Intermarium, chi era costui?

“Dopo la guerra combattuta tra la Russia e la Polonia e conclusasi il 18 marzo 1921 col trattato di pace di Riga, il Maresciallo Józef Piłsudski (1867-1935), capo provvisorio del rinato Stato polacco, lanciò l’idea di una federazione di Stati che, estendendosi “tra i mari” Baltico e Nero, in polacco sarebbe stata denominata Międzymorze, in lituano Tarpjūris e in latino, con un neologismo poco all’altezza della tradizione umanistica polacca, Intermarium. La federazione, erede storica della vecchia entità politica polacco-lituana, secondo il progetto iniziale di Piłsudski (1919-1921) avrebbe dovuto comprendere, oltre alla Polonia quale forza egemone, la Lituania, la Bielorussia e l’Ucraina. È evidente che il progetto Intermarium era rivolto sia contro la Germania, alla quale avrebbe impedito di ricostituirsi come potenza imperiale, sia contro la Russia, che secondo il complementare progetto del Maresciallo, denominato “Prometeo”, doveva essere smembrata nelle sue componenti etniche.
Per la Francia il progetto rivestiva un certo interesse, perché avrebbe consentito di bloccare simultaneamente la Germania e la Russia per mezzo di un blocco centro-orientale egemonizzato dalla Polonia. Ma l’appoggio francese non era sufficiente per realizzare il progetto, che venne rimpiazzato dal fragile sistema d’alleanze spazzato via dalla Seconda Guerra Mondiale.
Una più audace variante del progetto Intermarium, elaborata dal Maresciallo tra il 1921 e il 1935, rinunciava all’Ucraina ed alla Bielorussia, ma in compenso si estendeva a Norvegia, Svezia, Danimarca, Estonia, Lettonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Grecia, Jugoslavia ed Italia. I due mari diventavano quattro, poiché al Mar Baltico ed al Mar Nero si venivano ad aggiungere l’Artico e il Mediterraneo. Ma anche questo tentativo fallì e l’unico risultato fu l’alleanza che la Polonia stipulò con la Romania.
L’idea di un’entità geopolitica centroeuropea compresa tra il Mar Baltico e il Mar Nero fu riproposta nei termini di una “Terza Europa” da un collaboratore di Piłsudski, Józef Beck (1894-1944), che nel 1932 assunse la guida della politica estera polacca e concluse un patto d’alleanza con la Romania e l’Ungheria.
Successivamente, durante il secondo conflitto mondiale, il governo polacco di Władisław Sikorski (1881-1943) – in esilio prima a Parigi e poi a Londra – sottopose ai governi cecoslovacco, greco e jugoslavo la prospettiva di un’unione centroeuropea compresa fra il Mar Baltico, il Mar Nero, l’Egeo e l’Adriatico; ma, data l’opposizione sovietica e la renitenza della Cecoslovacchia a federarsi con la Polonia, il piano dovette essere accantonato.
Con la caduta dell’URSS e lo scioglimento del Patto di Varsavia, l’idea dell’Intermarium ha ripreso vigore, rivestendo forme diverse quali il Consiglio di Cooperazione nel Mar Nero, il Partenariato dell’Est e il Gruppo di Visegrád, meno ambiziose e più ridotte rispetto alle varianti del progetto “classico”.
Ma il sistema di alleanze che più si avvicina allo schema dell’Intermarium è quello teorizzato da Stratfor, il centro studi statunitense fondato da George Friedman, in occasione della crisi ucraina. Da parte sua il generale Frederick Benjamin “Ben” Hodges, comandante dell’esercito statunitense in Europa (decorato con l’Ordine al Merito della Repubblica di Polonia e con l’Ordine della Stella di Romania), ha annunciato un “posizionamento preventivo” (“pre-positioning”) di truppe della NATO in tutta l’area che, a ridosso delle frontiere occidentali della Russia, comprende i territori degli Stati baltici, la Polonia, l’Ucraina, la Romania e la Bulgaria. Dal Baltico al Mar Nero, come nel progetto iniziale di Piłsudski.
Il 6 agosto 2015 il presidente polacco Andrzej Duda ha preconizzato la nascita di un’alleanza regionale esplicitamente ispirata al modello dell’Intermarium. Un anno dopo, dal 2 al 3 luglio 2016, nei locali del Radisson Blue Hotel di Kiev ha avuto luogo, alla presenza del presidente della Rada ucraina Andriy Paruby e del presidente dell’Istituto nazionale per la ricerca strategica Vladimir Gorbulin, nonché di personalità politiche e militari provenienti da varie parti d’Europa, la conferenza inaugurale dell’Intermarium Assistance Group, nel corso della quale è stato presentato il progetto di unione degli Stati compresi tra il Mar Baltico e il Mar Nero.
Nel mese successivo, i due mari erano già diventati tre: il 25-26 agosto 2016 il Forum di Dubrovnik sul tema “Rafforzare l’Europa – Collegare il Nord e il Sud” ha emesso una dichiarazione congiunta in cui è stata presentata l’Iniziativa dei Tre Mari, un piano avente lo scopo di “connettere le economie e infrastrutture dell’Europa centrale e orientale da nord a sud, espandendo la cooperazione nei settori dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni digitali e in generale dell’economia”. L’Iniziativa dei Tre Mari, concepita dall’amministrazione Obama, il 6 luglio 2017 è stata tenuta a battesimo da Donald Trump in occasione della sua visita a Varsavia. L’Iniziativa, che a detta del presidente Duda nasce da “un nuovo concetto per promuovere l’unità europea”, riunisce dodici paesi compresi tra il Baltico, il Mar Nero e l’Adriatico e quasi tutti membri dell’Alleanza Atlantica: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Austria, Slovenia, Croazia, Ungheria, Romania, Bulgaria.
Sotto il profilo economico, lo scopo dell’Iniziativa dei Tre Mari consiste nel colpire l’esportazione di gas russo in Europa favorendo le spedizioni di gas naturale liquefatto dall’America: “Un terminale nel porto baltico di Świnoujście, costato circa un miliardo di dollari, permetterà alla Polonia di importare Lng statunitense nella misura di 5 miliardi di metri cubi annui, espandibili a 7,5. Attraverso questo e altri terminali, tra cui uno progettato in Croazia, il gas proveniente dagli USA, o da altri Paesi attraverso compagnie statunitensi, sarà distribuito con appositi gasdotti all’intera ‘regione dei tre mari’” .
Così la macroregione dei tre mari, essendo legata da vincoli energetici, oltre che militari, più a Washington che non a Bruxelles ed a Berlino, spezzerà di fatto l’Unione Europea e, inglobando prima o poi anche l’Ucraina, stringerà ulteriormente il cordone sanitario lungo la linea di confine occidentale della Russia.”

Da Il cordone sanitario atlantico, editoriale di Claudio Mutti del n. 4/2017 di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.

Questo è quello che è di là da venire

mail.google.com“Sino ad ora, le limitazioni dell’autodeterminazione degli Stati e dei popoli in funzione dei diritti del capitale globale (sia che si proponesse di profittare con beni, servizi e moneta, sia che si proponesse profitti di guerra) hanno sempre dovuto passare per la mediazione necessaria di organizzazioni internazionali, quali UE e NATO, ovvero attraverso trattati multilaterali in cui gli Stati sovrani avevano un ruolo, quantomeno nell’azionamento delle cosiddette “clausole di salvaguardia”, le quali prevedevano la disapplicazione o la sospensione di una regola per fini politici interni. Nelle organizzazioni regionali, poi, la componente dello Stato sovrano recitava quantomeno un ruolo figurativo, prevedendo per esempio nella UE (al di là dell’inutile parlatorio costituito dal Parlamento) la presenza dei ministri competenti nel Consiglio dei Ministri UE, donde la necessità di coltivare all’interno degli Stati una componente politica asservita ai fini che via via venivano veicolati all’interno dell’organizzazione.
La natura sempre più palese dei fini necessitava allora di uno strumento di ricatto indipendente dai singoli governi che si sarebbero presentati sull’arengo politico, posto che prima o poi si sarebbe dovuto fronteggiare una componente politica anti-UE, giunta nelle stanze dei bottoni.
Per tale motivo si sta implementando il sistema dei trattati bilaterali (BITs) e regionali sugli scambi e gli investimenti, quale il TTIP per la nostra area, il TTP per l’area trans-pacifica, sottoscritto persino dal Vietnam.
In essi è contenuto un nuovo dispositivo di limitazione preventiva di ogni sovranità ed anche di ogni Costituzione interna che possa in qualche modo ostacolare gli interessi del capitale sovranazionale, chiamato nei trattati “investitore”.
Si tratta, per la sua onnicomprensività (i trattati riguardano i più svariati settori, dall’agricoltura, ai servizi finanziari, alla sanità, ai servizi sociali, al mercato del lavoro) e per la sua estensione (la giurisdizione coprirà oltre l’80% del PIL mondiale, praticamente la quasi totalità dell’economia) di una vera e propria dichiarazione dei diritti del capitale sugli uomini.
Il dispositivo chiave è fornito proprio dalle carte bollate. Nei vari trattati vi è sempre una clausola arbitrale denominata ISDS, Investor-State Dispute Settlement, vale a dire la “regolamentazione delle controversie tra Stato ed investitore”. Tramite tale dispositivo, un’impresa privata multinazionale, l’investitore, qualora si trovi di fronte ad una misura (legislativa o governativa) che in qualche modo ostacoli gli interessi del capitale investitore (resi nel trattato sottoforma di divieto di discriminazione della libertà di circolazione di merci, persone e capitali, di libertà di investimento e di impresa) potrà convenire lo Stato Sovrano avanti a questa Corte Privata internazionale istituita all’interno del trattato commerciale. E’ l’unico sistema di arbitrato internazionale “asimmetrico”, nel quale è previsto che lo Stato possa essere chiamato in causa, cioè svolgere il ruolo di convenuto, ma non è previsto che possa esso stesso citare un investitore. Nel giudizio non varranno le regole della Costituzione dello Stato, né le regole istitutive dei Trattati delle Organizzazioni Internazionali come la UE, che in qualche modo contenevano pur limitati riferimenti ai diritti dei singoli, delle collettività. Varranno solamente le regole dei trattati, e le regole dei trattati sono le regole delle sovrane libertà del capitale circolante. Nessun altro parametro considerato “ostacolante” come i fini di pubblico interesse o di utilità sociale presenti nel mandato costituzionale dei singoli Stati sovrani sarà considerato opponibile alla libertà dell’investitore di raggiungere il suo profitto.
Se si appelleranno ai loro mandati costituzionali ben facilmente gli Stati perderanno la causa andando incontro a severe sanzioni economiche.
Queste Corti di Arbitrato Commerciale sono tribunali internazionali privati e semisegreti, composti di regola da tre membri , scelti di volta in volta da una lista ristretta di avvocati privati nell’orbita ideologica e culturale di tali organizzazioni neoliberiste.
Come in ogni arbitrato, ciascuna parte nomina il proprio difensore ed entrambe si accordano sulla scelta del giudice. Tenuto conto che gli operatori giudiziari coinvolti sono sempre racchiusi nella lista ristretta di giuristi internazionalisti abilitati alle corti arbitrali, accade che chi ha svolto il ruolo di difensore dell’investitore in un processo, può essere giudice in un altro processo, anche se successivo o contemporaneo. Gli arbitrati si svolgono in segretezza, a porte chiuse e senza controllo pubblico, senza possibilità di appello ad altre forme di giustizia internazionale.
Casi emblematici di arbitrati sono quelli intentati dalla multinazionale svedese del nucleare Vattenfall contro le norme tedesche che prevedevano l’abbandono della produzione di energia elettrica con impianti nucleari (la richiesta di danni alla Germania è stata pari a 4,7 miliardi di euro), oppure quelle intentate dalla Philip Morris contro gli Stati dell’Uruguay, della Norvegia e dell’Australia contro le norme volte a restringere ed ostacolare il consumo di tabacco.
Qualora un illuminato governo di onesti decidesse una volta per tutte di abbandonare il progetto di un’opera inutile finanziata per soli scopi clientelari da precedenti governi, gli investitori multinazionali coinvolti nel progetto potrebbero convenire lo Stato avanti ad una di queste corti private e segrete.
Nelle Corti Private dei trattati bilaterali sugli scambi non si tiene conto di utilità sociali, di illegittimità del progetto, nemmeno di eventuali dinamiche ed infiltrazioni criminali nell’investitore che propone causa.
Si applica, per l’appunto, tra quattro mura, il solo diritto del capitale, la corporate rule.
Rule è un’espressione che in inglese significa sia regola che dominio. Famoso è il motivo “Rule Britannia, Britannia rule the waves”, “Domina Britannia, domina sulle onde” a significare la passata posizione egemone dell’impero inglese (ma anche della Compagnia delle Indie) su tutti i mari e le rotte commerciali del mondo.
E’ evidente che un tale dispositivo, fondandosi sul potere economico e sulla forza deterrente dei risarcimenti monetari, può vincolare ogni tipo di governo, a prescindere da Costituzioni interne, Trattati internazionali di Organizzazioni regionali, Trattati e Convenzioni sui diritti dell’Uomo.
Dietro gli scranni dei giudici potrebbe idealmente figurare la massima “business is business”.
Un simile sistema, come ben argomenta Prabhat Patnaik, “non rappresenta quindi soltanto una grande limitazione della sovranità dello Stato-nazione, ma ostacola in linea di principio la capacità dello Stato di adempiere al suo mandato Costituzionale. Non c’è bisogno di dire che un tale trattato costituisce una grande violazione al principio di sovranità ed autodeterminazione dei popoli che è il fondamento della democrazia.” (Towards Global Corporate Rule).
Questo è quello che è di là da venire.”

Da Qual è l’impero del male? Ci viviamo dentro, di Enzo Pellegrin.

Thorbjørn Jagland rimosso dal suo incarico di presidente del Nobel per la Pace

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Il presidente del Comitato che assegna ogni anno il Premio Nobel per la Pace, Thorbjørn Jagland, è stato retrocesso dal parlamento norvegese al rango di semplice membro del Comitato, una decisione senza precedenti nella storia del Premio.
Il parlamento norvegese si è arreso alle accuse di corruzione al presidente Jagland che eravamo stati i primi ad esporre in dettaglio [1] (ma senza menzionare le ragioni che lo avrebbero condotto su questa strada).
I media che ci hanno accusati all’epoca di “complottismo” e di “antiamericanismo” non hanno ripetuto i loro insulti nei confronti del parlamento norvegese.
Il parlamento norvegese si è augurato che il Premio per la Pace ritorni alla sua funzione originaria [2]. In effetti, nel corso degli ultimi anni, il Premio è stato sistematicamente attribuito non a degli attivisti per la pace, in conformità alle indicazioni di Alfred Nobel, ma a dei sostenitori della NATO [3].
Ex Primo Ministro norvegese, Thorbjørn Jagland rimane attualmente segretario generale del Consiglio d’Europa, funzione che gli permette d’impegnarsi oggi a giustificare il colpo di Stato in Ucraina.

Fonte – traduzione di M. Guidoni

Roba da “nazisti”

“Il memorandum dello pseudo-Breivik è una silloge di tutti gli argomenti sulle meccaniche del potere e sulle strategie della propaganda che sono stati discussi nel corso degli anni su questo e altri blog. Si parla, a tratti in modo sensato, del ruolo svolto dal revisionismo storico nel fare luce sulla storia europea del dopoguerra, delle differenze tra revisionismo e “negazionismo”, delle teorie sul controllo delle masse messe a punto dalla Scuola di Francoforte, del controllo del pensiero attuato attraverso i curriculum scolastici, dello scempio della tradizione letteraria europea nato dal “politically correct”, del ruolo culturalmente devastante del femminismo, dell’ideologia multiculturalista d’accatto con cui s’impone all’Europa di privarsi delle proprie tradizioni e di molto altro ancora. Il punto è che tutti questi argomenti – che a mio avviso rappresentano la “punta di diamante” di una nuova linea di pensiero che è nata e si è diffusa soprattutto sul web – vengono disinvoltamente mescolate con deliri da crociato, xenofobia anti-islamica di bassa lega, appelli ad un’improbabile lotta armata, vagheggiamenti di un ritorno al cristianesimo combattente, sparate antimarxiste prive di ogni barlume di razionalità analitica ed infinite altre amenità di questo tenore. Il risultato è quello di screditare e rendere impraticabile ogni riflessione sul controllo delle menti attraverso la propaganda, sui meccanismi del potere, sulla falsificazione storica e devastazione culturale imposta all’Europa dai dominatori statunitensi. Una volta gettati questi argomenti nello stesso calderone in cui ribollono tonnellate di fuffa templare e di farneticazioni anticoraniche, essi risulteranno indigesti e inavvicinabili all’uomo della strada. Il quale, oltretutto, considererà che, se il prodotto politico di tali questioni è l’inutile e sanguinoso scempio di innocui campeggiatori perpetrato dal trattatista, evidentemente deve trattarsi di idee malate, malsane, degne di complottisti isolati dal mondo e spregiatori della civiltà.
Il che, immagino, è esattamente il risultato che l’anonimo think tank che ha stilato il documento, firmandolo col nome di Andrew Brewick, si proponeva di raggiungere.
Come scrivevo nell’articolo di un paio di giorni fa, una delle cose che più preoccupano gli americani è l’affermarsi in Europa di un pensiero “eurasiatico”, portato avanti trasversalmente tanto dai reduci della “destra” quanto della “sinistra” europea (quelli che i detrattori nostrani chiamano con disprezzo “rossobruni”). Tale linea di pensiero, che sta prendendo sempre più piede nelle ex nazioni europee, mira principalmente a creare una più stretta connessione politico/economico/strategica con la Russia, allo scopo di sbarazzarsi di 70 anni di asservimento militare e culturale agli USA e costruire quella naturale unità geostrategica tra Europa e Asia che rappresenterebbe il naturale portato tanto della complementarietà geografica tra i due continenti quanto della storica interdipendenza economica e culturale che ha caratterizzato le loro relazioni fino alle guerre mondiali. Uno degli scopi del malloppone partorito dallo pseudo-Breivik è di scongiurare tale eventualità, presentando le velleità di partenariato russo-europeo come deliri di pazzi criminali, vaneggiamenti da terroristi di estrema destra col proiettile in canna.
Ecco perché una parte consistente della dissertazione è dedicata alla denuncia dell’imperialismo americano e alla prospettiva di liberarsi di esso attraverso un asse eurasiatico. Leggiamo, ad esempio:
“La Federazione Europea del futuro non dovrà più essere connotata dalle forme sdolcinate e ingovernabili dell’attuale Unione Europea, che è una Medusa impotente, incapace di controllare i propri confini, dominata dalla smania per l’autodistruzione culturale e il libero commercio, assoggettata al dominio culturale americano. Dobbiamo immaginare una grande Europa monoculturale, fondata sulla cooperazione economica e culturale di nazioni indipendenti, che saranno, in larga parte, inseparabilmente legate alla Russia. Non avendo bisogno di essere aggressivo con i propri vicini, visto che sarebbe inattaccabile, un tale blocco diverrebbe la prima potenza mondiale (di un mondo partizionato in grandi blocchi), autoreferenziale, pan-nazionalista e avverso ai pericolosi dogmi oggi associati col globalismo/multiculturalismo. La nuova Federazione Europea sarà assai più isolazionista, con una politica di nazionalismo economico (protezionismo). Dovrà avere la capacità di praticare la “autarchia dei grandi spazi” (autosufficienza economica e indipendenza dai mercati esteri), i cui princìpi sono già stati elaborati dall’economista, vincitore di Premio Nobel, Maurice Allais. Il destino della penisola europea non può essere separato da quello della Russia continentale, sia per ragioni etnico-culturali che per ragioni geopolitiche. E’ assolutamente imperativo per la talassocrazia mercantile americana (supremazia navale, nel senso militare e commerciale della parola) impedire la nascita di una Federazione Europea culturalmente e ideologicamente sicura di sé.”
Parole mica tanto demenziali, vero?
Ma l’uomo della strada leggerà queste affermazioni ricollegandole istintivamente – grazie anche alle immancabili banalizzazioni e distorsioni che i media sapranno effondere – alla bestialità di un terrorista solitario, ai capelli biondi imbrattati di sangue di una giovane campeggiatrice norvegese, ai mucchi di cadaveri di ragazzini ammassati sulla spiaggia di Utoya. E il gioco è fatto. L’anti-imperialismo e l’aspirazione a liberarsi della schiavitù statunitense stringendo legami con le potenze asiatiche saranno bollati come vaneggiamenti eversivi da criminali potenziali, fonte di discredito sociale e possibilmente cagione di affidamento a progetti rieducativi. Roba da “nazisti”, insomma, che è il termine preferito da ogni moccioso adulto per sostituire il “brutto e cattivo” del lessico puerile senza dover studiare troppo.
Il documento redatto dallo pseudo-Breivik è in realtà un corposo trattato sulle paure americane, un compendio dettagliato delle idee che Washington crede possano ostacolare i suoi progetti geostrategici. Idee che devono dunque essere infangate e screditate, imbrattate con svastiche e croci templari, ridicolizzate dall’impasto con materiali di infima intellettualità e di popolaresca cialtroneria. Non so se ci siano voluti davvero nove anni per scriverlo, ma di certo esso è un prodotto propagandisticamente molto elaborato, la cui stesura ha richiesto senz’altro molto tempo e l’impegno di un think tank preparato ed attento alle tendenze culturali, nonché ai germogli di pensiero politico in corso di definizione sul web. Questo ci dà un indizio di quanto sia importante, per chi lo ha scritto, ostacolare e rendere inutilizzabili le nuove idee che vanno diffondendosi nell’Europa della crisi e della perdita delle sovranità nazionali. E’ un testo da studiare con attenzione, particolarmente da parte di chi ha già un’idea dei meccanismi della propaganda; non certo per recepirne ciò che di farneticante e neppure ciò che di condivisibile contiene, ma per avere un’idea precisa di quali siano i fantasmi che suscitano maggior spavento nei nostri dominatori. Si sarà ben capito che sono esattamente quelli che dobbiamo evocare.”

Da Di cosa hanno paura, di Gianluca Freda.
[grassetto nostro]

Il “Grande Gioco” del XXI° secolo

Ripasso di inzio anno: i fronti dell’assalto USA/NATO al mondo, nelle parole di M. D. Nazemroaya.

L’invasione dell’Afghanistan
“L’invasione del 2001 dell’Afghanistan controllato dai talibani, è stata avviata con l’obiettivo di stabilire un punto d’appoggio in Asia centrale e una base di operazioni per isolare l’Iran, dividere gli eurasiatici uno dall’altro, per impedire la costruzione di gasdotti in corso attraverso l’Iran, per allontanare i Paesi dell’Asia centrale da Mosca, per prendere il controllo del flusso di energia dell’Asia Centrale e per soffocare strategicamente i cinesi.
Ma soprattutto, il controllo dell’Asia centrale sconvolgerebbe la “Nuova Via della Seta” in corso di formazione dall’Est asiatico al Medio Oriente ed Europa dell’Est. E’ questa “Nuova Via della Seta” che fa della Cina la prossima superpotenza globale. Così, la strategia degli Stati Uniti in Asia centrale è destinata a impedire, in definitiva, l’emergere della Cina come superpotenza globale, impedendo ai cinesi di avere l’accesso alle risorse energetiche vitali di cui hanno bisogno. La rivalità tra Stati Uniti e Unione europea con la Russia, per le vie di transito dell’energia, deve essere giudicata assieme al tentativo d’impedire la costruzione di un corridoio energetico trans-eurasiatico che congiunga la Cina al Mar Caspio e al Golfo Persico.”

L’instabilità in Pakistan
“L’instabilità in Pakistan è un risultato diretto dell’obiettivo di impedire la creazione di un percorso energetico sicuro della Cina. Gli Stati Uniti e la NATO non vogliono un forte, stabile e indipendente Pakistan. Preferirebbero vedere un Pakistan diviso e debole che possa essere facilmente controllato e che non prenda ordini da Pechino o si allei al campo eurasiatico. L’instabilità in Pakistan e gli attentati terroristici contro l’Iran, che sono originati dal confine con il Pakistan, hanno lo scopo di impedire la creazione di un percorso energetico sicuro per la Cina.”

La Somalia e la pirateria
“Guardando alla Somalia, le condizioni che hanno portato al problema della pirateria, sono state nutrite per dare agli Stati Uniti e alla NATO un pretesto per militarizzare le vie navigabili strategiche della regione. Gli Stati Uniti e la NATO non hanno voluto nulla, tranne che la stabilità nel Corno d’Africa. Nel dicembre 2006, l’esercito etiope invase la Somalia e rovesciò il governo della Somalia dell’Unione delle Corti Islamiche (ICU). L’invasione etiope della Somalia, ha avuto luogo in un momento in cui il governo ICU stava stabilizzando relativamente la Somalia ed era vicino a portare uno stato di pace e ordine duraturi all’intero Paese africano.
L’US Central Command (CENTCOM) aveva coordinato nel 2006 l’invasione della Somalia. L’invasione etiope fu sincronizzata con i militari USA, e vide l’intervento congiunto delle forze armate degli Stati Uniti a fianco degli etiopi, attraverso le Forze Speciali e gli attacchi aerei degli Stati Uniti. Il generale John Abizaid, comandante del CENTCOM, andò in Etiopia e tenne un incontro di profilo basso con il Primo Ministro Meles Zenawi, il 4 dicembre 2006, per pianificare l’attacco alla Somalia. Circa tre settimane dopo, gli Stati Uniti e l’Etiopia attaccarono e invasero la Somalia.
Il governo somalo dell’ICU fu sconfitto e rimosso dal potere, e al suo posto si pose il governo di transizione somalo (STG), un governo impopolare asservito ai diktat di Stati Uniti e UE fu portato al potere con l’intervento militare degli Stati Uniti e dell’Etiopia.”

I problemi interni del Sudan
“Il petrolio sudanese sbarca in Cina e le relazioni commerciali di Khartoum sono legate a Pechino. Questo è il motivo per cui Russia e Cina si oppongono a statunitensi, britannici, francesi e agli sforzi per internazionalizzare i problemi interni del Sudan presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Inoltre, è dovuto ai legami affaristici del Sudan con la Cina, che i leader sudanesi sono stati presi di mira dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea come violatori dei diritti umani, mentre i crimini contro i diritti umani compiuti dai dittatori loro clienti e alleati, vengono ignorati.
Sebbene la Repubblica del Sudan non è tradizionalmente considerata parte del Medio Oriente, Khartoum si è impegnato come membro del Blocco della Resistenza. Iran, Siria e Sudan hanno rafforzato i loro legami e la cooperazione dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003. La guerra israeliana contro il Libano e il dispiegamento successivo delle forze militari internazionali, prevalentemente dei Paesi della NATO, sul suolo e acque libanesi, non è passata inosservata neanche in Sudan. È in tale contesto di resistenza che il Sudan sta anche approfondendo i suoi legami militari con Teheran e Damasco.”

La militarizzazione dell’Africa Orientale
“Gli eventi in Sudan e in Somalia sono legati alla sete e la rivalità internazionali per il petrolio e l’energia, ma sono anche parte dell’allineamento della scacchiera geo-strategica, che ruota attorno al controllo dell’Eurasia. La militarizzazione dell’Africa Orientale fa parte dei preparativi per un confronto con la Cina e i suoi alleati. L’Africa orientale è un fronte importante che si riscalderà nei prossimi anni.”

Xinjiang e Tibet
“Nel Turkestan cinese, dove si trova la regione autonoma di Xinjiang, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno sostenuto il separatismo uiguro, basato sul nazionalismo uiguro, sul panturchismo e l’Islam, per indebolire la Cina. In Tibet, gli obiettivi sono gli stessi che in Xinjiang, ma lì gli Stati Uniti e i loro alleati sono stati coinvolti in operazioni di intelligence molto più intensa.
Separare Xinjiang e Tibet dalla Cina, ostacolerebbe pesantemente la sua ascesa come superpotenza. La separazione di Xinjiang e Tibet sottrarrebbe le ampie risorse di questi territori alla Cina e all’economia cinese. Negherebbe anche l’accesso diretto della Cina alle Repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale. Questo potrebbe effettivamente distruggere le vie terrestri in Eurasia e complicherebbe la creazione di un corridoio energetico verso la Cina.”
Qualsiasi governo futuro in uno Xinjiang o un Tibet indipendenti, potrebbe agire come l’Ucraina sotto gli arancioni, interrompendo le forniture di gas russo verso l’Unione Europea per le differenze politiche e i dazi di transito. Pechino come consumatore di energia, può essere tenuto in ostaggio, come i Paesi europei lo sono stati nel corso delle dispute ucraino-russe sul gas. Questo è precisamente uno degli obiettivi degli Stati Uniti, allo scopo di arrestare la crescita cinese.”

Il controllo delle Americhe
“Gli Stati Uniti stanno militarizzando i Caraibi e l’America Latina per riguadagnare il controllo delle Americhe. Il Pentagono sta armando e approfondisce i suoi legami militari con la Colombia, per contrastare il Venezuela e i suoi alleati. Il 30 ottobre 2009 i governi colombiano e statunitense firmarono anche un accordo che consentirà agli USA di usare le basi militari colombiane.
Haiti, occupata dagli statunitensi, serve anche al più vasto programma emisferico degli USA di sfida al blocco bolivariano, utilizzando la parte occidentale dell’isola di Hispaniola. Haiti si trova a sud di Cuba. Geograficamente è situata nella posizione migliore per un assalto simultaneo a Cuba, Venezuela e Stati del Centro America, come il Nicaragua. Il catastrofico terremoto del 2010, e l’instabilità che gli Stati Uniti hanno creato in Haiti, attraverso invasioni multiple, rendono molto meno evidente il progetto di sovvertire i Caraibi e l’America Latina. Guardando la cartina e la militarizzazione di Haiti, è inequivocabile che gli Stati Uniti prevedano di utilizzare Haiti, Colombia e Curaçao, come un hub per le operazioni militari e di intelligence. Haiti potrebbe anche rivelarsi una base preziosa, nello scenario di un conflitto più ampio, condotto dagli Stati Uniti e dai loro alleati contro Caracas e i suoi alleati regionali.
E’ chiaro che Stati Uniti stanno perdendo la loro presa in America. Non solo il Governo degli Stati Uniti vuole impedire tutto questo, ma vuole anche far sì che non perda le riserve energetiche di Paesi come Venezuela, Ecuador e Bolivia, a vantaggio dei cinesi affamati di energia. Con una leale concorrenza globale, non c’è modo che gli Stati Uniti siano in grado di corrispondere ciò che Pechino è disposta ad offrire alle nazioni dell’America Latina e dei Caraibi, nelle loro esportazioni di energia e risorse.”

Il fronte dell’Artico
“L’ordine del giorno della NATO, nella regione artica, inizia già nel 2006, quando la Norvegia ha invitato tutta la NATO ed i suoi collaboratori alle esercitazioni ‘Cold Response’. Anche il Canada ha costantemente tenuto nell’Artico esercitazioni, per dimostrare la sua sovranità nella regione artica, ma a partire dal 2010, soldati statunitensi e danesi sono stati coinvolti nell’Operation Nanook 10. Questo è un segno della cooperazione NATO contro la Russia. Secondo un comunicato militare canadese le esercitazioni militari sono destinate “a rafforzare la preparazione, l’interoperabilità e aumentare la capacità di una risposta collettiva alle sfide emergenti nella regione artica.” A parte la richiesta russa sulla Cresta Lomonosov, non c’è altra situazione che potrebbe essere vista come una sfida emergente che giustifica una reazione militare collettiva da parte del Canada, degli Stati Uniti e della Danimarca.
La battaglia per l’Artico è ben avviata.”

[Dello stesso autore:
La globalizzazione del potere militare: l’espansione della NATO]

L’F-35 va alla deriva

Ad Aprile 2009, titolando “L’F-35 è “invisibile”? No, è un bel bidone!“, demmo un conto, molto sommario, delle motivazioni tecniche che avrebbero impedito al cacciabombardiere Joint Strike Fighter Lightning II della Lockheed Martin, propagandato come “stealth“, di diventare un vettore con una penetrazione di mercato in linea con quella ottenuta dal suo diretto predecessore: l’F-16 Fighting Falcon della General Dynamics. Entrato in servizio nell’Agosto del 1978 con l’US Air Force e successivamente adottato da 26 Paesi con un numero di esemplari prodotto in numero superiore a 4.500 unità in dieci versioni successive, si distinguerà per longevità operativa, flessibilità di impiego ed efficienza bellica.
L’ultimo lotto di cento F-16I è stato consegnato ad “Israele“ che riceve a titolo gratuito, come si sa, annualmente 2.850 milioni di dollari di materiale militare USA.
Con “residuati accantonati“ Washington sta inoltre cedendo al Pakistan con eguali modalità 18 F-16 C/D per tentare di alleggerire l’appoggio della potente Inter Services Intelligence (ISI) alle formazioni pashtun nel conflitto che coinvolge ISAF ed Enduring Freedom nel pantano dell’Afghanistan.
Donazione finalizzata anche a contrastare la crescente influenza politica e militare di Pechino nell’area asiatica e l’opzione per l’acquisto fatta dall’ex Presidente Musharraf di 36 cacciabombardieri J-10 Chengdu (made in China) e la licenza di fabbricazione del caccia JF-17 Thunder. Una verità tenuta rigorosamente nascosta nell’intento di favorire Benazir Bhutto, sponsorizzata da Bush nella scalata alla presidenza del Pakistan, danneggiando l’allora Capo dello Stato, presentato dalla stampa occidentale, al contrario, come un lacchè della Casa Bianca.
Una scelta – quella di acquistare i J-10 Chengdu – che segnala, meglio di qualche resoconto giornalistico che riporta la dizione Af-Pak, il nuovo corso imboccato da Islamabad nei suoi rapporti con la (ex) Potenza Globale.
Le attuali continue violazioni dello spazio aereo del Pakistan con gli UAV Predator, i bombardamenti “mirati“, gli inseguimenti a caldo di pattuglie di rangers e marines nelle Regioni Autonome per catturare od eliminare nuclei appartenenti ad “Al Qaeda“ ed il ripetersi di continui, gravi “incidenti“ di confine, stanno lì a dimostrare il crescente gelo che è calato tra gli Stati Uniti ed il suo ex alleato durante l’occupazione russa del Paese delle Montagne.
Le recentissime rivelazioni di Wikileaks sulle pressioni esercitate dagli Stati Uniti per costringere il Pakistan a rinunciare al suo armamento nucleare od in subordine a chiudere le centrali di produzione del plutonio di cui dispone, per evitare fughe di tecnologia atomica nella Regione, sono il sintomo, se ce ne fosse bisogno, del crescente stato di tensione che si va manifestando tra Washington ed Islamabad.
Nel mese di Ottobre scorso, il Pakistan ha concesso l’uso del suo spazio aereo ad una formazione di Sukhoi-27 e Mig-29 di Pechino per raggiungere la Turchia via Iran, dopo che il governo di Ankara ha annullato la partecipazione USA alle esercitazioni “Aquila dell’Anatolia“.
Per la prima volta, velivoli militari della Repubblica Popolare di Cina hanno raggiunto il Vicino Oriente atterrando nella base di Konyia alla presenza di un rappresentante del governo Erdogan, dopo essersi riforniti in Iran presso la base di Gayem al Mohammad nel Khorassan (posizionata a 55 km di distanza da Herat), accolta dal generale comandante dell’aviazione iraniana Ahmad Mighani.
In quell’occasione, è circolata con insistenza la notizia che durante il trasferimento Cina-Turchia le squadriglie del Dragone abbiano lasciato sull’aeroporto militare dell’Iran due cacciabombardieri J-10 Chengdu, i cui piloti sarebbero stati rimpatriati su un cargo in partenza dal porto di Bandar Abbas con destinazione Shangai, per mandare un chiarissimo segnale politico agli USA sull’intenzione della Cina di mantenere ottimi rapporti politici, economici e militari con Teheran, aprendo contemporaneamente alla Turchia con cui ha stretto un’intesa per raggiungere nel corso di cinque anni un interscambio di 110 miliardi (in dollari, per ora) con pagamenti nelle rispettive valute. Decisione già adottata, tra l’altro, da due colossi dell’America indiolatina (Brasile-Argentina) e dell’Asia (Russia-Cina) per sostituire la moneta americana come unico riferimento di scambio nelle transazioni internazionali.
Accordi che limano un po’ alla volta l’influenza USA a livello planetario e ne aggravano la crisi politica e finanziaria. Persa ogni capacità di ingerenza per Washington anche in Libano, dopo la visita del primo ministro Hariri a Damasco ed a Teheran, viaggio che mette alla berlina il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja e l’Europa a 27.
La visita di Erdogan nelle stesse capitali ha aperto un altro fronte nella politica estera di Washington, dopo le rivelazioni sugli aiuti che l’Amministrazione Bush ha offerto al PKK e che quella di Obama conferma con Biden per la creazione, al momento giudicato idoneo, di una repubblica separata dall’Iraq, allargata a territori attualmente appartenenti a Siria, Iran e Turchia: il “grande Kurdistan”.
D’intesa con il presidente Assad, Ankara ha inoltre sminato i confini di Stato tra Turchia e Siria, rafforzato le relazioni bilaterali a livello politico, commerciale e culturale con Damasco. Il terreno di confine liberato dall’esplosivo è stato assegnato ad una società mista turco-siriana per la piantumazione di ulivi e la produzione e la commercializzazione di prodotti agricoli. Un altro “messaggio“ fatto recapitare questa volta ad “Israele“.
Qualche flash, così a caso, in questo quadrante del mondo, tanto per non farci sommergere da dosi massicce di informazione spazzatura o da secchiate di cloroformio al “delitto di Avetrana“.
E ora l’argomento che ci interessa: l’F-35. Continua a leggere

A ciascuno la sua (bomba nucleare)

“Testate nucleari? No grazie”.
Per la prima volta, alcuni paesi europei dell’Alleanza Atlantica starebbero prendendo seriamente in considerazione di chiedere agli Stati Uniti d’America di rimuovere l’arsenale nucleare ospitato nel vecchio continente.
La notizia è stata pubblicata da alcune testate giornalistiche tedesche e francesi.
Più precisamente, Belgio, Germania, Lussemburgo, Olanda e Norvegia sarebbero intenzionate a porre la questione all’ordine del giorno del prossimo summit NATO previsto per il mese di novembre 2010.
Il quotidiano “Der Spiegel” aggiunge che i ministri degli esteri dei cinque paesi avrebbero già inviato una richiesta in merito al segretario generale della NATO, Fogh Rasmussen, mentre sarebbero stati attivati i canali diplomatici per invitare altri alleati europei ad aderire alla richiesta di denuclearizzazione. Sempre per “Der Spiegel”, il ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle avrebbe già richiesto agli Stati Uniti la rimozione di 20 testate nucleari dalla Germania.
L’agenzia France Presse, da parte sua, scrive che alcuni importanti esponenti politici del Belgio starebbero sostenendo la richiesta “No Nukes” presso il quartier generale NATO di Bruxelles, anche se il portavoce del ministero degli esteri belga, Bart Ouvery, ha dichiarato in un’intervista che “non è comunque in discussione la rimozione immediata di tutte le armi nucleari esistenti”. L’ipotesi di riduzione riguarderà inoltre solo le armi nucleari di proprietà degli Stati Uniti, mentre Francia e Gran Bretagna manterrebbero inalterati i loro arsenali di morte.
L’esistenza di contatti tra gli USA e i partner europei per un possibile smantellamento parziale delle testate ospitate nel vecchio continente è stata confermata dal “New York Times”; secondo il quotidiano, l’amministrazione Obama starebbe per completare una “Revisione dei piani di guerra nucleari” che “potrebbe potenzialmente condurre ad un cambiamento della politica USA”. Per Sharon Squassoni, ricercatore del Center for Strategic and International Studies, è tuttavia difficile prevedere oggi come Washington potrebbe reagire ad una formale richiesta degli alleati NATO di rimozione delle armi nucleari dall’Europa.
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Date le posizioni esasperatamente filo-nucleari del governo italiano è però impensabile che Berlusconi, Frattini e La Russa possano prendere sul serio la proposta di denuclearizzazione parziale di Belgio, Germania, Lussemburgo, Olanda e Norvegia. A complicare le cose c’è poi l’articolato programma di potenziamento delle infrastrutture in atto all’interno della base di Aviano.
Per l’anno fiscale 2011, l’US Air Force ha richiesto al Congresso lo stanziamento di 19 milioni di dollari per costruire tre nuovi edifici che ospiteranno 114 abitazioni per il personale di stanza nella base. Essi dovrebbero sorgere accanto alle sei palazzine esistenti nella cosiddetta Area 1 dove sono concentrate le unità abitative, l’ospedale militare e le scuole per i figli del personale USA.
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Da Cinque paesi NATO contro le armi nucleari USA. Ma non l’Italia, di Antonio Mazzeo.