Vinti ma di sicuro non peggiori dei vincitori

“Il 27 gennaio ultimo scorso, data dell’arrivo dell’Armata Rossa ai cancelli di Auschwitz, si è celebrato, come ogni anno, con grandissima partecipazione di congiunti, sopravvissuti, media e autorità, il “Giorno della Memoria”. Il 10 febbraio, poi, ci si è accapigliati sul “Giorno del Ricordo”, quello delle Foibe, nelle quali un sacco di strabici, dal Quirinale in giù, vogliono vedere sepolte solo vittime di Tito fiumane o triestine. Infine, Il 14 febbraio i fidanzati, gli sposi ancora in buona, gli amanti ancora entusiasti, si sono fatti gli auguri e i pensierini di San Valentino. Per il “Giorno della Rimembranza” che qui, seduta stante, proclamo e inauguro, siccome sono solo e resteremo pochini, voglio rifarmi a San Valentino, interpretata come giornata di chi si vuole bene.
A sfida delle zanne dei morsicatori del pensiero non unico, anzi, controverso, dichiaro che, insieme all’Italia, della quale mi auguro la difesa dell’identità millenaria e il ricupero della sovranità popolare e nazionale, voglio molto bene alla Germania, per la quale formulo gli stessi auguri. E’ in massima parte a questo paese, vindice, insieme ad altre nazioni, della grande civiltà europea (tagliando via guerre e colonialismi), terra di pensatori senza uguali, esploratori dell’animo umano, terra di grandi foreste integre e di grandi fiumi andati a fare le vene d’Europa, che dedico il “Giorno della Rimembranza”. Se non altro perché è il giorno dei vinti e, di conseguenza, non se lo fila nessuno. E’ a dispetto di questo cielo di soli artificiali, che vanno sostituendo quello naturale e la sua giusta luce, che certe storie, certi crimini, certe sofferenze, vanno ricuperate, riscritte, scolpite nella Storia accanto a quelle accettate e consacrate. Non sempre a ragione. Con almeno uguale dignità. E i negazionisti, quelli che negano il diritto a studiare, rivedere e riscrivere la Storia, peste li colga.
Il mio “Giorno della Rimembranza”, coincide – guarda il caso! – con le 48 ore, dal 13 al 14 febbraio 1945, in cui migliaia di carnefici in volo, della RAF e dell’USAAF, spediti da Churchill, hanno cancellato dalla faccia della Terra Dresda, il più prezioso gioiello barocco d’Europa. E poi anche Lipsia e Berlino e Amburgo e Monaco…. Forse questo mio “Giorno della Rimembranza” è balenato anche a quelli che recentemente in Germania Est, belli o brutti che fossero, non hanno votato come si converrebbe. Come sarebbe andata bene alle signore e ai signori del vero e del giusto, dei sacrosanti giorni della memoria e del ricordo, dalla Merkel alla Von der Leyen, da Macron a Mattarella, da Stoltenberg (NATO) al “manifesto”. E, dunque, senza nemmeno andare a vedere cosa dicono e cosa vogliono, e perché siano tanti e crescano, e per quali regioni detestino il governo che li ha annessi e colonizzati, questi depravati sono stati sotterrati sotto una slavina di “fascisti”, “neonazisti”, “razzisti”.
Io mi riservo di studiare chi e perché stia vincendo elezioni in Germania Est, mentre ho già un’ideuzza del perché vadano scemando i voti operai e proletari di SPD e CDU, forze di un capitalismo cannibale nei confronti dei propri fratelli, anche se meno esplosivo e incendiario degli aerei alleati. Forze predatrici che di una DDR, in cui nessuno aveva troppo e nessuno troppo poco, hanno distrutto, rubato, devastato tutto e quel che restava l’hanno portato via. Proprio come certi compari dall’URSS-Russia al tempo di Eltsin.
Detto questo per placare eventuali indignazioni, spiego perché alla Germania, ai tedeschi voglio bene. Non è questione di sangue. Miei avi paterni della Savoia e materni di origine francese ugonotta, poi trapiantati sul Reno, non c’entrano niente. C’entra che io, al tempo di Dresda immolata, insieme a centinaia di città, paesi, borghi, in Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, con una potenza di fuoco e di esplosivo ad altissimo potenziale, mai visto in nessuna guerra, da quelle parti c’ero. Piccolino, ma c’ero, vedevo, capivo. Mio padre era sotto le armi e fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’8 settembre. Il resto della famiglia, madre, sorella, io, era scampata nelle Alpi Bavaresi dai bombardamenti su Napoli. Anche per stare vicino a mio padre, detenuto a Wiesbaden. Ma gli Italiani erano passati da mercenari di Hitler, a mercenari di Churchill e Roosevelt. Perdemmo lo stato di alleati e assumemmo quello di nemici. E fummo costretti al domicilio coatto, poi molto alleggerito. Mio padre fu rilasciato dopo nove mesi di agiata prigionia in un hotel di Wiesbaden e rimandato in Italia. Noi no.
(…)
Con 11 anni, a Dresda non c’ero. Ma ne ho assaporato la carne bruciata. Più o meno negli stessi giorni, sul paese dove eravamo stati confinati, calavano gli Spitfire a mitragliare la gente. Di soldati non ce n’erano più. Raccoglievamo nei campi le loro armi abbandonate. E neanche di uomini tra i 14 e i 65 anni. Tutti richiamati per l’estrema, assurda, difesa, noi bambini delle Medie facevamo da Protezione Civile: a secchiate spegnavamo gli incendi e a braccia raccoglievamo feriti e morti. Così anche, nell’insediamento di baracche tirate su per i rifugiati dalle bombe su Duesseldorf e mitragliate pochi minuti prima, un mio compagno di classe di 11 anni. Col ventre squarciato e gli occhi spalancati sul cielo. Un altro mio compagno volò in cielo col ponte sul Meno fatto saltare da uno scellerato comandante tedesco in ritirata.
Questo “Giorno della Rimembranza” per civili tedeschi senza lapidi e senza onoranze vale anche per tutte le altre città tedesche, perlopiù, come Dresda, completamente prive di significato e presenza militare. Non si trattava di distruggere una Wehrmacht ormai allo sbando. Io, in molte di quelle altre città sono capitato mentre venivano rase al suolo dagli esplosivi, o rese macabri scheletri dalle bombe incendiarie. Non avremmo mai più rivisto il gotico, il neoclassico, il Biedermeyer, il rococò, il liberty, di Francoforte, Magonza, Koblenza, Colonia, Monaco, Wuerzburg, quella con la reggia affrescata dal Tiepolo. La Germania raccontata da Goethe, E.T.A Hoffmann, Brentano, Heine…non l’avrebbe più vista nessuno. Vedevamo le bombe scendere a grappolo, a stormi, a migliaia. Mia madre evitava i rifugi: “Meglio morire all’aria aperta, piuttosto che lì sotto, come topi”. E dopo ogni bombardamento ci trascinava via, verso luoghi “più sicuri”, che poi non lo erano. Ricordo una strada in centro, pochi minuti dopo che la sirena aveva suonato il cessato allarme. Era attraversata da voragini e fiancheggiata da macerie, palazzi con finestre che parevano gli occhi vuoti delle maschere greche, ancora fiamme qua e là ad arrossare interni, cavalli con le pance squarciate al lato della strada, sempre con quegli occhi enormi, vivi, che non capiscono.
(…) Prendevo lezioni private di Inglese da un giovane ebreo, si chiamava Ludwig Haas. Era sempre preoccupato, si muoveva con circospezione, ma nessuno nel paese gli ha mai torto un capello. Lo coprivano. Altrove era diverso, si sa. Avevamo la tessera annonaria, come tutti, ma quella per stranieri, più avara, da mera sopravvivenza. Mia madre ci portava in campagna a scambiare un suo vestito di seta con due panetti di burro e sei uova. Si friggeva con i resti del surrogato di caffè. Si mangiavano ortiche colte al lato della strada. Il calo delle difese immunitarie causava epidemie. Il tifo lo presi anch’io, come tanti, anche nei campi di concentramento. Mi salvai perché gli Americani, a fine 1946, dopo averci trattenuti per oltre un anno, sempre in regime di fame, più qualche chewing gum (che io mi rifiutavo di accettare dai GIs), perché, stranamente, considerati non badogliani, ma mussoliniani, finalmente ci permisero di rimpatriare.
Ma la gente del posto ci diede un’abitazione per pochissimi soldi. Un imprenditore del mobile ce la arredò gratis. I libri di scuola mi venivano regalati da compagni più avanti. Con qualcuno mi picchiai perché mi urlavano dietro “Badoglio!” Ma c’era tanta amicizia ed escursioni nei boschi e sul fiume. Le secche zitelle verduraie vicino a casa mia ci regalavano pomodori e cetrioli e mi insegnarono a coltivarli in un pezzetto del loro vivaio. La panettiera, grande, grossa, rubizza e tenera, ci dava sempre qualche panino in più, oltre la tessera annonaria. Così il salumiere dei Wuerstel. E il lattaio, un po’ matto, finchè ce n’era. Poi se lo portò via il “Volkssturm”, l’ultima chiamata alle armi, dei vecchi e dei ragazzini. Il mio “Giorno della Rimembranza” lo dedico anche a questi miei “concittadini”. Vittime, come tutti noi. E vinti. Ma di sicuro non peggiori dei vincitori.”

Da Mi faccio il “Giorno della Rimembranza”. Il giorno della memoria dei vincitori, 365 giorni dell’oblio dei vinti, di Fulvio Grimaldi.

Italia, la guerra sporca dei cacciatori di rossobruni

“In Italia lo scontro ha radici profonde ma meno nobili: si è passato da un’iniziale curiosità quasi morbosa da parte dei quotidiani nazionali nel 1992-1994 per la rivista di Maurizio Murelli [Orion – n.d.c.] che invitava a votare per Rifondazione Comunista, nonostante il background destroradicale del grosso della redazione, al dossieraggio a opera dei siti antifascisti militanti con produzione di lunghi elenchi di sigle, movimenti ecc. – tracciando la genealogia già vista – per arrivare all’attuale ‘caccia alle streghe’ all’interno della sinistra verso chi si pronuncia contro l’europeismo, la governance dei flussi migratori e a favore di una risoluzione strutturale della questione (non certo una fatalità, ma una diretta conseguenza di decenni di neoliberismo e neocolonialismo applicato all’Africa), o accenni all’esistenza di un problema sicurezza che partiti come la Lega risolvono da destra e che sarebbe il caso di gestire da sinistra.
La dinamica delegittimatoria è arrivata a un livello tale che perfino Andrea Scanzi se n’è occupato su Il Fatto Quotidiano, scrivendo che “si è assistito in effetti anche a questa sottile strategia messa in atto negli ultimi anni in Italia: alcuni settori della ‘sinistra’, al fine di legittimare il prosieguo di un eclettismo ideologico ‘liberal’, hanno iniziato a tacciare di rossobrunismo tutti coloro che ponevano la contraddizione antimperialista come la contraddizione principale. Ci sono cioè settori della ‘sinistra’ che si presentano come ‘progressisti’, talvolta perfino come ‘comunisti’, ma alla prova dei fatti utilizzano la questione antifascista come prioritaria su ogni altro aspetto (antimperialismo, anticapitalismo, lotta di classe), approdando spesso e volentieri a una posizione morbida, se non conciliante, con il PD, con il centrosinistra e con le strutture e sovrastrutture che le sinistre tradizionali non avrebbero faticato a definire imperialiste (prime tra tutte NATO, UE, euro), in nome dell’unità contro le ‘destre’”. Ora, non risulta che Scanzi sia un marxista leninista antimperialista, ma ha fotografato bene la situazione. Dinamica a cui non si è ovviamente sottratta il quotidiano La Repubblica, che ha pubblicato un dossier sui rossobruni mettendo dentro di tutto, da politici come Fassina e D’Attore a intellettuali come Diego Fusaro per arrivare a siti d’informazione come L’AntiDiplomatico o ad associazioni politicoculturali come Marx XXI.
È utile usare nel dibattito la categoria rossobruno? Le riflessioni sono molteplici. Come il neologismo nouvelle droite, rossobruno è stato creato ad arte nel contesto di una precisa contingenza politica. Nel 1979 la stampa progressista francese, faticando a catalogare il pensiero di Alain de Benoist e il Grece, conia il termine nouvelle droite e lo usa contro i gollisti per la collaborazione di alcuni membri dell’associazione metapolitica alle pagine culturali del periodico Le FigaroMagazine, ‘nazificando’ così – visto il background dei membri del Grece – il centrodestra francese; nei primi anni ’90 viene coniato il neologismo rossobruno allo scopo di demonizzare chi, dalla Russia all’Europa occidentale, mette in discussione l’impianto della cultura dominante, il pensiero unico liberale, fatto di postmodernità. In entrambi i casi l’obiettivo è preservare lo status quo sistemico. Come definire l’articolo su Left di Giacomo Russo Spena, che non solo definisce rossobruna tutta la sinistra noeuro, ma la descrive sdegnosamente come “pasdaran dello Stato nazione”?
Il fatto che a farlo sia una sinistra che ha perso la propria identità è significativo. Scrive Pascale: “Le principali derive revisioniste del nostro tempo (apertura all’identity politics di stampo americano, al cosmopolitismo senza radici e all’immigrazionismo borghese, utopie di ‘riforma dell’Unione Europa dall’interno’ e anacronistici ‘fronti popolari’ con la sinistra borghese vengono giustificate proprio con il pretesto della lotta al rossobrunismo. […] [e] nella confusione ideologica in cui versa attualmente il movimento comunista, specie quello italiano, tale categoria è stata fatta propria dai think tank della borghesia liberale per delegittimare paradossalmente soprattutto i comunisti. Il che non deve stupire troppo, dato che la borghesia liberale è già riuscita a conquistare la categoria analitica della ‘sinistra’, bollando i comunisti prima come ‘estrema sinistra’ (anni ’90 e inizio ’00), poi, negli ultimi tempi, di fronte ad alcuni nuovi fermenti teoricopolitici che rischiano di incrinare la narrazione del totalitarismo liberale, come ‘rossobruna’”.”

Da La psicosi rossobruna, di Matteo Luca Andriola.

Il fascismo inesistente vi seppellirà

Partiamo dal convincimento che la verità sia nel tutto, come Hegel insegna, quindi anche nelle sue necessarie interne contraddizioni.
L’antifascismo, cosi come il neofascismo, prescinde da questo tutto, trasformando il fascismo in un archetipo che è quello che gli altri hanno deciso per lui. Una valutazione unica è doverosa non certo per una volontà riabilitativa, ma soltanto per avere un’arma in più per una corretta interpretazione, non del passato, ma del presente che, stando così le cose, pesa molto di più perché drogato.
Per questo è particolarmente illuminante il significato del termine fascismo così come evocato dagli antifascisti.
Il suo uso prescinde da una valutazione storica, così come da una politica o filosofica, il suo uso non è neanche quello di un semplice aggettivo denigratorio, ma è un investimento per garantirsi sempre il diritto all’ esistenza e alla ragione. Prescinde persino dallo spazio temporale, persino da una prospettiva manichea, come se il fascismo, in quanto Male Assoluto, fosse sempre esistito. Una cloaca comunque da contrapporre alla propria autoreferenzialità. Al suo cospetto, tutto sembra svanire, dal colonialismo, alla tratta degli schiavi, allo sterminio degli Indiani d’America, al genocidio degli abitanti della Tasmania, persino lo sfruttamento sembra così sopportabile dinanzi al fascismo, la “legge bronzea dei salari” di Ricardo finisce per coincidere con una piattaforma per il rinnovo contrattuale.
L’antifascismo diventa l’abito buono che da i super poteri, un mezzo per diventare dei fuoriclasse. Già dei fuori classe, l’antifascismo è così potente da far scomparire non solo Giovanni Gentile, ma anche Karl Marx e Antonio Gramsci.
La gravità di una tale liturgica investitura risiede tutta nell’inautenticità dell’antifascismo.
Ad un primo approccio un sistema del genere, così condiviso da non essere mai messo in discussione più da nessuno, sembrerebbe spianare la via ai suoi utilizzatori, un a priori che equivale a mettersi dalla parte dei buoni, mentre i cattivi, gli altri, dall’altra. Un’illusione di farsi giudice delle regole della vita per “vincere facile”, ma a lungo andare le astrazioni che durano troppo hanno sempre il merito di chiedere il conto ai suoi ciechi sostenitori.
Vediamo qualche particolare.
Fino al 1936, malgrado tutto, al PCI il fascismo, almeno non tutto, non doveva apparire così orrido, visto “L’appello ai fratelli in camicia nera” firmato da sessanta dirigenti del Partito, compreso Togliatti. Nello stesso anno iniziano le purghe staliniane ed i processi ai trotskisti.
Con la guerra di Spagna s’assiste forse al primo tentativo di usare l’antifascismo come fosse un’arma, e questa volta l’uso che se ne fa è senz’altro politico. I compagni anarchici e trotskisti del POUM vengono massacrati perché inspiegabilmente s’erano messi al soldo del fascismo secondo l’accusa. Il format calunnioso, di una sola maschera da mettere in faccia a tutti i nemici, viene sperimentato anche altrove, sempre con buoni risultati. Si trovano infuocate pagine su l’Unità, siamo nel gennaio del 1944, che invitano a schiacciare tutti gli infiltrati, sempre trotskisti, fattisi oramai la V colonna del nazifascismo. Il messaggio probabilmente era rivolto anche al più grande gruppo partigiano di Roma, il Movimento Comunità d’Italia riunito sotto il quotidiano Bandiera Rossa che, cosa da non crederci, era più diffuso de l’Unità. Il gruppo Bandiera Rossa era distante anni luce dal CLN, cosi come dal PCI, in quanto antimonarchico, antibadogliano, ma soprattutto avrebbe voluto non consegnare Roma agli Alleati, ma bensì proclamare “La Repubblica Romana dei Lavoratori”. Stranamente questi compagni, malgrado il loro grandissimo contributo alla resistenza, non appariranno negli annali della epopea dell’ANPI, mentre molti di loro moriranno sotto le provvidenziali raffiche naziste delle Fosse Ardeatine.
Fondamentale è il documento di chiusura della III Internazionale comunista, maggio 1943, in esso scompare esplicitamente il concetto di rivoluzione socialista lasciando il posto alla necessità d’aderire al “blocco antifascista”.
Bordiga, altro fondatore del PCI, ebbe modo d’affermare che la cosa peggiore che aveva prodotto il fascismo era proprio l’antifascismo, il tronfio antifascismo che abbracciava anche l’odiato nemico borghese.
Alla affermazione di Bordiga, gli farà eco più di mezzo secolo dopo, confermando il mortale abbraccio con il nemico di classe, quella di Costanzo Preve quando disse che peggio del fascismo c’era solo l’antifascismo. Tra i due comunisti, solo qualche bagliore di lucidità, primo fra tutti quello di Pier Paolo Pasolini.
L’inautenticità dell’antifascismo risiede nel suo essere antistorico e non contestuale, quindi non un momento antitetico da opporre alla sua affermazione, ma un opporsi che diventa evanescente perché il farlo non contempla il momento della tesi reale e di conseguenza quello del divenire nella sintesi. La sua pretesa di autenticità necessaria passerà allora esclusivamente nel vedere nel qualunque altro, quello fuori da sé, un fascista.
Non si tratta più di un solo uso mistificante del termine, ma questo diventa una piattaforma psudoideologica onnivora, capace per questo di procedere ad un processo di metamorfosi genetica.
La rimozione della missione storica del corpo sociale, sedato dall’antifascismo nel tempo, è stata lenta ma costante, fino ad essere completa. Dallo scambiare il socialismo per un riformismo che nel suo procedere non aveva neanche più il coraggio di nominarlo, fino al rendere inutile tutta la critica marxiana al capitalismo.
Mentre l’orchestrina intonava “Bella Ciao”, si scoprivano nuove icone sovrastrutturali, da Kennedy ad Obama, da Blair a Clinton, da Paolo di Tarso a Papa Francesco, da Macron ad Juncker, dalla troika alla NATO, da Chicco Testa a Vladimir Luxuria.
La globalizzazione diventa l’internazionalismo realizzato, il meticciato è la società senza classi, il consumismo la distribuzione della ricchezza, il precariato altro non è che un’opportunità.
Ed allora, in fase oramai matura, al dogma dell’antifascismo, si può affiancare con orgoglio il dogma del neoliberismo, la tanto agognata lotta per la libertà e la giustizia sociale possono finalmente rispecchiarsi realizzate nelle libertà dei diritti umani e nelle pari opportunità che il mercato a tutti offre.
In conclusione, l’oscenità dell’antifascismo risiede tutta nell’aver abbandonato il Socialismo, foss’anche come sogno raggiungibile del non ancora, appiattendosi invece acriticamente su quest’attimo presuntuoso ritenuto eterno a cui non manca niente. Questo è stato il vero profondo potere di questo antifascismo inautentico, ma anche la sua più grande e indelebile colpa.
Lorenzo Chialastri

[Modificato in data 8/5/2019]

Il “Russia-bashing”

putin hitler

“Se vi è un campo nel quale il malagiornalismo “mainstream” ha ricavato i suoi certificati di nobiltà, è sicuramente quello del “Russia-bashing”. Lo stesso Bugingo vi ha allegramente partecipato. Nell’ottobre 2013 lo si poteva sentire in una radio di Montreal:
“E’ un Paese (la Russia) che si è xenofobizzato negli ultimi anni, attraverso il rilancio di una certa fierezza russa da parte di Vladimir Putin”.
Una scorciatoia facile ma non originale nel gioioso mondo del giornalismo di demonizzazione della Russia e del presidente Putin. In proposito, Karl Muller scrive:
“In questa campagna contro la Russia i media mainstream occidentali hanno giocato e giocano sempre di più un ruolo particolarmente reprensibile (…) la ‘copertura’ mediatica della Russia è esclusivamente negativa in modo intollerabile. E talmente negativa, che il consumatore di media privo di malizia viene indotto a pensare il peggio della Russia. Questo tipo di copertura mediatica riguarda infatti tutti gli aspetti del Paese. E il ricorso a vecchi pregiudizi contro la Russia è all’ordine del giorno”.
Tra gli attacchi più sbalorditivi portati avanti da personalità pubbliche vi è quella di paragonare il presidente Putin a Hitler e la Russia attuale al III° Reich.
E’ il caso di Jay Leno, l’ex presentatore-vedette dell’emittente statunitense NBC, dell’attore britannico Stephen Fry o dell’ex campione di scacchi russo (e all’occasione “oppositore” politico) Garry Kasparov.
Quest’ultimo si è perfino abbandonato alla formula shock “Sochi è per Putin quello che Berlino nel 1936 è stato per Hitler”. La reductio ad hitlerum in tutta la sua magnificenza!
Ecco cosa dicono i filosofi a proposito di simili paragoni:
“La reductio ad hitlerum consiste nella demonizzazione di una corrente di pensiero, una corrente politica o un uomo politico, identificandolo con Hitler. Un certo uomo di Stato fa discorsi autoritari, dunque è un nuovo Hitler. Secondo Leo Strauss, si tratta dell’ultimo argomento di chi non ha più argomenti, la confessione di impotenza della cattiva fede”.
Con sei milioni di morti, l’Unione Sovietica ha pagato il prezzo più alto della Seconda Guerra Mondiale. In questo sanguinoso conflitto, i Russi hanno pagato enormi sacrifici umani che hanno permesso di sconfiggere la Germania nazista e liberare l’Europa. E’ evidente dunque che paragonare Sochi a Berlino, o la Russia attuale alla Germania di Hitler, è sia far finta di ignorare la Storia, sia cercare di far colpo su di un uditorio con sparate vuote, sia mancare drammaticamente di gusto nella scelta delle analogie.”

Da L’affaire Bugingo o le derive del giornalismo mainstream, di Ahmed Bensaada.
hitler

Gli epigoni di Adolf Hitler

“I movimenti di liberazione, autentici, dalla schiavitù coloniale occidentale, che hanno interessato i Paesi dell’area vicinorientale e nordafricana negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, si sono caratterizzati per una profonda adesione al socialismo nazionalista e laico-progressista (nasserismo, baathismo); Egitto (fino al 1978), Libia, Iraq e Siria sono stati fieri avversari, sotto varie forme, del Nuovo Ordine Mondiale. Il prezzo che i governi di tali Paesi hanno versato sull’altare della sfida da essi lanciata a tale progetto imperialista, è stato altissimo. Saddam Hussein, Muammar al Gheddafi, Bashar al Assad, sono ormai assimilati, nella propaganda del mainstream, ad epigoni di Adolf Hitler; il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic, nel 1998-1999, fu ritratto dal tabloid “di sinistra” L’Espresso, come una reincarnazione, in sedicesimo, del Fuhrer. Ogni entità politica, partitica, statuale ed ogni dirigente politico i cui riferimenti culturali, ideologici e programmatici si scontrano con gli interessi del Nuovo Ordine Mondiale, subisce un processo di demonizzazione mediatica, propedeutico, nel caso dei leader di tali entità statuali o partitiche, alla successiva eliminazione fisica (coeva con quella dei popoli da essi governati, il più delle volte, come nel caso jugoslavo, iraniano e siriano, a seguito di libere e democratiche elezioni, svoltesi ovviamente nell’ambito di sistemi ed ordinamenti costituzionali differenti ed originali rispetto alla cosiddetta «democrazia liberale borghese» anglo-sassone, risalente al XVII secolo) ed alla conclusiva dannatio memnoriae.
«Comunismo», «nazionalismo», «fondamentalismo terrorista», «antisemitismo», sono gli stereotipi lessicali più comunemente utilizzati dai teorici e dai propagandisti della infowar (tra cui spiccano le varie agenzie di public relations americane, come Ruder & Finn e Hill & Knowlton) per designare i nemici» del capitalismo e dell’american way of life.”

Da Filosofia della disinformazione strategica, di Paolo Borgognone.
Ovverosia come suscitare il consenso, o per lo meno la non opposizione, dell’opinione pubblica dei Paesi occidentali ai progetti di egemonia globale USA/NATO.

Roba da “nazisti”

“Il memorandum dello pseudo-Breivik è una silloge di tutti gli argomenti sulle meccaniche del potere e sulle strategie della propaganda che sono stati discussi nel corso degli anni su questo e altri blog. Si parla, a tratti in modo sensato, del ruolo svolto dal revisionismo storico nel fare luce sulla storia europea del dopoguerra, delle differenze tra revisionismo e “negazionismo”, delle teorie sul controllo delle masse messe a punto dalla Scuola di Francoforte, del controllo del pensiero attuato attraverso i curriculum scolastici, dello scempio della tradizione letteraria europea nato dal “politically correct”, del ruolo culturalmente devastante del femminismo, dell’ideologia multiculturalista d’accatto con cui s’impone all’Europa di privarsi delle proprie tradizioni e di molto altro ancora. Il punto è che tutti questi argomenti – che a mio avviso rappresentano la “punta di diamante” di una nuova linea di pensiero che è nata e si è diffusa soprattutto sul web – vengono disinvoltamente mescolate con deliri da crociato, xenofobia anti-islamica di bassa lega, appelli ad un’improbabile lotta armata, vagheggiamenti di un ritorno al cristianesimo combattente, sparate antimarxiste prive di ogni barlume di razionalità analitica ed infinite altre amenità di questo tenore. Il risultato è quello di screditare e rendere impraticabile ogni riflessione sul controllo delle menti attraverso la propaganda, sui meccanismi del potere, sulla falsificazione storica e devastazione culturale imposta all’Europa dai dominatori statunitensi. Una volta gettati questi argomenti nello stesso calderone in cui ribollono tonnellate di fuffa templare e di farneticazioni anticoraniche, essi risulteranno indigesti e inavvicinabili all’uomo della strada. Il quale, oltretutto, considererà che, se il prodotto politico di tali questioni è l’inutile e sanguinoso scempio di innocui campeggiatori perpetrato dal trattatista, evidentemente deve trattarsi di idee malate, malsane, degne di complottisti isolati dal mondo e spregiatori della civiltà.
Il che, immagino, è esattamente il risultato che l’anonimo think tank che ha stilato il documento, firmandolo col nome di Andrew Brewick, si proponeva di raggiungere.
Come scrivevo nell’articolo di un paio di giorni fa, una delle cose che più preoccupano gli americani è l’affermarsi in Europa di un pensiero “eurasiatico”, portato avanti trasversalmente tanto dai reduci della “destra” quanto della “sinistra” europea (quelli che i detrattori nostrani chiamano con disprezzo “rossobruni”). Tale linea di pensiero, che sta prendendo sempre più piede nelle ex nazioni europee, mira principalmente a creare una più stretta connessione politico/economico/strategica con la Russia, allo scopo di sbarazzarsi di 70 anni di asservimento militare e culturale agli USA e costruire quella naturale unità geostrategica tra Europa e Asia che rappresenterebbe il naturale portato tanto della complementarietà geografica tra i due continenti quanto della storica interdipendenza economica e culturale che ha caratterizzato le loro relazioni fino alle guerre mondiali. Uno degli scopi del malloppone partorito dallo pseudo-Breivik è di scongiurare tale eventualità, presentando le velleità di partenariato russo-europeo come deliri di pazzi criminali, vaneggiamenti da terroristi di estrema destra col proiettile in canna.
Ecco perché una parte consistente della dissertazione è dedicata alla denuncia dell’imperialismo americano e alla prospettiva di liberarsi di esso attraverso un asse eurasiatico. Leggiamo, ad esempio:
“La Federazione Europea del futuro non dovrà più essere connotata dalle forme sdolcinate e ingovernabili dell’attuale Unione Europea, che è una Medusa impotente, incapace di controllare i propri confini, dominata dalla smania per l’autodistruzione culturale e il libero commercio, assoggettata al dominio culturale americano. Dobbiamo immaginare una grande Europa monoculturale, fondata sulla cooperazione economica e culturale di nazioni indipendenti, che saranno, in larga parte, inseparabilmente legate alla Russia. Non avendo bisogno di essere aggressivo con i propri vicini, visto che sarebbe inattaccabile, un tale blocco diverrebbe la prima potenza mondiale (di un mondo partizionato in grandi blocchi), autoreferenziale, pan-nazionalista e avverso ai pericolosi dogmi oggi associati col globalismo/multiculturalismo. La nuova Federazione Europea sarà assai più isolazionista, con una politica di nazionalismo economico (protezionismo). Dovrà avere la capacità di praticare la “autarchia dei grandi spazi” (autosufficienza economica e indipendenza dai mercati esteri), i cui princìpi sono già stati elaborati dall’economista, vincitore di Premio Nobel, Maurice Allais. Il destino della penisola europea non può essere separato da quello della Russia continentale, sia per ragioni etnico-culturali che per ragioni geopolitiche. E’ assolutamente imperativo per la talassocrazia mercantile americana (supremazia navale, nel senso militare e commerciale della parola) impedire la nascita di una Federazione Europea culturalmente e ideologicamente sicura di sé.”
Parole mica tanto demenziali, vero?
Ma l’uomo della strada leggerà queste affermazioni ricollegandole istintivamente – grazie anche alle immancabili banalizzazioni e distorsioni che i media sapranno effondere – alla bestialità di un terrorista solitario, ai capelli biondi imbrattati di sangue di una giovane campeggiatrice norvegese, ai mucchi di cadaveri di ragazzini ammassati sulla spiaggia di Utoya. E il gioco è fatto. L’anti-imperialismo e l’aspirazione a liberarsi della schiavitù statunitense stringendo legami con le potenze asiatiche saranno bollati come vaneggiamenti eversivi da criminali potenziali, fonte di discredito sociale e possibilmente cagione di affidamento a progetti rieducativi. Roba da “nazisti”, insomma, che è il termine preferito da ogni moccioso adulto per sostituire il “brutto e cattivo” del lessico puerile senza dover studiare troppo.
Il documento redatto dallo pseudo-Breivik è in realtà un corposo trattato sulle paure americane, un compendio dettagliato delle idee che Washington crede possano ostacolare i suoi progetti geostrategici. Idee che devono dunque essere infangate e screditate, imbrattate con svastiche e croci templari, ridicolizzate dall’impasto con materiali di infima intellettualità e di popolaresca cialtroneria. Non so se ci siano voluti davvero nove anni per scriverlo, ma di certo esso è un prodotto propagandisticamente molto elaborato, la cui stesura ha richiesto senz’altro molto tempo e l’impegno di un think tank preparato ed attento alle tendenze culturali, nonché ai germogli di pensiero politico in corso di definizione sul web. Questo ci dà un indizio di quanto sia importante, per chi lo ha scritto, ostacolare e rendere inutilizzabili le nuove idee che vanno diffondendosi nell’Europa della crisi e della perdita delle sovranità nazionali. E’ un testo da studiare con attenzione, particolarmente da parte di chi ha già un’idea dei meccanismi della propaganda; non certo per recepirne ciò che di farneticante e neppure ciò che di condivisibile contiene, ma per avere un’idea precisa di quali siano i fantasmi che suscitano maggior spavento nei nostri dominatori. Si sarà ben capito che sono esattamente quelli che dobbiamo evocare.”

Da Di cosa hanno paura, di Gianluca Freda.
[grassetto nostro]

Chi ride e chi piange

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“Ed il punto essenziale sta in ciò, che la religione olocaustica sancisce l’asservimento dell’Europa agli USA. Non è neppure così difficile capirlo. Hitler è morto nel 1945, il nazismo non ha alcuna possibilità di ritornare, ma la Germania (chiave geopolitica dell’Europa) deve restare inchiodata per i secoli dei secoli alla colpa originaria. Persino l’allievo sciocco e politicamente corretto dei suoi ben migliori maestri francofortesi Jürgen Habermas è costretto a sostenere che la Germania, essendo colpevole del crimine unico e incomparabile di Auschwitz, non potrà avere mai più un “patriottismo” nazionale, ma soltanto un “patriottismo della costituzione”, e cioè una totale mancanza di legittimo patriottismo nazionale. E perché, di grazia, in un’ottica di razionalismo universalistico di matrice illuministica, l’Inghilterra, l’Olanda e Israele possono essere “patriottiche” e la Germania no? Perché c’è stato Hitler dal 1933 al 1945? Ma tutti i paesi, nessuno escluso, hanno avuto personaggi criminali nella loro storia (persino i socialdemocratici scandinavi hanno schiavizzato la gente per un millennio nel loro periodo vichingo-normanno-variago).
E allora? Forse che le giovani generazioni nate dopo devono esservi inchiodate?
Certo. Devono esservi inchiodate. E devono esservi inchiodate perché la nuova religione imperiale USA deve poter giustificare il mantenimento delle basi militari in Europa e la trasformazione della NATO da alleanza difensiva europea a mercenariato militare occidentalistico globalizzato (Afghanistan, eccetera) press’a poco con questo ragionamento: “Voi Europei siete come bambini incoscienti che vi fareste male da soli, se noi vi lasciassimo fare a modo vostro. Avete fatto la mattanza della prima guerra mondiale, avete permesso che la diarchia Hitler-Stalin vi dominasse, ed avete soprattutto permesso Auschwitz, incomparabile con qualsiasi altro evento (Hiroshima è stato uno spiacevole mezzo per salvare le vite dei nostri ragazzi). E allora meritate di essere occupati in sæcula sæculorum. Se poi qualcuno vi dice che lo facciamo per ragioni geopolitiche, sappiate che si tratta di un fanatico antiamericano e certamente anche antisemita.”

In Dalla giudeofobia alla giudeolatria, di Costanzo Preve, da “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” anno VI, numero 2, maggio-agosto 2009, pp. 176-177.

[Dello stesso autore: Una vera storia infinita]