La guerra non poteva essere impedita


“Chi ha seguito le vicende ucraine senza pregiudizi ideologici, e con un minimo di onestà intellettuale, sa che al momento della dissoluzione dell’URSS, l’Ucraina era una potenza economica, la terza potenza industriale dell’Unione Sovietica dopo Russia e Bielorussia, oltre che il suo granaio. Questa repubblica sovietica possedeva industrie aerospaziali, automobilistiche e di macchine utensili, i suoi settori minerario, metallurgico e agricolo erano ben sviluppati, come i suoi impianti nucleari e petrolchimici, le sue infrastrutture turistiche e commerciali. Ospitava inoltre il più grande cantiere navale dell’URSS.
A partire dal 1991, anno della sua indipendenza, il PIL dell’Ucraina è rimasto indietro rispetto al livello raggiunto in epoca sovietica, la capacità industriale si è notevolmente ridotta e la popolazione è diminuita di circa 14,5 milioni di persone in 30 anni a causa dell’emigrazione e del più basso tasso di natalità in Europa. Non solo, l’Ucraina è anche diventata il terzo debitore del FMI e il Paese più povero d’Europa. Questi record negativi non possono essere imputati solo alla corruzione sistemica e spaventosa dell’Ucraina: le reti di corruzione che hanno spremuto l’Ucraina sono transnazionali.
L’Ucraina è stata vittima di due rivoluzioni colorate finanziate dagli Stati Uniti che hanno portato a un cambio di regime e ad una guerra civile che l’hanno separata a forza dal suo principale partner economico, la Russia. La sua storia è stata cancellata e riscritta, le ricette neoliberali hanno distrutto il suo tessuto economico e sociale instaurando una forma di governo neocoloniale.
L’Ucraina è entrata a far parte del nefasto Partenariato Orientale dell’UE nel 2009 e, fin dalla sua indipendenza, è stata invasa da ONG, consulenti economici e politici occidentali. Lo stato di soggezione del Paese ostaggio degli interessi anglo-americani si è cementato dopo che l’ultimo governo ucraino che si era opposto alle dure condizioni del FMI è stato rovesciato dal colpo di Stato sponsorizzato dagli Stati Uniti nel 2014.
Il 10 dicembre 2013, il presidente ucraino Viktor Yanukovich aveva dichiarato che le condizioni poste dal FMI per l’approvazione del prestito erano inaccettabili: “Ho avuto una conversazione con il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden, mi ha detto che la questione del prestito del FMI è stata quasi risolta, ma gli ho ripetuto che se le condizioni fossero rimaste tali non avremmo avuto bisogno di tali prestiti”. Yanukovich ha quindi interrotto i negoziati con il FMI e si è rivolto alla Russia per ottenere assistenza finanziaria. Era la cosa più sensata da fare, ma gli è costata cara. Non è possibile rompere impunemente le catene del FMI: questo fondo a guida americana concede prestiti a Paesi con l’acqua alla gola in cambio della solita shock therapy fatta di austerità, deregolamentazione e privatizzazione, e prepara in questo modo il terreno per gli avvoltoi della finanza internazionale, quasi sempre angloamericani.
Se si permette a coloro che hanno distrutto un Paese di essere coinvolti nella sua ricostruzione, essa sarà inevitabilmente solo un punto sul continuum di conquista, occupazione e saccheggio, anche se viene imbellettato. La distruzione produce quella tabula rasa su cui l’occupante può scrivere le proprie regole: “Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove hanno fatto il deserto, lo chiamano pace”. Tacito conosceva bene sia la realtà che la propaganda dell’imperialismo romano. Ci si può solo chiedere se coloro che parlano di “ricostruzione”, “ripresa”, “riforma”, “ordine fondato sulle regole”, “reset” o qualsiasi altra espressione di moda al momento, siano consapevoli di questa realtà brutale o credano veramente alla propria propaganda. In ogni caso, promettono un’utopia futura per la quale vale la pena uccidere e morire.
(…) Vendere una guerra richiede un impegno a tutto campo, ed è per questo che i think tank e gli specialisti di marketing sono stati coinvolti fin dalle prime fasi. Essi generano narrazioni che contribuiscono a plasmare lo spazio discorsivo, a creare una percezione di sostegno universale per l’Ucraina, a fornire punti di discussione e versioni della verità sia ai politici che ai media. Devono motivare gli ucraini affinché continuino a combattere e i vassalli europei affinché continuino a finanziare la guerra e ad armare l’Ucraina, indipendentemente dalle devastanti perdite umane ed economiche che ciò comporta.
(…) I politici europei, mentre sono alle prese con i costi sempre più crescenti di una guerra per procura degli Americani nel loro continente, come meccanismo di compensazione sostengono l’idea assurda che una soluzione di pace in Ucraina minaccerebbe la sicurezza europea e non sarebbe nell’interesse del Vecchio Continente. La retorica della ricostruzione, intrecciata all’illusione di una vittoria dell’Ucraina, permette al partito transatlantico della guerra di presentarsi come una forza del bene e un motore di crescita futura. I promotori della ricostruzione hanno cercato aggressivamente di occupare il terreno morale estromettendo i costruttori di pace e per farlo hanno spinto la tesi che la guerra non poteva essere impedita né fermata.”

Da Promuovere la ricostruzione in Ucraina per alimentare la guerra, di Laura Ruggeri.

“Il neocolonialismo è morto”

“Pubblichiamo la traduzione di questa lunga intervista a Mohamed Hassan – curata da Grégoire Lalieu del collettivo Investig’Action e co-autore di La Strategie du chaos e Jihad made in USA – pubblicata il 26 ottobre sul sito del collettivo.
Paesi che si rifiutano di tagliare i ponti con la Russia. I dirigenti turchi che sfidano le minacce di Washington. L’Arabia Saudita che disobbedisce a Biden. L’America Latina che vira “a sinistra”. Una parte dell’Africa che volta le spalle ai suoi vecchi e nuovi “padrini” neo-coloniali. È chiaro che il mondo sta cambiando. E Mohamed Hassan ci aiuta a vederlo più chiaramente, anche per le prospettive “rivoluzionarie” che si aprono per le classi subalterne europee, oltre che per i popoli del Tricontinente.
Questo in una situazione in cui anche gli Stati Uniti non solo stanno perdendo la propria egemonia all’esterno, ma soffrono una crisi sociale che avrà dei precisi riflessi anche nelle vicine elezioni 
Mid-term dell’8 novembre.
Afferma giustamente Hassan: “O
ggi ci sono 500.000 senzatetto per le strade degli Stati Uniti e il loro tasso di mortalità è salito alle stelle. Ci sono anche due milioni di prigionieri su un totale di undici milioni in tutto il mondo. Il tasso di povertà infantile è del 17%, uno dei più alti del mondo sviluppato secondo il Columbia University Center on Poverty and Social Policy. L’imperialismo sta distruggendo gli Stati Uniti dall’interno e non ha impedito ai due grandi rivali, Russia e Cina, di conquistare potere. Questo aumento di potere indebolisce le posizioni dell’imperialismo statunitense nel mondo”.
Un mondo è al crepuscolo, un altro sta sorgendo sullo sfondo di uno scontro sempre acuito tra un blocco euro-atlantico ed i suoi satelliti ed uno euro-asiatico in formazione.
Ai comunisti che lavorano dentro lo sviluppo delle contraddizioni in Occidente, “per linee interne” al movimento di classe – a volte tutto da ricostruire – si apre nuovamente la possibilità di giocare un ruolo nella Storia, con la S maiuscola e lasciarsi dietro le spalle le proprie sconfitte..
Si pone nuovamente l’attualità della Rivoluzione in Occidente e dello sviluppo del Socialismo nel XXI Secolo, se non si viene schiacciati dalle chiacchiere dei ciarlatani al soldo degli apparati ideologici dominanti.
L’ex diplomatico etiope, specialista di geopolitica, analizza le ripercussioni della guerra in Ucraina, che segna una svolta storica. In che modo gli Stati Uniti hanno perso influenza? Perch
é l’Africa si oppone alle potenze occidentali? Quale futuro per l’Europa? Che ruolo possono avere i lavoratori?
In La strategia del caos Mohamed Hassan aveva parlato della transizione verso un mondo multipolare. Undici anni dopo, quella che ai tempi era solo la prefigurazione di una tendenza, ora è una realtà in atto, ed in questa intervista ne fa un bilancio.”

Il testo integrale dell’intervista è qui.

Il gruppo musicale sloveno Laibach rende omaggio al cantautore Leonard Cohen (1934-2016), reinterpretando una sua canzone pre-apocalittica denominata The Future, risalente al 1992. Questa versione rende chiaro che il futuro previsto da Cohen assomiglia moltissimo al nostro presente.

Colonizzatori e colonizzati


“Noi, come Italiani, o Mediterranei, dopo essere stati colonizzati dagli Angloamericani, ne abbiamo adottato lo sguardo fino ad immaginare che “noi” fossimo come loro, che fossimo noi ad avere sulla coscienza secoli di tratta degli schiavi e di sfruttamento coloniale imperialistico con cui fare i conti (innalzando un paio di patetici e fallimentari episodi in Libia e nel corno d’Africa come se giocassero nella stessa lega con i professionisti).
Nell’ultimo mezzo secolo, abbiamo adottato pienamente e senza remore tutte le dinamiche dei popoli assoggettati, fantasticando che la “vita vera” fosse quella che ci arrivava come immaginario d’oltre oceano, dimenticando tutto ciò che avevamo ed eravamo, per proiettarci nell’esistenza superiore dei colonialisti, pronti ad assumerne i peccati nella speranza che ciò ci assimilasse, almeno da quel punto di vista, al modello irraggiungibile.
Questa condizione di esistenza a metà, tremebonda e felice di essere assoggettata, ma frustrata dal nostro essere ancor sempre distanti dal modello, ha creato ondate di autorazzismo inestinguibile e ha bruciato tutte le possibilità di rinascita.
In sempre maggior misura tutta la nostra cultura, da quella popolare a quella accademica ha iniziato questo processo di mimesi, immaginando che se farfugliavamo qualche neologismo in Inglese o se ne infarcivamo i documenti ufficiali (dai programmi scolastici alle direttive ministeriali) avremmo magicamente acquisito la potenza del nostro santo oppressore.
Come Paese sotto occupazione ci siamo inventati di essere “alleati” degli occupanti, e mentre eravamo orgogliosi del nostro acume nel denunciare “governi fantoccio” in giro per il mondo non vedevamo quelli che si succedevano (e succedono) in casa nostra.
In tutta questa storia di falsa coscienza conclamata, di cui si dovrebbero narrare le vicende in un libro apposito, siamo sempre rimasti un passo al di sotto della consapevolezza di ciò che siamo e possiamo.
Oggi che gli interessi della potenza occupante danno segni di progressivo disinteresse per noi – salvo che come ponte di volo per cacciabombardieri – oggi forse si presenta per la prima volta dopo tre quarti di secolo la possibilità di uscire da questa condizione di falsa coscienza.
Tra non molto saremo forse in grado di applicare lo sguardo dell’emancipazione coloniale anche a noi stessi. Sarà una presa di coscienza dolorosa e vi si opporranno forze enormi, ma il processo è avviato e con il fatale deterioramento della situazione interna esso emergerà sempre di più.”

Da La falsa coscienza di un Paese colonizzato, di Andrea Zhok.

A proposito di censura…

“Il mio contratto rescisso con la Rai”, di Michelangelo Severgnini

Il professore Alessandro Orsini si vede sfumare un contratto con la RAI per le partecipazioni al programma televisivo “Carta Bianca”, in seguito alle pressioni esercitate dal Partito Democratico.
Durante il programma avrebbe offerto al pubblico italiano le sue oneste analisi geopolitiche da fedele atlantista e convinto europeista.
E’ comunque uno scandalo.
Il servizio pubblico. La mancanza di pluralità. La censura anche nei confronti di chi ha visioni simili.
Sconcertante. Proteste (sempre più sparute) e indignazione (sempre più inconcludente).
Bene.
Voglio fare anch’io “outing”, come dicono gli anglosassoni: voglio confessare.
Nell’aprile 2019, come da foto, avevo firmato un pre-contratto per la RAI (certamente non il lauto contratto offerto al professor Orsini, ma vuoi mettere per le mie finanze?).
Il feldmaresciallo Khalifa Haftar aveva appena lanciato la campagna militare “Operazione Diluvio di Dignità” e aveva mosso le sue truppe verso Tripoli
Nella morsa si erano trovati decine di migliaia di migranti-schiavi ostaggio delle milizie in Tripolitania.
A me denunciavano di essere usati come scudi umani dalle milizie, non da Haftar. E la quasi totalità di coloro con cui parlavo in quelle settimane (diverse decine di loro) chiedeva di essere rimpatriata. Chiedeva di essere tirata fuori da una zona di guerra ed essere riportata a casa. Non c’era un minuto da perdere: rischiavano la vita in ogni momento, ancora più di quanto normalmente non sia per loro.
Il programma della RAI (di cui per riservatezza non faccio il nome) mi aveva chiesto l’acquisto di un’ora di messaggi vocali ricevuti via internet da migranti-schiavi in Libia. In quest’ora c’erano moltissimi messaggi che chiedevano, imploravano, il rimpatrio immediato, così come la denuncia delle milizie di Tripoli responsabili delle stragi poi attribuite ad Haftar.
Dopo alcune settimane di contatti di circostanza con gli autori del programma, spesi da parte loro a giustificare inspiegabili ritardi, scomparvero e non se ne fece più nulla.
Gli autori del programma sono di area piddina, altre volte avevano lavorato a stretto contatto con le ONG.
Se ci sono state pressioni, e ci sono state, io non lo saprò mai. O meglio: lo so che ci sono state ma non avrò mai il piacere di vederle confessate.
Né nessun parlamentare farà un’interrogazione sul mio caso.
Né nessun cittadino-spettatore si indignerà per ciò che il servizio pubblico gli ha negato.
Per me “L’Urlo” significa questo.
Quando nel tuo Paese, nel tuo continente, nella tua società, l’informazione è diventata narrazione al punto da trasformare i carnefici in salvatori umanitari di fronte a fenomeni disumani come la schiavitù, la tortura e la tratta di esseri umani, allora è finita.
Allora la sola libertà che mi resta è quella di urlare al cielo.
Perché non ho altro potere. Non tanto di fronte alla menzogna, di fronte alla menzogna posso usare la Parrhesia. Quanto di fronte allo stato di ipnosi collettiva in cui è caduta la mia gente.
Quella in Libia era una guerra nostra, combattuta con le nostre armi, vendute alle milizie libiche in cambio del petrolio saccheggiato allo Stato libico e inviato sotto banco all’Europa. Ma l’errore prospettico mostrava la campagna militare di Haftar come un’aggressione, non come una liberazione, così come invece la definivano i Libici di Tripoli.
Anni di soldi inviati alla Libia per fermare i migranti, dicevano. No signori, quei soldi servivano per armare le milizie libiche e difendere Tripoli dalla legittima richiesta di sovranità libica, dando mano libera alle bande armate che trafugavano il petrolio per conto nostro, dopo aver ridotto in schiavitù decine di migliaia di Africani.
Ancora oggi ti raccontano che i Libici non riescono a mettersi d’accordo, ora ci sono persino 2 premier! Come il compianto Edward Said ci aveva insegnato, il mito del mediorientale litigioso è da sempre stato uno strumento retorico per giustificare il colonialismo occidentale.
Infatti ora ci sono 2 premier perché uno è il premier legittimo votato dal parlamento (Fathi Bashagha) e l’altro è il Guaidò della Libia (Abdelhamid Dabaiba), quello riconosciuto solo dalla NATO.
Non sono i Libici a litigare. E’ la NATO a umiliare la sovranità libica e a coltivare il caos, per poterne saccheggiare le risorse.
Ma forse il paradigma in Libia sta cambiando. I cavalli della NATO sono zoppi. Se i Libici chiudono i rubinetti all’Europa ci sarà un’altra guerra. Diranno che il processo democratico è in pericolo e la dittatura sta tornando in Libia.
Haftar, definito oggi come allora “signore della guerra” dalla NATO, era ed è niente meno che la figura militare più legittima che si potesse trovare in Libia, a capo dell’Esercito Nazionale Libico istituito con voto del Parlamento nel marzo del 2015.
Gli esperti europei hanno studiato sui libri delle fiabe, non sul libro della realtà.
La realtà era che i migranti-schiavi nell’aprile del 2019 (come in qualsiasi altro momento) volevano tornare a casa. Quella era informazione, quella che volevo fare io.
Queste voci e molte altre stanno nel film “L’Urlo” che nessuno vuole trasmettere o distribuire. Questo è il trailer.
Ma in RAI gli elementi piddini si potevano permettere di fare informazione. Dovevano puntellare la narrazione della NATO.
Come fanno oggi: Putin ha sostituito Haftar nello schema e ciò che davvero succede sul campo è lavoro di fantasia, è prodotto di narrazione fiabesca, oggi in Ucraina come allora in Libia.
Giù la saracinesca. Niente contratto. Per altro io non fornivo analisi politiche, io fornivo fonti dirette sul campo che parlavano liberamente in forma anonima con la loro voce.
Tu da che parte stai? Io sto dalla parte della verità. La verità è rivoluzionaria. “Quasi tutte le guerre iniziate negli ultimi 50 anni sono state il risultato di bugie dei media” ci dice Julian Assange.
Non c’è altro interesse da difendere. Le notizie vanno date.
La censura di guerra è partita da molto lontano ed è da più di un decennio, dalla sbornia colorata del 2011, che siamo abbondantemente sotta la linea di galleggiamento. Dirottare l’opinione pubblica di un intero continente in queste forme significa una sola cosa: preparare la guerra.
La menzogna ha intaccato in profondità ogni nostro ragionamento sull’esistente.
Quando chiudi entrambi gli occhi puoi solo andare a sbattere.
Io ho urlato più che ho potuto.
Ora teniamoci forte prima dello schianto.

Michelangelo Severgnini è un regista indipendente, esperto di Medioriente e Nord Africa, musicista. Ha vissuto per un decennio a Istanbul. Ora dalle sponde siciliane anima il progetto “Exodus” in contatto con centinaia di persone in Libia. Di prossima uscita il film “L’Urlo”.

(Fonte)

Diffondere i “diritti umani” sulla punta della baionetta: l’agenda LGBT è diventata una strumento della politica estera occidentale nel mondo

Di Glenn Diesen, docente presso l’Università della Norvegia sud-orientale e redattore della rivista Russia in Global Affairs.

Quando si tratta di questioni di “diritti umani” e libertà individuali, ogni Paese del mondo prende una posizione diversa. Cultura, religione e nazionalità giocano tutti i loro ruoli, ma ora è chiaro che l’Occidente vuole cambiare questo.

Martedì [30 giugno u.s. – n.d.c.], il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha twittato un’immagine della bandiera dell’orgoglio arcobaleno issata fuori dal Dipartimento di Stato a Washington, scrivendo che la commemorazione di due importanti eventi LGBT “ci ricorda quanto lontano siamo arrivati – e quanto ancora abbiamo bisogno da raggiungere, a casa e in tutto il mondo.” La parola chiave qui è “in tutto il mondo”.

Mentre l’Occidente eleva le questioni LGBT a misura più alta della moralità, riorganizzando di conseguenza la sua cultura, si pone la domanda: come si manifesterà questo nella politica estera? I valori sono schierati come uno strumento efficace nella politica del potere occidentale, con la democrazia liberale additata come una norma egemonica che consente a Paesi come gli Stati Uniti di guidare il mondo e di esentarsi dal diritto internazionale.

Anche la CIA ora si sta ribattezzando come un’organizzazione guidata dalla difesa dei diritti LGBT, il che è una chiara indicazione che la celebrazione dei “nostri” valori retti sarà presto espressa come derisione e attacco all'”altro”.

Qual è la differenza tra una politica estera “basata sui valori” e una missione civilizzatrice volta a minare la sovranità e le culture di altri Stati? Nell’era post Guerra Fredda, l’Occidente legittima esplicitamente l’egemonia, le gerarchie e la disuguaglianza di sovranità nella difesa dei valori universali liberali democratici. Il mondo si sta dirigendo verso una forma sveglia di imperialismo?

Risvegliare i valori come norma egemonica?

Le ideologie tendono a fare appello a grandi ideali come la libertà e la ragione, ma allo stesso tempo possono dividere il mondo in buoni e cattivi, lasciando poco spazio alla libertà o alla ragione.

Manca un dibattito aperto e democratico sulla misura in cui i valori liberali moderni sono universali. È, ad esempio, ragionevole chiedersi se la chirurgia di riassegnazione di genere o il trattamento ormonale per i bambini sia un valore universalmente riconosciuto che abbraccia tutte le culture e come i diversi Stati bilanciano il consenso e il coinvolgimento dei genitori.

Sembra anche ragionevole discutere se le persone nate maschi dovrebbero essere autorizzate a competere negli sport come donne e l’impatto che ciò avrebbe sugli sport femminili. L’ideologia ha ridotto queste discussioni all’amore contro l’odio, il che suggerisce che il dissenso è inammissibile. Qui sta il potere dell’ideologia che è troppo seducente per tenersi fuori dalla politica estera.

L’Ungheria ha recentemente approvato una legge che vieta la promozione degli stili di vita LGBT ai bambini. Il suo primo ministro, Viktor Orban, sostiene di essere stato in precedenza un forte promotore dei diritti dei gay e questa legge ha lo scopo di proteggere bambini e genitori da materiale sessuale. Poiché l’UE ritiene che si tratti di una questione di valori universali, ogni discussione sfumata è stata saltata e si è invece passati direttamente a parlare di punizione.

Mark Rutte, il primo ministro dei Paesi Bassi, ha dichiarato: “Il mio obiettivo è mettere in ginocchio l’Ungheria su questo tema” e ha chiesto l’espulsione dell’Ungheria dall’UE. Il presidente francese ha sostenuto che Bruxelles non dovrebbe mostrare “nessuna debolezza” nell’affrontare l’Ungheria. Nessun senso di ironia era evidente quando l’UE ha condannato l’Ungheria per “autoritarismo”. Il mantra ideologico di “diversità e inclusione” ironicamente non accetta diversità di valori per culture millenarie e non include Stati con valori compatibili.

Russia contro Occidente

Nel corso della storia, l’Occidente ha cercato di dimostrare la propria superiorità di civiltà paragonandosi alla presunta barbarie russa. Per secoli, l’etnicità è stata al centro mentre l'”Europa” civilizzata era in contrasto con la Russia “asiatica”. Il presunto opposto della libertà e della civiltà occidentale era questa schiavitù e barbarie orientali, che gradualmente divennero una parte fondamentale dell’ideologia liberale.

Attraverso questo prisma, alla Russia è stato permesso di svolgere due ruoli: o un umile apprendista della civiltà occidentale, o una forza contro la civiltà che deve essere contenuta o sconfitta.

All’inizio del XVIII secolo, Pietro il Grande stabilì la Russia come una grande potenza e avviò una rivoluzione culturale per europeizzare il suo Paese. Gli europei occidentali hanno applaudito Pietro per aver adottato il ruolo di “studente” che avrebbe civilizzato la Russia, secondo gli standard europei.

All’inizio degli anni ’90, la Russia mirava ancora una volta a “tornare” in Europa adottando il capitalismo e una forma di democrazia. L’Occidente ha nuovamente applaudito all’accettazione da parte di Mosca della relazione insegnante-studente, sebbene abbia rifiutato l’inclusione della Russia nell’architettura di sicurezza europea in qualsiasi misura tale da comportare l’uguaglianza di sovranità.

Il rifiuto del ruolo di secondo violino della civiltà per l’Occidente, e l’implicita disuguaglianza di sovranità che ne deriverebbe, ha comportato ancora una volta un ritorno al contenimento e al confronto. Mosca rimane quindi scettica su qualsiasi politica estera inquadrata come una missione civilizzatrice.

L’autoritarismo liberale

Da allora, l’impegno dell’Occidente per un sistema internazionale “basato sui valori” ha significato riorganizzare e propagandare artificialmente tutta la politica come competizione tra democrazia liberale e autoritarismo. Il diritto internazionale, con uguale rispetto per gli Stati, viene smantellato e sostituito con il cosiddetto ‘sistema internazionale basato su regole’. Questo è dipinto come un’estensione del diritto internazionale, ma in realtà ne è l’antitesi. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha recentemente commentato: “La bellezza di queste ‘regole’ occidentali sta proprio nel fatto che mancano di un contenuto specifico”.

Gli standard strategicamente ambigui sono progettati per consentire ai Paesi della NATO di decidere quando le regole sono state infrante e quindi punire unilateralmente coloro che sono contrari ai loro valori.

Il sistema internazionale basato su regole è utilizzato dall’Occidente per sorvegliare il resto del mondo, motivo per cui non si applica all’arresto del fondatore di WikiLeaks Julian Assange o alle accuse di tradimento mosse contro il leader dell’opposizione ucraina Viktor Medvedchuk. Esenta anche Guantanamo Bay, la saga di Stuxnet, la sorveglianza di massa della NSA, la censura digitale, lo smembramento della Serbia o le centinaia di migliaia di persone che sono morte nelle “guerre umanitarie” illegali degli Stati occidentali. La responsabilità dei Paesi della NATO di sostenere il sistema basato su regole viene invece utilizzata come motivo per esentarsi da queste regole.

Sotto il velo della responsabilità di sostenere disinteressatamente i valori, i membri del blocco possono discutere in modo così casuale dei modi per rovesciare i governi stranieri con sanzioni economiche o potere militare.

Verso il risveglio dell’imperialismo?

L’imperialismo umanitario si evolverà nella nuova forma di imperialismo? Non sembra inverosimile che i valori risvegliati saranno assorbiti nell’attuale missione di civilizzazione liberaldemocratica di rifare il mondo a immagine dell’Occidente. L’obiettivo “mettere in ginocchio l’Ungheria” può trasformarsi in sovversione, operazioni di cambio di regime o guerre LGBT?

Nell’attuale era di autoritarismo liberale, gli Stati Uniti stanno collaborando con l’Arabia Saudita per combattere per i diritti umani siriani occupando il territorio del Paese, collaborando con gruppi jihadisti, rubando il petrolio di cui Damasco ha bisogno per finanziare la ricostruzione e rubando il grano necessario per la sopravvivenza dei civili.

I diritti delle minoranze sessuali sono un argomento importante per qualsiasi società, ma c’è ovviamente un grave problema di cinismo quando la bandiera arcobaleno viene issata sulle basi militari statunitensi.

[Fonte – alcune lievi modifiche alla traduzione dell’originale in lingua inglese sono del curatore del blog]

Come abbiamo venduto l’Unione Sovietica e la Cecoslovacchia per qualche borsa di plastica

Il nostro omaggio ad Andre Vltchek, giornalista e scrittore, autore di una ventina di libri, scomparso lo scorso 22 settembre a Istanbul in circostanze che la polizia turca ha definito sospette.
Una nota biografica di Vltchek è qui.
La medesima fonte ha tradotto un suo recente articolo tratto dal China Daily, che riportiamo insieme a due contributi video risalenti a qualche anno fa.

Da mesi c’è una storia che voglio condividere con i giovani lettori di Hong Kong. Ora sembra essere davvero il momento appropriato in cui infuria la battaglia ideologica fra l’Occidente e la Cina e, di conseguenza, Hong Kong e il mondo intero ne soffrono.
Voglio dire che non c’è niente di nuovo in questo, che l’Occidente ha già destabilizzato moltissimi Paesi e territori, ha fatto il lavaggio del cervello a decine di milioni di giovani.
Io lo so, perché nel passato ero uno di loro. In caso contrario, mi sarebbe impossibile comprendere che cosa sta ora succedendo ad Hong Kong.
Sono nato a Leningrado, una bella città nell’Unione Sovietica. Ora si chiama San Pietroburgo, e il Pese è la Russia. La mamma, artista e architetto, è per metà russa e per metà cinese. La mia infanzia era divisa tra Leningrado e Pilsen, una città industriale nota per la sua birra, all’estremità occidentale di quella che fu la Cecoslovacchia. Papà era uno scienziato nucleare.
Le due città erano diverse. Entrambe rappresentavano qualcosa di essenziale nella pianificazione comunista, un sistema che ci veniva insegnato, dai propagandisti occidentali, a odiare.
Leningrado è una delle città più stupende al mondo, con alcuni dei più grandi musei, teatri dell’opera e del balletto, spazi pubblici. In passato fu la capitale russa.
Pilsen è minuta, con soli 180.000 abitanti. Ma quando ero piccolo contava parecchie biblioteche eccellenti, cinema d’arte, un teatro dell’opera, teatri d’avanguardia, gallerie d’arte, il giardino zoologico, con cose che non si potevano trovare, come ho realizzato in seguito (quando era troppo tardi), nemmeno nelle città statunitensi da un milione di abitanti.
Ambedue le città, una grande e una piccola, avevano eccellenti trasporti pubblici, vasti parchi e foreste che lambivano le periferie, nonché eleganti caffè. Pilsen aveva innumerevoli impianti da tennis, stadi di calcio e persino campi da badminton.
La vita era bella, significativa. Era ricca. Non ricca in termini di denaro, ma ricca dal punto di vista culturale, intellettuale e salutare. Essere giovani era divertente, con il sapere libero e facilmente accessibile, con la cultura ad ogni angolo, e sport per tutti. Il ritmo era lento: abbondanza di tempo per pensare, apprendere, analizzare.
Ma era era anche il culmine della Guerra Fredda.
Eravamo giovani, ribelli, e facili da manipolare. Non eravamo mai soddisfatti di ciò che ci veniva dato. Davamo tutto per scontato. Di notte stavamo incollati ai ricevitori radio, ascoltando la BBC, Voice of America, Radio Free Europe ed altri servizi di trasmissione mirati a screditare il socialismo e tutti i Paesi che combattevano contro l’imperialismo occidentale.
I conglomerati industriali socialisti cechi stavano costruendo, per solidarietà, intere fabbriche, dalle acciaierie agli zuccherifici, in Asia, Medio Oriente ed Africa. Ma non vedevamo alcuna gloria in questo perché i mezzi di propaganda occidentale semplicemente ridicolizzavano simili imprese.
I nostri cinematografi mostravano capolavori del cinema italiano, francese, sovietico e giapponese. Ma ci veniva detto di chiedere l’immondizia proveniente dagli USA.
L’offerta musicale era grandiosa, dal vivo e registrata. Quasi tutta la musica era di fatto a disposizione, sebbene con qualche ritardo, nei negozi locali e persino sul palco. Quella che non si vendeva nei nostri negozi era la spazzatura nichilista. Ma era precisamente ciò che ci veniva detto di desiderare. E noi la desideravamo, e la copiavamo con religiosa riverenza, sui nostri registratori a nastro. Se qualcosa non era disponibile, i media occidentali gridavano che era una grossolana violazione della libertà di parola.
Sapevano, e ancora oggi sanno, come manipolare giovani cervelli.
A un certo punto ci siamo trasformati in giovani pessimisti, criticando ogni cosa nei nostri Paesi, senza raffronti, senza nemmeno un po’ di obiettività.
Suona familiare?
Ci veniva detto, e noi ripetevamo: ogni cosa nell’Unione Sovietica o in Cecoslovacchia era negativa. Tutto in Occidente era grandioso. Sì, era simile a qualche religione fondamentalista o follia di massa. Quasi nessuno era immune. Di fatto eravamo infettati, eravamo malati, trasformati in idioti.
Utilizzavamo strutture pubbliche, socialiste, dalle librerie ai teatri, ai caffè sovvenzionati, per glorificare l’Occidente ed infangare le nostre stesse nazioni. Ecco com’eravamo indottrinati, dalle radio e dalle stazioni televisive occidentali, e dalle pubblicazioni introdotte clandestinamente nei Paesi.
A quei tempi le borse di plastica dell’Occidente erano divenute uno status symbol! Sapete, quelle buste di plastica che ti danno in alcuni supermercati economici o ai grandi magazzini.
Quando ci penso a distanza di parecchi decenni, faccio fatica a crederci: giovani ragazze e ragazzi istruiti, che passeggiavano orgogliosamente per le strade, esibendo economiche borse di plastica, per le quali avevano pagato una grossa somma di denaro. Perché venivano dall’Occidente. Perché simboleggiavano il consumismo! Perché ci veniva detto che il consumismo era buono.
Ci veniva detto che dovevamo desiderare la libertà. La libertà in stile occidentale.
Eravamo addestrati a “combattere per la libertà”.
Per molti versi, eravamo molto più liberi dell’Occidente. L’ho capito quando sono arrivato a New York e ho visto com’erano educati male i ragazzini locali della mia età, com’era superficiale la loro conoscenza del mondo. Quanta poca cultura c’era, nelle ordinarie città nordamericane di medie dimensioni.
Volevamo, chiedevamo i jeans firmati. Bramavamo le etichette musicali occidentali al centro dei nostri LP. Non si trattava dell’essenza o del messaggio. Era la forma al di sopra della sostanza.
Il nostro cibo era più gustoso, prodotto ecologicamente. Ma noi volevamo l’imballaggio colorato occidentale. Chiedevamo gli additivi chimici.
Eravamo costantemente arrabbiati, agitati, litigiosi. Ci mettevamo contro le nostre famiglie.
Eravamo giovani, ma ci sentivamo vecchi.
Ho pubblicato il mio primo libro di poesia, poi me ne sono andato, ho sbattuto la porta dietro di me, mi sono trasferito a New York.
Poco dopo ho capito che mi avevano ingannato!
Questa è una versione molto semplificata della mia storia. Lo spazio è limitato.
Ma sono lieto di poterla condividere con i miei lettori di Hong Kong e, naturalmente, con i miei giovani lettori in tutta la Cina.
Due Paesi meravigliosi che furono la mia casa sono stati traditi, letteralmente venduti per nulla, per paia di jeans firmati e borse di plastica.
L’Occidente festeggiava! Mesi dopo il crollo del sistema socialista, entrambi i Paesi sono stati letteralmente derubati di ogni cosa dalle aziende occidentali. La gente ha perso la casa e il lavoro, e l’internazionalismo veniva scoraggiato. Orgogliose aziende socialiste venivano privatizzate e, in molti casi, liquidate. I teatri e i cinema venivano convertiti in economici negozi d’abbigliamento di seconda mano.
In Russia l’aspettativa di vita è crollata a livelli da Africa subsahariana.
La Cecoslovacchia è stata divisa in due parti.
Oggi, decenni dopo, sia la Russia che la Repubblica Ceca sono di nuovo ricche. La Russia ha molti elementi di un sistema socialista con panificazione centrale.
Ma mi mancano i miei due Paesi, com’erano una volta, e tutti i sondaggi mostrano che mancano anche alla maggioranza della gente del posto. Mi sento anche in colpa, giorno e notte, per essermi fatto indottrinare, usare, e in modo da tradire.
Dopo aver visto il mondo, ho compreso che cos’era accaduto sia all’Unione Sovietica che alla Cecoslovacchia, e anche in molte altre parti del mondo. E proprio adesso l’Occidente mira alla Cina, usando Hong Kong.
Ogni volta in Cina, ogni volta ad Hong Kong, continuo a ripetere: non seguite il nostro terribile esempio. Difendete la vostra nazione! Non vendetela, metaforicamente, per alcune puzzolenti borse di plastica. Non fate qualcosa di cui vi pentireste per il resto della vostra vita!
Andre Vltchek

L’impero nascosto

“Gli Stati Uniti non sono, oggi, un impero simile ai precedenti storici, da quello romano a quello britannico. E quando gli si sono avvicinati hanno comunque seguito modelli acquisitivi ed espansionistici diversi, mostra Immerwahr. Di quello britannico, però, hanno adottato la giustificazione razziale, sposandola con quella Provvidenziale. A fine Ottocento, ne davano testimonianza le parole dello storico e senatore Albert Beveridge, per il quale era stato Dio stesso a gettare “su questo suolo il seme di un popolo forte… una razza conquistatrice… Un popolo imperiale per virtù della sua forza, per diritto delle sue istituzioni, per autorità dei suoi disegni ispirati dal cielo, un popolo che dona la libertà, che non vuole tenersela per sé”. Era il 1898, l’anno in cui gli Stati Uniti annettevano le Hawaii e sconfiggevano la Spagna a Cuba e a Manila, prendendole le Filippine e Guam, Puerto Rico e le Virgin Islands. Subito dopo si sarebbero presi anche la loro parte dell’arcipelago di Samoa. Oceano Pacifico e Caraibi.
È da lì che inizia davvero il libro di Immerwahr ed emerge la sua rilevanza.
(…) Il libro tratta più estesamente la vicenda delle Filippine. Caso più importante e controverso degli altri sia per la loro importanza economica, sia per la densità della loro popolazione, sia per il succedersi dei drammatici passaggi di mano tra Spagna, Stati Uniti, Giappone e di nuovo Stati Uniti nel corso del primo Novecento. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, dopo la conquista giapponese e i bombardamenti statunitensi, tra il 20 e 25 per cento degli edifici risultò distrutto o danneggiato e le vittime furono più di 1,6 milioni. Sebbene la guerra nelle Filippine sia stata “di gran lunga l’evento più distruttivo mai avvenuto sul territorio statunitense”, essa compare raramente nei testi di storia, conclude Immerwahr. Manila era stata anche, però, oggetto di ripetute promesse di indipendenza, prima della guerra. E avendo i Giapponesi concesso l’indipendenza durante la loro occupazione, gli Stati Uniti non potevano fare marcia indietro. Le Filippine divennero indipendenti nel 1946.
Prese forma allora, grazie all’egemonia militare, economica e politica acquisita dagli Stati Uniti con la guerra (e grazie alla Guerra Fredda), la struttura finale, attuale, dell’impero. Immerwahr lo chiama “impero puntillista”: non macchie di colore – come il rosso britannico sulle carte geografiche – distribuite su tutto il globo e collegate tra loro da un’unica rete di cavi per le comunicazioni interimperiali, ma una rete di punti sparpagliati nei luoghi strategici e sempre più collegati tra loro via etere. Durante la guerra, gli Stati Uniti “possedevano la cifra sconvolgente di trentamila impianti su duemila basi oltremare”. Dopo, se da una parte i movimenti anti-imperialisti impedirono a chiunque anche solo di immaginare la possibilità di acquisire nuove colonie, dall’altra, fu proprio quella presenza diffusa a suggerire i nuovi modi per “proiettare potere in tutto il pianeta”. Non nuovi “possedimenti”, dunque, ma egemonia economico-militare (e, non trascurabile, linguistico-culturale), accordi e trattati, basi militari in territori propri oppure in nazioni ospitanti, con estensioni, autonomie ed extraterritorialità diseguali. E certo, sempre, anche guerra; anch’essa però combattuta in modi diversi dal passato.
Le basi in casa altrui possono essere un problema. Tre esempi. Non lo costituisce la più nota, Guantanamo, nonostante sia da oltre cent’anni una enclave ritagliata per contratto sulla costa di una Cuba nel frattempo uscita dall’orbita statunitense. Differenti invece sono i casi della base di Okinawa, dove i militari statunitensi hanno suscitato nel corso dei decenni tensioni sempre più forti con la popolazione locale e con il Giappone, e delle impreviste conseguenze del mantenimento delle basi in Arabia Saudita dopo la fine della guerra irachena del 1990-91. Come è noto, la presenza militare statunitense è stata più volte indicata come prima responsabile dell’organizzazione di al-Qaida e dei vendicativi attentati del settembre 2001 negli Stati Uniti. E delle guerre che l’impero ha combattuto in Asia dopo il 2001.
“Prigioni straniere, zone recintate, basi nascoste, isole-colonie, stazioni GPS, attacchi mirati, reti, aerei e droni: sono questi”, scrive Immerwahr, “i luoghi e gli strumenti della guerra al terrore ancora in corso. Questa è la forma attuale del potere. Questo è il mondo creato dagli Stati Uniti”. I possedimenti oltremare, siano esse le sperdute isolette del Pacifico o le basi possedute o affittate in Paesi terzi, sono essenziali per l’esistenza dell’impero; sono, per così dire, l’assistente non dichiarato che siede accanto ai politici statunitensi quando discutono, minacciano, trattano con i loro simili. Gran Bretagna e Francia, riassume Immerwahr, hanno complessivamente tredici basi all’estero; la Russia ne ha nove e altri Paesi ne hanno una: sono una trentina le basi non appartenenti agli Stati Uniti. Invece gli Stati Uniti, oggi, “ne possiedono circa ottocento, e ci sono accordi che consentono loro l’accesso a ulteriori zone straniere. Quelli che si rifiutano di farlo ne sono comunque circondati. I Grandi Stati Uniti, in altre parole, sono i vicini di casa di tutti”. Molti Statunitensi non lo sanno e tanti, tra i “vicini”, neppure. In condizioni normali l’impero si mantiene sotto traccia, nel logo non compare.”

Da Stati Uniti: l’impero nascosto, di Bruno Cartosio.

L’ideologia yankee applicata al resto del mondo


“Vi è una coincidenza sorprendente tra la promozione della democrazia occidentale e il massacro di massa che ne è la sua applicazione pratica. Lo scenario è sempre lo stesso: si inizia con la dichiarazione dei diritti umani per finire con i B52. Ora questo trofeo della politica estera degli Stati Uniti – e dei loro alleati – è una diretta conseguenza del loro liberalismo. Questo aspetto della storia delle idee è poco conosciuto, ma la dottrina liberale ha perfettamente assimilato l’idea che per garantire la libertà di alcuni, sia necessario garantire la sottomissione di altri. Il padre fondatore degli Stati Uniti, un liberale come Benjamin Franklin, ad esempio, si oppose all’installazione di reti fognarie nei quartieri poveri, perché rischiava, migliorandone le condizioni di vita, di rendere i lavoratori meno cooperativi. In breve, dobbiamo affamare i poveri se vogliamo sottoporli e dobbiamo sottometterli, se vogliamo farli lavorare per i ricchi. A livello internazionale il potere economico dominante applica esattamente la stessa politica: l’embargo che elimina i deboli costringe i sopravvissuti, in un modo o nell’altro, a servire i loro nuovi padroni. Altrimenti, ci sono ancora i B52 e i missili da crociera.
Non è un caso che la democrazia americana, il modello che la Coca-Cola ha diffuso a tutte le famiglie del villaggio globale, sia stata fondata da schiavi e genocidi. C’erano 9 milioni di amerindi nel Nord America nel 1800. Un secolo dopo, erano 300.000. Come disse Alexis de Tocqueville “La Democrazia in America” è arrivata con le sue coperte avvelenate e le mitragliatrici Gatling. I selvaggi piumati del Nuovo Mondo prefiguravano i bambini iracheni nel ruolo di questa umanità in soprannumero di cui si sarebbero liberati, senza rimorsi, se le circostanze lo avessero richiesto. Così, da un secolo all’altro, gli Americani hanno trasposto il loro modello endogeno su scala mondiale. Nel 1946, il teorico e apostolo della Guerra Fredda del contenimento anticomunista George Kennan, scrisse ai dirigenti del suo Paese che il loro compito secolare sarebbe stato quello di perpetuare l’enorme privilegio concesso dalle fortune della storia negli Stati Uniti d’America: possedere il 50% della ricchezza per solo il 6% della popolazione mondiale. Le altre nazioni saranno gelose, vorranno una fetta più grande della torta e bisognerà impedire che ciò accada. In breve, la “nazione eccezionale” non intende condividere i benefici.
Una caratteristica importante dello spirito americano ha favorito questa trasposizione della “democrazia americana” in tutto il mondo. È la convinzione dell’elezione divina, l’identificazione con il Nuovo Israele, in breve il mito del “destino manifesto”. Tutto ciò che viene dalla nazione scelta da Dio appartiene di nuovo al campo del Bene, incluse le bombe incendiarie. Questa mitologia è la potente forza della buona coscienza yankee, quella che vetrifica intere popolazioni senza il minimo problema di coscienza, come il generale Curtis Le May, capo dell’aviazione americana, che vanta di aver fatto alla griglia col napalm il 20% della popolazione nordcoreana. Gli Stati Uniti hanno realizzato una congiunzione inedita tra una potenza materiale senza precedenti e una religione etnica ispirata al Vecchio Testamento. Ma questo potere è stato surclassato nel 2014 quando il PIL cinese, in parità di potere d’acquisto, ha superato quello degli Stati Uniti. E non è sicuro che l’Antico Testamento sia sufficiente a perpetuare un dominio che si sgretola inesorabilmente.”

Da Democrazia genocida, di Bruno Guigue.

L’arma segreta della Francia in Africa

Una storia del franco CFA

Da diversi anni il franco CFA è al centro di un acceso dibattito, non solo in Francia. Secondo il governo francese, il franco CFA è un fattore di integrazione economica e di stabilità monetaria e finanziaria. Per contro, secondo gli oppositori della moneta – che include numerosissimi economisti e intellettuali africani (e non solo) –, essa rappresenta a tutti gli effetti una forma di «schiavitù valutaria» che impedisce lo sviluppo delle economie africane. Come scrivono gli autori del libro, «negli ultimi anni si sono moltiplicate le voci – in strada, sui social network, nei circoli intellettuali o artistici – che chiedono la fine del franco CFA». Come è noto, da un po’ di tempo a questa parte il dibattito è sbarcato anche in Italia: le dichiarazioni di alcuni esponenti politici italiani in merito al franco CFA hanno infatti scatenato un’aspra crisi diplomatica tra Roma e Parigi.
In questo libro, la giornalista francese Fanny Pigeaud e l’economista senegalese Ndongo Samba Sylla gettano per la prima volta luce, con un linguaggio semplice e accessibile, sui complessi meccanismi neocoloniali che si celano dietro al franco CFA e su come i dirigenti francesi abbiano combattuto – persino con la violenza – tutti coloro che negli anni si sono opposti al sistema CFA. Un libro destinato senz’altro a far discutere, anche per le evidenti analogie che esistono tra il franco CFA e la moneta unica europea e più in generale per il crescente interesse per le questioni economiche che si registra nel nostro paese. D’altronde, come scrivono gli autori, «non c’è nulla di più “politico” delle questioni monetarie».

La Santa Democrazia


“Il principale nemico dell’umanità negli ultimi decenni non è stato il terrorismo ma la Santa Democrazia. Così si potrebbe dire, se si credesse davvero nella Santa Democrazia e non la si ritenesse una maschera e un pretesto.
Questa maschera e questo pretesto sono stati utilizzati per condurre le guerre dell’Impero, quelle palesi e quelle occulte. Sono stati utilizzati per giustificare embarghi e boicottaggi e distruggere l’economia dei Paesi refrattari all’Impero e il benessere dei loro popoli; per bombardarli e invaderli; per condurre in tutto il mondo campagne di propaganda contro gli Stati che cercavano di sottrarsi alla colonizzazione occidentale e alla rapina delle loro risorse.
Dall’Irak allo Zimbabwe, dal Congo al Sudan, dalla Jugoslavia all’Iran, da Cuba alla Birmania, dalla Cina alla Russia all’Afganistan, chiunque rifiutasse il dominio delle multinazionali occidentali, e che fosse dominio incondizionato senza limiti né regole, diventava uno “Stato canaglia” e veniva fatto oggetto, prima di un vero e proprio linciaggio mediatico, poi di guerra vera, dichiarata o non ma con morti veri, stragi, distruzioni, assassinii, quando non stermini senza limiti.
Non importava e non importa che tipo di Paese sia, come sia organizzato, se sia o no democratico nel senso capitalista del termine, cioè se ci sia la possibilità di fondare partiti che facciano l’interesse dei padroni e che si presentino alle elezioni e stampino giornali e abbiano televisioni. Non importa, a meno che quei partiti non vincano le elezioni e si insedino al governo e offrano il paese alle orde multinazionali.
“Democrazia” è diventata ormai una parola vuota ma una minaccia piena d’orrore. Come fu per “eresia” in secoli non così lontani.
La Russia di Eltsin, che faceva bombardare il parlamento ma lasciava rapinare allegramente il proprio Paese da multinazionali e mafie, era un Paese democratico. La Russia di Putin e Medvedev, che mantengono lo stesso ordinamento politico ma che hanno riportato nelle mani dello Stato l’economia del Paese, diventa automaticamente “un regime autoritario”.
I paladini della Santa Democrazia passano il loro tempo a ordire e organizzare colpi di Stato, assassinii politici, attentati terroristici, in tre quarti del mondo. Organizzano eserciti di mercenari criminali, che una volta chiamavamo “squadroni della morte” ma che oggi, a furia di progredire, chiamiamo “contractors”, per torturare, massacrare, trucidare, terrorizzare popolazioni inermi, al solo scopo di demoralizzare la resistenza di quei popoli o di destabilizzare governi e Stati che fanno qualche passo verso l’indipendenza economica e politica dall’Impero, verso un ordinamento sociale un po’ meno capitalista. In Nicaragua negli anni ottanta i contras, addestrati, armati, comandati dagli USA, lottavano per la democrazia.
Uccidendo in tre anni ottomila civili e novecentodieci funzionari statali. Gli ottomila civili erano sindacalisti, attivisti politici, famiglie di sindacalisti e attivisti politici, contadini di tutte le età e i sessi, villaggi interi di contadini compresi i bambini. I funzionari statali erano maestri, medici, infermieri mandati dal governo nei villaggi contadini, spesso volontari che volevano dare il proprio contributo alla crescita umana e culturale del Paese in cui vivevano.
Lottavano, i contras, contro il governo sandinista, e uccidevano nei modi più efferati per creare e diffondere panico e terrore, demoralizzazione, paura. Quella paura continua e totale che fa preferire la schiavitù alla libertà.
Ma non voglio e non posso fare un elenco dei crimini della Santa Democrazia. William Blum, ex funzionario del Dipartimento di Stato USA, ci ha provato, limitandosi appunto alla politica USA e utilizzando solo i documenti CIA dissecretati, e gli è venuto un libro di settecento pagine.
Il problema più grave oggi, però, per noi popoli dei Paesi santamente democratici, è che il mito della Santa Democrazia è ormai diffuso tra tutti noi. Grazie all’informazione e ai suoi mezzi, siamo diventati tutti paladini della Santa Democrazia. Un tempo invece molti di noi avrebbero lottato a fianco dei Paesi attaccati dall’Impero. Un tempo molti di noi avrebbero subito rizzato le orecchie, sentendo i giornali e le televisioni dell’Impero iniziare a sbraitare monotonamente e senza tregua contro il governo di un Paese non in linea con gli interessi dell’imperialismo.
Come una volpe rizza le orecchie al latrare dei cani e al corno del cacciatore, sapendo che è l’inizio della caccia e che, se anche quel giorno non toccherà a lei, toccherà a una sua simile.
Forse è solo questo il problema: non ci sentiamo più simili ai popoli sfruttati, né a quelli che rifiutano di essere sfruttati dai nostri Paesi, o meglio dai nostri padroni.
Forse ci sentiamo più simili al cacciatore. O almeno ai cani.”

Da Scemi di guerra, di Sonia Savioli, Edizioni Punto Rosso, pp. 195-196.

Kemi Seba e il panafricanismo

“Pensavamo che Thomas Sankara fosse morto definitivamente e invece ci sbagliavamo. Il leader burkinabé assassinato nel 1987 sopravvive nell’immaginario africano anche grazie a Kemi Seba, giovane attivista e fondatore della organizzazione non governativa Emergenze Panafricaniste, appena rientrato da un tour italiano per ampliare il campo d’azione, presentare il nuovo libro L’Africa libera o la morte ma soprattutto diffondere tra i popoli subsahariani della diaspora le sue tesi di autodeterminazione delle nazioni dal neocolonialismo. L’obiettivo è quello di liberare il continente africano da una moneta di subordinazione, il franco CFA, e di convincere tutti quegli immigrati che hanno rischiato la vita per attraversare il mar Mediterraneo alla ricerca di un futuro migliore, a re-immigrare in patria per combattere contro le proprie élite africane colluse con gli interessi occidentali di saccheggio delle risorse autoctone.
Con Kemi Seba ci scambiammo delle mail nel lontano 2013 quando per la prima volta mi interessai alla sua figura. Si era trasferito da un paio di anni in Senegal dopo una vita trascorsa in Francia (è nato a Strasburgo) per unire, con estrema coerenza ideologica, teoria e prassi, e disseppellire una vasta cultura letteraria anticoloniale che da Marcus Garvey giunge a Frantz Fanon passando da personalità politiche come Thomas Sankara, Patrice Lumumba, e ancora Muammar Gheddafi. Dopo molto tempo e tante corrispondenze virtuali le nostre strade si sono incrociate a Roma dove Kemi Seba è arrivato giovedì scorso [12 luglio – n.d.c.] in tarda serata in vista di un incontro pubblico che si è tenuto sabato al Baobab, uno spazio abitativo situato in zona Tiburtina. Venerdì abbiamo avuto l’occasione di trascorrere un intero pomeriggio insieme in un bar del Pigneto per conoscerci di persona, discutere del momento storico, e parlare di immigrazione e sfruttamento dell’Africa. Kemi Seba indossava il solito vestito tradizionale colorato, ricamato con le sue iniziali al centro della sagoma dell’Africa. È accompagnato dal suo braccio destro Hery Djehuty e alcuni amici camerunesi che vivono in Italia da diversi anni e che hanno organizzato la visita. La nostra chiacchierata durerà circa tre ore.”

Kemi Seba, l’Africa o la morte, di Sebastiano Caputo continua qui.

“Mi considero e siamo tutti figli di Sankara. Sankara ci ha insegnato che difendere la propria patria è un dovere, ma difendere la propria patria non ci deve spingere a odiare gli altri. Perché come diceva Frantz Fanon, qualunque sia il colore della pelle noi siamo dei dannati della Terra di fronte all’oligarchia capitalista. Noi siamo d’accordo affinché l’immigrazione cessi, ma è necessario che a partire da adesso le autorità occidentali cessino di fare emigrazione delle materie prime.”

Solo la sovranità è progressista

Se uccidi oggi un Sankara, domani avrai a che fare con mille Sankara.
Thomas Sankara

All’indomani del vertice dei 25 Paesi membri dell’Organizzazione per l’Unità Africana, il 26 luglio 1987, il Presidente del Consiglio Nazionale Rivoluzionario del Burkina Faso denunciava in questi termini il nuovo asservimento dell’Africa: “Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Coloro che ci hanno prestato denaro sono quelli che ci hanno colonizzato, le stesse persone che hanno gestito i nostri Stati e le nostre economie, sono i colonizzatori che hanno indebitato l’Africa con i finanziatori”. Il debito del Terzo Mondo è il simbolo del neocolonialismo. Perpetua la negazione della sovranità, piegando le giovani nazioni africane ai desiderata dei poteri ex-coloniali.
Ma il debito è anche ciò di cui i mercati finanziari si nutrono. Il prelievo parassitario da economie fragili, arricchisce i ricchi nei Paesi sviluppati a scapito dei poveri nei Paesi in via di sviluppo. “Il debito (…) dominato dall’imperialismo è una riconquista abilmente organizzata affinché l’Africa, la sua crescita, il suo sviluppo obbediscano a standard che ci sono totalmente estranei, facendo in modo che ognuno di noi diventi uno schiavo della finanza, cioè schiavo di coloro che hanno avuto l’opportunità, l’astuzia, l’inganno di piazzare da noi i fondi con l’obbligo di rimborso”.
Decisamente, era troppo. Il 15 ottobre 1987, Thomas Sankara cadde sotto i proiettili dei cospiratori a favore del “Françafrique” e del suo succoso affare. Ma il capitano coraggioso di questa rivoluzione soffocata ne dettò i principi fondamentali: un Paese si sviluppa solo se è sovrano e questa sovranità è incompatibile con la sottomissione al capitale globalizzato. Il vicino del Burkina Faso, la Costa d’Avorio ne sa qualcosa: colonia specializzata nell’esportazione di monocolture di cacao a partire dagli anni ’20, è stata rovinata dalla caduta dei prezzi e trascinata nella spirale infernale del debito.
Il mercato del cioccolato vale 100 miliardi di dollari ed è controllato da tre multinazionali (una svizzera, una statunitense e una indonesiana). Con la liberalizzazione del mercato richiesta dalle istituzioni finanziarie internazionali, queste multinazionali dettano le loro condizioni a tutto il settore. Nel 1999, il FMI e la Banca Mondiale hanno chiesto la rimozione del prezzo garantito al produttore. Il prezzo pagato ai piccoli coltivatori è stato dimezzato, essi impiegano per sopravvivere centinaia di migliaia di bambini schiavi. Impoveriti dai prezzi in calo della sovrapproduzione, il Paese è anche costretto a ridurre le imposte sulle imprese. Privato delle risorse, schiavo del debito e ostaggio dei mercati, il Paese è in ginocchio.
La Costa d’Avorio fa scuola. Un piccolo Paese con una florida economia (il cacao rappresenta il 20% del PIL e il 50% dei proventi delle esportazioni) è stato letteralmente silurato dagli stranieri che cercano solo di massimizzare i profitti con l’aiuto delle istituzioni finanziarie e la collaborazione di leader corrotti. Thomas Sankara l’aveva capito: se è schiavo dei mercati, l’indipendenza di un Paese in via di sviluppo è pura finzione. Non riuscendo a rompere gli ormeggi con la globalizzazione capitalista, un Paese si condanna alla dipendenza e alla povertà. In un libro profetico pubblicato nel 1985, Samir Amin ha chiamato questo processo di rottura “la disconnessione del sistema mondiale”.
Quando si considera la storia dello sviluppo di un Paese, appare evidente che: i Paesi migliori sono quelli che hanno completamente conquistato la loro sovranità nazionale. Per esempio, la Repubblica Popolare Cinese e i nuovi Paesi sviluppati dell’Asia orientale hanno perseguito politiche economiche proattive e hanno promosso un’industrializzazione accelerata. Queste politiche erano basate – e lo sono ancora in gran parte – su due pilastri: la gestione unitaria degli sforzi pubblici e privati ​​sotto la guida di uno Stato forte e l’adozione quasi sistematica di un protezionismo selettivo.
Una tale osservazione dovrebbe bastare a spazzare via le illusioni alimentate dall’ideologia liberale. Lungi dal gioco libero delle forze del mercato, lo sviluppo di molti Paesi nel ventesimo secolo è il risultato di una combinazione di iniziative di cui lo Stato ha fissato sovranamente le regole. Da nessuna parte si vede uscire lo sviluppo dal cappello magico degli economisti liberali. Ovunque, è stato il risultato di una politica nazionale e sovrana. Protezionismo, nazionalizzazioni, rilancio della domanda e istruzione per tutti: è lungo l’elenco delle eresie grazie alle quali questi Paesi hanno scongiurato – in vari gradi e a costo di molteplici contraddizioni – l’angoscia del sottosviluppo.
Senza offesa per gli economisti da salotto, la storia insegna l’opposto di ciò che la teoria afferma: per uscire dalla povertà, è meglio la forza di uno Stato sovrano che la mano invisibile del mercato. E’ quello che hanno capito i Venezuelani che cercano dal 1998 di restituire al popolo il profitto della manna petrolifera privatizzata dall’oligarchia reazionaria. Questo è quello che intendevano Mohamed Mossadegh in Iran (1953), Patrice Lumumba in Congo (1961) e Salvador Allende in Cile (1973) prima che la CIA li facesse sparire dalla scena. Questo è ciò che Thomas Sankara chiedeva per l’Africa che cadeva nella schiavitù del debito dopo la decolonizzazione.
Si obietterà che questa diagnosi sia imprecisa, poiché la Cina si è sviluppata molto rapidamente dopo le riforme liberali di Deng. È vero. Un’iniezione massiccia di capitalismo mercantile sulle sue coste le ha procurato dei tassi di crescita enormi. Ma non bisogna dimenticare che nel 1949 la Cina era un Paese in miseria, devastato dalla guerra. Per sfuggire al sottosviluppo, ha fatto enormi sforzi. Le mentalità arcaiche furono smantellate, le donne emancipate, la popolazione istruita. A costo di molte contraddizioni, le strutture del Paese, la costituzione di un’industria pesante e lo status di potenza nucleare sono stati acquisiti durante il Maoismo.
Sotto la bandiera di un comunismo riverniciata nei colori della Cina eterna, quest’ultima ha creato le condizioni materiali per il futuro sviluppo. Se in un anno veniva costruito in Cina l’equivalente dei grattacieli di Chicago, non era perché la Cina fosse diventata capitalista dopo aver sperimentato il comunismo, ma perché essa ne ha fatto una sorta di sintesi dialettica. Il comunismo ha unificato la Cina, ha ripristinato la sua sovranità e l’ha liberata dagli strati sociali parassitari che ne ostacolavano lo sviluppo. Molti Paesi del Terzo Mondo hanno cercato di fare lo stesso. Molti hanno fallito, di solito a causa dell’intervento imperialista.
In termini di sviluppo, non esiste un modello. Ma solo un Paese sovrano che si è dotato di una vela sufficientemente resistente può affrontare i venti della globalizzazione. Senza una padronanza del proprio sviluppo, un Paese (anche ricco) diventa dipendente e si condanna all’impoverimento. Le società transnazionali e le istituzioni finanziarie internazionali hanno messo le proprie mani su molti Stati che non hanno alcun interesse a obbedir loro. Leader di uno di questi piccoli Paesi presi alla gola, Thomas Sankara ha sostenuto il diritto dei popoli africani all’indipendenza e alla dignità. Ha inchiodato i colonialisti di ogni genere al loro orgoglio e alla loro avidità. Sapeva soprattutto che il requisito della sovranità non era negoziabile e che solo la sovranità è progressista.
Bruno Guigue

Fonte – traduzione di C. Palmacci

Il fondamentalismo hollywoodista di Roberto Quaglia

“Ho appena terminato di scrivere. Il fondamentalismo hollywoodista.
Cos’è il fondamentalismo hollywoodista? Per capirlo, dobbiamo innanzitutto renderci conto che non è vero che tutte le ideologie siano morte, come si usa dire. Anche il mondo delle ideologia è probabilmente soggetto alla selezione naturale di Darwin, alcune ideologie agonizzano, altre si estinguono, ma le nicchie ecologiche che si liberano vengono subito occupate da qualche nuovo arrivato. La natura aborrisce il vuoto. In molti casi assistiamo all’insorgere di piccoli culti più o meno strampalati, culti pseudoreligiosi o pseudoscientifici. Di solito rimangono confinati a quattro gatti e durano poco. Ma in altri casi compare un nuovo grande predatore, una super ideologia che in quattro e quattr’otto si pappa tutto e tutti in vastissime porzioni del mondo. Il paradosso è che più questa ideologia è vasta, più chiunque ne venga assorbito non la riconosce più in quanto ideologia. Quando ci si è dentro, l’ideologia assume la forma della realtà, e tutto ciò che si trova al di fuori dell’ideologia diventa un’eresia. Quando la Chiesa perseguiva gli eretici, era proprio perché per lei essi si collocavano al di fuori della realtà, e così facendo mettevano in crisi, per la Chiesa, il concetto stesso di realtà. Per quanto possa suonare strano alle nostre orecchie, un fenomeno analogo è in atto proprio ora, ed il “Vaticano” di questa nuova ideologia-religione – i due concetti in parte si sovrappongono – è situato a Hollywood.
L’Occidente oggi non si rende conto di essere ideologico, profondamente ideologico, così ideologico da fare impallidire le altre grandi ideologie del passato. No, non sto parlando del capitalismo, del liberismo, e nemmeno della democrazia – queste sono tutte cosucce nel confronto dell’ideologia di cui sto parlando, ed in una certa misura ne sono parte. La grande ideologia della quale non siamo bene consapevoli di essere succubi in Occidente è l’Hollywoodismo, un vero e proprio sistema completo di valori, di modelli di comportamento e di pensiero, di come ci si debba abbigliare e cosa si debba mangiare, eccetera eccetera. Insomma, un intero modello di realtà, a cui in varia misura finiamo per credere. Ed è proprio chi non è consapevole della natura fideistica della fede che lo attanaglia che in men che non si dica si ritrova essere un fondamentalista, cioè qualcuno che crede ciecamente ai propri modelli di riferimento senza rendersi conto in nessuna misura della loro relatività. Ci piaccia o no siamo quindi tutti fondamentalisti hollywoodisti – in vita nostra abbiamo guardato troppo cinema e televisione americani per non esserlo. Alcuni lo saranno più di altri, ma nessuno sfugge.”

Fonte

Se l’Europa diventa solo la periferia della cultura USA

Régis Debray

Da un paio di settimane un libro sta sconvolgendo la fauste certezze di Parigi. Régis Debray, che dopo aver combattuto con il Che è diventato uno degli intellettuali più corrosivi del continente da noi tradotto a singhiozzo, a causa, chissà, di triti pregiudizi ha spiegato, usando una parola volutamente ambigua e greve di storia, Civilisation, «come siamo diventati americani» (Gallimard, pagg. 240, euro 19), come mai, insomma, senza accorgercene «un tempo eravamo francesi, tedeschi o polacchi e ora siamo Yankee. E siamo felici di esserlo». Debray non è un cupo populista né un pessimista cosmico, al contrario, con sguardo regale e perfino sorridente ci mostra che ogni civiltà è un groviglio di incroci e di fraintendimenti. La «civiltà cristiana», ad esempio, è tutt’altro che «pura», va letta, piuttosto come «uno zigzagare di storie. All’inizio era un evento ebraico proclamato da Joshua detto Gesù, che un sabato, durante l’omelia, interpretò un passo della Scrittura alla luce degli eventi del suo tempo; poi diventa un moto filosofico nel II secolo che fonde il dissenso giudaico nella sfera dell’ellenismo, con lingua e categorie greche; infine è la fusione di questa teologia nell’alveo del diritto romano, siamo nel III secolo e diventa il candidato a succedere alla civilizzazione romana». Un «guazzabuglio della storia» è pure Babbo Natale: «Nella piazza della basilica di Digione, il 25 dicembre del 1951, il vescovo bruciò in pubblico una effigie di Santa Claus, icona del paganesimo. Babbo Natale giunge a noi, con tutti i suoi prodigi, dall’America, ma la sua origine affonda nei miti scandinavi e nei Saturnali romani e ancora più indietro, nel culto preistorico degli alberi».
Troppo intelligente per scandalizzarsi se la Francia ha svenduto la propria grandeur per un McDonald’s, Debray, questo incrocio tra Cioran e Charlot, prende atto che l’Europa, ormai, «è una provincia americana», e che l’ecumenismo degli idioti e il buonismo ci hanno fatto irrimediabilmente dimenticare chi siamo. La civilizzazione americana ha una qualità diversa dalle civiltà precedenti: non s’impone tramite la persuasione culturale o la prevaricazione di una guerra. Essa «ha soppiantato l’homo politicus con l’homo oeconomicus». Propagata dai social, moltiplicata dalla bulimia digitale, questa è la prepotenza americana: piegati dal potere dei dollari, gli uomini «ormai ignorano la frattura che da Riga a Spalato ha separato l’Europa in Oriente e Occidente a causa del Filioque». Rispetto alla variazione degli indici di Borsa, la divisione tra Chiesa ortodossa e cattolica è una baruffa culturale irrilevante. In questo deserto di identità, il neo Presidente della Repubblica Francese Emmanuel Macron è «un prodotto pienamente americano», lo si capisce dal modo in cui assapora la Marsigliese, «non con le braccia lungo il corpo, ma con una mano sul cuore, scimmiottando il modo in cui i cittadini americani ascoltano il proprio inno nazionale».
Fu Paul Valéry, tuttavia, il santino di Debray, poeta sgargiante e pensatore intransigente, ad aver capito tutto prima di tutti. Nel 1919, nel saggio intitolato La Crise de l’esprit, il poeta scrive che «l’Europa aveva in sé di che sottomettere, e guidare, e regolare a fini europei il resto del mondo». Eppure, «gli sciagurati europei», rosi da «dispute paesane, di campanile e di bottega», da «gelosie e rancori da cortile», non sono stati in grado di «farsi carico su tutto il globo della grande funzione che nella società della loro epoca i Romani avevano saputo sostenere per secoli. In confronto ai nostri, il loro numero e i loro mezzi non erano nulla; ma nelle viscere dei polli essi trovavano più idee giuste e coerenti di quante non ne contengano le nostre scienze politiche». Chapeau. Quanto a noi, bislacchi eredi dei Romani, beh, siamo americanizzati dalla Linea Gotica in poi, da quando Celentano imitava le nevrosi di Elvis e Cinecittà si tramutava nel vecchio West.
Davide Brullo

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Lo dite voi ai ragazzi di Manchester?

Gli sponsor del terrorismo

“Lo dite voi ai ragazzi di Manchester che siamo amici degli sponsor dell’ISIS?”: è questa la domanda posta dal giornalista Fulvio Scaglione, non un pericoloso estremista, ma un pubblicista che è stato per 16 anni, dal 2000 al 2016, il vice direttore di Famiglia Cristiana.
La domanda di Scaglione non si deve riferire solo al fatto incontestabile che noi, Paesi europei e nordatlantici, siamo alleati con le orribili monarchie del Golfo Arabico: Arabia Saudita, Qatar, Emirati Uniti, Kuwait, Bahrein, finanziatori attraverso decine migliaia di moschee radicali ed “opere caritatevoli” del peggior integralismo islamico, e organizzatori e sostenitori con soldi ed armi di tutti i gruppi terroristi jihadisti. Non si deve riferire solo al fatto che forniamo a questi Paesi (all’Arabia Saudita in particolare) enormi quantità di armi come testimoniato dagli accordi di fornitura Italia-Sauditi e dall’ultima gigantesca fornitura degli Stati Uniti ai Sauditi, di cui si servono per le loro aggressioni dirette o indirette a Stati sovrani non allineati come lo Yemen o la Siria.
In realtà, il gioco di finanziare ed organizzare estremisti islamici fanatici per colpire gli Stati indipendenti, socialisti, o comunque scomodi perché non si piegavano al gioco imperialista e neo-colonialista, risale almeno agli anni ’70 del secolo scorso, quando gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, il Pakistan e altri alleati formarono l’organizzazione Al Qaeda, diretta da Bin Laden, e finanziarono ed armarono i più retrivi, misogini, feudali signori della guerra, i più feroci mercenari accorsi da tutto il mondo islamico, e gruppi di fanatici locali per scacciare il governo comunista in Afghanistan e far cadere in una trappola mortale i suoi alleati sovietici.
I fanatici islamici ed i soliti mercenari accorsi da vari Paesi servirono anche negli anni ’90 per spazzare via i resti della Jugoslavia socialista, prima con la guerra di Bosnia, poi con quella del Kosovo, entrambe finite con interventi diretti della NATO, e con la partecipazione diretta anche dell’Italia.
I miliziani musulmani bosniaci e kosovari furono fatti passare per vittime dei cattivi Serbi. La propaganda occidentale non ha mai detto la verità su episodi chiave come la presunta strage di Srebrenica (ovvero “la città dei Serbi”, chiamata sempre Srebrenica sui giornali nostrani), su cui non vi sono prove ma solo racconti di parte, mentre ha sempre ignorato i dossier (editi da Zambon o dalla Città del Sole) che documentano le stragi compiute nella zona dai fanatici musulmani a danno dei civili serbi (3.500 morti civili accertati). Non viene mai ricordata la “fake news” della falsa strage di Racak che fornì la scusa per la liquidazione finale dei resti della Jugoslavia nel 1999, con il plauso diretto di D’Alema.
Anche la rivolta della Cecenia fu in gran parte diretta ed attuata da fanatici musulmani integralisti, opportunamente sostenuti dall’esterno da Paesi islamici sunniti e organizzazioni occidentali, per mettere in difficoltà la Russia.
Le organizzazioni estremiste della Libia, come Ansar Al Sharia a Bengasi o le feroci milizie di Misurata legate ai Fratelli Musulmani ed armate dal Qatar e dalla Turchia di Erdogan, servirono come truppe di terra per appoggiare l’attacco della NATO che distrusse il Paese. Non è un caso che il “kamikaze” di Manchester era stato a capo di una di queste milizie di fanatici che odiavano il governo laico di Gheddafi, e che molti dei suoi parenti siano membri di formazioni estremiste.
Il nome del “kamikaze”, i suoi liberi spostamenti dall’Inghilterra alla Libia, alle zone occupate dall’ISIS in Siria, alla Turchia, erano note alle polizie di mezzo mondo (occidentale), ma nessuno è intervenuto.
Inutile ricordare i continui finanziamenti e le forniture di armi a tutte le formazioni armate estremiste che cercano di destabilizzare il governo laico socialista siriano, come Daesh, Al Qaeda, Jaish Al Islam, Ahrar Al Sham, e centinaia di altre milizie mercenarie e fanatiche in gran parte formate da Turcmeni, Uzbechi, Uiguri, Tunisini, Libici, Sauditi e gruppi militanti che sono stati fatti uscire liberamente dall’Europa e sono stati addestrati in Turchia o Giordania.
Ma a questo punto bisogna sottolineare un altro cinico uso che l’Occidente imperialista e neo-colonialista fa di questi terroristi, sfruttando anche gli attentati (non ostacolati), o addirittura i falsi attentati che avvengono sistematicamente in Occidente, a partire dalla “madre di tutti gli attentati” , quello delle Torri Gemelle che permise di scatenare la “guerra al terrore”, l’invasione dell’Afghanistan e la distruzione dell’Irak baathista.
Oggi, con la scusa di combattere Daesh, che per anni si è esteso in Siria ed Irak con gli Occidentali che facevano finta di combatterlo (in alleanza con Turchia ed Arabia Saudita, cioè insieme ai principali finanziatori di Daesh!), gli Statunitensi, i Turchi, ed ultimamente anche gli Inglesi provenienti dalla Giordania, hanno invaso zone della Siria. Nel nord gli USA hanno impiantato le loro basi con l’aiuto dei Curdi, che nel loro cieco nazionalismo sono disponibili ad allearsi anche col diavolo (che li scaricherà quando non serviranno più). Le difese siriane di Deir Ez-Zor, città assediata da 4 anni da Daesh, sono state bombardate “per sbaglio” da aerei USA, australiani e danesi. Non per sbaglio, ma in seguito ad una manifesta provocazione di Al Qaeda che si dichiarava vittima di un attacco chimico, è stato bombardato il più importante aeroporto del centro della Siria da cui partivano le missioni aeree che colpivano Al Qaeda. Oggi si sta verificando un fatto gravissimo che ha avuto scarsa eco sui mass media, ma che è gravido delle peggiori conseguenze.
L’esercito siriano e le milizie filo-governative irachene stavano convergendo sul punto di frontiera strategico di Al Tanf, posto all’incrocio tra le frontiere di Irak, Siria e Giordania, da dove passavano rifornimenti per Daesh attraverso il deserto. Truppe inglesi e statunitensi hanno occupato la zona, insieme a mercenari locali definiti Syria Democratic Forces ed aerei statunitensi hanno bombardato sia le truppe siriane che quelle irachene avanzanti “perché costituivano una minaccia ai soldati statunitensi”.
La Russia ha protestato (blandamente) dicendo che nessuno avrebbe minacciato i soldati USA se fossero rimasti a casa e non avessero apertamente violato il diritto internazionale.
Ora, capiamo sempre meglio perché nessuno ferma i “kamikaze” di Manchester e continua a fornire armi ai loro finanziatori.
Vincenzo Brandi

Libia

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Nei primi mesi del 2011, a cent’anni esatti dall’impresa coloniale italiana in Libia, si è consumato un nuovo intervento militare contro il Paese nordafricano. Artefici di quest’attacco piratesco, come è qui documentato con precisione, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, a cui presto si è dovuta accodare anche l’Italia, il più stretto e importante partner economico-commerciale della Libia. Ne è seguito un disastro immane le cui vere ragioni sono state tenute nascoste al pubblico internazionale.
Con molta lentezza, mentre si consumava la tragedia che ha dilaniato l’ex colonia italiana, sono emersi qua e là taluni brandelli di notizie sulle cause che hanno portato all’entrata in guerra della NATO contro Mu’ammar Gheddafi. Ma, come già era avvenuto, i media mainstream hanno continuato a tacere sul disegno e le finalità complessive dell’operazione. Oltre a non reclamare giustizia per gli «uomini di Stato» responsabili di una tale catastrofe sociale e umanitaria.
Il libro di Paolo Sensini rappresenta un contributo imprescindibile per chiunque voglia davvero capire cos’è accaduto in Libia e, più in generale, su ciò che è ormai passato alla storia con il roboante nome di «Primavera Araba». È un racconto avvincente, che ci guida per mano nel labirinto libico e di cui l’autore, che ha completato il quadro pubblicando importanti contributi sulla strategia del caos nel Vicino e Medio Oriente, ci aggiorna con dovizia fino agli ultimissimi eventi e oltre.

Libia. Da colonia italiana a colonia globale
di Paolo Sensini
Jaca Book, 2017, pp. 224, € 16

Il ritorno in Eritrea di Fulvio Grimaldi

Un altro sguardo sull’Africa

Non esistono studi esaustivi sull’impatto della storia coloniale nella formazione dell’immaginario che certamente ha condizionato la visione del popolo italiano del continente africano e, in particolare, delle nostre ex colonie. Al crollo del cosiddetto impero è seguita la più completa rimozione ed oggi non molti Italiani saprebbero ritrovare l’Eritrea o l’Etiopia su un planisfero. Eppure per più di cinquant’anni, almeno dalla sconfitta di Dogali nel 1887 a quella di Keren del 1941, questo Paese è stato al centro del dibattito culturale, giornalistico, politico e persino scientifico in Italia. In particolare durante il ventennio fascista l’Africa riempiva pagine e pagine di giornali e riviste, trasmissioni radiofoniche, discorsi ufficiali e manifesti pubblicitari.
Al di là delle ricerche scientifiche se proviamo a usare come indicatore della coscienza nazionale un evento recente, e decisamente eclatante, il risultato è sorprendente. Nel 2011 l’Italia ha partecipato all’aggressione di uno Stato indipendente con il quale vigeva sino al giorno prima un trattato di amicizia. Questo Stato, oggi ridotto ad un cumulo di macerie, era una nostra ex colonia: la Libia. La reazione a questo delitto è stata debolissima persino all’interno di settori, peraltro ormai limitati, che si battono per la difesa della pace. Naturalmente ciò è dovuto anche alle feroci campagne mediatiche e di demonizzazione che ormai in modo sempre più scientifico preparano, prima, e sostengono, poi, tutte le “nostre” guerre. Credo però che vi sia anche dell’altro. Credo cioè che queste campagne di disinformazione strategica poggino su immaginari e rappresentazioni mai demoliti che continuiamo a portarci dietro, pur senza saperlo. E si tratta di immaginari pericolosi: in definitiva il diritto (o addirittura il dovere) all’ingerenza umanitaria si basa sullo stesso concetto di supremazia (nostra) e di minorità (loro) che è il portato del colonialismo.
Forse per questo nella visione dell’ultimo documentario autoprodotto di Fulvio Grimaldi, “Eritrea. Una stella nella notte dell’Africa” ciò che prima di tutto colpisce è lo sguardo.
Non è lo sguardo cui siamo abituati. Quello paternalista ed eurocentrico. Quello degli spot delle ONG che espongono bambini malnutriti e pretendono di ripulirci la coscienza con un detersivo chimico che non fa altro che renderla ancora più sporca.
Non è neppure lo sguardo di chi contempla soddisfatto “i successi” o “la rinascita” di qualche Paese africano quando il modello copiato è palesemente quello occidentale senza indagare poi su quali siano le ricadute sociali ed ambientali sulla vita del popolo.
Lo sguardo di Grimaldi è all’opposto.
E’ lo sguardo di un compagno che ha ritrovato i guerriglieri già conosciuti negli anni ’70, quando era un giovane inviato di guerra e, dopo aver visto sul campo cosa stava succedendo, sosteneva in Europa una lotta di liberazione ignorata da quasi tutti. E ritrovando i vecchi compagni divenuti dirigenti di uno Stato finalmente indipendente li lascia raccontare, ma anche mostrare in presa diretta, la loro nuova casa. Non deve stupire quindi che il proprio Paese, costruito dall’indipendenza del 1991, sia mostrato con orgoglio.
Anche perché, a dispetto delle campagne stampa demonizzanti (che anche qui si sprecano), di motivi per essere orgogliosi ce ne sono. E peraltro spesso è proprio per quegli stessi motivi che il Paese è demonizzato. Ad esempio l’Eritrea ha sempre rifiutato basi e collaborazione militare alla NATO e non ha accettato prestiti, e conseguente cessione di ogni sovranità, dalla Banca Mondiale.
Il documentario di Grimaldi non rinuncia a fare il punto su un contesto internazionale dominato ancora dall’imperialismo e sul perseverare di una politica neocoloniale e predatoria portata avanti dagli Stati occidentali verso l’Africa. Né fa sconti al “nostro” vecchio colonialismo ancora da molti considerato da “Italiani brava gente” che pure è costato la vita a 500.000 Africani e l’imposizione in Africa di un regime di apartheid.
Ma ben presto ci si immerge nella bellezza della terra eritrea.
Nella guerra di liberazione dall’Etiopia durata 30 anni. Nella lotta per l’indipendenza che continua ancora oggi. Una lotta fatta anche con le dighe, le scuole, gli ospedali e con un programma politico che pone al centro la giustizia sociale. Una lotta che deve però sempre confrontarsi con i gendarmi americani sempre pronti con le loro basi in Etiopia.
In conclusione il documentario è un lavoro essenziale per la documentazione storica e politica che propone. Indispensabile per comprendere una nazione poco conosciuta e per rispondere alle campagne di demonizzazione cui l’Eritrea è sottoposta.
Occorre anche dire però che l’immersione di cui abbiamo parlato è anche un’esperienza piacevole e rigenerante. Come un bel bagno tra i coralli e i mille pesci colorati del Mar Rosso.
Mattia Gatti

Eritrea. Una stella nella notte dell’Africa (90’),
di Fulvio Grimaldi e Sandra Paganini.
Per informazioni e acquisti scrivere a visionando@virgilio.it

Dal jihadismo all’ISIS: incontro-dibattito a Bologna

Il problema della questione jihadista nel mondo contemporaneo è connesso alle sfide più cruciali della nostra epoca. Interessa i conflitti fra grandi potenze non meno dei rapporti di queste con le specificità della civiltà islamica, si muove lungo il fiume in piena delle immigrazioni di massa che coinvolgono il continente eurasiatico e vampirizza le esistenze di quelle “vite di scarto” che l’Occidente ingoia e moltiplica nel suo vortice di disintegrazione dei tessuti sociali.
Il jihadismo in qualche modo precede questi fenomeni, ma si palesa con pienezza in sincronia con gli eventi degli ultimi anni. Sarebbe assai difficile comprendere questo senza riflettere sulla storia musulmana, su come i popoli del Vicino Oriente abbiano subito un’aggressione coloniale (e culturale) incessante da ben due secoli da parte dell’imperialismo occidentale. Fondamentalismo, reazione al colonialismo, lotte fratricide, settarismi socioculturali: l’eterodirezione della lotta armata è alla base di quello che oggi chiamiamo “il fenomeno jihadista”, che con la guerra in Siria e l’avvento dell’ISIS compie un “barbarico” salto in avanti.

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Fino ad arrivare dove nessun è mai giunto prima

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Bologna, lo show stellare del capitano Kirk: “Vederlo costa fino a 150 euro”.
Alla Festa dell’Unità il PD si autofinanzia con Star Trek e ingaggia l’attore William Shatner

Il PD infrange ogni barriera post-ideologica e apre il business di Star Trek. I dem diventano “impresari” di William Shatner, alias il capitano James Tiberius Kirk della prima Enterprise, che sarà al Parco Nord dal 16 al 18 settembre. Per vederlo, i fan dovranno pagare da 120 a 150 euro per show, foto e autografo del divo. I bonifici per un selfie con Kirk vanno intestati direttamente a “Coordinamento PD di Bologna”, in via Rivani 35. E comprando il biglietto si “vince” pure l’iscrizione nei registri dem, dove i dati verranno “custoditi e raccolti manualmente o elettronicamente, allo scopo di tenerti aggiornato delle nostre iniziative “.
“A Bologna sono sempre innovativi… ” la prendeva in ridere Barbara Ceruleo, responsabile della Festa nazionale che però precisa: “L’evento è del PD bolognese. Noi non siamo coinvolti nell’organizzazione”. La tre giorni di Star Trek in memoria dei 50 anni della saga originaria, quella col trio Spock-Kirk e McCoy, diventa comunque la nuova frontiera dell’autofinanziamento PD. Oltre gli Indipendent day un tempo di casa al Parco Nord a prezzi “popolari” di 40 euro. Oltre le notti di discoteca coi Dj del Cocoricò, che pure lasciavano storditi gli anziani della mazurka. Oltre le cene, comprese quelle a 100 euro cadauno con imprenditori e finanzieri, che pure erano sembrate l’estremo confine cui ci si poteva spingere. Qui l’autofinanziamento oltrepassa la galassia politica. E atterra direttamente nell’universo dei fan internazionali. Ma a quale prezzo?
“Il cachet di Shatner non possiamo rivelarlo, da contratto” hanno spiegato ieri gli organizzatori. Il PD pagherà al “primo attore hollywoodiano mai intervenuto in una kermesse del PD” il viaggio completo: volo, vitto e pernottamento. “Ma il tutto costa comunque molto meno di quello che uno potrebbe pensare” rassicura il tesoriere PD Carlo Castelli: “L’idea di chiamare Shatner è venuta a Fabio Querci, il responsabile feste, che lo conosceva già. Aveva un contatto col suo agente, e così abbiamo organizzato “.
In effetti Shatner e Querci si sono incontrati ad aprile a Bellaria Igea Marina, a un altro evento organizzato dagli appassionati di Star Trek, sempre per commemorare i 50 anni della saga. Lo stesso Querci spiega: “Io sono sempre stato un fan, e non avevo mai partecipato a questo genere di eventi. Ero curioso. Quando sono andato, mi è venuta l’idea di portare questo tipo di raduno anche alla Festa dell’Unità, e abbiamo iniziato a organizzare, insieme all’agente di Shatner”. Lo stesso attore, canadese di 84 anni, avrebbe accettato subito “quando ha saputo che il PD è un partito di sinistra” sorride Querci. Detto fatto, la tre giorni è pronta. Con schiere di fan, già pronte a prenotarsi al sito startrek50. it. Molti di loro pronti pure, secondo l’uso di questo genere di eventi, a presentarsi al Parco Nord vestiti in tema Star Trek, tra le tipiche orecchie a punta dei vulcaniani o i bronci dei perfidi Klingon.
Si comincia venerdì 16 settembre, con Kirk disponibile per una sessione di foto (60 euro) e autografi (50 euro). Il 17 settembre alle 20,30 e il 18 alle 17,30 è l’ora del One Man Show di Shatner, che risponderà alle domande dei fan per oltre un’ora e mezza. Il tutto seguito ancora una volta da foto e autografi. Chi vuole passare l’intera serata con Kirk può acquistare i pacchetti completi: dal Platinum (150 euro) al Fan (120 euro), che comprendono anche una cena da BevaBè con primo secondo e bevanda a scelta. Prezzi alti, “ma comunque più bassi rispetto a quelli che lo stesso Shatner chiede in altre città, visto che il nostro è un evento popolare” assicura Querci.
Tra i dirigenti PD la trovata suscita comunque una qualche ironia: “Kirk alla Festa dell’Unità? Farà un dibattito con Critelli?” è la battuta che circola tra i “gufi” democratici. Di certo, l’evento promette di essere comunque il più costoso, per chi vorrà partecipare, della storia della Festa. Più costoso anche dei vecchi concerti che nella grande arena del Parco Nord, separata dalla festa, avevano accolto personaggi come Joe Strummer dei Clash, senza arrivare a 50 degli attuali euro.
Col rischio per di più che l’invasione dei trekkers, come vengono chiamati i fan della saga, impalli le iniziative politiche delle serate finali della Festa, quando sono previsti sul palco centrale Virginio Merola, Gianni Cuperlo e Maria Elena Boschi. Un azzardo, forse, che tuttavia spinge il PD laddove nessun partito si era mai spinto. Come l’Enterprise, “alla ricerca di altre forme di vita e di civilità, fino ad arrivare dove nessun è mai giunto prima”.
Silvia Bignami ed Enrico Miele

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Libia, la grande spartizione

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Petrolio, immense riserve d’acqua, miliardi di fondi sovrani. Il bottino sotto le bombe

«L’Italia valuta positivamente le operazioni aeree avviate oggi dagli Stati Uniti su alcuni obiettivi di DAESH a Sirte. Esse avvengono su richiesta del Governo di Unità Nazionale, a sostegno delle forze fedeli al Governo, nel comune obiettivo di contribuire a ristabilire la pace e la sicurezza in Libia»: questo il comunicato diffuso della Farnesina il 1° agosto.
Alla «pace e sicurezza in Libia» ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma gli stessi che, dopo aver destabilizzato e frantumato con la guerra lo Stato libico, vanno a raccogliere i cocci con la «missione di assistenza internazionale alla Libia». L’idea che hanno traspare attraverso autorevoli voci. Paolo Scaroni, che a capo dell’ENI ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è oggi vicepresidente della Banca Rothschild, ha dichiarato al Corriere della Sera che «occorre finirla con la finzione della Libia», «Paese inventato» dal colonialismo italiano. Si deve «favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi», spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi regionali, eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo. Intanto «ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche», presenti in Tripolitania e Cirenaica.
È la vecchia politica del colonialismo ottocentesco, aggiornata in funzione neocoloniale dalla strategia USA/NATO, che ha demolito interi Stati nazionali (Jugoslavia, Libia) e frazionato altri (Iraq, Siria), per controllare i loro territori e le loro risorse. La Libia possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che ottenevano prima dallo Stato libico. Per di più, eliminando lo Stato nazionale e trattando separatamente con gruppi al potere in Tripolitania e Cirenaica, possono ottenere la privatizzazione delle riserve energetiche statali e quindi il loro diretto controllo.
Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche.
Agli odierni raid aerei USA in Libia partecipano sia cacciabombardieri che decollano da portaerei nel Mediterraneo e probabilmente da basi in Giordania, sia droni Predator armati di missili Hellfire che decollano da Sigonella. Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi «autorizza caso per caso» la partenza di droni armati USA da Sigonella, mentre il ministro degli esteri Gentiloni precisa che «l’utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al Parlamento», assicurando che ciò «non è preludio a un intervento militare» in Libia. Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi – confermano il Telegraph e Le Monde – operano da tempo segretamente in Libia per sostenere «il governo di unità nazionale del premier Sarraj».
Sbarcando prima o poi ufficialmente in Libia con la motivazione di liberarla dalla presenza dell’ISIS, gli USA e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Infine, con la «missione di assistenza alla Libia», gli USA e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti.
Parte dei fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi, venne investita per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana. USA e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – decisero di bloccare «il piano di Gheddafi di creare una moneta africana», in alternativa al dollaro e al franco CFA. Fu Hillary Clinton – documenta il New York Times – a convincere Obama a rompere gli indugi. «Il Presidente firmò un documento segreto, che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino a poco prima classificati come terroristi, mentre il Dipartimento di Stato diretto dalla Clinton li riconosceva come «legittimo governo della Libia». Contemporaneamente la NATO sotto comando USA effettuava l’attacco aeronavale con decine di migliaia di bombe e missili, smantellando lo Stato libico, attaccato allo stesso tempo dall’interno con forze speciali anche del Qatar (grande amico dell’Italia). Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia.
Manlio Dinucci

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La Libia è vicina… pericolosamente vicina alla Sicilia

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Scusate se insisto. Ma ritengo che, nonostante alcune, opportune precisazioni del presidente del consiglio, Matteo Renzi, non siano state del tutto fugate le preoccupazioni, le paure per un’eventuale nuova guerra (o intervento militare italiano che dirsi voglia) in Libia.
Per la cronaca, è opportuno rilevare che questa eventuale sarebbe la terza (dopo quelle del 1911 e del 2011) in cui l’Italia parteciperebbe, da sola o in coalizione, e che sarebbe combattuta, quasi interamente, a partire dalla Sicilia.
Una guerra che né i Libici né i Siciliani (e gli Italiani) vogliono, ma che sarebbero costretti a sobbarcarsi per via delle tanti basi militari italiane, della NATO e degli USA dislocate sull’Isola. Questa è un’altra cosa che non si dice: in generale i Libici sono gente pacifica, tollerante, gioiosa perfino. Oggi, invece, sono dipinti come fanatici assassini. Ovviamente, vengono confusi, scambiati con le milizie dell’IS, in grandissima parte, formate da stranieri mercenari.
Durante gli anni ’70 e ’80, per incarico del mio partito (PCI) o del Parlamento, ebbi modo di conoscere un po’ il mite popolo libico, alcuni suoi dirigenti e intellettuali nei quali, nonostante il triste passato coloniale, riscontrai sentimenti di amicizia e propositi di collaborazione con l’Italia.
Soprattutto con la Sicilia, dove abbiamo lavorato, per lungo tempo, unitariamente, per rafforzare la pace, per trasformare l’amicizia con l’intero mondo arabo in progetti di cooperazione economica e culturale, reciprocamente vantaggiosa.
Perciò, questa nuova, eventuale guerra ci disturba assai. Anche perché la Libia è vicina, pericolosamente vicina alla Sicilia. Lo dico -se mi è consentito- muovendo dal punto di vista del popolo siciliano ossia di 5 milioni e 300mila persone (quanti gli abitanti della Libia) separate dalla costa nordafricana solo dalla linea dell’orizzonte marino.
Desidero anche ricordare ai guerrafondai che la prima guerra alla Libia (1911) fu presentata dal governo Giolitti come una “passeggiata” che, poi, durò più di vent’anni e fu conclusa con un genocidio ordinato dal regime fascista e attuato, con ferocia, dal generale Rodolfo Graziani il quale, per piegare la resistenza delle diverse tribù libiche, ricorse alle stragi, alle deportazioni, all’uso di gas letali.
Una brutta pagina per la storia italiana, una macchia che i Libici ancora ricordano. Da qui, anche, la loro contrarietà a un nuovo intervento militare italiano e/o della NATO.
Per altro, c’è da notare un particolare curioso: delle prime due guerre furono protagonisti due ministri siciliani, entrambi originari di Paternò. Casualità, mera casualità, s’intende, ma così andarono le cose, come ho cercato di ricostruirle nell’articolo I ministri di Paternò in guerra con la Libia e nel libro “Nella Libia di Gheddafi” del quale accludo il capitolo XII, relativo alle relazioni (storiche e recenti) fra la Sicilia e la Libia.
Il primo fu il senatore Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, ministro degli Esteri di Giolitti (dal 1910 al 1914), il “principe Consalvo Uzeda di Francalanza” de “I Vicerè” del grandioso romanzo di Federico De Roberto.
Il San Giuliano legò il suo nome all’ occupazione coloniale italiana della Libia e delle isole del Dodecaneso, pattuita con Francia e Gran Bretagna. Memorabile rimase l’ultimatum (del 27/9/11) con il quale s’ingiungeva al governo ottomano di abbandonare il Paese entro 24 ore e senza condizioni, affinché «giunga a fine lo stato di disordine e di abbandono in cui la Tripolitania e la Cirenaica sono lasciate dalla Turchia…».
Insomma, buoni propositi e cattive maniere: l’ Italia occupò la fascia costiera della tripolitania per far rispettare l’ ordine pubblico. Il San Giuliano, ritenendo (a torto) di avere “conquistato” l’immenso territorio desertico libico, annunciò alla Camera, e al mondo, il “nuovo ordine” mediterraneo, ridefinendo, in forma tutto sommato passabile, l’espressione “mare nostrum”, coniata ai tempi di Giulio Cesare: “Nessuno, d’ora in poi, avrà il diritto di chiamare il Mediterraneo “mare nostrum”. Esso è, e deve restare, libera via delle genti, delle quali, però, niuna deve averne il dominio; e tutte devono averne il godimento, e tra le quali uno dei primi posti è stato conquistato e sarà conservato dall’Italia.” (Atti Camera Deputati, 22/2/1913)
A cento anni esatti, nel 2011, ecco avanzare sulla scena bellica e mediatica un altro prode paternese: l’onorevole Ignazio La Russa (ex MSI), il quale, da ministro della Guerra, pardon della Difesa, dell’ultimo governo Berlusconi, definì la Sicilia “portaerei del Mediterraneo”, mettendola a disposizione dei micidiali (e politicamente inconcludenti) attacchi della coalizione NATO che ha vinto la guerra ma- come vediamo- ha perduto il dopoguerra.
Altri tempi, altri uomini. O forse no. A mio parere, fra la guerra del 1911 e quella del 2011 la differenza sta in un “neo”, nel senso che la prima fu una guerra coloniale, mentre la seconda è stata di stampo neo-coloniale. La terza… speriamo non accadrà mai!
Agostino Spataro


Buenos Aires, 24 marzo 2016.
Il tango del Condor

Padre Jean-Marie Benjamin sugli eventi di Parigi

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“Mi chiede che idea mi faccio al riguardo degli eventi di Parigi di sabato scorso? Non mi faccio un’idea, constato, come dice il proverbio “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Fare 3 milioni di morti in Irak dal 1991 ad oggi, torturare migliaia di iracheni nelle prigioni, fare migliaia di vittime in Libia, mettere questi Paesi nel caos e nelle mani degli islamici e poi chiedersi perché sono arrabbiati contro di noi, è fantastico.”

Vicino Oriente tra ISIS e Iraq, intervista a Padre Jean-Marie Benjamin, autore di Iraq. L’effetto boomerang, continua qui.
Da non perdere.

Giù le mani dall’Eritrea!

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“A inizio giugno, l’Alto Commissariato per i Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite ha pubblicato un rapporto travolgente sull’Eritrea. Secondo questo rapporto, il governo eritreo sarebbe “responsabile di violazioni flagranti, sistematiche e generalizzate dei diritti dell’uomo”. Il rapporto aggiunge che “queste violazioni potrebbero costituire dei crimini contro l’umanità”.
Ancora una volta, il rapporto si basa unicamente su delle testimonianze di rifugiati, dato che il governo eritreo ha rifiutato l’accesso alla commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite. Un rapporto costituito a partire da sole testimonianze di richiedenti l’asilo non può essere affidabile. In effetti, per ottenere lo statuto di rifugiato politico, alcuni non esitano a mentire sulla propria nazionalità e a raccontare quello che il Paese di accoglienza vuole sentire. Tra i rifugiati eritrei, abbiamo così degli Etiopi che si fanno passare per quello che non sono pur di ottenere il diritto all’asilo. Nel 2013, due parlamentari francesi hanno consegnato al ministro dell’Interno un rapporto che condanna la pericolosa similitudine tra chi aspira allo statuto di rifugiato politico, e i migranti economici.
Per questi ultimi, delle reti mafiose che gestiscono i canali di passaggio verso l’Europa, propongono false testimonianze e dossier di persecuzione preconfezionati. Dopodiché, se certi ispettori dell’ONU fanno coraggiosamente il loro lavoro anche dovessere deludere le grandi potenze, altri non esitano a sacrificare sull’altare degli interessi politici, i compiti che dovrebbero svolgere in maniera oggettiva. Nel 2011 ad esempio, lo stesso Alto Commissariato per i Diritti dell’Uomo facilitava l’intervento della NATO denunciando la repressione in Libia a colpi di carri armati, elicotteri e aerei contro dei manifestanti pacifici. Oggi sappiamo che tali accuse erano completamente false. Ma miravano a fare pressione sul governo libico. La stessa cosa accade con l’Eritrea.

Chi vuole fare pressione all’Eritrea e perché?
Sul piano economico e politico, l’Eritrea è un sasso nelle scarpe del neocolonialismo occidentale.
L’Africa è un Eldorado per le multinazionali. È il continente più ricco… con le persone più povere! Ed ecco che un Paese africano dichiara e prova con la pratica che l’Africa non può svilupparsi che slacciandosi dalla tutela occidentale. Il presidente Afwerki è molto chiaro sulla questione: “Cinquant’anni e dei miliardi di dollari d’aiuti internazionali postcoloniali hanno fatto molto poco per far uscire l’Africa dalla povertà cronica. Le società africane sono diventate delle società di zoppi”. E aggiunge che l’Eritrea deve potersi tenere eretta sui suoi due piedi. Allora come tutti i leader africani che hanno tenuto questo genere di discorso contro il colonialismo, Isaias Afwerki è diventato un uomo da abbattere agli occhi dell’Occidente.

Il governo eritreo non facilita la campagna di demonizzazione rifiutandosi di accogliere la commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite?
Bisogna capire quella che può apparire come un’attitudine chiusa. Prima di tutto, l’Eritrea si porta dietro un pesante contenzioso con le Nazioni Unite. Il Paese è stato colonizzato dagli Italiani. Dopo la Seconda Guerra Mondiale e la sconfitta di Mussolini, l’Eritrea avrebbe dovuto ricevere l’indipendenza, ma è stata annessa all’Etiopia contro la sua volontà. Il vecchio Segretario di Stato USA, John Foster Dulles, dichiarò all’epoca: “Dal punto di vista della giustizia, le opinioni del popolo eritreo devono essere prese in considerazione. Ciononostante, gli interessi strategici degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso, e le considerazioni per la sicurezza e la pace nel mondo, rendono necessario che questo Paese venga attaccato al nostro alleato, l’Etiopia.” Questa decisione ha avuto delle conseguenze catastrofiche per gli Eritrei. Sono stati letteralmente colonizzati dall’Etiopia e hanno dovuto portare avanti una lotta terribile durata trent’anni, per ottenere la propria indipendenza.
In più, durante questa lotta, gli Eritrei hanno affrontato un governo etiope sostenuto a turno dagli USA e dall’URSS. Durante la Guerra Fredda, si faceva generalmente parte di un blocco o dell’altro. Ma non vi ritrovavate contro entrambe le due superpotenze dell’epoca! Questo lascia evidentemente dei segni. Ecco perché l’Eritrea oggi reputa di non avere nessuna responsabilità nei confronti dell’auto proclamata “comunità internazionale”. Difende ferocemente la sua sovranità per portare a buon fine la sua Rivoluzione. Non è tutto perfetto, evidentemente, e gli Eritrei sono i primi a riconoscerlo. Malgrado i risultati eccezionali per un Paese del genere in fatto di sanità, educazione, o sicurezza alimentare, tutti vi diranno con molta umiltà che c’è ancora molto da fare. Ma affinché l’Eritrea continui a progredire, la miglior cosa da fare è non voler decidere al posto degli Eritrei. È per questo che mi aggiungo alla piattaforma per interpellare le Nazioni Unite: “Giù le mani dall’Eritrea!”.”

Da Intervista a Mohamed Hassan: “Giù le mani dall’Eritrea!”, di Grégoire Lalieu.

[L’Eritrea resiste, ancora a testa alta!]

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L’Islam buono e quello cattivo

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La memoria genetica dei musulmani.
Sessanta anni di stermini e di milioni di morti dimenticati dalla lotta al terrorismo. La decima crociata di Papa Bergoglio.

“Il passato e il suo ricordo possono intralciare gli indirizzi politici dei governi. Vengono pertanto revisionati, ristrutturati o sepolti.
A distanza di anni e di decenni hanno comunque la pessima abitudine di riemergere, di riprodursi con sembianze a volte deformate ed effetti tali da seminare sgomento e provocare reazioni anomale e controproducenti in Occidente. Il mondo musulmano vive ancora la nostra recente esperienza in Algeria e nel Medio Oriente, ma conserva una memoria genetica di un passato non troppo lontano, di persecuzioni e del sangue versato dopo la Seconda Guerra Mondiale. E prima o poi quella memoria tornerà a tormentare la coscienza del mondo occidentale.”

Trascriviamo queste note su quanto ci disse Ben Bella nel 1998. Ci aveva presentato all’eroe dell’Armata Popolare di Liberazione Luciana Castellina a Ginevra durante la marcia con cui veniva celebrato il 50° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Non volle parlarci del suo ruolo ad Algeri, della sua prigionia, dell’esilio dopo il colpo di Stato di Boumedienne, ma insistette a lungo sulle sue apprensioni per quanto ci teneva in serbo un futuro incerto, non solo di guerre ma anche di ingiustizia sociale. Parole accorate e profetiche di un personaggio famoso che non si considerava certo un vinto, ma neanche un vincitore trionfante della storia.
A rintracciare quelle note ci ha indotto un eccellente articolo di Tommaso Di Francesco su il Manifesto del 5 aprile scorso. C’è una distrazione generale, scrive, sull’ecatombe dei combattimenti e dei bombardamenti scatenati in Irak, Pakistan e Afghanistan dall’11 settembre 2001 al primo semestre del 2014: più di un milione e trecentomila morti, quasi tutti civili, senza contare le altre centinaia di migliaia di vittime in Siria e a Gaza. Morti che non hanno nome, che non contano niente. Stati Uniti e alleati europei, continuano a sganciare bombe accompagnati dal ritornello dei leader occidentali “Siamo in guerra contro il terrorismo, non contro l’Islam”. Il terrorismo di turno, almeno da otto mesi a questa parte, è quello dei tagliagole dello Stato Islamico, degli sciiti contro i sunniti e viceversa, armati e finanziati in alternanza o contemporaneamente dalla NATO, dagli Emirati, dall’Arabia Saudita e in misura decrescente dall’Iran mentre lo Stato israeliano di Netanyahu se ne sta a guardare più o meno compiaciuto.
Abbiamo poi l’Islam buono e quello cattivo, il primo che cerca invano l’integrazione nelle periferie desolate del mondo occidentale, il secondo minoritario, impermeabile alla cultura occidentale che fa strage di infedeli, cristiani e musulmani pacifici, in Medio Oriente, nel Nord Africa e in misura limitata anche in Europa. Tutti d’accordo perché come ha osservato a febbraio persino Time, il settimanale dedicato al primato di civiltà e allo “eccezionalismo” del popolo statunitense, questo vive in “un presente eterno in cui ogni riflessione è limitata a Facebook e la narrazione storica è delegata a Hollywood”.
Rischiamo ben volentieri di farci assegnare il ruolo di improbabili sostenitori dei tagliagole e ricordiamo per sommi capi alcuni eventi del dopoguerra che nelle parole di Ben Bella sono entrati nella “memoria genetica” del mondo musulmano, un mondo in quegli anni aperto, pacifico e generalmente incline ad abbracciare i valori della giustizia sociale.
In Indonesia, dopo l’indipendenza, è vero, era presente un partito comunista: bastò a Londra e Washington per abbattere con un colpo di stato il governo progressista del Presidente Sukarno per sostituirlo con la dittatura di Suharto e con l’invio di truppe scelte e l’impiego di fazioni dissidenti islamiche e cristiane per scatenare una guerra di sterminio in tutto il paese che provocò da un milione e mezzo a tre milioni di morti musulmani tra il 1965 e il 1966. Le ingenti risorse minerarie e petrolifere dell’Indonesia vennero così assicurate agli USA e alla Gran Bretagna. Per il Grande Impero d’Occidente i movimenti indipendentisti, postcoloniali e progressisti, nel Medio Oriente islamico ed arabo erano diventati inaccettabili e da abbattere con qualsiasi mezzo: venne rafforzato con armamenti e finanziamenti diretti il Wahabismo, una setta islamica ultraconservatrice nell’Arabia Saudita e fiumi di sangue precedettero e accompagnarono l’installazione dello Shah in Iran. Dopo la sua caduta, Saddam Hussein, allora nei favori di Washington fu finanziato ed armato nella guerra di otto anni contro l’Iran di Khomeini (un milione di morti). Un milione e mezzo poi le vittime – tra caduti e per fame da sanzioni – della prima guerra contro l’Irak del 1992, di cui nessuno oggi parla. E poi gli attacchi e le guerre di Israele contro la Palestina, l’Egitto, la Giordania e la Siria, sempre nella memoria della Shoah e in nome del diritto alla sopravvivenza con i quattro miliardi di dollari USA all’anno che hanno fatto di questo Stato la nuova Prussia atomica del Medio Oriente.
E’ questo l’humus del risentimento del mondo musulmano in cui germinano i semi del fanatismo estremo dell’IS. E’ stato detto e ribadito da osservatori di noi ben più autorevoli che ignorare le cause del terrorismo vuol dire perpetuarlo.
Come combattere il Califfato? Suggerimenti razionali e ridimensionamenti del fenomeno abnorme nei suoi aspetti più efferati, vengono offerti da Lucio Caracciolo nell’ultimo numero di Limes “Chi ha paura del Califfo”. Non è comunque un mistero per chi sa far di conto che il primo passo dovrebbe essere quello del taglio dei finanziamenti indiretti e del riciclaggio dei petrodollari dell’IS di cui sono responsabili gli Emirati Arabi (il Dubai si è aggiudicato il titolo di Bancomat del Califfato). Qualche pressione su questi regimi “criminogeni” sono state esercitate negli ultimi mesi dall’Amministrazione Obama, ma “pecunia non olet”, gli affari sono affari e “the business of America is business”.
Facile comprendere invece le ragioni dell’appello ad una Decima Crociata di chi ha sempre parlato del denaro come “sterco del diavolo”, di pace universale, di Dio che tutto e tutti perdona, di misericordia, di amore per i poveri, di cristiana pietas verso i diseredati colpevoli e meno, e cioè di papa Bergoglio. Giusto che il non più sontuoso erede del pescatore di Tiberiade condanni la persecuzione dei cristiani quale pastore del gregge, ma da qualche giorno a questa parte la denunzia del silenzio complice dell’inerzia occidentale suona come un esplicito invito a sterminare i lupi, tutti i lupi.
Se ha assunti i toni di Urbano II e di Pietro l’Eremita – Deus le volt – un altro motivo è più che opinabile: l’alta missione dei Gesuiti, dettata dal fondatore Francesco di Sales (non di Assisi), quella del proselitismo e delle conversioni di massa, la stessa che lo ha portato sul soglio pontificio in piena crisi di vocazioni e di chiese semi vuote aveva trovato in Bergoglio un predicatore popolare e di gran successo. I lupi del Califfato hanno spaventato il gregge e bloccato la missione. Vanno quindi ammazzati in gloria in excelsis Deo.
Lucio Manisco

Fonte

La Primavera Siriana: dai prodromi al Califfato

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Relazione di Mons. Giuseppe Nazzaro, ex Visitatore Apostolico di Aleppo ed ex Custode di Terrasanta, al convegno “Siria, ascoltiamo la gente”, organizzato dall’associazione Impegno Civico lo scorso 30 Ottobre presso l’Istituto Veritatis Splendor di Bologna.
Si tratta di una lettura impegnativa per la lunghezza ma… “dulcis in fundo” (o “in cauda venenum”, direbbero gli atlantisti).

Mi sia concesso iniziare questa mia presentazione affermando che, prima del 15 marzo 2011 non erano tantissime le persone al mondo che conoscevano dove trovare la Siria sulla carta geografica. Era un problema di pochi addetti ai lavori. Interessava piuttosto certi ambienti colti che si interessavano di archeologia, dei popoli legati alle antiche civiltà assiro-­babilonesi o di storia del cristianesimo.
Il mondo intero, oggi, parla della Siria e si interessa di questo Paese di circa 185.180 kmq , che si estende sulla costa del Mediterraneo Orientale per circa 80 kilometri.

I prodromi di una situazione
La data del 15 marzo 2011, ufficialmente, coincide con quella che possiamo definire: l’inizio di una rivoluzione nata quasi per gioco al confine con la Giordania, sui muri della città di Dera’a, ad opera di dodicenni che s’erano divertiti a scrivere dei graffiti del seguente tenore: “abbasso il regime”.
Ciò che all’inizio, poteva sembrare un gioco o, meglio, una ragazzata, in realtà, non era altro che l’inizio di una richiesta di maggiore apertura al Governo centrale del Paese che, per i non addetti ai lavori o per chi non aveva conosciuto la Siria prima dell’anno 2000, avrebbe potuto anche essere una richiesta legittima. Chi invece vi è vissuto ha visto e costatato con i propri occhi e con tutto il suo essere, non solo l’apertura del Governo verso le riforme sociali, ma soprattutto ha visto il benessere che le riforme avevano già portato e continuavano a portare al popolo siriano.
Ora non penso di dire un’eresia se affermo che il giovane dottore Bachar El-­Assad, dopo alcuni mesi dalla sua elezione alla Presidenza della Repubblica Araba Siriana, ha iniziato immediatamente una serie di riforme per il benessere del Paese e dei suoi compatrioti: commercio con l’estero, turismo interno ed estero, soprattutto libertà di movimento, di istruzione per uomini e donne. Le donne libere professioniste in continuo aumento, l’Università aperta a tutti senza distinzione di sesso. Un Paese dove vivevano diverse etnie 23 gruppi religiosi e tutti si rispettavano e si accettavano come facenti parte, come in realtà si ritenevano, di un’unica realtà e figli di un unico Paese che era la Siria, casa e Patria comune a tutti. Dal punto di vista religioso tutti erano liberi di esercitare e vivere il loro credo rispettati ed accettati da tutti. Continua a leggere

25 Aprile 2013

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Anche quest’anno giungono, puntuali, i liberatori.
La loro “Weapon of Mass Destruction” farà strage di… cervelli.

[Il giorno seguente, nello stesso luogo, arriveranno i Rammstein a bonificare il terreno]

L’Avana, 30 Novembre 1996

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La risoluzione finale adottata dalla Conferenza Internazionale sulle Basi Militari Straniere riunita a L’Avana dal 28 al 30 Novembre 1996.

Nell’attuale fase storica in cui la globalizzazione, la multinazionalizzazione, il neocolonialismo e l’egemonismo politico e militare dominano il mondo, le basi militari straniere continuano ad essere una piaga per l’umanità.
Rilevare che nel mondo attuale ci sono circa 2.000 basi militari straniere è già di per sé una cosa significativa e assai grave, ma ancor più grave diventa se si considera che cosa queste basi rappresentano e le dimensioni che hanno raggiunto. Perché si tratta di basi a partire dalle quali vengono organizzate operazioni e manovre dirette a volte contro gli stessi paesi che le ospitano; centri che dispongono di forze di rapido impiego per il coordinamento, il controllo, l’addestramento di unità militari; impianti destinati allo spionaggio e all’ascolto delle trasmissioni radio; complessi di servizi tecnici per l’intercettazione delle radiocomunicazioni segrete di altri paesi, ecc..
In un centro di questo tipo, creato dagli Stati Uniti a Fort Gulick, nella zona del canale di Panama, qualcosa come 300.000 militari sudamericani hanno ricevuto lezioni teorico-pratiche su metodi di tortura, disinformazione, esecuzione extragiudiziali, intimidazioni e assassinii. Le basi hanno anche un ruolo importante per le attività collegate dei servizi segreti, per i traffici di armamenti e per le operazioni di controllo e acquisizione di informazioni, i sistemi di supervisione e rilevamento, le tecnologie convenzionali e nucleari, i centri di spionaggio.
Le basi vanno inquadrate nella loro dimensione storica: esse sono il prodotto del colonialismo passato ed attuale e del neocolonialismo; basta ricordare le leggi obiettive dello sviluppo economico per ritrovare la loro presenza e gli interessi da cui sono generate.
Le basi dipendono sempre da centri di manipolazione superiore. Così gli Stati Uniti dispongono di quella che viene chiamata la Base Militare Principale che è sede di forze ragguardevoli raggruppate in sei comandi unificati: Comando Europeo (Germania), Comando Atlantico (Norfolk, Virginia), Comando Pacifico (Honolulu, Hawaii), Comando Centrale (Stati Uniti), Comando Readiness (Stati Uniti), Comando Sud (Panama).
Le basi militari si sono moltiplicate dappertutto a presidio di un determinato sistema politico mondiale. L’area Asia-Pacifico offre una sintesi dell’ottica nordamericana per il secolo XXI, in cui quest’area è definita “di importanza essenziale”. Con la guerra fredda gli Stati Uniti avevano 350.000 soldati in Europa e 140.000 in Asia. Adesso ne hanno 100.000 in Europa e altrettanti in Asia, per la maggior rilevanza dei loro interessi in quella che con il Pacifico considerano l’area più dinamica del mondo. Questa è la ragione di una presenza massiccia che si traduce nelle basi USA in Giappone, Corea del sud, Guam, l’Atollo Johnson, le isole Miwy, le Marshall, l’isola di Wake, la Samoa americana, le Filippine, la Tailandia, l’isola di Diego Garcia. Continua a leggere