è sotto gli occhi di tutti il devastante e invasivo processo di militarizzazione che ha investito ogni angolo della Sicilia e delle sue isole minori e l’abnorme presenza statunitense nella stazione aeronavale di Sigonella, “capitale mondiale dei droni”. Per questo il ponte serve, per Caracciolo: per la sicurezza, per stabilizzare le aree di frontiera e per collegare militarmente l’Italia, l’Europa, l’Occidente alla Sicilia, non viceversa.
In passato avevamo già invitato a guardare ai rischi che il ponte portava con sé anche sotto questo profilo. Ci avevano guardati un po’ perplessi. Il ponte ci metterebbe in pericolo, farebbe da traino ad una ulteriore forte militarizzazione e ad un più asfissiante controllo del territorio proprio perché naturale obbiettivo strategico in caso di conflitto. Eccoci serviti. Lucio Caracciolo ce lo sbatte in faccia senza neanche prepararci con parole di circostanza. E a chi pensa che con il ponte i propri figli non emigrerebbero più potremmo consigliare di arruolarli, che forse lì di lavoro ne troverebbero.
Ciò che è incredibile è che il ritorno del Mediterraneo come luogo centrale e l’importanza della Sicilia per la sua collocazione geografica debba essere necessariamente declinato sotto il profilo della guerra. La Sicilia, che nelle vecchie carte appariva più estesa di quanto lo fosse proprio per l’importanza che assumeva nei commerci mondiali, la Sicilia raccontata da sempre dai viaggiatori, deve essere piattaforma di guerra? E perché, invece, non potrebbe essere piattaforma di pace? Perché gli abitanti dell’isola non potrebbero trarre “vantaggio” dall’affacciarsi della propria terra su un continente africano in crescita? Perché non possiamo pensare di crescere insieme con le popolazioni africane che lavorano, viaggiano, portano avanti le loro famiglie, socializzano e trasferiscono risorse e conoscenza? Il nostro No al ponte è anche questo. Un No alle logiche di guerra, alle militarizzazioni dei territori e del mare, ai muri armati innalzati tra Nord e Sud. E’ il nostro Sì, forte, per la Pace, il Disarmo e la Giustizia tra i Popoli.
Antonio Mazzeo e Luigi Sturniolo

(Fonte – il collegamento inserito nel testo è a cura della redazione)

Vae victis

L’Italia e la Germania hanno perso la guerra.
Negli ultimi settant’anni ogni tanto si sono presi la briga di ricordarcelo, ma non hanno potuto calcare troppo la mano altrimenti si sarebbe potuta spezzare la corda.
Ci hanno fatto vivere al di sopra delle nostre possibilità perchè era il modo più intelligente per controllarci e perchè dovevamo fungere da vetrinetta per far schiattare d’invidia i cittadini del Patto di Varsavia e facilitare l’inoculazione di quel sentimento anti-russo che tanto utile sta tornando in questi tempi per tenere lontana l’Europa Occidentale dall’unica possibilità che ha per affrancarsi dal giogo imperiale: un’alleanza strategica con la Russia (il nostro posto nel frattempo è stato preso dai Polacchi, dai Baltici, dai Cechi, che ora vivono nell’illusione che ha caratterizzato i nostri anni più belli).
Caduto il Muro, hanno polverizzato un’intera classe dirigente ambigua (per loro) e fatto avanzare le quinte colonne storiche (Napolitano in primis) e le seconde linee preventivamente indottrinate all’atlantismo, al neoliberismo, al carrierismo (in Germania con la Baerbock addirittura stanno per promuovere le seste linee: ma è gggiovane, è donna, è “green”, cosa si può voler di più dalla vita ? Forse si accorgeranno tra una decina d’anni del calibro che hanno usato per spararsi nelle mutande; del resto noi ancora non l’abbiamo capito).
Nel momento stesso in cui hanno rimosso la minaccia del socialismo reale, hanno iniziato a richiedere indietro, un poco alla volta, tutti i fringe benefit che avevano concesso per rammollire la popolazione, nascondere lo status di Paesi occupati, disinnescare la resistenza e per marcare la differenza con l’Impero del Male (diritti sociali, garanzie costituzionali, standard di vita tra i più alti al mondo) e sono gradualmente passati, modello rana bollita, dal soft power (cit. Joseph Samuel Nye) allo hard power che stiamo vivendo in questi giorni.
Questo cambio di paradigma nei Paesi sotto occupazione mascherata è estremamente pericoloso visto che non può essere indolore e pertanto necessita di provvedimenti da Paese sotto controllo militare: sistemi di sorveglianza di massa, coprifuoco, Stato di polizia, chiusura delle frontiere, check point, pass sul modello dell’ahnenpass nazista, amministrazione controllata dell’economia con particolare riferimento alla libera impresa, normalizzazione dell’autoritarismo a partire dalle scuole, criminalizzazione del dissenso, propaganda sfrenata, promozione sociale dei collaborazionisti, apartheid…
Il passaggio dal soft allo hard power richiede un periodo di transizione, necessario per riprogrammare attraverso la propaganda e la manipolazione occulta le menti dei popoli sotto occupazione e per costruire le infrastrutture necessarie per l’esercizio del governo autoritario.
E questo è esattamente il momento che stiamo vivendo: il Sistema sta velocemente abbandonando la vecchia pelle democratica, ormai troppo stretta e lacerata, e sta consolidando all’aria la nuova, più robusta e adatta a contenere un corpo sociale non ancora pronto per la svolta autoritaria.
Questa è l’ultima occasione che abbiamo, dobbiamo agire mentre sono in muta, è l’unico momento di vulnerabilità del Sistema; una volta cambiata la pelle, inizierà l’epoca della repressione manu militari del dissenso oppure, in caso estremo, la guerra civile.
E’ chiaro che per uscirne non c’è altra via che una guerra di liberazione, prima ce ne rendiamo conto, meglio sarà per tutti.
Bisogna spiegarlo anche ai nostri fratelli oltre le Alpi e oltre cortina sanitaria, perchè una cosa sola è certa, da soli non ne usciremo liberi.
Giorgio Bianchi

La militarizzazione della pandemia

Leggi emergenziali, limitazioni delle libertà costituzionali e militarizzazione delle strade e delle corsie degli ospedali consentono un colpo d’acceleratore del processo di militarizzazione e sicurizzazione della società e dell’economia come non sarebbe mai stato possibile in tempi di “normalità”. Se poi a questo processo si accompagna l’attacco globale alla politica e agli spazi di aggregazione sociale appare ancora più evidente che il creare le condizioni e utilizzare il linguaggio e le narrazioni di “guerra” consente un attacco mortale alle sempre più ridotte forme di partecipazione e lotta democratica. E, come dicevo prima, la militarizzazione dell’intervento sanitario anti-Covid, (invece della scelta di interventi di compartecipazione democratica, decentramento e potenziamento dei centri per la salute e la prevenzione distribuiti e/o prossimi territorialmente), assicura il ruolo “imprescindibile” e “insostituibile” delle forze armate nella gestione della crisi-conflitto. Siamo di fronte a un modello culturale, ben costruito soprattutto in ambito mediatico, del tutto opposto a quanto accadde 40 anni fa con il terremoto in Irpinia, quando l’associazionismo di base, il volontariato e le forze sociali e politiche vive del paese ebbero la capacità di denunciare e documentare l’assoluta inefficienza delle forze armate nelle fasi post-sisma e di ricostruzione e dunque di proporre modelli del tutto differenti di gestione di emergenze naturali-ambientali e sanitarie. L’Irpinia impose il dibattito sulla de-militarizzazione delle crisi e di una protezione civile democratica, diffusa, partecipata e decentrata. Oggi sembrano passati millenni da quella importante fase di confronto politico generale su diritti ed “emergenze”. E così le forze armate e il complesso militare-industriale e finanziario possono oggi “battere cassa” con più arroganza di prima, imponendo schemi e linee di spesa pubblica ancora più insostenibili.
Antonio Mazzeo

(Fonte)

Sigonella è un cancro in metastasi


“Quanto sta accadendo in Sicilia conferma inesorabilmente quanto sostenuto da attivisti e ricercatori No War, cioè che la base di Sigonella è un cancro in metastasi che diffonde ovunque installazioni, radar, presidi e militarizzazioni. L’Isola è stata trasformata infatti in un’immensa piattaforma di morte USA e NATO: oltre alla telestazione di Niscemi, è stato creato un centro operativo a Pachino (Siracusa) per supportare le esercitazioni aeronavali della VI Flotta nel Canale di Sicilia; ad Augusta sorge una grande struttura portuale per il rifornimento di armi e gasolio delle unità da guerra e dei sottomarini nucleari; gli scali di Catania-Fontanarossa, Trapani-Birgi, Pantelleria e Lampedusa sono utilizzati per le missioni d’intelligence top secret dei velivoli alleati o di società contractor private a servizio del Pentagono e/o – come avvenuto nel 2001 durante la guerra contro la Libia – per le operazioni di bombardamento contro obiettivi civili e militari “nemici”.
Non c’è area addestrativa o poligono in Sicilia che non sia stato messo a disposizione dei reparti d’elite USA protagonisti delle peggiori nefandezze nei teatri di guerra internazionali. I Marines destinati a intervenire in Africa utilizzano periodicamente per esercitarsi una vasta area agricola nel Comune di Piazza Armerina. Ai reparti a stelle e strisce è stato concesso pure l’uso del poligono di Punta Bianca, a due passi dalla città di Agrigento, in una delle aree naturali e paesaggistiche più belle e più fragili dell’Isola, utilizzato stabilmente dalla Brigata Meccanizzata “Aosta” dell’Esercito italiano. Nella primavera 2019, i reparti statunitensi di stanza a Sigonella sono stati inoltre tra i protagonisti di un’imponente esercitazione che ha interessato buona parte della provincia di Trapani, comprese alcune aree di rilevante interesse naturalistico e lo scalo aereo di Birgi.
Ancora più foschi gli scenari che potrebbero essere riservati alla Sicilia intera nei prossimi anni. E’ in atto una pericolosissima sfida sferrata da Trump contro la Russia con la cancellazione unilaterale del Trattato INF contro le armi nucleari a medio raggio, firmato da USA e URSS a fine anni ’80. Quel trattato aveva consentito lo smantellamento dall’Europa dei missili Pershing II, SS-20 e Cruise; 112 di questi ultimi vettori nucleari “da crociera” erano stati installati dalla NATO a Comiso (Ragusa), nonostante una straordinaria stagione di mobilitazione popolare, una delle più importanti della storia della Sicilia. La scellerata decisione dell’amministrazione USA rischia di condurre ad una nuova escalation del processo di militarizzazione e ri-nuclearizzazione dell’intero territorio siciliano, considerato che i nuovi programmi di riarmo puntano alla realizzazione – ancora una volta privilegiando il Fianco Sud della NATO oltre a quello orientale – di nuovi sistemi missilistici a medio raggio con lancio da piattaforme terrestri e/o anche mobili, esattamente come avveniva con i Cruise di Comiso, trasportabili ovunque sui camion-lanciatori TEL. Altri aghi atomici da occultare nel pagliaio Sicilia in nome e per conto dei moderni Stranamore e delle transazionali del profitto d’oltreoceano.”

Da Droni AGS a Sigonella. Il regalo di Natale della NATO ai Siciliani, di Antonio Mazzeo.
L’immagine a corredo è tratta dalla pagina Facebook NAS Sigonella.

La NATO

globalizzazione nato“… qualora aveste dimenticato che cosa sia questa bieca organizzazione a delinquere della quale noi Italiani siamo purtroppo membri v’invito a dare un’occhiata a Mahdi Darius Nazemroaya, La globalizzazione della NATO, Bologna, Arianna, 2014…”
Franco Cardini

(Fonte)

E’ finalmente uscito “La globalizzazione della NATO”

globalizzazione nato

Mahdi Darius Nazemroaya è un sociologo canadese, scrittore pluripremiato e analista geopolitico di fama internazionale. Ha soggiornato per due mesi in Libia come corrispondente di Flashpoints nel corso dell’intervento NATO.
La sua opera è stata tradotta in più di venti lingue fra cui spagnolo, portoghese, arabo, russo, turco, farsi, tedesco e cinese.

Traduzione di Alessandro Iacobellis, revisione di Federico Roberti.

Arianna editrice, pagg. 384, € 18.

INDICE:

Ringraziamenti
Prefazione. “Le avvertenze di un consigliere del Segretario generale dell’ONU”, di Denis J. Halliday
1. Uno sguardo d’insieme sull’espansionismo della NATO: prometeismo?
2. L’UE, l’espansionismo della NATO e il Partenariato per la Pace
3. La Jugoslavia e la reinvenzione della NATO
4. La NATO in Afghanistan
5. Il Dialogo Mediterraneo (DM) della NATO
6. La NATO nel Golfo Persico. L’Iniziativa per la sicurezza nel Golfo
7. La penetrazione nello spazio postsovietico
8. La NATO e gli alti mari. Il controllo delle rotte marittime strategiche
9. Il progetto dello scudo missilistico globale
10. La NATO e l’Africa
11. La militarizzazione del Giappone e dell’Asia-Pacifico
12. L’avanzata nel cuore dell’Eurasia: l’accerchiamento di Russia, Cina e Iran
13. Le controalleanze eurasiatiche
14. La NATO e il Levante: Libano e Siria
15. L’America e la NATO rapportati con Roma e gli alleati peninsulari
16. Militarizzazione globale: alle porte della terza guerra mondiale?
Note
Appendice. La strada per Mosca passa da Kiev
Fonti delle illustrazioni
Immagini: grafici, diagrammi e tavole
Mappe

L’americanizzazione che avanza

“Quando ho sentito per la prima volta, l’anno scorso, che le istituzioni stavano organizzando i “150 anni dell’Unità d’Italia”, di prim’acchito ho pensato si trattasse del consueto gorgo in cui far sparire, un bel po’ di soldi pubblici, alla faccia della “crisi”, con l’abituale condimento di retorica insulsa; ma quando quest’anno è scattata l’aggressione militare alla Libia, e Roma, malgrado il Trattato di amicizia e collaborazione con Tripoli (ostentato come un fiore all’occhiello fino al giorno prima), ha subitamente aderito, mi si è chiarito il perché di tanta enfasi su questa “ricorrenza patriottica”…
Siamo in guerra ma non lo si può ammettere, questa è la verità. Siamo in guerra al fianco dell’America e dell’Occidente (non mi stancherò mai di ripetere che si tratta di sinonimi, per indicare la civiltà dell’ateismo e del “regno della quantità”). Ma come ci siamo scivolati in questa situazione che solo vent’anni fa sarebbe stata impresentabile?
La musica è cambiata un po’ per volta, a partire dalla prima Guerra del Golfo (1991): l’Italia che “ripudia la guerra” (art. 11 della Costituzione) è ormai un pallido ricordo, poiché di fatto oggi la sua “classe dirigente” non fa nulla per evitare di finirvi dentro, né di fiancheggiarla o di giustificarla, se a volerla sono i “nostri alleati” (altrimenti è “condanna senza se e senza ma”: mi pare di sentirlo un Frattini che condanna uno “Stato canaglia”!). Abbiamo poi assistito in tutti questi anni post-Urss ad un progressivo protagonismo militare del nostro Paese, dalla partecipazione allo sbarco in Somalia con tanto di riprese in diretta all’ignobile attacco all’ex Jugoslavia, fino alle decine di costosissime “missioni di pace”, dal Libano (dove peraltro c’eravamo già stati nei primi anni Ottanta, ma con altre motivazioni perché non eravamo così impelagati con NATO & soci) all’Iraq, all’Afghanistan, dove – colmo della mistificazione – manderemmo i nostri “scarponi” a far da “sentinelle della democrazia” e della “ricostruzione” (dopo che gli “alleati” hanno volutamente ridotto quella terra a un cumulo di rovine!) .
Per carità, non sono così fesso da pensare che ogni volta l’Italia partecipi entusiasticamente (siamo o non siamo una colonia americana? ad ogni ordine bisogna battere i tacchi! e chi non lo fa è morto); o che nelle recondite pieghe di qualche tentennamento o attacco ai nostri contingenti (v. la famosa “strage di Nassiriyya”) non si nascondano chissà quali “pugnalate alle spalle” da parte di quelli che la propaganda presenta invariabilmente come “amici”. Non sono neppure così ingenuo da ritenere che alla fine un qualche vantaggio, talvolta, vi sia più nello “starci dentro” che nel “rimanere fuori”… Ma con questa giravolta libica – l’ennesima della nostra disonorevole storia nazionale – si rende davvero un’impresa disperata presentare la cosa in termini di “interesse nazionale”.
Infatti non avevamo alcun interesse ad associarci a quest’ennesimo odioso crimine, di cui siamo ragguagliati ancor meno di quanto ci illusero di sapere in occasione delle precedenti “guerre democratiche” degli ultimi vent’anni. Siamo passati da Peter Arnett della CNN e la guerra tipo videogioco sul cielo di Baghdad alla sparizione pura e semplice di ogni notizia, tant’è che la Libia è passata in secondo o terzo piano, messa dopo le trite scaramucce centro-destra e centro-sinistra, le notizie relative ai disastri meteorologici e il periodico caso di cronaca nera sul quale i notiziari indugiano morbosamente con ogni dovizia di particolari sempre più scabrosi e inquietanti. Dell’aggressione alla Libia ci fanno vedere solo e sempre la solita scena dei “ribelli” che al “ciak si gira” dell’operatore televisivo si mettono a sparare a vanvera in aperta campagna… tanto le pallottole le paghiamo noi!
Stavolta hanno deciso che è decisamente meglio non parlarne proprio, così sembrerà che il problema non sussiste. Ed il risultato è assicurato perché la gente, in giro, non alcuna cognizione del fatto che a pochi chilometri noi anche i “nostri ragazzi” sganciano bombe addosso a persone che non ci hanno fatto alcun male, né avevano minacciato di farcene.
La vergogna è troppo grossa per andare in giro orgogliosi di questo ‘capolavoro’. E cosa di meglio, per velare questo scempio, della retorica patriottica per i “150 anni dell’Unità d’Italia”? Ecco che ogni occasione è buona per propinarci l’eroismo dei “nostri ragazzi” e l’efficienza delle nostre Forze Armate, coi balconi di alcune città-simbolo della pretestuosa ricorrenza – Torino su tutte – addobbati fino all’inverosimile col tricolore, come neppure s’era visto per la vittoria ai mondiali di calcio!”

L’americanizzazione che avanza: il “patriottismo senza patria” e la militarizzazione dell’immaginario, di Enrico Galoppini continua qui.

La militarizzazione della gioventù americana

L’Army Experience Center (AEC): addestrare ragazzini a uccidere.
Di David Swanson per Global Research

“È troppo bello! È troppo bello” ripeteva un tredicenne mentre scaricava colpi da un vero M-16, abbattendo “combattenti nemici” in un videogioco stando appollaiato in cima ad un vero Humvee dell’Esercito. “Ero andato al Centro commerciale solamente per fare un po’ di skateboard, ma tutti dicevano che è proprio bello. Ho solo dovuto provarlo ed è fantastico!”
La persona che ha riferito di questo entusiasmo giovanile è Pat Elder, il quale è impegnato nel Comitato Direttivo della Rete Nazionale Contro la Militarizzazione della Gioventù. Elder ha descritto pure giovani adolescenti congratularsi a vicenda per aver “ucciso straccioni col turbante” ed “annientato islamici”.
Tutto questo divertimento va in scena all’Army Experience Center (AEC), una “struttura educativa virtuale” di 14.500 piedi quadrati nel Centro commerciale Franklin Mills alla periferia di Philadelphia, in Pennsylvania. L’Esercito statunitense ha inaugurato il centro nell’agosto 2008 e stabilito di portarlo avanti per due anni come progetto pilota. Se il centro fosse stato in grado di reclutare tanti nuovi soldati quanto cinque punti ordinari di arruolamento, l’Esercito avrebbe progettato di allestirlo su scala nazionale. L’AEC costa più di 12 milioni di dollari fra progetto e costruzione, ma certamente l’esercito spende diversi miliardi all’anno per l’arruolamento.
Pacifisti e cittadini preoccupati della zona circostante e da tutta la Costa Orientale hanno rapidamente avviato una campagna battezzata “Chiudere l’AEC”. Attraverso una serie di proteste ed iniziative non violente, alcune delle quali culminate in arresti, i manifestanti hanno suscitato preoccupazione e generato un’ondata di attenzione negativa da parte dei media riguardo l’ultimissimo strumento di arruolamento dell’Esercito. Come conseguenza, il Pentagono ha interpellato Donna Miles, una giornalista dell’American Services Press Service, il braccio propagandistico del Pentagono. La Miles aveva già pubblicato articoli distensivi in seguito agli scandali di Abu Ghraib, Walter Reed e vari incidenti che coinvolgevano vittime civili. Come rileva Elder, “O la Miles è incredibilmente prolifica, essendole stati attribuiti già 229 articoli quest’anno, oppure è uno pseudonimo per alcune persone al servizio del Pentagono”.
La Miles ha scritto riguardo l’AEC in questi termini: “Il tredicenne Sean Yaffee, ad esempio, non si vede nei panni del militare. Però sta diventando un assiduo frequentatore del centro, ove può cimentarsi con gli stessi videogiochi che ha a casa, ma in compagnia dei suoi amici. Yaffee ha detto di aver imparato un sacco di cose sull’Esercito al centro. “Ti spiega semplicemente l’esperienza dell’Esercito, ma non ti fa pressioni” ha affermato “Io sono qui solamente per divertirmi”.”
Simpatico, ma l’opinione pubblica non se l’è bevuta e le proteste sono proseguite. Il 12 settembre 2009, un gruppo di 250 attivisti ha sfilato verso l’AEC per opporsi all’uso di denaro pubblico per insegnare ai bambini – in uno spazio semipubblico – che uccidere può essere divertente e nel frattempo reclutare diciottenni da impegnare in un contesto reale. In questa circostanza la polizia ha arrestato sei manifestanti ed una giornalista. Quest’ultima, Cheryl Biren, non era assieme ai manifestanti ma è stata prelevata dalla folla, apparentemente a causa della sua telecamera professionale.
Giorni prima di questa manifestazione da lungo tempo progettata ed annunciata pubblicamente, l’Esercito aveva dichiarato preventivamente che avrebbe verosimilmente chiuso l’AEC e non ne avrebbe aperto nessun altro in centri commerciali, come era stato progettato. La ragione? Siete pronti a sentirla?
Per sua stessa ammissione, l’Esercito non ha bisogno di nessun’altra recluta poiché la crisi economica ha significativamente incrementato gli arruolamenti.
Ora, la verità è che l’economia è pessima, la disoccupazione sta crescendo ed i militari hanno ridotto le altre spese per l’arruolamento, per la nota ragione che c’è un aumento degli arruolamenti derivante dalla pessima situazione economica.
(…)

Traduzione di L. Salimbeni