L’Africa come cavia

Per lo sviluppo del programma sono già stati investiti più di 500 milioni di dollari e lavorano fianco a fianco i ricercatori di un colosso mondiale del settore farmaceutico e i migliori medici delle forze armate USA. Sponsor, l’onnipotente padrone delle nuove tecnologie informatiche. Si tratta della sperimentazione di un nuovo vaccino contro la malaria, nome in codice “RTS,S/ASO2”. Una speciale unità dell’esercito statunitense in Kenya (USAMRU-K) e la multinazionale britannica GlaxoSmithKline (GSK) stanno eseguendo decine di migliaia di test su bambini e neonati in alcuni dei villaggi più poveri del continente africano. Il tutto sotto l’occhio vigile di US Army Africa, il comando delle forze militari terrestri in Africa istituito a Vicenza che tra gli scopi annovera il “supporto delle missioni mediche di US Army nel continente nero”.
È nel Muriithi-Wellde Clinical Research Centre di Kombewa, città della provincia di Nyanza (Kenya), che i dati della sperimentazione del vaccino vengono raccolti ed analizzati dal team di USAMRU-K. “La nostra unità dipende dal Comando per la Ricerca Medica dell’US Army (USAMRMC) che ha sede a Fort Detrick, Maryland, ma noi stiamo coordinando le attività nel continente con l’US Africa Command (AFRICOM) di Stoccarda e US Army Africa di Vicenza”, spiega il portavoce di USAMRU-K. “A Kombewa è in avanzata fase di sviluppo la ricerca sull’efficacia del vaccino contro la malaria, malattia trasmessa da zanzare infette. USAMRU-K partecipa alla sperimentazione di quello che potrebbe diventare il primo vaccino anti-malarico per bambini. I partecipanti ricevono cure gratuite per la durata di tre anni scolastici. Una volta provata la sua sicurezza ed efficacia, il vaccino potrà essere immesso sul mercato. Lo studio odierno nasce da una partnership con la PATH Malaria Vaccine Initiative (MVI) e la compagnia farmaceutica GlaxoSmithKline (GSK)”. Per lo sviluppo del vaccino, GSK ha già investito 300 milioni di dollari e altri 100 verranno spesi nei prossimi due anni. Al finanziamento delle ricerche ha contribuito con 107,6 milioni di dollari l’organizzazione statunitense “no-profit” Path, utilizzando un fondo ad hoc della Bill & Melinda Gates Foundation, la fondazione “umanitaria” del magnate di Microsoft, Bill Gates.
Il vaccino RTS,S/AS02 è stato creato nel 1987 nei laboratori del Belgio di GSK Biologicals (una partecipata Glaxo) ed è stato testato la prima volta nel 1992 su “alcuni volontari” negli Stati Uniti d’America, grazie alla collaborazione dell’US Walter Reed Army Institute of Research, l’istituto di ricerca medica dell’esercito USA con sede a Washington. La prima campagna di sperimentazione ad ampio raggio dell’RTS,S ha però preso via in Africa nel 1998 e nel biennio 2002-2003 i test sono stati eseguiti sulla popolazione “adulta” dei villaggi di Kombewa nel Centro clinico co-gestito da USAMRU-K. “I test fornirono dati incoraggianti in termini di sicurezza e immunogenicità, così a partire della fine del 2003 è stata avviata la fase sperimentale “Ib” su 90 bambini della stessa aerea geografica, che ha prodotto risultati ancora una volta incoraggianti”, si legge in un report della GlaxoSmithKline. “Subito dopo è partita la fase “II”, condotta su oltre 2.000 bambini nel sud del Mozambico. I risultati di questo test, pubblicati dalla rivista medica The Lancet nel 2004 e 2005, hanno mostrato che l’RTS,S è stato efficace per un periodo di 18 mesi nel ridurre la malaria clinica nel 35% dei casi, e la malaria grave nel 49%”. Ignoto, ovviamente, cosa sia accaduto nel restante numero di casi, 1.300 bambini cioè in carne ed ossa.
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Se appare incredibilmente spregiudicata e priva di etica la massiccia sperimentazione del vaccino in aree del continente dominate dalla fame, dal sottosviluppo, dall’analfabetismo e dall’assenza di qualsivoglia servizio primario, desta profonda inquietudine il ruolo assunto nella vicenda da un’unità “sanitaria” d’élite delle forze armate USA. USAMRU-Kenya vanta però una lunga tradizione nel campo della “ricerca scientifica” e della “prevenzione” delle infermità tropicali. In qualità di task force operativa estera del Walter Reed Army Institute of Research, l’unità fu inviata in Kenya nel lontano 1969 per avviare uno studio sulla tripanosomiasi, un’infezione parassitica trasmessa dalla mosca tse-tse. Nel 1973 USAMRU stabilì una propria sede permanente a Nairobi grazie ad un accordo con il Kenya Medical Research Institute. Negli anni successivi furono aperti laboratori nella capitale e nel Kenya occidentale (Kisumu, Kisian, Kombewa e Kericho) per la sperimentazione di farmaci contro malaria, tripanosomiasi, “malattie infettive globali emergenti” e l’HIV/AIDS. Proprio all’AIDS sono stati destinati gli sforzi maggiori più recenti: nell’ambito dell’United States Military HIV Research Program (USMHRP), lo staff di US Army sta sviluppando il vaccino HIV-1 ad efficacia globale e testando e valutando altri vaccini sperimentali contro l’AIDS. La sede del programma HIV è stata stabilita ancora una volta in Kenya, a Kericho, alla fine del 2000.
Coincidenza vuole che a fine dicembre 2000 nasceva pure in Gran Bretagna la GlaxoSmithKline (GSK) grazie alla fusione di due grandi società farmaceutiche, Glaxo Wellcome e SmithKline Beecham. Con oltre 100 mila dipendenti e un fatturato di 34 miliardi di euro, GSK si colloca al secondo posto nel mondo con una quota di mercato del 5,6%, dietro il gruppo Pfizer. Il comportamento “etico” della multinazionale è stato duramente stigmatizzato da più parti e non sono mancati gli scandali che l’hanno vista direttamente coinvolta.
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Mentre fatturati e guadagni si moltiplicano inverosimilmente, il management di GSK ha varato un piano che prevede la chiusura a breve termine del Centro ricerche e produzione antibiotici di Verona, uno dei due impianti posseduti in Italia dalla società. A rischiare il licenziamento sono più di 600 lavoratori. Delocalizzazioni nel sud-est asiatico, test sui bambini africani, smantellamento dell’apparato produttivo in Europa. E nello sfondo la guerra, altro crimine del capitalismo dal volto sempre più disumano. Nell’ultima decade, la GlaxoSmithKline ha sottoscritto con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America ben 61 contratti per la fornitura di vaccini, farmaci e attrezzature sanitarie, per un importo complessivo di 75.555.579 dollari. Assai meno di quanto fatto però dal partner e “mecenate” Bill Gates: in computer, programmi e war games, Microsoft-Gates ha fatto affari con il Pentagono per 278.480.465 dollari. Due volte e mezzo in più di quello che è stato reinvestito per i nuovi vaccini contro la malaria.

Da Neonati africani cavie del vaccino di US Army Africa e Glaxo, di Antonio Mazzeo.

Il modo italiano di fare peacekeeping

 

Durante l’estate del 2007, sul sito Internet della rivista di geopolitica “Limes” è apparso un articolo del generale Filiberto Cecchi sul modo italiano di gestire le missioni all’estero per il mantenimento della pace. Vogliamo qui presentare alcune considerazione sviluppate dal generale di Corpo d’Armata in ausiliaria Fabio Mini, quale replica “polemicamente” argomentata alle posizioni del collega, esponente dell’attuale dirigenza militare responsabile – secondo Mini – del sistematico rigetto di tutto il capitale di prestigio accumulato in tanti anni di peacekeeping.
La cosiddetta via italiana al peacekeeping, iniziata in Libano e maturata in Albania, Somalia, Mozambico ed oggi di nuovo in Libano, non ha nulla a che vedere con le azioni militari intraprese contro la Serbia, l’Afghanistan e l’Irak. Vere e proprie guerre, queste.
Se essa oggi sopravvive in Bosnia, Kosovo e Libano o in qualche punto dello stesso Afghanistan è solamente – a parere di Mini – grazie a comandanti sul campo particolarmente intelligenti e caparbi ma non ad una linea di condotta emanata dall’alto.
Anzi, l’attuale vertice militare italiano – cosa tutt’altro da celebrare, indebito e menzognero tentativo di appropriazione di una concezione ormai desueta – continua a chiamare col nome di peacekeeping delle operazioni di guerra in territorio di guerra a fianco di alleati in guerra “soltanto per nascondere i veri scopi ed eludere le stesse leggi nazionali”.
In queste situazioni l’unica “via italiana” che ci viene ormai da più parti riconosciuta con disprezzo è quella di non dire mai no a quello che i potenti (leggasi NATO e Stati Uniti) richiedono, ma di non impegnarsi mai fino in fondo. Caratteristica che riguarda non i soldati ma i vertici militari che giocano sulla capacità e flessibilità dei primi per assecondare all’infinito l’ambiguità e l’equilibrismo dei vari governi, senza che gli stessi vertici militari abbiano mai trovato nulla da ridire, obiezioni da fare.
In Irak, l’Italia ha partecipato ad una guerra senza volerla fare, senza avere interessi a farla, al di fuori del quadro giuridico internazionale, in ossequio all’esigenza degli anglo-americani di avere un numero tale di Stati al fianco da poterla presentare come un fatto d’interesse collettivo. Per far questo – stigmatizza Mini – ci siamo uniti a eserciti di Paesi assolutamente insussistenti sul piano della sicurezza internazionale, abbiamo avvallato menzogne e nefandezze di ogni genere e spaccato il fronte europeo contrario al coinvolgimento in quel teatro. Dal canto loro, gli anglo-americani hanno tollerato che il contingente italiano, insieme ad alcuni altri, si spacciasse per peacekeeping ritenendosi esentato dalle operazioni prettamente militari. Per poi definire il successivo ritiro ininfluente, alla luce del fatto che il contributo alla sicurezza ed alla ricostruzione era stato praticamente nullo.
Analogamente in Afghanistan, dove l’iniziale orientamento ad interpretare il tradizionale ruolo di peacekeeping ed assistenza è stato stravolto dall’assunzione del comando nel contesto della NATO e poi dall’adesione di questa alla guerra dichiarata di Enduring Freedom. Anche in questo caso, l’Italia si è quindi risolta nell’astensione di fatto dalle operazioni belliche e nell’ambiguità di considerare mantenimento della pace ciò che è “semplicemente” guerra.
In nessun caso, né in Afghanistan né in Irak, si è mai intrapreso il tentativo di indurre un cambio della strategia complessiva presso chi di dovere. Così l’unica via italiana al peacekeeping – conclude Mini – è stata quella fatta di indecisioni, ammiccamenti, sudditanza ed ipocrisia.