“La prima vera base logistica operativa permanente delle forze armate italiane fuori dai confini nazionali”
Così l’ha definita, con sprezzo del pericolo, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, capo di stato maggiore della Difesa.
Ma andiamo con ordine.
Nell’Aprile 2013, riferivamo della “Missione Addestrativa Italiana” a Gibuti (acronimo MIADIT), i cui 32 istruttori dell’Arma dei Carabinieri, impegnati nella formazione di 200 poliziotti somali, avevano appena ricevuto la visita dell’ammiraglio Binelli Mantelli.
La MIADIT – dicevamo allora – costituiva il ritorno di un contingente di Carabinieri nel continente africano, dopo la precedente “sfortunata” esperienza della missione IBIS a Mogadiscio.
Eravamo però solo all’antipasto.
Tempo sei mesi, lo stesso ammiraglio Binelli Mantelli tornava infatti a Gibuti per inaugurare la base di cui sopra, costruita in appena sessanta giorni dai genieri del 6° Reggimento Genio pionieri di Roma e dislocata su una superficie di 5 ettari in pieno deserto, a sette chilometri dal confine con la Somalia e a poca distanza dalla grande infrastruttura militare USA di Camp Lemonnier.
La base italiana, pienamente operativa dalla fine del 2013, ospita 300 militari, una sessantina dei quali sarebbero appartenenti ai cosiddetti “Nuclei militari di protezione” dei mercantili italiani dalla pirateria (come quello di cui facevano parte i fucilieri di Marina, Latorre e Girone, ora detenuti in India). Ne mancano all’appello oltre duecento, circa i quali è lecito fare alcune ipotesi.
Trattandosi, infatti, di “un’area di enorme importanza strategica destinata ad essere più importante e strategica di Suez e di Gibilterra” – ammiraglio dixit – la base di Gibuti sarà anche l’avamposto di forze speciali pronte per vari tipi di interventi, dall’anti-terrorismo alla liberazione di ostaggi. Tuttavia, c’è un “piccolo” problema: mentre l’Italia schiera alcune decine di istruttori e parà a Mogadiscio, nell’ambito della missione addestrativa europea a favore dell’esercito somalo (EUTM Somalia), non è mai stato ufficializzato un impegno militare in operazioni anti-terrorismo come quelle condotte dagli statunitensi in Somalia contro gli islamisti di al Shabaab.
E i soldi per costruire e mantenere tutta la baracca?
Qui sta la beffa.
Art. 33, comma 5, di un Decreto Legge dell’Ottobre 2012 denominato “Ulteriori misure per la crescita del Paese”. Il quale recita: “Al fine di assicurare la realizzazione, in uno o più degli Stati le cui acque territoriali confinano con gli spazi marittimi internazionali a rischio di pirateria… di apprestamenti e dispositivi info-operativi e di sicurezza idonei a garantire il supporto e la protezione del personale impiegato anche nelle attività internazionali di contrasto alla pirateria ed assicurare una maggior tutela della libertà di navigazione del naviglio commerciale nazionale” è stato previsto un finanziamento pari a 27,1 milioni di euro fino al 2020, al netto dei costi operativi e delle indennità dei soldati ivi stanziati, da rifinanziare annualmente con il rituale decreto per le “missioni di pace”.
Al peggio, però, non c’è mai fine.
Oltre ai militari impiegati per operazioni speciali, nella base di Gibuti sarebbe stato dislocato anche il personale a sostegno delle attività di due velivoli senza pilota Predator, appartenenti al 32° Stormo dell’Aeronautica Militare di stanza ad Amendola (Foggia), colà inviati all’inizio dell’estate.
A Gibuti i due velivoli opererebbero attualmente dallo scalo aereo di Chabelley, dove da Settembre 2013 opera pure l’intera flotta di droni USA impiegati per i bombardamenti in Yemen e Somalia, prima dislocati a Camp Lemonnier e trasferiti dopo le roventi polemiche suscitate dai numerosi incidenti di cui sono stati protagonisti, che hanno creato grossi rischi al traffico aereo civile e provocato i fondati timori della popolazione residente nei pressi della base statunitense.
“A differenza dei velivoli statunitensi quelli italiani continuano a operare disarmati dal momento che Washington non ha ancora autorizzato la cessione dei kit di armamento all’Aeronautica Militare”, scrive Analisi difesa. Dei Predator tricolori, uno sarebbe stato assegnato per raccogliere immagini e dati sulle imbarcazioni dei “pirati” diretti a intercettare e abbordare i mercantili in transito in acque somale. “Il secondo Predator viene mantenuto in riserva per rimpiazzare il drone gemello o forse per compiti diversi da quello antipirateria”.
In effetti, la nomina di un colonnello dell’Aeronautica Militare, Giuseppe Finocchiaro, a comandante di una base che avrebbe dovuto appoggiare i nuclei di protezione marittimi puzzava alquanto. Adesso che sono arrivati i Predator, tutto diventa più comprensibile.
Federico Roberti